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Le necessità del patrimonio culturale

Un passo in avanti nella disciplina della formazione dei restauratori: il decreto del Miur 2 marzo 2011

di Antonella Sau

Sommario: 1. La formazione in materia di restauro quale componente essenziale della tutela dei beni culturali. - 2. La disciplina della formazione e della qualificazione degli operatori del restauro tra norme vigenti, regimi transitori e nuove proposte di modifica dell'art. 182 del Codice dei beni culturali (d.d.l. 6 ottobre 2011). - 3. Il d.m. 2 marzo 2011: un passo avanti nella formazione dei restauratori. Profili critici e problemi aperti.

A step forward in the discipline of training of restoration operators: the decree of the Ministry of education, university and research of March 2, 2011
With the ministerial decree of March 2, 2011, establishing a new single-cycle degree in conservation and restoration of cultural property, a further step is taken in the complex history of the legislative framework of the training of restoration operators. The ministerial decree, operating a review of graduate classes (L-43, LM-11 L-41 and 12/S), has tried to combine the need for a solid historical, scientific and technical basic preparation with that for a practical training, in order to achieve a high level of professional, decision-making and operational autonomy. Although the ministerial decree has the merit of putting a little order in the subject of training of restoration operators, possible complications might be foreseen in the implementation process, starting from the complex mechanism of accreditation of universities and other "educational institutions" attributed to the Joint Commission MIBAC-MIUR. Additional problems may arise from the potential overlaps with the accreditation mechanism introduced by the Gelmini reform. Need to mention, finally, of the recent proposal to reform the transitional rules of professional qualifications of restorer and assistant restorer of cultural heritage, according to whom, on G.U. (competition series) 95 of November 30, 2010, the suspension of the public selection process for the attainment of professional qualifications was notified.

1. La formazione in materia di restauro quale componente essenziale della tutela dei beni culturali

Con il decreto interministeriale 2 marzo 2011, istitutivo della nuova classe di laurea magistrale a ciclo unico in conservazione e restauro dei beni culturali, viene compiuto un ulteriore passo in avanti nella complessa vicenda della disciplina legislativa della formazione dei restauratori di beni culturali i quali, a dispetto della posizione di eccellenza vantata dall'Italia in materia di restauro, solo in tempi relativamente recenti hanno ottenuto pieno e adeguato riconoscimento professionale in sede normativa.

Si tratta di un percorso che come noto ha preso avvio con l'art. 34 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 e che taglia trasversalmente alcuni temi fondamentali della disciplina dei beni culturali, a partire dal delicato rapporto fra funzione di tutela e valorizzazione [1].

E' appena sufficiente ricordare infatti che sino al T.U. del 1999 il legislatore, che a vario titolo si era occupato di restauro dei beni culturali [2], non ne aveva dato un precisa definizione [3] né si era occupato della qualificazione e della formazione degli operatori del settore.

La stessa legge Bottai si limitava a vietare il restauro non autorizzato (artt. 14-16, legge 1 giugno 1939, n. 1089) rimettendo a norme tecniche di rilevanza interna alla amministrazione (le c.d. Carte del restauro del 1932 e del 1972) il compito di distinguere gli interventi di salvaguardia da quelli di restauro [4].

Nel silenzio del legislatore è stata la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su un conflitto di attribuzione fra Stato e regione Liguria circa la competenza ad autorizzare il restauro di un piviale del '700 genovese custodito nel museo di un ente locale [5], a delineare con nettezza i confini della nozione di "restauro" rispetto a quelle di "manutenzione" e "conservazione".

Per la Corte, che in tale occasione ha respinto l'assimilazione tra manutenzione, conservazione e restauro proposta dalla difesa regionale, "il termine restauro esprime un peculiare contenuto ed ha una consolidata autonomia concettuale e definitoria... [in quanto] implica sempre un intervento diretto sulla cosa volto (nel rispetto dell'identità culturale della stessa) a mantenerla o modificarla, per assicurare o recuperare il valore ideale che essa esprime, garantendone la trasmissione nel tempo".

Il restauro, spiega la Corte, è un'"attività che ha caratteristiche proprie, diverse rispetto al mero mantenimento delle condizioni, per lo più esterne, di conservazione della cosa, secondo le esigenze tipiche della manutenzione", essendo orientato a "reintegrare quanto del bene è compromesso, recuperarne il valore culturale originario e assicurare, mediante le appropriate codificazioni, la possibilità di tramandarne l'esistenza ed il messaggio ideale" [6].

In linea con i criteri fissati dal giudice costituzionale, il legislatore ha quindi definito il restauro come l'insieme delle attività dirette "all'integrità materiale e al recupero del bene medesimo, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori culturali" [7] (art. 29, 3° comma del Codice dei beni culturali) annoverandolo, nella più ampia categoria della funzione di tutela [8], tra le "misure di conservazione" dei beni culturali [9].

In ragione della complessità delle valutazioni tecnico-scientifiche richieste dall'esercizio di un'attività che, come indicato dalla Corte nella pronuncia n. 277/1993, rende necessaria la predisposizione di "adeguati metodi esecutivi, di analisi interdisciplinari e una conseguente elevatissima specializzazione...in quanto l'intervento può arrecare pregiudizio anche irreversibile alla cosa, nella sua fisica consistenza o nel valore e nell'identità culturale che essa esprime ed è destinata a tramandare", l'art. 29 del Codice, riconoscendo per la prima volta dignità professionale alla categoria dei restauratori [10], ha disciplinato la formazione in materia di restauro quale componente essenziale della funzione di tutela dei beni culturali.

In questo modo almeno si leggono le parole del giudice costituzionale nella sentenza 13 gennaio 2004, n. 9 che, con un ragionamento invero non del tutto esente da critiche [11], ha ricondotto la disciplina legislativa riguardante la formazione professionale degli operatori del restauro alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Secondo la Corte, l'art. 3 del d.m. 420/2001 [12] - d.m. emanato in attuazione della legge n. 109 del 1994 e dunque rientrante nella non-materia dei lavori pubblici (sentenza n. 303 del 2003) - è circoscritto all'identificazione dei soggetti abilitati a svolgere un'attività, quella del restauro appunto, di competenza legislativa esclusiva dello Stato in quanto direttamente riconducibile alla funzione di tutela dei beni culturali; esso non rientra nella materia (di competenza legislativa residuale delle regioni) della "formazione professionale" in quanto non disciplina i relativi percorsi formativi, non attiene ai requisiti di ammissione, al reclutamento e allo status dei docenti.

Il giudice costituzionale, pur senza precisare se la formazione professionale comprenda anche quella dei restauratori [13], riconducendo il restauro nell'ambito della "tutela dei beni culturali" ha in sostanza riconosciuto allo Stato la possibilità di porre limiti ai titoli formativi rilasciati dalla regioni in materia di restauro in quanto relativi allo svolgimento di un'attività riconducibile ad un ambito materiale di competenza esclusiva dello Stato.

Spazio del quale, si consenta di anticiparlo, lo Stato sembra essersi appropriato in pieno se si considera che il 10° comma dell'art. 29 del Codice riconosce uno ruolo al legislatore regionale solo con riferimento alla formazione delle figure professionali che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione (10° comma) [14].

2. La disciplina della formazione e della qualificazione degli operatori del restauro tra norme vigenti, regimi transitori e nuove proposte di modifica dell'art. 182 del Codice dei beni culturali (d.d.l. 6 ottobre 2011)

Nella disciplina relativa alla qualificazione professionale degli operatori del restauro, oggetto come vedremo di ripetuti interventi legislativi, la formazione universitaria si è progressivamente ritagliata un ruolo importante nella preparazione metodologica e culturale degli aspiranti restauratori [15].

In questa prospettiva la recente riforma del corso di laurea magistrale in conservazione e restauro dei beni culturali di cui al d.m. 2 marzo 2011 si propone di risolvere alcune criticità del sistema previgente.

Il primo riferimento normativo ai requisiti di qualificazione e formazione degli operatori del restauro lo troviamo nell'art. 7, 1° comma, del d.m. 3 agosto 2000, n. 324, il quale riconosce la qualifica di restauratore a coloro che hanno conseguito un diploma di durata non inferiore a quattro anni presso una delle due scuole statali di alta formazione di cui al decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 9 (ossia l'Istituto centrale del restauro di Roma e l'Opificio delle pietre dure di Firenze) oppure un diploma di laurea specialistica in conservazione e restauro del patrimonio storico artistico.

Il 2° comma dell'art. 7, in ragione delle modifiche apportate dal d.m 24 ottobre 2001, n. 420, ritiene validi ai fini del riconoscimento della qualifica di restauratore anche specifici requisiti di formazione scolastica o lavorativa maturati entro il 16 dicembre 2001 (data di entrata in vigore dello stesso d.m. 420/2001), dando rilievo alla formazione pratico-professionale a prescindere dal conseguimento di un titolo di studio universitario [16].

La strada tracciata dal d.m. del 2001, con l'individuazione dei due canali paralleli della formazione pratico-professionale e universitaria, è stata confermata nel Codice dei beni culturali che agli artt. 29, commi 6-11, e 182 ha dettato la disciplina, rispettivamente "a regime" e "transitoria", per l'acquisizione della qualifica di restauratore [17].

Nella "prima" versione dell'art. 29, la qualifica di restauratore poteva essere conseguita presso le scuole statali di alta formazione di cui al d.lg. 9/1998 oppure presso soggetti pubblici e privati accreditati dallo Stato, sentita la Conferenza Stato-regioni (9 comma), o ancora presso centri di ricerca istituiti tramite accordi o intese tra il ministero e le regioni, con il concorso eventuale delle Università e di altri soggetti pubblici e privati (comma 11) [18].

La determinazione dei profili di competenza dei restauratori e degli altri operatori che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione dei beni culturali mobili e l'individuazione dei criteri e dei livelli di qualità cui deve adeguarsi l'insegnamento del restauro viene invece rimessa all'adozione di decreti ministeriali (7 e 8 comma dell'art. 29) [19].

Da una lettura congiunta dell'art. 29 e dell'art. 182, il diploma di laurea specialistica in conservazione e restauro del patrimonio storico-artistico consentiva però l'acquisizione della qualifica di restauratore solo agli studenti iscritti prima dell'entrata in vigore del Codice, costringendo, a partire da tale data, le Università presso le quali era stato istituito tale corso a richiedere l'accreditamento statale.

Con le modifiche introdotte dal d.lg. 24 marzo 2006, n. 156, la disciplina in esame è stata sostanzialmente riscritta [20].

Per quanto riguarda l'art. 29, confermate le previsioni dei commi 9° e 11° in ordine al conseguimento della qualifica di restauratore, al di là del superamento del parere della Conferenza Stato-regioni per l'accreditamento dei soggetti di cui al 9° comma, le novità di maggior rilievo sono rappresentate dall'attribuzione all'esame conclusivo dei corsi di restauro svolti presso le "scuole di alta formazione e di studio" del valore legale di "esame di stato" e dall'equiparazione del titolo di studio così conseguito (che vale come titolo abilitativo per l'esercizio della professione) al diploma di laurea specialistica o magistrale.

Il 1° comma quater dell'art. 182 puntualizza tuttavia che la qualifica di restauratore è formalmente attribuita con un provvedimento del Mibac che verifica il superamento dell'esame di idoneità o il possesso dei requisiti, con l'inserimento di tutti i soggetti così qualificati in un albo nazionale gestito dal ministero.

Il legislatore delegato con l'introduzione all'art. 29 del comma 9-bis ha inoltre precisato che a regime (ovvero dall'entrata in vigore dei decreti di cui ai precedenti commi 7, 8, e 9) la qualifica di restauratore di beni culturali al fine di eseguire gli interventi di manutenzione e restauro di cui al comma 6 sarà acquisita solo in applicazione delle disposizioni del Codice.

La conseguente disciplina transitoria si fa più articolata.

Ai sensi dell'art. 182, 1° comma il conseguimento "diretto" della qualifica di restauratore è legato: al conseguimento di un diploma presso una scuola di restauro statale, purché il soggetto risulti iscritto ai relativi corsi prima del 1° maggio 2004 (lett. a); al conseguimento, alla data di entrata in vigore del d.m. 420/2001, di un diploma presso una scuola di restauro statale o regionale di durata non inferiore a due anni [21] associato allo svolgimento, per un periodo di tempo almeno doppio rispetto a quello scolare mancante per raggiungere un quadriennio e comunque non inferiore a due anni, di un'attività di restauro, direttamente e in proprio, ovvero direttamente e in rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa con responsabilità diretta nella gestione tecnica dell'intervento, con esecuzione certificata dall'autorità preposta alla tutela dei beni o dagli istituti di cui all'art. 9 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 (lett. b) [22]; oppure allo svolgimento dell'attività di cui sopra per un periodo di almeno otto anni (lett. c).

In via transitoria può altresì acquisire la qualifica di restauratore di beni culturali, previo superamento di una prova di idoneità con valore di esame di stato entro il 30 ottobre 2006 [23]: chi abbia conseguito un diploma in restauro presso le Accademie di Belle Arti con insegnamento almeno triennale, oppure un diploma presso la scuola di restauro statale o regionale di durata non inferiore a due anni, o ancora un diploma di laurea specialistica in conservazione e restauro del patrimonio storico-artistico purché gli studenti risultino iscritti ai suddetti corsi anteriormente al 1° maggio 2004 (art. 182, 1° comma bis, lett. b), c) e d); o ancora chi, alla data di entrata in vigore del d.m. 420/2001 [24], abbia svolto almeno per quattro anni un'attività di restauro che rispetti i criteri previsti alla lett. c) del 1° comma dell'art. 182 (art. 182, 1° comma bis, lett. a).

Per quanto più maggiormente ci interessa in tale sede, in ragione di quanto prescritto dall'art. 182, 1° comma bis, lett. d) a partire dal 1° maggio 2004 la laurea specialistica in conservazione e restauro del patrimonio storico-artistico non costituisce più titolo idoneo alla qualifica di restauratore, per cui le università che vogliono far ottenere al proprio titolo gli effetti legali di cui all'art. 29, 9° comma bis, sono tenute ad accreditarsi dallo Stato.

Ciò vale, si badi bene, tanto per gli studenti non ancora iscritti alla data del 1° maggio 2004 ad alcun corso di laurea, come per quelli che a tale data risultano iscritti ma non ancora laureati i quali, conseguito il titolo, dovranno comunque superare l'esame di stato introdotto dal d.lg. 156/2006 e non previsto dal d.m. 420/2001 cui rinviava l'art. 182 ante riforma [25].

Con il decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 62 si torna ancora sull'art. 182, estendendo ulteriormente la platea degli aspiranti al titolo di restauratore. Da un lato, procrastinando il regime transitorio di cui alla lett. a) del 1° comma dell'art. 182 fino al 31 gennaio 2006. Dall'altro estendendo ancora i requisiti per accedere alla prova di idoneità valida per l'abilitazione all'esercizio dell'attività di restauratore, sino a comprendere anche coloro che conseguano o abbiano conseguito un diploma presso una scuola di restauro statale, presso l'Accademia delle Belle Arti, oppure un diploma di laurea specialistica in conservazione e restauro del patrimonio storico-artistico essendosi iscritti prima del 31 gennaio 2006 (art. 181, 1° comma bis, lett. b), c) e d) e coloro che abbiano acquisito la qualifica di collaboratore restauratore di beni culturali ai sensi del comma 1 quinquies, lett. a), b) e c) ed abbiano svolto, al 30 giugno 2007, per almeno a tre anni un'attività di restauro di beni culturali, direttamente e in proprio, ovvero direttamente e in rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa con responsabilità diretta nella gestione tecnica dell'intervento, con esecuzione certificata dall'autorità preposta alla tutela dei beni o dagli istituti di cui all'art. 9 del d.lg. 368/1998 (art. 182, 1° comma bis, lett. d-bis).

Alla dottrina [26] non è certo sfuggita la scelta legislativa di valorizzare l'esperienza professionale dei collaboratori-restauratori riconoscendo loro la possibilità di ottenere la qualifica di restauratori, laddove i profili delle due figure professionali (invero indistinte nel Codice che all'art. 29 parla genericamente di "altre figure") sono fortemente differenziate nel d.m. 26 maggio 2009, n. 86 in ragione del diverso grado di autonomia e responsabilità che contraddistingue le rispettive attività [27].

E' del 6 ottobre scorso invece l'approvazione da parte del Consiglio dei ministri di un disegno di legge di modifica della disciplina transitoria dell'art. 182 che, anzitutto, sposta alla data di indizione del bando il possesso dei requisiti formativi per il riconoscimento diretto della qualifica di restauratore (lett. a) e b) del 1° comma dell'art. 182).

Dall'analisi dello schema del d.d.l. si evincono inoltre alcune modifiche riguardanti una maggiore apertura ad alcuni percorsi formativi (Accademie delle belle arti) prima esclusi dal precedente articolo, oltre all'inserimento delle specifiche settoriali della qualifica in riferimento all'allegato A del d.m. 30 marzo 2009, n. 53.

E' stata inoltre sanata la questione relativa a coloro che hanno superato presso le amministrazioni pubbliche un esame di accesso al profilo corrispondente con conseguente inquadramento nei ruoli [28].

Nessuna modifica di rilievo per quanto riguarda la prova d'idoneità, la cui definizione, congiuntamente alle caratteristiche d'accesso è rimandata ad un decreto del Mibac, eccezion fatta per lo slittamento della data di dimostrazione delle esperienze alla data di indizione del bando (e non più al 2009).

Il mancato intervento sul punto ha suscitato non poche polemiche tra gli operatori del settore per i quali il testo di legge continua a lasciare a migliaia di operatori, come unica chance, l'accesso ad un esame di idoneità che appare ancora lontano dal realizzarsi [29].

3. Il d.m. 2 marzo 2011: un passo avanti nella formazione dei restauratori. Profili critici e problemi aperti

In questo contesto, caratterizzato come abbiamo visto da qualche punto fermo e da diverse incertezze, nella Gazzetta ufficiale n. 139 del 17 giugno 2011 è stato pubblicato il decreto del Miur del 2 marzo 2011 che, in attuazione dell'art. 1, 4° comma del d.m. 26 maggio 2009, n. 87, definisce la nuova classe di laurea magistrale a ciclo unico in conservazione e restauro dei beni culturali (LMR/02).

Il d.m. 87/2009 nel determinare i criteri e i livelli di qualità dell'insegnamento in materia di restauro aveva previsto l'introduzione di un corso a ciclo unico, articolato in 300 crediti formativi (1° comma), al termine del quale, previo superamento di un esame finale avente valore di esame di stato abilitante alla professione di restauratore dei beni culturali, le università avrebbero rilasciato il titolo di laurea magistrale, le accademie di belle arti il diploma accademico di secondo livello [30] e le altre istituzioni formative accreditate ai sensi del comma 9 dell'art. 29 del Codice un diploma equiparato alla laure magistrale (3° comma).

In linea con tali previsioni il ministero, nel definire i profili del corso di laurea magistrale, ha cercato di coniugare le esigenze di una solida preparazione storica, scientifica e tecnica di base con quelle di una preparazione pratica funzionale al raggiungimento di un elevato livello di autonomia professionale, decisionale ed operativa.

In particolare si è tentato di inserire nel nuovo corso di laurea un'adeguata componente di insegnamento di laboratorio che talvolta è mancata nei corsi universitari e che, a ragione, deve invece considerarsi il quid distintivo della formazione in tal settore [31].

In questa direzione si leggono le previsioni del 3° comma dell'art. 2 nel quale, nel rispetto dell'autonomia didattica dei singoli atenei, si precisa che "gli ordinamenti didattici dei corsi di laurea magistrale devono assicurare agli studenti una solida preparazione sia nelle discipline di base che in quelle caratterizzanti, garantendo loro la possibilità di approfondimento critico degli argomenti anche evitando la dispersione del loro impegno su un numero eccessivo di discipline, di insegnamenti o dei relativi moduli" e del 2° comma del successivo art. 5 che articola la prova finale [32] del corso di laurea in due prove, una di carattere applicativo consistente in un intervento pratico-laboratoriale e una di carattere teorico-metodologico consistente nella discussione di un elaborato scritto che sarà giudicata da una commissione di 7 membri, integrata da altri quattro membri di cui due designati dal Mibac tra i restauratori che esercitino attività professionale da almeno 10 anni (3° comma, art. 5).

E restauratori devono essere anche i docenti delle discipline di restauro storico e di laboratorio o di cantiere, mentre le attività di esercitazione presso i laboratori di restauro, per lavorazioni particolari che concorrono all'esecuzione dell'intervento conservativo, possono essere svolte dai c.d. tecnici del restauro [33] (art. 3, 1° e 2° comma d.m. 87/2009).

Previsione questa che pone il primo vero problema per la Commissione interministeriale Mibac-Miur [34] istituita, ai sensi dell'art. 5 del d.m. 87/2009, per fornire un parere di conformità in ordine all'istituzione dei corsi di formazione dei restauratori da parte delle Università, delle Accademie delle Belle Arti e delle Scuole di Alta Formazione degli Istituti centrali del Mibac e per l'esame delle domande di accreditamento delle istituzioni formative nel campo del restauro.

Non esistendo infatti, nel nostro ordinamento, una disciplina "legislativa" che definisca i requisiti del restauratore l'unico riferimento normativo è il citato d.m. 87/2009 (art. 3, commi 1 e 2) e pertanto rispetto alla qualifica di restauratore dallo stesso richiesta come pre-requisito si dovrà applicare quanto previsto dai commi 1, 1-bis, 1-ter, 1-quater ed 1-quinquies dell'art. 182 del Codice.

E, come si è visto, si tratta di una disciplina che presenta diversi profili problematici, conseguenza in parte della stratificazione normativa e in parte della scelta di fondo di tenere in piedi due diversi canali per il riconoscimento della qualifica di restauratore.

Per quanto riguarda poi la funzionalità del sistema di accreditamento l'elevato numero dei soggetti (anche regionali) che potrebbero avanzare tale istanza, porta con il se il rischio di aggravare, sino a paralizzare, l'attività della Commissione cui spetta non solo l'attività istruttoria finalizzata all'accreditamento [35] ma anche il compito di "vigilare, per tutta la durata dei corsi, sulla permanenza dei presupposti individuali e sulle condizioni stabilite dall'atto di accreditamento" effettuando a tal fine "almeno una volta all'anno...verifiche in concreto presso i corsi di formazione" (art. 2, 4° comma d.m. 7/2011).

Se si considera poi che l'accreditamento vale solo "per il futuro" [36], è facile prevedere una corsa all'accreditamento tanto da parte istituzioni già operative nel settore della conservazione e del restauro per corsi nuovi, che la corsa all'acquisizione di un parere di conformità da parte di tutte quelle Università in cui sono attivi corsi non in linea con i criteri fissati dal d.m. 87/2009, al fine di "traghettare" le vecchie classi di laurea verso il ciclo unico.

L'entrata in vigore del d.m. comporta infatti una revisione delle classi di laurea esistenti, a partire dalla L-43 (laurea triennale in tecnologie per la conservazione ed il restauro dei beni culturali) e LM-11 (laurea magistrale in conservazione e restauro dei beni culturali) sino a quelle introdotte con la riforma del 1999, ossia la L-41 (laurea triennale in tecnologie per la conservazione ed il restauro dei beni culturali) e la 12/S (laurea specialistica in conservazione e restauro del patrimonio storico-artistico).

In questo senso l'art. 7 dispone che a partire dall'A.A. 2011-2012 le immatricolazioni degli studenti alle classi L-43 e LM-11 saranno consentite solo con riferimento alle classi revisionate dal d.m. 28 dicembre 2010, mentre gli studenti iscritti ai corsi di laurea L-41, L-43 e ai corsi di laurea specialistica della classe 12-S e di laurea magistrale LM-11, ai fini del conseguimento del titolo abilitante all'esercizio della professione di restauratore, dovranno necessariamente iscriversi al corso di laurea magistrale a ciclo unico in conservazione e restauro.

Per quanto il d.m. in oggetto abbia il merito di porre un po' d'ordine nella magmatica materia della formazione degli operatori del restauro, è sul piano più strettamente attuativo che si intravedono possibili complicazioni.

A partire dalla capacità delle istituzioni interessate di attrezzarsi per l'accreditamento [37].

Se si considera infatti che il complesso iter legislativo e procedurale che ha portato all'adozione del d.m. ha visto la partecipazione attiva del "Comitato nazionale per le lauree magistrali a ciclo unico in restauro", costituito a Roma da i due istituti di Alta formazione Mibac (Istituto centrale del restauro di Roma e l'Opificio delle pietre dure di Firenze) e da cinque Università (Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa; Università degli Studi di Urbino; Università degli Studi di Torino Venaria Reale; Università degli Studi di Roma Tor Vergata; Università degli Studi di Palermo) le quali, negli ultimi anni, hanno lavorato di comune accordo al fine di istituire presso le proprie sedi gli unici cinque corsi di laurea magistrale in restauro del territorio nazionale associati alle due Scuole di Alta formazione aperte dal Mibac a Roma e Firenze, non può tacersi il rischio concreto di assistere ad un'attuazione "a doppia velocità" della riforma che finirà col penalizzare (soprattutto) le Università e in ultimo gli aspiranti restauratori, rimasti "orfani" delle classi di laurea L-41, L-43, LM-11 e 12-S.

Si segnala peraltro che mentre le Scuole di Alta formazione e le Accademie hanno potuto avviare i corsi, la mancata firma da parte del ministro per i beni e le attività culturali del decreto interministeriale relativo ai requisiti minimi (già firmato dall'ex Ministro Gelmini), necessario per l'inserimento della nuova classe di laurea nell'offerta formativa dei singoli Atenei, rischia di far slittare l'avvio dei corsi di laurea quinquennale al prossimo anno accademico [38].

In ultimo appare significativo rilevare come il complesso meccanismo di accreditamento, iniziale e periodico, delle sedi universitarie e dei corsi di studio assegnato all'Anvur dallo "Schema di decreto legislativo recante valorizzazione dell'efficienza delle università e conseguente introduzione di meccanismi premiali nella distribuzione di risorse pubbliche sulla base di criteri definiti ex ante anche mediante la previsione di un sistema di accreditamento periodico delle università e valorizzazione della figura dei ricercatori a tempo indeterminato non confermati al primo anno di attività (n. 396)" [39] trovi proprio nella materia de qua una significativa eccezione, almeno in parte.

L'art. 1, 4° comma del regolamento Anvur (d.p.r. 1 febbraio 2010, n. 76), nel delineare il raggio d'azione dell'Agenzia fa infatti espressamente "salve le competente del ministero per i Beni e le Attività culturali, di cui all'articolo 29, commi 7, 8 e 9 del 22 gennaio 2004, n. 42, e quelle degli altri ministeri previste dalla normativa vigente" e tra queste, sicuramente, la competenza della Commissione mista Mibac-Miur ad emettere il parere (iniziale) di conformità in ordine all'istituzione dei corsi di formazione dei restauratori presso le Università.

Se si considera però che il potere (periodico) di vigilanza sull'insegnamento del restauro è esercitato dalla Commissione mista solo nei confronti delle c.d. istituzioni formative [40] (art. 2, 4° comma decreto 7 febbraio 2011) sembrerebbe, almeno ad una prima lettura, rimanere intatta la competenza dell'Anvur in merito all'accreditamento periodico dei corsi di studio universitari [41], che ben potrebbe quindi bypassare il parere di conformità della Commissione mista con buona pace della sua "specifica" competenza in materia.

 

 

Note

[1] Sul tema: G. Sciullo, Restauro, tutela e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2/2007; G. Servello, La qualifica di restauratore tra tutela e valorizzazione dei beni culturali, in Le Nuove leggi civ. comm., 2004, 1-2, 41 ss.

[2] Dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089 "Tutela delle cose di interesse storico e artistico", alla legge 21 dicembre 1961, n. 1552 "Disposizioni in materia di tutela di cose di interesse artistico e storico", dalla legge 10 febbraio 1992, n. 145 "Interventi organici di tutela e valorizzazione dei beni culturali", alla legge 8 ottobre 1997, n. 352 "Disposizioni sui beni culturali".

[3] Alla base di tale scelta vi era il timore che una giuridicizzazione della nozione di restauro potesse metastoricizzare il concetto e ostacolare, nota la lentezza del processo legislativo, il suo adattamento alla progressiva evoluzione della dottrina e della tecnica del restauro. Come correttamente osservato da G. Severini, Il "restauro" nel testo unico dei beni culturali, in Urb. app., 2000, 8, 827 ss., tale obiezione non ha retto alla prova dei fatti in quanto dopo la Carta del 1972 non ci sono state modifiche ufficiali della normativa tecnica nonostante l'evoluzione tecnologica e la proliferazione di nuovi indirizzi teorici e metodologici (828). Sul restauro, ex multis: B. Zanardi, Il Restauro. Giovanni Urbani e Cesare Brandi, due teorie a confronto, Milano, 2009; Idem, Conservazione, restauro e tutela, Milano, 1999; G. Urbani, Intorno al restauro, Milano, 2000; C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, 2000.

[4] L'art. 4 della Carta del restauro distingue il concetto di provvedimento conservativo che non implica alcun intervento diretto sull'opera (c.d. provvedimento di salvaguardia) da quello che necessita di un interventi diretto (c.d. provvedimento di restauro).

[5] Corte cost., 10 giugno 1993, n. 277, in cortecostituzionale.it, con nota di G. Clemente di San Luca, Il restauro dei beni culturali fra competenza tecnica e autonomia locale, in Le Regioni, 1994, 2, 535 ss., analogamente Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 9, in cortecostituzionale.it, con nota di Foà, Il restauro è espressione della tutela dei beni culturali: la disciplina normativa è solo statale, in Foro amm. - C.D.S., 2004, 2, 361 ss. e di F.S., Marini, La "tutela" e la "valorizzazione" come "materie-attività" nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2004, 1, 197 ss., nella quale il restauro viene distinto dai meri interventi conservativi sia in ragione della natura dell'intervento, che solo nel primo caso incide sulla struttura materiale del bene, che della prevalente finalità, di conservazione nell'ipotesi di restauro e di miglioramento delle condizioni di fruizione nel caso di interventi conservativi.

[6] In altri termini, il "restauro è un'attività volta a salvaguardare e ripristinare il bene rendendolo nuovamente riconoscibile nei suoi caratteri originari che ne definiscono l'identità", così S. Amorosino, I restauri e la salvaguardia dell'"autenticità" dei beni storici-artistici: notazioni giuridiche, in Riv. giur. ed., 2001, 5, 187 ss., 189.

[7] Sul tema: G. Sciullo, Le funzioni, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2011, 53 ss., in particolare 69; Idem, Restauro, tutela e valorizzazione dei beni culturali, cit.; M. Guccione, Commento all'art. 29, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, 2007, 55 ss.; 177 ss.; R. Cecchi, L'amministrazione dei beni culturali e il restauro, in Aedon, 2/2007; G. Pitruzzella, Commenti agli artt. 148 e 149, in Lo Stato autonomista (commento al d.lgs. n. 112 del 1998), (a cura di) G. Falcon, Bologna, 1998, 491 ss., S. Amorosino, Commento agli artt. 148-151, in Commento al d.lgs. n. 112/1998, a cura di M. Stipo, Rimini, 1998, 628 ss.; G. Garzia, B. Lubrano, Commento all'art. 29, in Le nuove leggi civ. comm., 2005, 5-6, 1213 ss.

[8] Di cui rappresenta la "forma dinamica più intensa", così S. Amorosino, I restauri e la salvaguardia dell'"autenticità" dei beni storici-artistici: notazioni giuridiche, cit., 189.

[9]Per quanto la visione conservativa della nozione di restauro proposta dal giudice costituzionale e confermata dal legislatore, prima nel T.U. del 1999 e poi nel Codice dei beni culturali del 2004, abbia avuto il merito di chiarire il confine tra restauro e manutenzione, lascia aperti non pochi problemi di raccordo con le nozioni di restauro contenute nella disciplina edilizia, urbanistica e dei lavori pubblici anche in relazione al rema del recupero delle funzionalità del bene in sede di restauro. Sul tema G. Severini, Il "restauro" nel testo unico dei beni culturali, 829 ss.; M. Cammelli, Restauro dei beni culturali e lavori pubblici: principi comuni e necessaria diversità (a proposito del d.m. 3 agosto 2000, n. 294), in Aedon, 2/2001; B. Boschetti, Restauro e recupero funzionale degli immobili costituenti beni culturali, in Riv. giur. urb., 2007, 2, 159 ss.

[10] In linea con il consolidato orientamento della Corte costituzionale secondo cui nell'esercizio della potestà legislativa concorrente in materia di "professioni" allo Stato compete, per il suo carattere necessariamente unitario, l'individuazione delle figure professionali con i relativi profili e i titoli abilitativi e alle regioni la sola disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale (ex multis, Corte cost., 22 luglio 2011, n. 230; 22 ottobre 2010, n. 300; 11 dicembre 2009, n. 328; 11 aprile 2008, n. 93; 2 marzo 2007, n. 57; 14 aprile 2006, n. 153; 25 novembre 2005, n. 424; 12 dicembre 2003, n. 353, tutte in cortecostituzionale.it). La Corte, ai fini della selezione della materia pertinente, ha inoltre precisato che l'oggetto su cui si esercita l'attività professionale non ha alcuna influenza, venendo in rilievo la sola prioritaria attinenza dell'intervento legislativo al campo delle professioni (Corte cost., 25 novembre 2005, n. 424 cit.; 20 giugno 2008, n. 222; 8 maggio 2009, n. 138, in cortecostituzionale.it).

[11] C. Tubertini, I limiti della potestà legislativa statale in materia di formazione professionale nella tutela dei beni culturali, in Aedon, 2/2004, si chiede in termini critici se tale approccio non porti in se il rischio di un'attrazione automatica della formazione professionale di settore entro la materia in cui, di volta in volta, si svolge l'attività.

[12] Si trattava del "Regolamento recante modificazioni e integrazioni al d.m. 3 agosto 2000, n. 294 del ministro per i Beni e le Attività culturali concernente l'individuazione dei requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori di restauro e manutenzione dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici" che per la regione Toscana, rientrando in una materia di competenza legislativa residuale delle regioni ossia la formazione professionale, violava l'art. 117, 3°, 4° e 6° comma, della Costituzione.

[13] Come evidenziato da C. Tubertini, I limiti della potestà legislativa statale in materia di formazione professionale nella tutela dei beni culturali, cit., "la Corte, infatti, non ha preso posizione in merito, tralasciando volutamente di indagare se la formazione professionale comprenda anche quella dei restauratori ... e, viceversa, se la tutela dei beni culturali comprenda anche la formazione professionale dei restauratori".

[14] Su tali profili si sofferma E. Del Mastro, La formazione nel restauro, in Aedon, 2/2006, per la quale "le regioni, che pure condividono la necessità di percorsi formativi comuni come elemento unificante di tutela, a garanzia della qualità e della professionalità dei restauratori, dovrebbero concorrere a realizzare una formazione differenziata (ulteriore, complementare) per conservare e valorizzare i propri beni culturali, anche in un'ottica promozionale del territorio".

[15] Più in generale sulla formazione universitaria in materia di beni culturali, F. Midiri, La formazione universitaria in materia di beni culturali nei nuovi ordinamenti didattici (Parte I: le lauree), in Aedon, 3/2000; Idem, La formazione universitaria in materia di beni culturali. Le lauree specialistiche (Parte II), in Aedon, 1/2001.

[16] La "bottega" cui si riferisce S. De Maria, Restauro, restauratori, archeologi. Alcune osservazioni, in Aedon, 2/2006.

[17] In linea con il progetto di legge di iniziativa del ministro Urbani approvato dal Consiglio dei ministri il 20 dicembre 2002 e mai divenuto legge ("Disciplina dell'insegnamento del restauro dei beni culturali" - A.S. 1955), pubblicato in Aedon, 2/2002 con commento L. Savini, Il disegno di legge sulla disciplina dell'insegnamento del restauro dei beni culturali, in Aedon, 3/2002.

[18] Di cui l'esempio più rilevante è certamente la fondazione "Centro per la conservazione ed il restauro dei beni culturali La Venaria Reale", altri esempi in C. Tubertini, La disciplina degli operatori del restauro: l'art. 182, in Aedon, 3/2008.

[19] Adottati solo nel 2009: d.m. 26 maggio 2009, n. 86 e d.m. 26 maggio 2009, n. 87, cui si aggiunge il d.m. 30 marzo 2009, n. 53 recante la disciplina delle modalità per lo svolgimento della prova di idoneità per l'acquisizione della qualifica di restauratore e collaboratore-restauratore.

[20] Sul tema L. Casini, Il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Giorn. dir. amm., 2006, 10, 1072 ss.; S. Villamena, Art. 29, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. A. Sandulli, Milano, 2006, 281 ss.; A. Bottiglieri, Art. 182, ibidem, 224 ss.; M. Guccione, Commento all'art. 29, cit., in particolare 180-181; P. Petraroia, Commento all'art. 182, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 757 ss.

[21] Con riferimento alla "durata almeno biennale" del corso della scuola di restauro statale o regionale, il ministero, preso atto che al momento dell'emanazione del d.m. 295/2000 buona parte dei corsi di restauro effettuati aveva una durata non superiore alle 1200 ore complessive, ha ritenuto opportuno individuare in 1200 ore anche la soglia minima di rilevanza ai fini dell'applicazione dell'art. 182 (Circolare n. 36 del 21 settembre 2009).

[22] Numerose perplessità sono state sollevate sul requisito richiesto dalla lett. b) del 1° comma dell'art. 182, che da un lato limita le attività valutabili ad un ristretto numero di ipotesi lavorative (dipendenza, collaborazione coordinata e continuativa) e dall'altro non tiene contro della difficoltà di certificare, ai sensi del d.p.r. 34/2000 (oggi abrogato dal d.p.r. 5 ottobre 2010, n. 207), la "responsabilità diretta nella gestione tecnica del'intervento" visto la lentezza con la quale tale certificazione si è consolidata nella prassi. Sul tema: A. Cerchia, La disciplina dei percorsi di formazione e di qualificazione degli operatori del restauro. Profili critici, in Aedon, 3/2009; P. Ungari, I restauratori trovano formazione e identità, in Guida al diritto, 2006, n. 26, 111 ss.

[23] Prorogato al 30 ottobre 2008 dall'art. 3-ter della legge 26 febbraio 2007, n. 17.

[24] Prorogato al 31 luglio 2009 dall'art. 1, 1° comma bis della legge 26 febbraio 2010, n. 25.

[25] Così L. Casini, Il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 1074.

[26] C. Tubertini, La disciplina degli operatori del restauro: l'art. 182, cit.; A. Cerchia, La disciplina dei percorsi di formazione e di qualificazione degli operatori del restauro. Profili critici, cit.

[27] Ai sensi dell'art. 1, 1° comma del d.m. 86/2009 è restauratore "il professionista che definisce lo stato di conservazione e mette in atto un complesso di azioni dirette e indirette per limitare i processi di degrado dei materiali costitutivi dei beni e assicurarne la conservazione, salvaguardandone il valore culturale. A tale fine, nel quadro di una programmazione coerente e coordinata della conservazione, il restauratore analizza i dati relativi ai materiali costitutivi, alla tecnica di esecuzione ed allo stato di conservazione dei beni e li interpreta; progetta e dirige, per la parte di competenza, gli interventi; esegue direttamente i trattamenti conservativi e di restauro; dirige e coordina gli altri operatori che svolgono attività complementare al restauro. Svolge attività di ricerca, sperimentazione e didattica nel campo della conservazione". Ai sensi dell'art. 2, 1° comma del d.m. 86/2009, il collaboratore- restauratore è "la figura professionale che collabora con il restauratore eseguendo, con autonomia decisionale strettamente afferente alle proprie competenze tecniche, determinate azioni dirette e indirette per limitare i processi di degrado dei beni e assicurarne la conservazione, operazioni di cui garantisce la corretta esecuzione secondo le indicazioni metodologiche ed operative, sotto la direzione e il controllo diretto del restauratore. Ha la responsabilità della cura dell'ambiente di lavoro e delle attrezzature, cura la preparazione dei materiali necessari per gli interventi, secondo le indicazioni metodologiche del restauratore". Alla luce della profonda distinzione tra le due categorie suscita perplessità l'equivalenza tra la prova di idoneità prevista dall'art. 182, 1° comma bis per acquisire la qualifica di restauratore e la prova di idoneità prevista dall'art. 182, 1° comma quinquies, lett. d), per acquisire la qualifica di collaboratore-restauratore (d.m. 30 marzo 2009, n. 53).

[28] Riconoscendola anche a coloro che "abbiano superato presso le amministrazioni pubbliche preposte alla tutela dei beni culturali un esame di accesso al profilo corrispondente con conseguente inquadramento dei ruoli" (lett. d) del 1° comma dell'art. 182 aggiunto dall'art. 1, 1° comma del d.d.l. del 2011).

[29] Nella G.U. serie concorsi n. 95 del 30 novembre 2010 è stata comunicata la sospensione della procedura di selezione pubblica per il conseguimento delle qualifiche professionali di restauratore di beni culturali, ai sensi dell'art. 182, commi 1 ed 1bis nonché di collaboratore restauratore di beni culturali, ai sensi dell'art. 182, comma 1-quinquies, proprio in attesa del perfezionamento dell'iter parlamentare di revisione dell'art. 182 del Codice.

[30] Con decreto Miur del 23 giugno 2011, n. 81, sono stati definiti gli ordinamenti curriculari dei profili formativi professionalizzanti del corso di diploma accademico di durata quinquennale in restauro, abilitante alla professione di "Restauratore di beni culturali", istituito con decreto interministeriale del 30 dicembre 2010, n. 302.

[31] Così P. Ungari, I restauratori trovano formazione e identità, cit., 111 e S. De Maria, Restauro, restauratori, archeologi. Alcune osservazioni cit.

[32] Come più volte ricordato il conseguimento della laurea ha valore di esame di stato abilitante all'esercizio dell'attività professionale di restauratore (art. 5, 1° comma).

[33] Ai sensi dell'art. 3, 1° comma del d.m. 86/2009 "I tecnici del restauro di beni culturali con competenze settoriali sono le figure di formazione tecnico-professionale ovvero artigianale che concorrono all'esecuzione dell'intervento conservativo, eseguendo varie fasi di lavorazione di supporto per tecniche e attività definite, con autonomia decisionale limitata alle operazioni di tipo esecutivo e sotto la direzione ed il controllo del restauratore dei beni culturali"-

[34] Della Commissione, istituita con decreto interministeriale del 7 febbraio 2011, fanno parte quattro componenti in rappresentanza del Mibac, due in rappresentanza del Miur, un componente designato dal Cun, uno dal Cnam e uno dal Cnvsu cui si aggiunge il Presidente, esterno agli organi di rappresentanza, consultivi e di valutazione del ministero.

[35] Ai sensi dell'art. 2, 2° comma del decreto 7 febbraio 2011, "La Commissione svolge le funzioni istruttorie ai fini dell'accreditamento dei corsi formativi con riguardo ai seguenti aspetti: a) requisiti delle istituzioni formative; b) contenuti dei programmi dei corsi formativi, comprese le prove di accesso; c) caratteristiche del corpo docente; d) idoneità dei laboratori e dei cantieri di restauro destinati allo svolgimento della attività tecnico-didattiche; e) disponibilità di manufatti per le attività tecnico didattiche.

In attuazione della lettera d) è stato di recente adottato dalla Commissione un documento contenente i requisiti minimi delle dotazioni per i laboratori di restauro.

[36] La Commissione mista, nell'attesa dei provvedimenti di riordino delle lauree a ciclo unico in restauro delle Università e delle Accademie di Belle Arti, aveva reso noto che i termini per la presentazione delle domande sarebbero decorsi dall'entrata in vigore della normativa in corso di perfezionamento, con la conseguenza che le domande eventualmente già presentate non sarebbero state considerate valide ai fini della procedura di accreditamento.

[37] Ad oggi le strutture accreditate dalla Commissione mista sono due: Istituto Superiore per la conservazione ed il restauro - Scuola di Alta Formazione del Mibac; Istituto Centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario - Scuola di Alta Formazione del Mibac (Avviso 7 ottobre 2011).

[38] Di qui il recente appello rivolto dal "Comitato nazionale per le lauree magistrali a ciclo unico in restauro" al ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e al ministro per i beni e le attività culturali.

[39] Per un'analisi dei limiti di tenuta del sistema delineato dallo schema di decreto si rinvia alle considerazioni espresse dal Cun nell'Audizione del 20 settembre 2011 pubblicata nel sito del Senato.

[40] Ossia le scuole di alta formazione e di studio istituite dal d.lg. 368/1988, i centri e gli altri soggetti pubblici e privati di cui ai commi 11 e 9 dell'art. 29 del Codice che peraltro non rientrano nell'ambito di applicazione dello schema di decreto.

[41] L'accreditamento dei corsi di studio, iniziale e periodico, riguarda infatti sia i "nuovi corsi di studio da istituire presso sedi universitarie esistenti" che i "corsi di studio già attivati alla data di entrata in vigore del decreto" (art. 7, 2 e 3 comma).

 



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