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Il percorso delle riforme

 

Restauro dei beni culturali mobili e lavori pubblici:
principi comuni e necessaria diversità
(a proposito del d.m. 3 agosto 2000, n. 294)

di Marco Cammelli


Sommario: Premessa. - 1. La qualificazione. - 2. La restante disciplina del restauro di beni mobili. - 3. Nel merito e sul piano istituzionale.



Premessa

Se è giusto dare atto che con l'adozione del decreto ministeriale 3 agosto 2000, n. 294 si è imboccata una strada giusta (la specialità del settore), è altrettanto doveroso avvertire che la questione è tutt'altro che risolta, sia per la intrinseca complessità del regime, frutto di numerose fonti che in parte corrono in parallelo e in parte si sovrappongono, sia per la considerevole asimmetria rispetto ai principi dell'ordinamento comunitario e sia, infine, per alcuni interrogativi di fondo che permangono nel merito delle soluzioni adottate.

Anticipando le conclusioni dell'analisi che ci apprestiamo a compiere, si può dire che i rimedi, anche quelli dell'ultimo momento, non risolvono il problema e che, dunque, quest'ultimo va ripensato in modo organico risolvendo, nel frattempo, i delicati problemi di regime transitorio che si sono posti.

Si è accennato alla pluralità delle fonti. La disciplina del restauro di beni culturali mobili è in effetti distribuita su tre fonti di grado diverso: definizioni, progettazione e procedure di scelta del contraente, nel regolamento generale della legge Merloni, legge 11 febbraio 1994, n. 109 (decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554, artt. 212 ss.) cioè in una collocazione, come vedremo, di dubbia legittimità; per un aspetto particolare (qualificazione), nel d.m. 294/2000, che detta una disciplina speciale rispetto a quella generale posta, sempre sulle qualificazioni, dal decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34; per la parte residua, infine, dalla disciplina generale del T.U., vale a dire dal d.p.r. 554/1999.

E' proprio l'intreccio di questi atti normativi, diversi tra loro per il tempo, la veste giuridica e l'ambito assegnato, a generare una parte considerevole delle difficoltà interpretative e applicative che ci troviamo ad affrontare. Ma procediamo con ordine affrontando separatamente i punti più delicati, vale a dire quello della qualificazione delle imprese, della restante disciplina applicabile e, infine, del quadro istituzionale più generale cui fare riferimento nella interpretazione (e, più probabilmente, nella revisione) della materia.

 

1. La qualificazione

I. Il primo interrogativo da affrontare è quello relativo al rapporto tra la disciplina della qualificazione dei soggetti esecutori di lavori di restauro di beni mobili e quella più generale dettata dal d.p.r. 34/2000 in materia di qualificazione.

In materia, come si sa, l'art. 8, comma 11-sexies, della l. 109/1994 (Merloni, testo attuale), fissa un principio e un oggetto: il principio è quello della piena ed esplicita specialità del restauro e manutenzione dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici; l'oggetto, invece, è costituito dai requisiti di qualificazione per i soggetti esecutori di lavori.

Dunque, il regolamento 294/2000 è frutto diretto della norma legislativa appena richiamata e, in ragione della propria specialità, non ha nessun rapporto necessario o diretto né con il regolamento attuativo della Merloni (d.p.r. 554/1999) né con la disciplina generale delle qualificazioni dettata dal d.p.r. 34/2000.

Ne derivano diverse conseguenze, e in particolare che:

- la normale prevalenza del regolamento governativo (come è il 34/2000) su quello ministeriale, sancita dall'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, qui è interrotta dal rapporto di specialità disposto dalla legge;

- l'apparentemente ampio rinvio che il d.m. 294/2000 opera al d.p.r. 34/2000 con l'art. 1, comma 3, è invece fortemente circoscritto dalla specialità che si è detta e che è ben rappresentata dai limiti indicati dallo stesso regolamento ministeriale vale a dire il vincolo alla specialità formale, il rinvio vale solo "per le parti non diversamente disciplinate", e quello della compatibilità sostanziale, con riguardo "alla specificità della materia".

Si deve perciò concludere che il rinvio alla normativa generale dettata dal d.p.r. 34/2000 è da considerare di stretta interpretazione: per il resto, la specialità della disciplina del restauro dei beni culturali mobili va ritenuta prevalente.

II. Sulla base di questi elementi, possiamo ora passare a valutare la normativa introdotta dal d.m. 294/2000. Se prescindiamo, almeno per il momento, dal merito (in ordine al quale va comunque segnalato un serio problema di avvio del nuovo sistema), si deve considerare del tutto legittima ogni prescrizione specifica dettata per la qualificazione delle imprese nel settore (in ragione, appunto, della specialità).

Problemi di legittimità possono invece sorgere su due fronti:

a) "in entrata", cioè nel riferimento alla disciplina del d.p.r. 34/2000, se si sono in tal modo recepite disposizioni o istituti incompatibili con la natura "speciale" del restauro di mobili;

b) "in uscita", cioè se il d.m. 294/2000 allarga l'ambito della propria disciplina oltre i limiti di quello che la legge gli ha assegnato e che è strettamente tenuto a rispettare in base all'art. 17, comma 3, della l. 400/1988.

Elementi di questo genere sembrano in effetti ravvisabili:

- nella interpretazione molto estensiva dei "requisiti di qualificazione", estesa fino a comprendere la natura e durata del rapporto di lavoro degli operatori con l'impresa (art. 5, comma 4, del d.m. 294/2000);

- nella definizione, anche ai fini dell'art. 224 del d.p.r. 554/1999 (regolamento Merloni), della figura di restauratore di beni culturali";

- nel riferimento alla manutenzione ordinaria e straordinaria (art. 1, comma 1, d.m. 294/2000) che nel primo caso è probabilmente già compresa nelle "operazioni periodicamente ripetibili" ex art. 212, comma 4, d.p.r. 554/1999 e che comunque, in linea di principio, non spetta al regolamento ministeriale.

Se questi rilievi sono fondati, è evidente che si pone più di un dubbio sulla legittimità della normativa presa in esame.

 

2. La restante disciplina del restauro di beni mobili

I. Passando ora agli altri problemi giuridici relativi alla disciplina del restauro di beni mobili dettata dagli artt. 211 ss. del d.p.r. 554/1999, e tralasciando questioni più specifiche per le quali si rinvia al contributo di Giacomo Santi, i più rilevanti appaiono i seguenti:

a) in primo luogo è bene ricordare che la l. 109/1994 si occupa di lavori pubblici e, in generale, quando parla di restauro o di manutenzione lo fa riferendosi ad opere e impianti (art. 2, comma 1, ambito di applicazione della legge), il che pone evidentemente un serio problema di ammissibilità della sua estensione al restauro di beni mobili;

b) il regime speciale per i beni culturali è, in base alla l. 109/1994, dettato in due modi:

- in via di delegificazione e per regolamento dal d.p.r. 554/1999 per alcuni elementi individuati concernenti i lavori di scavo, restauro e manutenzione dei beni culturali ex legge 1 giugno 1939, n. 1089 (oggi Testo Unico delle disposizione legislative in materia di beni culturali e ambientali, decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490), così come stabilito dall'art. 3, comma 6, lettera l), vale a dire per le modalità di progettazione e per quelle relative all'affidamento;

- nell'ambito della disciplina vigente, per le modalità particolari della qualificazione (art. 8, comma 11-sexies) per il settore in esame (ora il d.m. 294/2000), cui dobbiamo aggiungere la collocazione in apposita categoria delle attività di scavo archeologico, restauro e manutenzione dei beni culturali (decreto del ministro dei Lavori Pubblici ex art. 9, comma 4); gli appalti a trattativa privata per importo non superiore a 300.000 Euro, per restauro e manutenzione di beni mobili (art. 24, comma 1, lettera c); il regime transitorio di deroga (art. 38), ormai superato dall'entrata in vigore del d.p.r. 554/1999 o del d.m. 294/2000.

In proposito deve notarsi che l'applicazione dell'art. 38 Merloni-ter (regime derogatorio) si è definitivamente chiusa con l'entrata in vigore del d.p.r. 554/1999: ergo, la sua sospensione (Tar Lazio, 7 febbraio 2001), che non può che produrre effetti erga omnes, determina un vuoto normativo che la specialità legislativamente disposta non consente di colmare per analogia o facendo rivivere il precedente regime transitorio, in ragione dell'irreversibile cessazione degli effetti dell'art. 38 ormai verificatisi.

Stando così le cose, tutta la parte delle definizioni di scavo, restauro e manutenzione dettate dal d.p.r. 554/1999 risulterebbe priva di fondamento giuridico perché l'art. 3, comma 6, lettera l) della l. 109/1994 fa riferimento solo alla possibilità di introdurre modalità particolari di progettazione e affidamento, e non ad altro (si noti che il rapporto con la legge è assai stretto, trattandosi di un'opera di delegificazione) e perché la stessa disposizione era già in vigore prima del 1° novembre 1998, e dunque ricade sotto il regime del T.U. ex d.p.r. 490/1999 e delle definizioni dettate da quest'ultimo.

Tutto questo ha notevoli implicazioni anche di carattere operativo: incide sulla questione se il concetto di restauro comprenda o meno anche la manutenzione ordinaria, e la risposta è in senso positivo rispetto alle norme regolamentari mentre qualche dubbio, subito segnalato in dottrina, permane con riguardo al T.U. e porta all'applicazione anche a queste fattispecie, in ragione della estensione anzidetta, delle misure conservative (artt. 37-39) o della concessione di contributi (artt. 41-43) introdotte dal medesimo T.U. nonché delle normative tecniche (metodologie di restauro) cui si riferisce l'art. 211 del d.p.r. 554/1999.

II. Concludendo, e sempre prescindendo dal merito cui ci dedicheremo tra breve, va sottolineato che per la stessa attività (restauro) abbiamo due sequenze normative: quella della l. 109/1994 e del d.p.r. 554/1999, da un lato, e quella che muovendo sempre dalla l. 109/1994 trova il proprio svolgimento nel d.p.r. 34/2000 e nel d.m. 294/2000. Date queste premesse, è inevitabile che si aprano tutti i possibili problemi interpretativi sia interni a ciascuna normativa (definizioni, coerenza tra norme regolamentari e legislative abilitanti, sequenza) sia di relazione e di compatibilità reciproca, al punto da rendere incerto se in materia debba considerarsi disciplina generale di riferimento la Merloni-ter o il T.U.

Non è facile capire quanto un intreccio così poco virtuoso sia imputabile al ministero o non sia invece (almeno per una certa parte) da imputare al sistema delle fonti tracciato dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 e dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, per quanto riguarda in particolare l'esatta delimitazione tra normative regolamentari di delegificazione e normative adottate con decreto ministeriale nonché le serie difficoltà che la verticalizzazione del sistema (legge, regolamento governativo, regolamento ministeriale) comportano sul coordinamento orizzontale tra ministeri (nel caso: Lavori pubblici e Beni e Attività culturali). Quello che sembra certo è che non bastano piccoli adattamenti, che l'intera disciplina va ridefinita lungo un asse più chiaro e riconoscibile, e che tutto questo è bene che venga compiuto dal legislatore o dagli organi di governo e non dall'intervento (inevitabilmente sporadico e parziale) del giudice o dall'autorità di vigilanza dei lavori pubblici come è facile da prevedere.

 

3. Nel merito e sul piano istituzionale

E' il momento di passare dal piano strettamente giuridico a quello del merito della disciplina esaminata. Da questo punto di vista, vi sono molte ragioni per ammettere che il restauro di "beni mobili" è una attività con evidenti caratteristiche di servizio. Infatti: si svolge nella grande maggioranza dei casi non in loco ma in laboratorio; è caratterizzato da una particolare e rafforzata esigenza di uniformità, in ordine ai materiali, tecnologie e metodologie utilizzate, quando (come spesso avviene) ha per oggetto una pluralità di beni (v. raccolte di libri, documenti, ecc.); ruota intorno alla figura professionale del restauratore più che dell'impresa, e quest'ultima ha nella maggior parte dei casi caratteristiche artigianali e familiari; da registrare, infine, il forte rilievo del contesto locale dove il bene è collocato.

Ora, a fronte della diversità di esigenze insite in questo stato di cose e della conseguente flessibilità di risposte da dare, il sistema immaginato dal d.p.r. 554/1999 e dal d.m. 294/2000 [archivio/2001/2/rest.htm] va invece nella direzione opposta optando, con il riferimento operato alla disciplina dei lavori pubblici, per la riduzione della discrezionalità. Così facendo, però, si pagano alti prezzi, perché da un lato non si valuta che analoghe esigenze di raffronto e di trasparenza sono risolte, con meno automatismi (v. il rilievo del massimo ribasso, proprio dell'appalto di lavori pubblici), anche dalla disciplina dell'appalto pubblico di servizi (decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157), dove il principio della gara lascia più spazio alla valutazione della qualità, e dall'altro non si considera che in questa materia resta un forte rilievo da accordare all'"intuitus personae", affrontabile dunque più in termini di qualificazione professionale del "restauratore" che di rigide prescrizioni sulla organizzazione dell'"impresa".

La scelta qui criticata, d'altronde, non è neppure sostenibile invocando vincoli o normative comunitarie che, semmai, vanno in senso opposto. Infatti: la direttiva 93/37, nell'art. 1 e nell'allegato 2, dà una definizione di lavori pubblici che nulla ha a che fare con il restauro dei beni culturali, e men che meno con quello dei beni culturali mobili; la classificazione internazionale dei servizi (Cpv) colloca sotto la voce "altri servizi" (n. 27 dell'allegato 2 della direttiva 92/50) i servizi di restauro; infine, come si sa, la categoria generale (e dunque residuale) è quella dei servizi, mentre quella dei lavori pubblici è definita in modo espresso, sicché se una attività non è esplicitamente indicata all'interno dei lavori pubblici va collocata nell'ambito dei servizi.

Concludendo, e lasciando da parte i problemi legati all'adozione della misura cautelare da parte della seconda sezione Tar Lazio (7 febbraio 2001), una più equilibrata sistemazione della materia richiederebbe, a regime, un profondo ripensamento con il quale, oltre a riconoscere la prevalente attinenza del restauro dei beni mobili all'ambito dell'appalto pubblico di servizi più che a quello dei lavori pubblici, si dovrebbe provvedere a:

- completare la specialità della disciplina, ora affidata a tre diversi sostegni: due appoggi definiti in via speciale (modalità di progettazione e affidamento, da un lato, qualificazione imprese, dall'altro) da discipline diverse e di diverso rango (delegificazione/ministeriale) e, per tutto il resto, la disciplina generale (Merloni-ter/T.U.). Con l'occasione, provvedere in modo organico alle definizioni, alla qualificazione e alle forme di assegnazione;

- intervenire con grande cautela sulla organizzazione della piccola impresa;

- perseguire l'obbiettivo di massimizzazione del rapporto qualità/prezzo non solo lungo l'asse qualificazione-concorrenza tra imprese (più propria all'ambito delle imprese edili) ma anche (e forse più) con l'adeguata valorizzazione dei requisiti di qualità (esperienze precedenti; grado di soddisfazione dei committenti; ecc.) propri del restauratore.

Il fuoco torna così dall'impresa al professionista, cioè il restauratore la cui formazione è ancora più cruciale (ma, allora, perché affidare le scuole di specializzazione ex art. 6 legge 23 febbraio 2001, n. 29 solo ad un'intesa tra Murst e Mbca?), mentre le procedure di evidenza pubblica proprie della disciplina dell'appalto di servizi assicurerebbero quella trasparenza e quella garanzia impropriamente ricercata negli automatismi della disciplina dei lavori pubblici.

Tutto ciò, è appena il caso di dirlo, non è neppure qualificabile de iure condendo perché la preannunciata modifica ministeriale alla versione precedente del regolamento si limita, a quanto si sa, ad alcuni ritocchi per ovviare agli inconvenienti già emersi in sede operativa.

Dunque, non è questa la direzione verso cui pare ci si voglia muovere, ma è quella che ci sembra più ragionevole e non resta che affidarla, se non alla forza della legge, a quella delle cose: che in più di un caso, prima o poi, finisce per contare.



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