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Il disegno di legge sulla disciplina dell'insegnamento
del restauro dei beni culturali

di Lavinia Savini


Sommario: 1. Introduzione. - 2. I precedenti e le innovazioni. - 3. I rilievi critici e le giustificazioni. - 3.1. Gli standard. - 3.2. Segue: La giustificazione del riparto della competenza. - 4. Un richiamo alle modifiche apportate alla legge Merloni. - 5. Valutazioni conclusive.



1. Introduzione

Particolare attenzione merita la proposta di legge di iniziativa governativa avente ad oggetto il riordino dell'insegnamento dell'arte del restauro in Italia, disciplina di notevole importanza per il ruolo rivestito dal nostro Paese a livello nazionale ed internazionale.

Il Consiglio dei ministri nella seduta tenutasi il 30 agosto 2002 aveva approvato il disegno di legge recante Disciplina dell'insegnamento del restauro dei beni culturali; sul provvedimento la Conferenza unificata Stato-regioni era stata chiamata ad esprimere il proprio parere risoltosi con un rinvio, nella seduta del 24 ottobre 2002.

Al testo sono state, perciò, apportate delle modifiche proposte dall'organo rappresentativo delle regioni finalizzate ad una maggiore partecipazione delle stesse. In data 20 dicembre 2002 il disegno di legge è stato nuovamente approvato dal Consiglio dei ministri una volta acquisito il parere della Conferenza unificata Stato-regioni, ora dovrà essere sottoposto all'esame del Parlamento.

La disciplina delineata dal ddl anche se non si è ancora cristallizzata in un provvedimento legislativo offre numerosi spunti di riflessione, è opportuno pertanto utilizzare ed analizzare le questioni emerse poiché dotate di rilevanza ed attualità.

 

2. I precedenti e le innovazioni

In Italia, prima dell'emanazione e dell'entrata in vigore del d.m. 3 agosto 2000, n. 294, l'insegnamento del restauro era prerogativa delle scuole statali istituite presso gli Istituti centrali del ministero per i Beni e le Attività culturali: l'Istituto centrale per il restauro fondato nel 1939, con sede a Roma, e la scuola istituita presso l'Opificio delle pietre dure di Firenze (Icr, Opd).

Entrambe sono state definite di alta formazione e studio, ai sensi dell'art. 9 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, e gestiscono corsi quadriennali di carattere teorico-pratico.

Con il d.m. 294/2000 all'art. 7, così come modificato dall'art. 3 del d.m. 24 ottobre 2001, n. 246, è stata ufficialmente riconosciuta la qualifica di restauratore di beni culturali mobili anche a coloro che hanno conseguito un diploma di laurea universitaria specialistica in conservazione e restauro del patrimonio storico-artistico e a coloro che, alla data di entrata in vigore del provvedimento, fossero in possesso di un diploma rilasciato da una scuola di restauro statale o regionale di durata non inferiore a due anni ed avessero svolto per un certo numero di anni opera di restauro sui beni culturali, oppure avessero esercitato il restauro per non meno di otto anni.

Pertanto da tempo si era avvertita la necessità di riordinare in modo sistematico il settore ove operano diversi soggetti istituzionali, quali scuole di alta formazione, regioni e università, con i loro percorsi di laurea e di specializzazione post lauream tutti privi, però, di un effettivo coordinamento.

Innanzitutto è da accogliere favorevolmente come il provvedimento sia nato di concerto fra il ministero per i Beni e le Attività culturali e quello dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca scientifica.

Tale soluzione pare essere dettata non solo dal coinvolgimento dell'università e dall'equiparazione del diploma conseguito ad una laurea specialistica ma anche dall'esigenza di rispettare l'autonomia didattica propria delle università [1], anche se non è da escludere, comunque, che il sistema così strutturato possa sollevare qualche riserva circa l'effettivo rispetto dell'autonomia che caratterizza le istituzioni universitarie.

Il disegno di legge si apre all'art. 1 con la definizione di "restauratore di beni culturali mobili e di superfici decorate di beni architettonici" sottoposti alle disposizioni di tutela, di cui al Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali approvato con decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490.

Essa è del tutto innovativa e trae fondamento dalla legge istitutiva della scuola dell'Opificio delle pietre dure di Firenze del 1992 e dal Documento di Pavia dell'ottobre 1997. Si fa riferimento non solo all'imprescindibile abilità manuale di cui tali operatori devono essere necessariamente dotati, ma anche, per la prima volta, si menziona lo svolgimento di una possibile attività di ricerca, sperimentazione e didattica, anche in collaborazione con le altre professionalità operanti nel settore della tutela, valorizzazione e gestione dei beni culturali [2].

Con l'apprezzabile intento di realizzare una sinergia ed un raccordo tra i principali operatori del settore.

Oggetto del provvedimento sono esclusivamente i beni mobili aventi la qualifica di beni culturali, così come individuati dagli artt. 2, 3 e 4 del Testo Unico.

E' ragionevole ritenere che qualora il Parlamento dovesse approvare il disegno di legge si renderebbe necessaria una modifica delle disposizioni del T.U., più precisamente del Titolo I Capo II Sezione II, concernenti l'attività di restauro ed altri interventi [3].

Una differenza è immediatamente riscontrabile rispetto alla normativa attualmente in vigore disciplinata dal d.m. 294/2000, come modificato dal regolamento approvato con d.m. 420/2001.

Questo provvedimento è stato, infatti, adottato esclusivamente al fine di individuare (in attuazione a quanto disposto dall'art. 8 comma 11-sexies della legge 11 febbraio 1994, n. 109) i requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori di lavori pubblici di restauro, manutenzione ordinaria e straordinaria di beni culturali mobili e di superfici decorate di beni architettonici sottoposti a tutela.

Il ddl è stato concepito, invece, unicamente allo scopo di disciplinare e razionalizzare il settore dell'insegnamento del restauro e di imporre l'esecuzione dell'attività di restauro sui beni culturali esclusivamente da parte di coloro che abbiano conseguito il titolo di restauratore ai sensi di legge, indipendentemente dal fatto che i lavori rientrino nella previsione di cui alla l. 109/1994.

Inoltre, il provvedimento normativo in oggetto prevede tre diversi livelli di professionalità.

Demanda la preparazione professionale delle figure di restauratore e collaboratore restauratore non solo alle scuole di alta formazione e studio, ma anche ad altri soggetti pubblici e privati, anche a livello regionale, che abbiano ottenuto "l'accreditamento presso lo Stato" perché rispondenti a requisiti predeterminati, secondo quanto dispone la lettera della norma (art. 2, comma 3).

Non è agevole individuare con precisione cosa debba intendersi con la dizione "accreditati presso lo Stato"; è evidente il pericolo che con siffatta previsione si finisca con il legittimare una moltitudine di soggetti diversi, in una direzione diametralmente opposta alle finalità di riordino della materia che il provvedimento intende perseguire.

Certamente con tale espressione sono da ritenersi richiamate le regioni, le università, le accademie di belle arti, la scuola per il restauro del mosaico di Ravenna e le scuole private.

E' da evidenziare, inoltre, come il ddl riconosca ed introduca per la prima volta la figura professionale di "supporto al restauratore di beni culturali" demandando (con apposita previsione normativa di cui all'art. 3, comma 1) la correlativa attività di formazione alle regioni, province e comuni e ad altri non meglio precisati soggetti pubblici e privati in coerenza, però, con le normative regionali.

Di notevole importanza è la previsione (art. 2, comma 4) del rilascio di un diploma, conseguito al termine dei corsi per restauratori per cui ora è prevista una durata quinquennale, da equipararsi ad un diploma di laurea specialistica che abilita all'esercizio della professione di restauratore.

E' previsto, inoltre, che i corsi così strutturati si debbano concludere con una prova finale equiparata a un esame di stato cui deve parteciparvi un rappresentante del ministero per i Beni e le Attività culturali.

Qualora il disegno di legge venisse approvato dal Parlamento su tale punto si sarebbe conseguito un risultato importantissimo di equiparazione dei percorsi formativi delle due scuole ufficiali del ministero con le università.

Risultato tanto auspicato dagli operatori del settore, che non si era riusciti a raggiungere neppure dopo la loro promozione a scuole di alta formazione e studio, ora possibile e consentito grazie al riconoscimento ufficiale (art. 2, commi 3 e 5) alle università della prerogativa di formare restauratori.

Questo sistema, però, non è esente da critiche: è discutibile la scelta di consentire anche a non meglio precisati soggetti privati che abbiano ottenuto l'accreditamento presso lo Stato, sulla base di indefiniti standard di qualità, di rilasciare diplomi da equipararsi a quelli universitari.

Si rischia così il proliferare di una moltitudine di scuole private, per la maggior parte corrispondenti solo nominalmente agli standard prefissati, che rischiano di divenire vere e proprie "università private".

E' previsto, inoltre, che con il medesimo decreto con cui sono individuate le modalità di accreditamento e di funzionamento degli organismi di insegnamento siano definiti i criteri per la tenuta presso il ministero di elenchi, in forma elettronica, con i nominativi dei professionisti così formati.

Scelta apprezzabile, non solo per la razionalizzazione ed il soddisfacimento delle esigenze di certezza e garanzia delle professionalità delineate, ma anche per la semplificazione della procedura di attestazione che la Società organismi di attestazione (Soa) è tenuta ad operare ai fini della qualificazione necessaria per l'esecuzione degli appalti pubblici di lavori (art. 8 comma 11-sexies l. 109/1994).

Infine, il disegno di legge all'art. 4 contiene un'altra rilevante innovazione prevedendo l'emanazione di norme dirette al riordino delle scuole di alta formazione e di studio mediante regolamento, ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del ministro per i Beni e le Attività culturali sentito il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca.

Tale riordino è finalizzato, principalmente, a consentire un adeguamento ai percorsi formativi e didattici, come configurati dal ddl, che verranno disciplinati con regolamento ministeriale in conformità alla definizione di restauratore operata dalla norma e ai singoli profili di competenza adottati ai sensi dell'art. 1, comma 3, del ddl).

Un'altra peculiare e nuova finalità è sottesa a tale riordino: consentire la possibilità di prestare servizi ai privati dietro corrispettivo al fine di reperire risorse finanziare da utilizzare per il perseguimento degli scopi istituzionali degli enti stessi, come ora consentito dall'art. 9, comma 2 del ddl.

E' logico ritenere che, allo stesso modo, anche le università dovranno ristrutturare la propria offerta formativa per adeguarsi alla riforma.

L'art. 5 contiene, inoltre, una indispensabile norma transitoria che riconosce la validità dei diplomi rilasciati dalle scuole di restauro statali, di cui all'art. 9 del d.lg. 368/1998, di durata non inferiore a quattro anni e dei diplomi di laurea universitaria specialistica in conservazione e restauro del patrimonio artistico.

Rimane, altresì, applicabile il regime transitorio previgente di cui all'art. 7, comma 2, lettere a), b) e c) del d.m. 294/2000 (come sostituito dall'art. 3 del d.m. 24 ottobre 2001, n. 420); riconoscendosi la qualifica di restauratore anche a chi, alla data del 16 dicembre del 2001 di entrata in vigore del regolamento, si trovi in una delle situazioni giuridiche di cui al sopra indicato art. 7.

La ratio di tale disciplina transitoria è proprio quella di evitare conseguenze aberranti e di consentire anche a coloro che non abbiano potuto formarsi all'interno delle strutture ora previste di poter continuare a definirsi restauratori (si pensi, altrimenti, come eminenti figure perderebbero la legittimazione ad operare sui beni culturali mobili sottoposti alla legislazione di tutela).

 

3. I rilievi critici e le giustificazioni

3.1. Gli standard

Tra le innovazioni introdotte con la normativa in esame una delle più importanti è certamente l'adozione di una disciplina comune e accentrata per l'omogeneizzazione e la razionalizzazione del sistema, al fine di assicurare un'unitarietà di approccio metodologico e di risultati; prerogativa da attuarsi attraverso l'uso di standard e criteri di qualità comuni.

L'art. 2 prevede l'adozione di standard di qualità, il cui rispetto dovrà essere sottoposto a verifica periodica, tanto per disciplinare le modalità di insegnamento ai restauratori ed ai loro collaboratori quanto per individuare i requisiti minimi organizzativi e di funzionamento degli organismi che impartiscono l'insegnamento, incluse le caratteristiche del corpo docente, le modalità di controllo sullo svolgimento delle attività e dell'esame finale. I medesimi criteri verranno applicati anche per l'individuazione delle modalità di accreditamento presso lo Stato dei soggetti diversi dalle scuole di alta formazione e studio che possono svolgere attività di insegnamento.

L'adozione degli standard (come modificata in seguito all'intervento della Conferenza unificata Stato-regioni) si attuerà mediante decreto del ministro per i Beni e le Attività culturali di concerto con il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le provincie autonome di Trento e Bolzano (con evidente richiamo alla regolamentazione e all'ordinamento dei corsi delle scuole di alta formazione e studio, che prescrivono l'utilizzo di regolamenti ministeriali da adottarsi ai sensi dell'art. 17, comma 3 della legge 23 agosto 1988, n. 400).

Sempre previo parere della Conferenza unificata Stato-regioni dovranno essere individuati e definiti, con regolamento ministeriale, i profili di competenza di tutte e tre le figure professionali delineate dal ddl (art. 1, comma 3).

Altrettanto dicasi per l'adozione dei criteri e degli standard di qualità ai quali si devono conformare i corsi istituiti a livello regionale e locale per formare gli "altri operatori che partecipano all'attività di conservazione e restauro dei beni culturali"(art. 3 ddl), che (sempre grazie alle modifiche apportata al ddl dall'intervento dell'organo rappresentativo delle regioni) deve avvenire previo accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le provincie autonome di Trento e Bolzano ai sensi dell'art. 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.

 

3.2. Rilievi critici

Ci sembra opportuno dar conto dei rilievi di incostituzionalità cui il sistema innanzi delineato potrebbe dar luogo alla luce della recente modifica del Titolo V della Costituzione Parte II, operata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e delle prime questioni di illegittimità costituzionale suscitate da alcuni provvedimenti legislativi ritenuti lesivi del riparto della competenza legislativa Stato-regioni.

Un primo rilievo critico potrebbe muoversi nei confronti del riparto tra Stato e regioni per l'attività concernente l'insegnamento alle categorie dei restauratori e dei loro collaboratori, di cui all'art. 2 del ddl.

Si è delineata, infatti, una competenza esclusiva statale attraverso standard da adottarsi a livello centrale mediante decreto ministeriale, anche se previa acquisizione del parere dell'organo rappresentativo delle regioni.

Questo sistema si potrebbe giustificare alla luce della riforma costituzionale solo riconducendo la materia all'attività di "tutela" di cui all'art. 117, comma 2, lett. s) della Cost.

Purtroppo non è agevole individuare con esattezza il concetto di tutela così come ora contrapposto a quello di gestione - valorizzazione, in un'ottica di riparto della competenza tra Stato e regioni ai sensi del novellato Titolo V.

Senza soffermarci sul problema della distinzione tra le due attività, che ha formato oggetto di un articolato dibattito in sede scientifica cui si rinvia [4], è evidente, come più volte denunciato dalle regioni (al riguardo si osservi il documento di coordinamento interregionale dei beni e delle attività culturali del 13 dicembre 2001 e del 28 febbraio 2002, la necessità di modificare tali concetti per adeguarli alla riforma costituzionale.

Qualora si verificasse un ridimensionamento normativo dell'ambito della tutela si potrebbe correre il rischio di un'estensione della competenza regionale concorrente, coerente con le attuali competenze legislative costituzionalmente riconosciutegli per l'attività di promozione e valorizzazione, in una logica di integrazione tra le diverse, ma connesse, politiche locali.

Si potrebbe, dunque, giungere all'individuazione di una "nuova" attività di valorizzazione, in conformità con l'attività di "ricerca scientifica e tecnologica" ma, soprattutto con l'attività di "formazione professionale" e delle "professioni", ora demandata alla potestà legislativa concorrente in un'ottica di sviluppo congiunto a livello territoriale.

Così ragionando la disciplina dell'insegnamento del restauro potrebbe essere ricondotta all'attività di "valorizzazione", attraverso una rilettura dei concetti di tutela e valorizzazione, e si correrebbe il rischio che il sistema delineato dal ddl possa divenire oggetto di contestazioni circa la sua legittimità costituzionale.

Non si potrebbe più parlare, infatti, di competenza esclusiva dello Stato ma di competenza concorrente Stato-regioni, con impossibilità per lo stesso di disciplinare la materia in maniera esclusiva e, perciò, anche a livello regolamentare.

Lo Stato dovrebbe limitarsi a dettare con legge i "principi fondamentali" della materia per il conseguimento di un assetto unitario, demandando alle regioni la disciplina legislativa di dettaglio e quella regolamentare.

Alla luce della modifica costituzionale, infatti, lo Stato non può esercitare la potestà regolamentare nelle materie riservate alla legislazione concorrente, pertanto le disposizioni attributive del potere regolamentare al ministero per i Beni e le Attività culturali (di cui al d.lg. 368/1998) devono ritenersi venute meno.

Tale rischio è tanto più concreto se si considerano le recenti contestazioni suscitate dallo schema di regolamento recante Disposizioni concernenti la costituzione e la partecipazione a società da parte del ministero per i Beni e le Attività culturali, in attuazione dell'art. 10 della l. 368/1998 come modificato dall'art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (l'articolo della finanziaria per il 2002 che apriva ai privati la possibilità di gestire i servizi per la fruizione e la valorizzazione museale su cui tanto si è dibattuto) [5].

Per quanto attiene, invece, alla figura professionale di "supporto al restauratore", di cui all'art. 3 del ddl, trattandosi di vera e propria attività formativa tout court slegata dall'attività delle scuole di alta formazione e delle università, essa dovrebbe rientrare nella competenza legislativa regionale esclusiva ai sensi dell'art. 117, comma 3, Cost.

La normativa in oggetto, però, se da un lato demanda a regioni, enti territoriali minori e ad altri soggetti pubblici e privati lo svolgimento dell'attività di formazione di queste professionalità, dall'altro prevede che i relativi corsi si debbano adeguare ugualmente agli standard determinati previo accordo tra Stato e regioni ai sensi dell'art. 4 del d.lg. 281/1997.

Pertanto, i possibili profili di illegittimità costituzionale sopra delineati, circa il riparto Stato-regioni ed il correlativo potere regolamentare regionale, tanto più si potrebbero configurare nei confronti dell'art. 3 del ddl disciplinante l'attività di formazione [6].

 

3.3. La giustificazione del riparto della competenza

I rilievi critici sopra delineati hanno una rilevanza più teorica che pratica, pertanto, la scelta di un sistema così strutturato per disciplinare l'insegnamento del restauro può ritenersi pienamente legittimo e giustificato per diverse ragioni.

A conferma di tale assunto si consideri, in primo luogo, come la legittimità della competenza statale nella determinazione degli standard di qualità, cui l'attività di insegnamento per le tre categorie professionali deve conformarsi, possa trarre fondamento dallo stesso concetto di tutela del patrimonio artistico, di cui all'art. 117, comma 2, Cost.

Ai fini della corretta individuazione delle nozioni di valorizzazione e tutela, ora doverosa poiché rilevante ai fini del riparto tra livelli istituzionali non solo delle funzioni amministrative (come attuato dal Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) ma anche di quelle legislative, non è sufficiente affidarsi alle definizioni di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, che individua la tutela quale "l'attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali ed ambientali" e la valorizzazione come "ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ad incrementarne la fruizione".

Esse si prestano a facili sovrapposizioni di concetti e contengono una nozione pervasiva e poco definitoria di tutela che finisce col comprimere la sfera di autonomia legislativa delle regioni.

E' opportuno partire dalle nozioni del d.lg. 112/1998, ancora in vigore, integrandole con le pronunce della giurisprudenza della Corte costituzionale e con i rilievi critici mossi dalla dottrina nei confronti delle stesse definizioni.

Ed è proprio ciò facendo che si può giungere ad una individuazione dei due ambiti dove risulta pacifica la presenza di una disciplina di tutela ove la norma limiti la sfera soggettiva dei destinatari al fine di salvaguardare il valore culturale, di interesse pubblico, insito nei beni. Egualmente apparterrebbero alla tutela le limitazioni alle facoltà esercitabili su di essi, quali la regolamentazione delle attività materiali che ne possano pregiudicare il valore, tra cui senza dubbio va annoverata l'attività di restauro.

In conformità a ciò, la competenza statale prevista anche per l'attività di formazione delle figure professionali di supporto al restauratore (di cui all'art. 3 del ddl) sembra trarre giustificazione dalla diretta incidenza dell'attività lavorativa di tali soggetti sui beni culturali, sì da legittimare "un'invasione di competenza" da parte dello Stato nell'esercizio della sua attività di tutela diretta alla conservazione e alla protezione di tali beni.

In secondo luogo, la legittimazione dello Stato può trarre fondamento anche dalla riserva allo stesso dell'attività di istruzione e formazione professionale in materia di beni culturali. Infatti, mentre l'art. 117 della Cost. al comma 2, lettera n) affida alla potestà legislativa esclusiva statale la definizione delle norme generali sull'istruzione, al comma 3 affida alla legislazione concorrente "l'istruzione salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell'istruzione e della formazione professionale".

Dall'imprecisa dizione della norma se ne ricava una disciplina articolata ove l'istruzione è oggetto di legislazione concorrente, ma al tempo stesso di una legislazione statale esclusiva circa la fissazione dei principi fondamentali (similmente a quanto si è visto circa il riparto della competenza tra tutela e valorizzazione). Interpretando tale norma costituzionale alla luce dell'art. 33 della cost. se ne desume come sia riconosciuto poco spazio alla legislazione regionale [7].

Nell'interpretare l'art. 117 comma 2 Cost., lett. n), non si può fare a meno di richiamare la previsione di cui all'art. 149 del d.lg. 112/1998, che nel definire l'attività di tutela non solo riserva allo Stato la definizione, con la cooperazione delle regioni, delle metodologie da seguire nell'attività di restauro ma vi ricomprende (al comma 4 lettera d) anche le funzioni relative a "scuole e istituti nazionali di preparazione professionale operanti nel settore dei beni culturali nonché la determinazione dei criteri generali sulla formazione professionale e l'aggiornamento del personale (...) ferma restando l'autonomia delle università".

Ciò in conformità all'art. 140 della stessa norma, che nel definire e delegare alle regioni i compiti in materia di formazione professionale esclude espressamente quella di carattere settoriale oggetto di apposita regolamentazione (ad es. il d.p.r. 16 luglio 1997 n. 399 a proposito della scuola di restauro presso l'Istituto centrale per il restauro).

Allo stesso modo tra le funzioni ed i compiti mantenuti in capo allo Stato in materia di formazione professionale sono menzionati proprio l'individuazione degli standard delle qualifiche professionali, dei crediti formativi e delle loro modalità di certificazione, e l'individuazione dei requisiti minimi per l'accreditamento delle strutture che gestiscono la formazione.

Prevedendosi, comunque, l'esercizio di questi compiti previo intervento della Conferenza Stato-regioni al fine di attuare una cooperazione e un raccordo tra i diversi livelli di governo.

Infine, è di notevole interesse considerare come l'attività esercitata dallo Stato si legittimerebbe anche secondo la previsione dell'art. 117, comma 2, lett. m) Cost.; ossia attraverso il riconoscimento della competenza esclusiva statale nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio.

Tale assunto trae fondamento dalla concezione, avanzata dalla dottrina, che vede il bene culturale non come oggetto materiale nella sua fisicità ma nella sua funzione sociale di fattore di sviluppo della collettività.

Di conseguenza, l'intervento dei pubblici poteri sarebbe volto a garantire alla collettività una fruizione ampia ed effettiva del valore culturale custodito nel bene stesso presupponendosi, così, un vero e proprio "diritto sociale alla cultura", in conformità al disposto di cui all'art. 9, comma 2, della Cost.

Si presti attenzione a come questa specifica competenza dello Stato sia caratterizzata da una forte "trasversalità" che comporta un'inevitabile condizionamento anche in ambiti di competenza legislativa regionale (non è mancato chi [8] ha qualificato tale attribuzione come una clausola generale che legittimerebbe lo Stato a dettare norme in qualunque materia).

In tal senso si giustificherebbe la competenza statale anche per l'attività di formazione professionale delle figure di supporto al restauratore contemplate dall'art. 3 del ddl.

Strettamente connesso a questo argomento ve n'è un altro su cui è opportuno soffermarsi.

Si tratta della facoltà dello Stato di adottare standard di qualità o funzionamento aventi efficacia su tutto il territorio nazionale per esigenze di unità; facoltà che, secondo parte della dottrina, potrebbe sempre essere ricondotta all'art. 117 Cost., lett. m).

Al riguardo si consideri che già quando erano in vigore gli originari artt. 117 e 118 della Cost. la giurisprudenza aveva ammesso l'attribuzione allo Stato di funzioni anche nel settore della valorizzazione dei beni culturali per "esigenze unitarie insuscettibili di frazionamento", attraverso l'adozione di standard qualitativi essenziali da valere con efficacia in tutto il territorio nazionale.

Per la salvaguardia delle potestà regionali l'adozione degli standard è avvenuta mediante intese con le regioni o mediante forme di cooperazione.

L'argomento si adatta, senza dubbio, alla disciplina oggetto del nostro studio.

A conferma di tale assunto si consideri un precedente emblematico per le forti analogie con il tema in esame: il d.m. 10 maggio 2001 [9] recante i criteri tecnico-scientifici e gli standard minimi di funzionamento e sviluppo dei musei; standard che, secondo un'ottica volta al perseguimento della qualità, sono da applicarsi indipendentemente dalla loro appartenenza in termini proprietari o gestionali e, perciò, tanto ai musei statali quanto a quelli di altro ente pubblico o privato.

Il documento può dirsi largamente "partecipato" non solo per il consenso avuto dalla conferenza unificata, cui è stato sottoposto quale atto di indirizzo, ma anche per le modalità di elaborazione (è frutto dell'attività della commissione paritetica istituita sulla base dell'art. 150 del d.lg. 112/1998).

Questo decreto (come anche, si dirà in seguito, il ddl) rappresenta un esempio di effettivo coordinamento tra centro e periferia nel settore della valorizzazione e gestione dei beni culturali ove la periferia ha concorso a fissare regole destinate a valere per tutti in posizione di parità con lo Stato, in una logica di leale cooperazione.

 

4. Un richiamo alle modifiche apportate alla legge Merloni

Alla luce di quanto sopra descritto non si può fare a meno di accennare brevemente alle modifiche appena apportate alla normativa sui lavori pubblici (legge quadro in materia di lavori pubblici, c.d. legge Merloni, l. 109/1994 ad opera della legge 1 agosto 2002, n. 166 [10] recante Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti (c.d. Merloni-quater), cui è ricondotta anche l'attività di restauro dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici sottoposti alle disposizioni di tutela. Ciò a causa delle evidenti interazioni con la normativa oggetto del nostro studio.

Le particolari caratteristiche di tali beni ne avrebbero consigliato la trattazione in un apposito testo normativo (in tal senso il ddl potrebbe rappresentare un'occasione mancata); si consideri come per parte della dottrina la qualificazione contrattuale più appropriata per questi interventi sarebbe l'appalto di servizi, poiché lascerebbe maggior spazio alla componente progettuale ed intellettuale propria del restauratore.

Più volte è stata rilevata dagli addetti ai lavori (si pensi al Consiglio superiore dei lavori pubblici) la necessità di evidenziare i profili di specialità del settore del restauro rispetto alla disciplina generale del settore dei lavori pubblici; aspettativa non soddisfatta neppure dal regolamento di attuazione della legge Merloni (d.p.r. 554/1999).

Sono, perciò, da accogliere favorevolmente le modifiche apportate dalla nuova legge che, almeno in parte, è riuscita in tale intento.

La norma rappresenta l'ennesimo intervento nel settore dei lavori pubblici. Oltre a contenere numerosi provvedimenti di grande attualità all'art. 7 apporta modifiche rilevanti alla disciplina degli appalti pubblici di lavori e, soprattutto, allo specifico settore del restauro - manutenzione dei beni culturali [11].

Il principio ispiratore della riforma sembra essere la valorizzazione della diversificazione degli interventi aventi ad oggetto beni culturali rispetto agli altri interventi. Ne discende, fondamentalmente, la valorizzazione della figura professionale del restauratore, più che dell'impresa, e della sua componente intellettuale e progettuale.

Venendo ora all'esame degli emendamenti apportati alla legge Merloni che coinvolgono direttamente la figura professionale del restauratore, e rinviando ad altra sede un più approfondito esame dei singoli articoli [12], è da evidenziare come l'epicentro del progetto di riforma sia stata la previsione di uno "scorporo obbligatorio" (già nella fase di affidamento) delle prestazioni di restauro dei beni culturali (riconducibili alla categoria di qualificazione Soa Os2). Consistente nell'affidamento disgiunto delle prestazioni di restauro rispetto agli altri lavori pubblici.

Secondariamente assume notevole rilevanza la modifica di un fondamentale principio della Merloni, la separazione del momento progettuale da quello di esecuzione dei lavori, in parte già avviatosi con il d.p.r. 554/1999.

Ai sensi dall'art. 19, comma 1-quater (come ora modificato), infatti, i livelli di progettazione successivi a quello preliminare devono essere affidati congiuntamente all'esecuzione dell'intervento (salvo espressa previsione contraria), stante la diversità dell'attività di restauro, che possiede una rilevante componente di progettazione in corso d'opera, rispetto a quella edilizia.

Sempre con riferimento alla fase progettuale è, poi, previsto che dovrà essere utilizzata la competenza tecnico-professionale specialistica del "restauratore di beni culturali ai sensi della normativa vigente" per l'attività di progettazione, direzione lavori e supporto al responsabile del procedimento.

Allo stesso modo il progetto preliminare degli interventi (sempre obbligatorio) dovrà contenere una scheda tecnica finalizzata all'individuazione delle caratteristiche del bene vincolato e degli interventi da realizzare, redatta e sottoscritta dalla medesima figura professionale (art. 16, comma 3, del nuovo testo di legge).

Per quanto attiene specificamente ai sistemi di gara ed ai criteri di aggiudicazione, al principio tradizionale di aggiudicazione al prezzo più basso viene sostituito quello di economicità equilibrata con la qualità del restauro (art. 21, comma 8-bis). Anche in relazione a tale modifica assume sempre maggiore importanza la competenza tecnico-professionale del restauratore, dal momento che l'aggiudicazione si dovrà basare sulle caratteristiche e necessità dei beni individuate dal restauratore e da lui indicate nella scheda tecnica da allegarsi al progetto preliminare (utilizzata anche al fine di indirizzare l'apprezzamento dei curricula per l'affidamento di appalti di cui all'art. 24, comma 5-bis).

L'art. 27, comma 2-bis, invece, consacra definitivamente la necessità di una collaborazione con l'ufficio della direzione dei lavori, da parte di un soggetto avente la qualifica di restauratore, in fase di direzione lavori e collaudo.

Ulteriore modifica apportata dalla legge è la previsione, per quanto possibile, della revisione di parte delle qualificazioni Soa nella categoria Os2 rilasciate in assenza dei requisiti previsti dal d.m. 420/2001 (perché rilasciate prima della sua entrata in vigore).

E' evidente, pertanto, la notevole influenza che il ddl in esame potrebbe avere anche nel complesso e mutevole settore degli appalti pubblici di lavori e che, qualora dovesse essere approvato, renderebbe necessario un intervento modificativo sul d.p.r. 554/1999.

 

5. Valutazioni conclusive

Volendo formulare una considerazione di carattere complessivo è da rilevare come il disegno di legge sia rappresentativo delle difficoltà esistenti nel disciplinare concretamente i rapporti tra Stato, regioni ed enti locali, così come sovvertiti dalla riforma costituzionale soprattutto nel settore dei beni culturali.

In ogni caso, al di là di ogni censura cui il provvedimento potrà essere sottoposto, l'elemento più importante da tenere in considerazione nella formulazione di un giudizio sul ddl è valutare se con lo stesso si sia realizzato un effettivo coordinamento ed un'effettiva cooperazione tra la realtà statale e quella regionale-locale, nelle quali si articola il settore della cultura.

La risposta non può che essere affermativa. Si può senza dubbio ritenere che il sistema delineato, in seguito alle modifiche apportate dall'intervento della Conferenza unificata Stato-regioni volte a consentire una piena ed effettiva partecipazione di queste ultime all'attività d'insegnamento del restauro, abbia recepito la rottura del parallelismo tra funzione legislativa e funzione amministrativa organizzando l'attività didattica non esclusivamente a livello centrale (nel tradizionale modo strutturale attraverso pochi centri in mano allo Stato), ma attraverso un'articolazione a livello organizzativo che vede il coinvolgimento anche delle regioni, degli enti locali e dei privati.

Collaborazione necessaria, dunque, tra Stato, regioni, enti locali ed organismi privati in conformità ai principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui l'art 9 della Costituzione sarebbe volto a promuovere il concorso e la collaborazione delle strutture centrali e locali nel settore dei beni culturali

In concreto questa collaborazione viene realizzata dal provvedimento normativo mediante le forme di intesa e coordinamento tra Stato e regioni sopra delineate, che consentono la partecipazione di queste ultime alla determinazione degli standard di qualità per l'insegnamento del restauro in maniera che le decisioni adottate non risultino avulse dal contesto in cui devono essere calate.

Ciò in conformità alla nuova previsione costituzionale in materia di tutela del patrimonio artistico, ai sensi della quale la tutela rientra tra quelle materie per cui la legge statale potrà in futuro disciplinare "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia delle regioni" (art. 116, comma 3, Cost.), ma soprattutto in conformità alla previsione che affida alle leggi statali il compito di predisporre "forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali" (art. 118, comma 3, Cost.).

Infine, si può dire che il provvedimento sia conforme non solo alle direttrici del principio di sussidiarietà verticale, consacrato dal nuovo art. 118, comma 1, Cost. (ma già introdotto nel nostro ordinamento dalla legge "Bassanini" 59/1997 e dalla legge di riforma delle autonomie locali, art. 3 del T.U. decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267), ma anche a quelle del principio di sussidiarietà orizzontale, contenute nel comma 4 del medesimo articolo. Ai sensi del quale, laddove i pubblici poteri decidano di intervenire possano farlo anche tramite l'apporto dei privati, fermo restando che le possibilità di applicazione del principio in oggetto sono molto meno estese per la tutela di quanto non possano esserlo per la valorizzazione.

Pertanto, è da accogliere favorevolmente il fine che il ddl si propone di perseguire.

Esso è volto, infatti, a riordinare la disciplina dell'insegnamento del restauro potenziando gli Istituti centrali del ministero e conferendo loro delle articolazioni a livello territoriale ma valorizzando anche le risorse offerte dagli organismi privati, in conformità a quanto auspicato dalle regioni.

Sembra, inoltre, essersi recepita l'importanza della formazione professionale per la tenuta del sistema pubblico-privato e centro-periferia, cercando di garantire ed assicurare una qualità elevata e comune. Ciò attraverso la predeterminazione di standard di garanzia che disciplinino non solo il percorso formativo necessario, con riferimento alle competenze teorico-metodologiche e tecnico-pratiche, ma anche le caratteristiche dei docenti.

Standard cui si dovranno necessariamente conformare tutti gli organismi che vogliano formare figure professionali nel settore, indistintamente sia a livello locale che statale.

Tale previsione è finalizzata in primo luogo alla realizzazione di un sistema formativo omogeneo, anche se articolato a livello organizzativo, che possa assicurare un'alta qualità anche delle figure professionali meno elevate. In secondo luogo, a evitare il pericolo di distruzione delle caratteristiche basilari dell'arte del restauro italiana.

Pericolo sussistente con la normativa in vigore che riconosce la possibilità di formare futuri restauratori a strutture che non ne sono in grado, sia per la tipologia delle discipline insegnate sia per l'insufficienza dei mezzi, e che perciò ha suscitato la giusta preoccupazione di diversi operatori del settore.

 

 

 



Note

[1] Come legislativamente sancita dall'art. 11 del decreto legislativo 3 novembre 1999, n. 309, e dall'art. 11 della legge 19 novembre 1990, n. 341, che riconoscono alla stessa la facoltà di disciplinare gli ordinamenti didattici dei propri corsi di studio mediante l'adozione di regolamenti di ateneo approvati dal ministro competente e redatti nel rispetto delle disposizioni dei decreti ministeriali.

[2] Con tale rivisitazione dell'attività di restauro si possono ritenere, almeno in parte, accolte le istanze del Consiglio superiore dei lavori pubblici.

[3] Trattasi di una definizione che trae il suo antecedente logico nella Carta del restauro del 1972, nonché nella Carta del restauro del 1987 anche se mai adottata, e nella legge Merloni-ter dell'11 febbraio 1994, n. 109, modificata ed integrata dalla legge 18 novembre 1998, n. 415.

[4] Sul dibattito apertosi in seguito alla riforma costituzionale si veda: A. Poggi, Dopo la revisione costituzionale: i beni culturali e gli scogli del "decentramento possibile, in Aedon 1/2002; M. Cammelli, Il nuovo Titolo V della Costituzione e la finanziaria 2002: note, in Aedon 1/2002.

[5] Si veda in questa rivista D. Nardella, L'art. 33 della finanziaria 2002 davanti alla Corte costituzionale, in Aedon 1/2002.

[6] Al riguardo si veda M. Sias.

[7] In questo complesso sistema si inserisce anche il rapporto con le università che nel disegno di legge hanno un ruolo determinante. L'ordinamento universitario, infatti, non risulta espressamente citato dall'art. 117 Cost., ma non per questo deve ritenersi rientrante nella norma di chiusura di cui al comma 4 dello stesso articolo che riconosce alle regioni la potestà legislativa per ogni materia non espressamente riservata allo Stato. L'istruzione universitaria è, perciò, da ritenersi ricompresa nel concetto generale di istruzione demandato alla competenza esclusiva dello Stato.

[8] Si veda N. Aicardi, L'ordinamento amministrativo dei beni culturali, Torino, 2002.

[9] Più approfonditamente sul punto si veda: G. Sciullo, Musei e codecisione delle regole, in Aedon, 2/2001.

[10] Gazzetta Ufficiale n. 181 del 3 agosto 2002.

[11] E' opportuno ricordare come le modifiche siano frutto anche degli emendamenti proposti dall'Associazione dei restauratori d'Italia alla Commissione lavori pubblici del Senato, poi inseriti nel testo del disegno di legge approvato il 17 luglio dalla Camera.

[12] Si veda in specifico sul tema il contributo di: G. Santi, Attività di restauro di beni culturali e legge Merloni-quater: il recupero della specialità della disciplina dell'evidenza pubblica, in Aedon 2/2002.



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