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I beni culturali e il paesaggio dopo le ultime riforme / Il restauro

Restauri, restauratori, archeologi. Alcune osservazioni

di Sandro De Maria

Com'è ben noto a quanti si interessino ai beni culturali - sia dal punto di vista giuridico che da quello tecnico-operativo - al testo del Codice dei beni culturali e del paesaggio, introdotto col decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (cosiddetto "Codice Urbani") sono state apportate recentemente alcune significative modificazioni. Si tratta delle nuove norme introdotte da due provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri il 2 marzo di questo 2006. Vorrei proporre alcune osservazioni a margine del Codice, ma soprattutto delle novità più recenti, da un punto di vista assolutamente non giuridico (materia sulla quale dichiaro la mia incompetenza), ma piuttosto derivante dall'esperienza di chi opera direttamente nel settore. Che è quello non del funzionario del ministero o delle sue ramificazioni territoriali, ma del docente universitario, da sempre però fortemente impegnato in attività legate ai territori, per quanto attiene all'archeologia, sia nel nostro Paese che altrove. Questo dico per chiarire da subito il particolare approccio, appunto, da cui deriveranno le mie osservazioni. Fare l'archeologo all'interno dell'Università significa non soltanto impegnarsi, possibilmente nel migliore dei modi, nella formazione delle nuove generazioni (particolarmente sensibili alla tematica, anche se talora in modo un po' - diciamo così - fantasioso, come peraltro spesso presentano la materia i mezzi di comunicazione di massa), ma anche agire in stretto contatto con le realtà territoriali cui i beni archeologici sono legati, e dunque anche con le istituzioni e le realtà locali, ai più diversi livelli. Almeno io così ho sempre inteso indirizzare la mia attività, in un dialogo costante fra aspetti didattici e formativi e operatività diretta con tutte le relazioni che ho appena indicato. Ne consegue che il "mestiere dell'archeologo", così inteso, deve necessariamente comprendere un contatto diretto anche coi temi della tutela, della conservazione, più propriamente riservati peraltro ad altri organi dello Stato, coi quali tuttavia si impone per noi un dialogo pressoché quotidiano. Se questo avviene con effetti positivi, si crea un circolo virtuoso che fa dialogare fra loro nuove generazioni in formazione, operatori nel campo della ricerca, funzionari impegnati nella protezione e nella valorizzazione, che non può non portare a risultati rilevanti.

Su taluni aspetti dell'operare dell'archeologo vorrei tornare più avanti, ma intanto osserverei che diversi aspetti del "Codice" si prestano a considerazioni del tipo di quelle che ho indicato, e lo stesso vale per le modificazioni recentemente introdotte. Si è detto da più parti che queste modificazioni, come peraltro è logico che sia, non hanno cambiato alle radici il testo, neppure su particolari aspetti: si è trattato piuttosto di una "stretta di bulloni", che in qualche caso ha posto rimedio a "scivolate" preoccupanti riscontrabili nel testo originario. Basti pensare alla molto discussa questione delle monete antiche (art. 10), per le quali un provvedimento precedente escludeva l'obbligo di notifica per collezioni private nel caso di serie ripetitive e di scarso valore. Chi ha pratica della considerazione del significato storico della monete antiche (spesso proprio per il valore intrinseco in quanto serie, e non pezzi unici e rari) sa quanto sia riduttivo considerarle indipendentemente anche da fattori quantitativi. In questo caso le novità introdotte nell'articolo riscritto del Codice attenuano i rischi di una perdita che si sarebbe potuto prevedere crescente di questi dati, attraverso la non conoscenza dell'esistenza di serie o intere parti di collezioni, a esclusivo giudizio del proprietario. Anche in altre delicate questioni, come quella dei possibili effetti negativi derivanti dalla norma del silenzio-assenso, le modificazioni sono intervenute correggendo distorsioni e apportando nuove direttive favorevoli alla tutela dei beni.

Un tema che sta particolarmente a cuore a quelli fra noi archeologi più fortemente impegnati nella ricerca sul terreno, in stretto contatto - solitamente - con soprintendenze, regioni, province e comuni è quello dell'archeologia preventiva. Nel corso del tempo infiniti sono stati i cantieri, pubblici e privati, che hanno visto bloccati i propri lavori per la comparsa improvvisa di strutture, oggetti o comunque documenti di rilevanza appunto archeologica (che spesso poteva facilmente essere prevista o almeno intuita: sarebbe bastato uno studio preliminare condotto da archeologi sulla base della documentazione esistente per dare informazioni importanti in quel senso). Col tempo si è formata nei funzionari degli organi periferici e talora anche negli amministratori locali una certa mentalità che ritiene indispensabile proprio un'indagine diretta e preventiva, per accertare la presenza di tracce o documenti archeologici, la cui conoscenza avrebbe poi permesso una migliore progettualità nell'intervento edilizio o più genericamente di cantiere. Molti soprintendenti hanno fatto di questo strumento un modus operandi irrinunciabile, credo con risultati molti positivi, anche se spesso non facilmente accettato. Si tratta di una materia che meriterebbe una disciplina rigorosa, nei tempi e nei modi della sua costante realizzazione. Le novità introdotte nel Codice (articolo 28, comma 4) riguardano invece soltanto i lavori pubblici (termini che sostituiscono la precedente dizione di "opere pubbliche"), per i quali "il soprintendente può richiedere l'esecuzione di saggi archeologici preventivi sulle aree medesime a spese del committente". Evidentemente la materia potrà essere demandata ad altri provvedimenti, in primis quelli che riguarderanno la disciplina degli appalti dei lavori pubblici, ma nondimeno bisogna osservare che la questione dovrebbe avere una portata molto più vasta, soprattutto in presenza di interventi di grande rilievo (come di fatto avviene ad esempio per i cantieri della cosiddetta alta velocità) e anche in relazione alle committenze private.

E' però soprattutto sull'argomento della conservazione che vorrei soffermarmi, perché riguarda non soltanto il tema della manutenzione e del restauro dei beni culturali, ma quello estremamente complesso (e anche enormemente confuso) della formazione e delle qualifiche dei restauratori. Chi sono i restauratori, chi li forma, chi può definirsi tale, chi è (o dovrebbe essere) autorizzato formalmente ad attribuire le relative qualifiche? Il terreno è insidioso e in questo fino ad ora una disciplina chiara ed efficace non è mai stata posta in essere. Un discorso analogo potrebbe riguardare anche gli archeologi (assai meno gli storici dell'arte, figure meglio inquadrabili almeno nei loro aspetti pratici e operativi, anche perché non direttamente interessate, di solito, nelle fasi operative dei cantieri), la cui figura professionale a tutt'oggi sfugge a una normativa chiara e definita. Ma su questo, semmai, vorrei tornare più avanti. L'articolo 29 del Codice, così come risulta dalle modifiche apportate nel marzo 2006, affronta in qualche modo questo delicatissimo problema, anche se a mio parere non ne risolve tutte le questioni connesse. I primi commi dell'articolo 29 chiariscono in modo efficace le terminologie impiegate, ovvero le diverse articolazioni della messa in opera del concetto di conservazione: allo studio preliminare (che non viene chiarito nelle sue specificità, peraltro abbastanza intuitive, nel senso di un approfondito esame della situazione in essere, sia per quanto attiene all'oggetto in sé cui mira la conservazione, nei suoi aspetti anche tecnici e materici, oltre che propriamente culturali, sia per le caratteristiche del degrado in quanto tale) seguono opere di prevenzione, manutenzione e restauro vero e proprio. Importante è chiarire il concetto di prevenzione, perché esso mira a limitare i possibili danni prima che se ne realizzino le condizioni favorevoli. Certamente se si facesse più prevenzione (penso ad esempio all'esposizione alle aggressioni meccaniche e biologiche dei manufatti all'aperto) assai meno radicali e costosi potrebbero essere gli interventi di ripristino. Allo stesso modo occorre insistere sul concetto di manutenzione: la mia esperienza di lavoro comune coi tecnici dell'Istituto centrale per il restauro su un'area archeologica di età romana, nella quale noi conducevamo il nostro lavoro di archeologi, loro quello dei conservatori-restauratori (esperienza molto significativa di collaborazione in contemporaneità, che purtroppo ha di solito riscontri molto rari), mi ha chiarito come un intervento di restauro (metodologicamente corretto e rispettoso il più possibile della storia dell'oggetto, anche dei segni che il tempo gli ha lasciato nei secoli successivi alla sua realizzazione) non sia mai dato una volta per tutte. Continua deve essere l'azione di protezione e appunto manutenzione di quanto si è prodotto nella prima fase dell'intervento, mai risolutiva in toto, soprattutto se l'intervento è stato giustamente poco invasivo e se - come spesso accade per le strutture all'aperto - una certa azione di degrado sia destinata a perdurare nel tempo. E' stato dunque estremamente opportuno chiarire già in linea di principio queste tappe successive, queste differenti modalità nell'azione conservativa.

Un argomento estremamente delicato, come si diceva, e che il testo del Codice affronta nella parte più consistente dell'articolo 29, è quello dei soggetti autorizzati alla formazione dei restauratori e al tema dell'attribuzione della relativa qualifica. Personalmente sono sempre stato convinto che a praticare gli interventi di restauro si impara a bottega, secondo un'antica tradizione artigianale di cui noi Italiani siamo sempre stati maestri nei secoli. E questo è vero ancora oggi: un primato nelle metodologie e nelle tecniche del restauro (archeologico, architettonico, artistico), così come un riconoscimento equivalente agli operatori, sono universalmente riconosciuti al nostro Paese. Le mie esperienze internazionali nell'area del Mediterraneo antico mi hanno più volte confermato in questa convinzione. Come esempio potrei citare la mia ormai lunga attività di direttore di una missione archeologica italiana in Albania, in un sito molto importante vissuto dall'età classica (IV secolo a.C.) fino alla fine di quella bizantina (XV secolo d.C.), la città antica di Phoinike/Fenice, nel sud del Paese. Accanto alla nostra missione, in siti vicini, operano altre missioni straniere: ebbene, sovente alla nostra équipe (che prevede anche restauratori che operano nel consolidamento delle strutture poco dopo lo scavo e i rilevamenti) si rivolgono i colleghi stranieri proprio per pareri o aiuti nel terreno della conservazione, riconoscendo, appunto, al nostro Paese un livello di eccellenza in questo settore che non ha confronti altrove. Apprendere il mestiere a bottega non vuole tuttavia significare una diminuzione del suo spessore metodologico e culturale in genere. Anzi, esattamente il contrario, almeno a mio modo di vedere. Del resto non molto differente, entro certi limiti, è il discorso formativo degli archeologi, per la parte tecnica e operativa. In entrambi i casi si tratta di acquisire tecniche, manualità, uso di strumenti; le differenze stanno ovviamente in un complicato processo di interpretazione, storica in primo luogo ma anche entro i confini più precisi delle discipline archeologiche (di per sé molto "aperti" e sensibili all'apporto multidisciplinare), che riguarda principalmente la figura intellettuale e anche professionale dell'archeologo.

Chiarito, spero, questo punto, vorrei tuttavia indicare ancora una volta l'importanza del ruolo che anche in questo possono e devono avere le Università. Naturalmente non sul piano che ho - forse un po' impropriamente - definito artigianale del mestiere del restauratore, ma piuttosto su quella della formazione che definirei metodologica e culturale. Sul piano della formazione le due branche delle attività connesse ai beni culturali - il ministero e le Università - devono collaborare strettamente, così come dovrebbe essere (ma spesso non è, purtroppo), su quello della ricerca e degli interventi nei territori. In effetti il comma 5 del citato articolo 29 del Codice attribuisce alle Università una sorta di ruolo "collaborativo" nei confronti del ministero dei Beni e delle Attività culturali, precisamente nel definire (cito il testo) "linee di indirizzo, norme tecniche, criteri e modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali". Il che, tutto sommato, in un ambito estremamente parcellizzato e che vede raramente dialogare fra loro i soggetti interessati non è poi poca cosa. Ma non vengono definiti i luoghi istituzionali o almeno le occasioni in cui il confronto possa avvenire. In questo mi pare che ci sia ancora molto da fare.

Lo stesso potrebbe dirsi in materia non di restauro, ma di catalogazione (articolo 17): qui gli apporti reciproci delle diverse Istituzioni (soprattutto ministero e regioni) sono contemplati, ma il ruolo essenziale delle Università pare ridotto piuttosto a margine, quando invece dovrebbe essere centrale, anche per una semplice ragione di economia (in rapporto alle risorse umane disponibili, con la conseguenza di ingenti risparmi, il che vorrebbe dire principalmente poter avviare programmi assai più vasti e numerosi, non riduzione di opportunità di lavoro). Anche qui occorrerebbe maggior chiarezza e soprattutto maggior coraggio, da parte di tutti, e maggiori aperture. In passato su questo argomento si sono operati non raramente interventi di pura facciata, alla fine inutili o quasi. Spesso veri e propri sperperi di denaro pubblico: chi non ricorda la sciagurata operazione, alla fine degli anni ottanta del Novecento, dei cosiddetti giacimenti culturali? Occorrerebbe davvero una normativa adeguata e moderna, che preveda e regolamenti il concorso di più soggetti (Stato, regioni coi loro Istituti specifici, Università, altri enti qualificati sul piano culturale) allo scopo di completare un programma di censimento, base conoscitiva essenziale per ogni successiva operazione, che è stato avviato anche in modo lodevole, al di là delle occasioni perdute, ma che occorre completare e aggiornare.

Ma torniamo al tema della formazione nel campo del restauro. Il Codice stabilisce in via definitiva che gli interventi nel campo del restauro dei beni culturali siano riservati esclusivamente a chi sia in possesso della qualifica di restauratore. Vedremo fra poco le modalità stabilite del pari per acquisire questa qualifica, ma intanto occorre sottolineare come si ponga così termine a possibili improvvisazioni che vadano a scapito della qualità e del rigore nell'intervento conservativo. Il terreno è delicatissimo, come si può facilmente comprendere, e gli interventi devono restare appannaggio esclusivo di chi sia in possesso di idonei requisiti. Vorrei osservare che qualcosa di analogo - ma ancora non regolamentato, purtroppo - accade nel campo della ricerca archeologica. Col proliferare, negli ultimi anni, di società private che hanno in appalto dalle Soprintendenze ricerche e scavi, si sono moltiplicate collaborazioni ai cantieri archeologici del tutto sottratte al benché minimo controllo sull'adeguatezza dei singoli operatori. Archeologi ormai sperimentati sono spesso affiancati da persone del tutto prive di esperienza e capacità. Talora queste ultime sono i soli conduttori degli scavi, e le soprintendenze hanno difficoltà a operare tutti i controlli. Lo scavo archeologico - a maggior ragione se di emergenza, come spesso avviene nelle incombenze degli organi di tutela - è un'operazione chirurgica in certo senso distruttiva e irreversibile, che può recare danni irreparabili, se mal condotta, alla conoscenza storica che da quello scavo si può trarre. Dunque dovrebbe essere condotta soltanto da persone esperte, qualificate, in possesso di attestati di adeguatezza. E' quanto ora viene regolamentato, come si è visto, per il restauro dei beni culturali, e che ancora per il lavoro in archeologia è affidato al caso, all'improvvisazione, talora anche all'inesperienza di una parte almeno degli esecutori, come si diceva. Si potrebbe arrivare all'assurdo che un programma di scavo archeologico sia condotto con queste incertezze e inadeguatezze, mentre soltanto in un eventuale futuro intervento conservativo delle strutture poste in luce si intervenga con la selezione adeguata degli operatori. Un argomento, insomma, che richiederebbe interventi normativi rigorosi, che ancora si attendono.

Il Codice attribuisce ovviamente il ruolo di soggetti accreditati per l'alta formazione ai gloriosi Istituti centrali dello Stato (Istituto centrale per il restauro, Opificio delle pietre dure), ma lascia aperta la possibilità, del tutto plausibile, di istituire altri organismi adeguati, che organizzino corsi di formazioni e rilascino la qualifica di restauratore, ovviamente sottoponendoli a una precisa procedura di accreditamento (articolo 29, comma 9). In questo sarebbe auspicabile un ruolo forte delle Università, che ovviamente nel campo della formazione sono in possesso dei requisiti adeguati. I diplomi attribuiti da questi soggetti a seguito dell'esame finale vengono equiparati alla laurea specialistica o magistrale. In realtà non vedo la necessità e neanche l'opportunità di questa equiparazione: i percorsi formativi sono affatto differenti, la figura professionale prodotta ha specificità molto particolari e diverse da quelle che si ottengono con un percorso di laurea specialistica, almeno per quanto riguarda il campo delle lauree affini in quanto riferibili al settore dei beni culturali (facoltà di Lettere e filosofia o di Conservazione dei beni culturali, con specifici indirizzi archeologico, storico-artistico e simili). Ma su questo non vorrei insistere, perché forse il legislatore ha preso in considerazione aspetti che a me sfuggono, ad esempio nel campo delle normative concorsuali. Resta comunque la differenza assai marcata fra i due percorsi, anche nello spirito dell'ultima riforma della didattica nelle Università italiane.

La nuova normativa (non mutata nei recenti cambiamenti del marzo 2006) lascia aperta la possibilità di istituire, a opera del ministero, delle regioni, "anche con il concorso delle Università" (che al solito sembrano avere nel Codice un ruolo consultivo, mai pienamente propositivo: a mio avviso un limite forte per l'efficacia e la qualità dei provvedimenti), e di altri enti pubblici e privati, appositi centri che programmino attività varie nel campo dei beni culturali, di particolare complessità, anche per la conservazione e il restauro. Essi possono configurarsi come soggetti attivi nell'istituzione di corsi di formazione, purché questi centri abbiano il regolare accreditamento come sopra specificato. La norma, come si vede, è assai elastica: il rischio è quello di veder proliferare istituzioni cui sia reso possibile formare figure professionali nel settore della conservazione senza un adeguato standard tecnico e culturale. E' dunque essenziale che, in questi casi, le procedure di accreditamento da parte dei ministeri (penso in particolare a quello dei Beni culturali e a quello dell'Università) siano quanto mai rigorose e l'opera di vigilanza sulla qualità dei piani formativi sia costantemente in atto. L'aspetto positivo è ovviamente quello del decentramento necessario delle istituzioni, attualmente molto accentrate e poco inclini, per loro natura e per ragioni oggettive, a un contatto diretto coi territori e con le diverse realtà locali. Dunque una nuova normativa interessante e che va incontro alle esigenze del decentramento (peraltro già avviate da norme preesistenti), ma che richiede una continua opera di vaglio e vigilanza.

Infine parte delle norme transitorie finali (articolo 182, comma 1) riguardano le possibilità (molto articolate) di ottenere da subito la qualifica necessaria di restauratore da parte di soggetti in possesso di requisiti particolari. Cito come esempi il possesso di determinati diplomi rilasciati da scuole di restauro statali di durata variabile, oppure forniti di un numero adeguato o documentato di anni di attività professionale (per i quali, in taluni si casi, si richiede il superamento di un esame di idoneità). Queste disposizioni transitorie sono ovviamente inevitabili, in quanto mirano a sanare uno stato di fatto: spesso l'esperienza dei restauratori è tale che può tranquillamente aggirare l'ostacolo del mancato possesso di un diploma, oppure di un diploma insufficiente. Tutto sta, naturalmente, nel rigore necessario con il quale vengano vagliate le singole situazioni.

Il Codice, nella sua ultima stesura, si presenta dunque come un testo molto complesso anche per quanto riguarda il campo della conservazione. Gli aggiustamenti hanno in parte provveduto a correggere distorsioni o a colmare qualche vuoto preoccupante, ma certamente non risolvono tutti i problemi. Abbiamo segnalato quelli relativi al ruolo delle Istituzioni, ad esempio, oppure al vuoto normativo che ancora resta ancorato all'operare degli archeologi. Nel settore del restauro esso fissa alcuni "paletti" e stringe alcuni bulloni, come si diceva, che certamente in precedenza si presentavano pericolosamente traballanti e allentati. Resta il perdurante problema delle risorse, quelle finanziarie soprattutto, come tutti sanno. L'immancabile clausola finale del comma 11 dell'articolo 29, più volte citato, che riguarda l'istituzione di nuovi centri destinati alla conservazione e alla possibile formazione dei restauratori, di cui dicevo, recita: "All'attuazione del presente comma si provvede nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie, disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica", che ancora una volta significa "nozze coi fichi secchi", ovvero che i beni culturali non sono ancora considerati una risorsa primaria del Paese. Il che non può che addensare nubi piuttosto oscure sul futuro delle novità pure introdotte. Ma intanto cercare di mettere ordine nel ginepraio almeno delle risorse umane è stata un'operazione utile.

 

 



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