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Beni culturali: conservazione e valorizzazione

L'amministrazione dei beni culturali e il restauro [*]

di Roberto Cecchi

Nella giornata di studio si sono discussi molti aspetti della tutela del patrimonio culturale. Per cui, trovare un momento di sintesi appare quantomeno arduo e rischierebbe di dare solo un'idea parziale di quel che è stata la mattinata, in cui tantissimi rappresentanti delle fondazioni delle Casse di Risparmio hanno fatto il quadro della situazione di loro specifica pertinenza. Mi par di poter dire che quel che emerge da questo seminario sia abbastanza tranquillizzante sotto vari punti di vista. Non ci sono problemi evidenti da superare. Ma situazioni da registrare e soprattutto, mi pare, emerga la necessità di trovare delle linee comuni per affrontare un tema come quello dei beni culturali che sta diventando sempre di più il Tema.

In questo senso, è importante che in quest'incontro si sia voluto conoscere anche il punto di vista dell'amministrazione dei beni culturali. Perché questo significa che c'è una tendenza fare sistema, mettendo a fattor comune i problemi che il l'insieme della tematica propone. Per cui svilupperò questa mia breve riflessione in due parti. Nella prima cercherò di rispondere ad alcune questioni che sono state poste; nella seconda cercherò di tracciare, riguardo alla mia specifica competenza, i compiti strategici che l'amministrazione dei beni culturali dovrebbe assumere, magari in collaborazione con tutti gli altri soggetti interessati alla salvaguardia del patrimonio culturale.

Nel corso della mattinata, sono stati sollevati problemi che riguardano: rapporti istituzionali tra soggetti finanziatori degli interventi di restauro, i beneficiari e gli uffici preposti al controllo, come le sovrintendenze; l'importanza di prevedere una particolare attenzione per la formazione delle maestranze che lavorano alla conservazione del patrimonio culturale e il significato della manutenzione sia come attività di prevenzione, sia come pratica che dovrebbe far seguito all'intervento di restauro; il problema della capacità di spesa dell'amministrazione dei beni culturali; la creazione di un sistema a rete per la circolazione delle informazioni sulle attività di tutela. Quanto al primo punto, l'individuazione dell'interlocutore rappresenta indubbiamente un nodo importante per la miglior conduzione di un intervento di restauro, sia in fase di programmazione degli interventi, sia in fase esecutiva.

A questo riguardo, attualmente, mi pare che sia formato un quadro di riferimento abbastanza chiaro, perché dalla parte dei beni culturali il soggetto cui è demandato per legge il compito della programmazione degli interventi a scala regionale è il direttore regionale (cfr. decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2004, n. 173, Regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali), che agisce sulla base delle istruttorie predisposte dai sovrintendenti di settore; mentre per la Chiesa la materia è regolata con l'Intesa relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche (decreto del Presidente della Repubblica 4 febbraio 2005, n. 78, d'ora in poi Intesa) stipulata tra il ministro per i Beni e le Attività culturali e il Presidente della Conferenza episcopale italiana [1].

Nell'Intesa si stabilisce che la programmazione si realizzi attraverso la figura del vescovo diocesano, d'intesa coi direttori regionali, come è prescritto agli artt. 1, comma 4, 3 e 4. Non si tratta di una novità. Anche la precedente Intesa prevedeva una procedura analoga. Gli esiti sul territorio non sono sempre stati gli stessi ovunque; in molte regioni l'Intesa si è realizzata. In molte altre non si è mai concretizzata. Le ragioni dipendono, da una parte, da una "naturale" resistenza a modificare l'abitudine consolidata di programmare in proprio e, dall'altra, dalla sfiducia nella strategia del confronto e nella ricerca di sinergie. Il nuovo assetto dei beni culturali - peraltro in corso di nuova, ulteriore modifica - dovrebbe migliorare il sistema delle intese. Quanto alla questione della manutenzione, è uno degli argomenti di maggior attualità nel dibattito disciplinare. Fortunatamente, questo termine ha trovato spazio anche nel dispositivo di legge dell'art. 29 del Codice dei beni culturali e del paesaggio [2], perché oggi, si preferisce parlare di Conservazione e di Manutenzione, volendo significare con questo che il nostro operare sull'esistente tende prevalentemente ad interventi mirati al solo mantenimento dell'efficienza degli elementi costitutivi degli edifici e quindi che non comportino: 1) mutamenti nella distribuzione o nel sistema statico, 2) sostituzione di materiale se non in misura quantitativamente irrilevante di parti ripetitive componenti un sistema e non riparabili, 3) alterazione delle superfici esterne e di quelle interne [3].

Sul piano disciplinare, va rilevato che al termine manutenzione da qualche tempo si è aggiunto quello di controllo, per sottolineare che la cura sistematica e consapevole della fabbrica costituisce di per sé un momento essenziale della manutenzione; se non la sua stessa sostanza, che oggi si avvale di strumenti anche estremamente raffinati, in grado di individuare con molto anticipo manifestazioni di degrado e suggerire appropriati criteri di prevenzione.

Ma potrebbero bastare, anche se può sembrare un paradosso, anche indicazioni molto più semplici, come le istruzioni dettate dal cardinal Carlo Borromeo nel corso del V Concilio provinciale del 1579 e promulgate cinque anni dopo, il 18 aprile 1584, in occasione dell'XI sinodo: "Regulae et instructiones de nitore et munditia ecclesiarum, altarium, sacrorum locorum, et supellectilis ecclesiasticae." Un ricettario che può essere tranquillamente messo in discussione. Ma non il suo valore programmatico. Perché con quei precetti, che oggi appaiono così naif e possono far sorridere i cultori delle scienze esatte, si dispone l'attenzione verso il patrimonio, si punta il dito sulla necessità di una cura del quotidiano. Quella che oggi chiameremmo "manutenzione ordinaria", oppure usando gli ultimi strumenti della critica "manutenzione programmata". Ma che in realtà non si fa mai, perché si preferisce lasciare tutto lo spazio all'intervento di restauro risolutore, all'evento. Non c'è un dispositivo che sia uno - se non la buona volontà dei singoli - che imponga quella quotidianità del minimo intervento imposto dalle Regulae: "[la chiesa] innanzi tutto [sia ripulita] due volte l'anno, una prima del giorno di Natale, l'altra prima della solennità della Pentecoste, sia ripulita con diligenza dalla polvere, dalle ragnatele e da ogni sporcizia, dal pavimento al soffitto, la superficie interna di tutta la chiesa e delle cappelle per mezzo di operai esperti in tali lavori. Lo stesso si faccia per la facciata della chiesa, se essa è soggetta a raccogliere polvere o altra sporcizia per via della sua decorazione (...) le opere di scultura, le figurazioni in terracotta, le parti a cesello, soprattutto se dipinte o dorate, siano trattate con delicatezza e siano pulite anche più sovente, se necessario, usando per l'operazione pennelli morbidi o spazzolini di erbe palustri a mo' di piume (...) Le parti ruvide di strofinino con acqua e sabbia; quelle levigate con acqua e cenere. Le parti da lucidare si trattino con un impasto di vetro polverizzato e un panno di feltro (...) ogni mese, se possibile, si ripulisca la superficie interna della chiesa e delle cappelle sin dove si può arrivare da terra con una scopa legata ad una canna o ad una lunga pertica; (...) il pavimento in legno del coro si strofini per bene con un panno piuttosto ruvido (...) le finestre, se poste in alto, si ripuliscano insieme al resto della chiesa, nel modo già prescritto; se sono in basso, si detergano con spazzole di saggina o una spugna umida e si asciughino con un panno di lino (...) le finestre della sagrestia siano aperte spesso, quando il tempo è asciutto e sereno; allora si aprano un po' i cassetti e gli armadi, affinché anche ciò che vi è contenuto tragga beneficio dall'aria".

Quanto alla capacità di spesa dell'amministrazione dei beni culturali per il restauro del patrimonio, è un argomento complesso che solitamente viene liquidato affermando che non si ha una mentalità adeguata ad operare in termini di efficienza ed efficacia, da cui discenderebbe che si lasciano da una parte, inutilizzate, risorse finanziarie anche imponenti. Anche di recente una sovrintendenza importante come quella veneziana è stata sbattuta in prima pagina perché avrebbe accumulato un residuo di ben ventidue milioni di euro. Una cifra consistente che giacerebbe nelle casse dell'ufficio e non verrebbe utilizzata. Da cui si fanno discendere esiti estremamente negativi non solo in termini di conservazione del patrimonio, che non realizzando gli interventi programmati non viene curato, ma negando anche la possibilità di realizzare altri interventi urgenti e incidendo negativamente perfino sui livelli occupazionali della stessa città lagunare. Accuse davvero pesanti che farebbero emergere neppure troppo velatamente profili di responsabilità amministrativa.

In realtà, la situazione è molto diversa da come viene rappresentata. Quell'ufficio sta realizzando uno dei più importanti progetti di ampliamento museale che siano in corso in Italia e cioè il raddoppio dello spazio espositivo delle Gallerie dell'Accademia e il restauro di Palazzo Grimani. Dai dati contabili è facile osservare che quasi tutto il residuo di cui si parla è impegnato. Questo significa che si sono fatti i progetti. Si sono fatti gli appalti. Si stanno eseguendo i lavori che vengono pagati per stati d'avanzamento. Progetti importanti che è previsto che si realizzino in un arco di tempo che va ben al di là dell'anno. Da cui discende che quelle risorse nelle disponibilità dell'amministrazione periferica non sono residui passivi, ma fondi a disposizione per onorare i contratti stipulati. Ma ad una lettura contabile superficiale, da conto corrente "tanto entra-tanto esce", sono indubbiamente fondi non spesi. Questo non significa che tutto sia a posto e che non ci siano problemi a realizzare i progetti programmati, ma sono problemi molto più contenuti e risolvibili di quanto non si voglia far apparire [4].

L'ultimo degli argomenti che mi ero proposto di trattare - la creazione di un sistema a rete per la circolazione delle informazioni sulle attività di tutela - mi consente di introdurre la seconda parte di questa riflessione relativa ai compiti strategici che l'amministrazione dei beni culturali dovrebbe assumere, magari in collaborazione con tutti gli altri soggetti interessati alla salvaguardia del patrimonio culturale.

Non c'è dubbio che la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale passino attraverso la conoscenza. Che non è una conoscenza una volta per tutte. Non è una schedatura che propone valori di fissità. E' una conoscenza che si alimenta di apporti continui e per questo non può essere una conoscenza circoscritta al singolo, all'amministrazione, allo studioso. E' una conoscenza che si fa tale nel tempo. Il disposto dell'art. 12 del Codice impone quantomeno per il patrimonio pubblico l'adozione di un sistema informatizzato che abbia la capacità di assolvere a questo compito.

Il sistema informativo messo a punto [5] per la verifica dell'interesse culturale non nasce con l'obiettivo primario di effettuare un censimento del patrimonio pubblico di interesse culturale, quanto piuttosto con lo scopo di informatizzare un procedimento amministrativo per consentirne una maggior speditezza. La banca dati è una conseguenza, alla quale ovviamente l'amministrazione mirava come risultato. Oggi il ministero per i Beni le Attività culturali dispone di uno strumento che consente la gestione informatizzata dei beni vincolati. Una banca dati del patrimonio in continua evoluzione, sempre aggiornata e a costi ridottissimi. I vincoli emessi con questo sistema (enti pubblici e persone giuridiche private) negli ultimi due anni sono circa duemila. La cifra non è irrilevante, se si pensa che dal 1902 al 2002, secondo un censimento condotto di recente, sono stati vincolati complessivamente, tra beni pubblici e privati, circa 50.000 edifici (una media di 500 l'anno).

Da diversi anni il ministero dei Beni culturali sta cercando di raggiungere questo semplice risultato: conoscere la consistenza, la dislocazione e lo stato di salute del patrimonio culturale. L'automatismo della tutela operante ai sensi della normativa previgente il Codice di fatto non ha sospinto l'amministrazione a conoscere la reale consistenza dei beni d'interesse storico artistico, perché si faceva molto affidamento sulla nebulosa della tutela ope legis. Per far fronte a questo stato di cose, in tempi diversi e con strumenti diversi l'amministrazione dei beni culturali ha impegnato notevoli risorse, costituendo più banche dati distinte con contenuti e finalità differenti.

Nonostante i molti sforzi profusi e le risorse impegnate, non esiste ancora uno "strumento" che si possa definire tale. Si tratta di sistemi che tendono ad "acquisire" piuttosto che a "restituire" informazioni. Spesso sono strumenti di conoscenza "pura" che non contemplano la possibilità di collocare il bene nella dinamica del contesto reale. Inoltre, la tendenza di questi sistemi è di essere onnicomprensivi e questo paradossalmente li rende deboli, perché pretendono l'esaustività nell'acquisizione di informazioni che attengono ad ambiti disciplinari diversi e fanno riferimento a competenze istituzionali di molti soggetti. Il sistema informativo messo a punto si propone di diventare il luogo in cui far confluire e rimettere in linea i dati fin qui raccolti, senza la necessità di costituire un'unica banca dati, ma avendo cura di creare quel sistema a rete che si avvale della conoscenza e dell'esperienza di molti in termini di condivisione delle risorse di ciascuno. La parola chiave è il principio dell'interoperatività.

La messa a punto di questo sistema è ancora più rilevante se si riflette sul fatto che il tema più importante per la salvaguardia del patrimonio culturale immobile è quello della sua prevenzione dal rischio sismico che, a sua volta, è soprattutto un problema di conoscenza [6]. Per raggiungere l'obiettivo di mettere in sicurezza il sistema dei beni culturali, la strada da percorrere non è né quella dei grandi progetti, né l'impiego di ingenti risorse finanziarie. L'esperienza del passato dimostra che ogni qual volta che si è intrapreso questa strada, s'è visto prender corpo progetti velleitari che hanno dimostrato sempre la loro inadeguatezza e "volatilità" a risolvere veramente i problemi posti dal patrimonio culturale. La soluzione va ricercata nella possibilità di ancorare questo sistema agli ordinari procedimenti amministrativi che si svolgono quotidianamente sul territorio (sovrintendenze). La verifica della sicurezza non dovrà essere un'operazione da fare una tantum. Deve diventare una prassi che si esercita almeno tutte le volte che si intende por mano ad un bene tutelato.

Dunque, si tratta di un operazione complessa e capillare che investe l'intero territorio nazionale, ma c'è da ritenere che abbia importanti ricadute oltre che sul piano della tutela, anche su quello occupazionale per figure professionali di alto livello (ingegneri e architetti) e che può creare prospettive interessanti per il mondo imprenditoriale, anche nel panorama internazionale [7]. Per questo è indispensabile mettere a punto un accurato programma di aggiornamento che interessi il mondo della professione e dell'amministrazione della tutela (i beni culturali, ma anche le amministrazioni regionali e locali) e che sia in stretta collaborazione con l'università nella prospettiva di coniugare sviluppo e sicurezza. Per passare dalla logica dell'emergenza a quella della prevenzione e della tutela.

 

Note

[*] Testo della relazione discussa nel seminario Acri su Beni culturali: conservazione e valorizzazione, svoltosi a Roma il 24 gennaio 2007

[1] Si tratta di un documento rilevante e non è un semplice aggiornamento di quello sottoscritto il 13 settembre 1996, soprattutto perché si riserva un' attenzione particolare a temi cruciali come l' "(...) inventariazione e catalogazione dei beni culturali mobili e immobili, la loro sicurezza e conservazione, il prestito di opere d'arte per mostre ed esposizioni, l'adeguamento liturgico delle chiese".

[2] Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, d'ora in poi Codice.

[3] L'art. 29 del Codice al comma 3) propone questa definizione: "Per manutenzione si intende il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell'integrità, dell'efficienza funzionale e dell'identità del bene e delle sue parti." Quella proposta nel testo è l' esito di un breve scambio epistolare di qualche anno fa con Amedeo Bellini, che aveva come spunto il volume pubblicato a cura del Collegio degli ingegneri di Milano, 1. Gli interventi di restauro, Comune di Milano, Ripartizione edilizia privata - Associazione imprese edili della provincia di Milano - Quaderni illustrativi del Regolamento edilizio del comune di Milano, Milano 1986, alla voce 'Manutenzione'. E' utile trascrivere altre definizioni recuperabili in letteratura e allegate al testo citato: R. Pane 1967, Carta di Venezia, 1964, art. 4, La manutenzione deve attuarsi il più possibile come pratica di prevenzione del degrado attraverso la protezione e l'uso appropriato evitando nei limiti del possibile la sostituzione; p. 10: "la distinzione tra il restauro e la manutenzione: distinzione puramente quantitativa e non qualitativa, dato che entrambi si propongono il compito della conservazione e che lo spolverare un quadro o una pietra incisa è opera che esige una tecnica, per quanto semplice essa sia; e sarà anzi la ininterrotta continuità della manutenzione a rendere meno compromettente o sostanziale l'opera del restauratore poiché consentirà interventi parziali e distanziati nel tempo e non il rifacimento di vaste pratiche il lungo abbandono ha cancellato ha reso vaghe e incerte"; P. Sanpaolesi 1973, p. 164: "Possono essere considerate opere di manutenzione quelle d'ogni giorno, intese (...) a mantenere sistematicamente in efficienza e in condizioni d'uso normale gli edifici monumentali che hanno già una destinazione e la conservano, ivi compresi qualche volta i lavori di manutenzione straordinaria di qualche struttura, dei tetti, infissi, impianti vari ecc. e quelle similari che possono assumere entità di una certa portata tecnologica e dimensionale"; M. Dezzi Bardeschi 1977, p. 94: "Occorre svincolare il termine di manutenzione dall'uso estensivo e arbitrario, in definitiva perverso, che, per radicata tradizione, continua a farne il mondo imprenditoriale. Sotto questa parola infatti, negli appalti, si nascondono di solito le più grossolane e distruttive operazioni che tradizionalmente si consumano senza nessuna particolare attenzione, a scapito dei materiali più poveri o a ciclo di degrado più accelerato. Così ad esempio la manutenzione ossia la 'revisione delle coperture' significa (nei capitolati d'appalto e nella realtà) lo smontaggio integrale delle orditure del letto e la loro sostituzione con nuovi elementi. Analogamente si fa per i pavimenti, spesso anche per i solai e per ogni elemento strutturale che presenti un minimo di segnale di degrado. E ancora più, per prassi consacrata, per gli intonaci e in generale per tutti gli elementi ad essi assimilabili ancor oggi considerati con disinvoltura non parte integrante della fabbrica storica, ma come parti di ricambio periodico, al pari delle tinteggiature che ad essi si sovrappongono"; A. Bellini 1984: "Tuttavia l'esperienza dimostra con grande evidenza che la tutela limitata non giova neppure agli oggetti privilegiati, a meno che essi non siano del tutto estranei ai circuiti economici e sfuggano nonostante ciò alla obsolescenza per abbandono. D'altronde la tradizione del restauro, mentre avvalla di fatto distruzioni e sostituzioni materiali attraverso l'equivoco critico della sostanziale permanenza dei 'valori', in definitiva sempre e soltanto formali, sminuisce di fatto l'importanza della pur sempre affermata necessità di sostituire il restauro con la manutenzione".

[4] Gli esiti di una ricerca intrapresa nel 2005, all'interno di tutti gli uffici dell'amministrazione del cosiddetto settore "Arti", tra le altre cose ha potuto accertare che sul lungo periodo la capacità di spesa complessiva dei singoli Istituti è piuttosto buona e pari ad un valore percentuale di 75,76 % (importo speso/importo accreditato); i valori rilevabili nei singoli gruppi di soprintendenze (BA, BAP, BAP_PSAE, PSAE) definiscono un valore medio percentuale di importo speso/importo accreditato superiore al 50%, con limitati casi di Soprintendenze con capacità di spesa inferiore; l'analisi del settore lavori attraverso i capitoli di spesa che, in senso stretto, riguardano gli interventi sui beni culturali ha messo in evidenza un valore dell'importo delle obbligazioni piuttosto elevato; questo identificherebbe una buona capacità operativa fino alla fase di stipula del contratto, con rallentamento nella fase successiva di esecuzione lavori; il trend riferito ai capitoli dei lavori degli anni 1997-2001 sembra essere migliore rispetto a quello riferito ai capitoli di spesa degli anni 2002-2004; nel settore lavori, la normativa vigente impone una procedura di appalto che non può prescindere dall'approvazione dell'intero importo dell'intervento con conseguente, inevitabile formazione di passività dovute alla durata dei lavori; da qui la necessità di impostare un processo di verifica della capacità di spesa che si svolga sul medio-lungo termine e non su scadenze ravvicinate (di tipo mensile).

[5] Il sistema informativo per la verifica dell'interesse culturale è accessibile al sito del ministero.

[6] Cfr. R. Cecchi e Michele Calvi (coordinamento), Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale, Roma, dicembre 2006, pp. 79.

[7] E' stato correttamente osservato (cfr. Rita Borioni (a cura di), Beni di tutti e di ciascuno. Il difficile equilibrio tra pubblico e privato nella politica per i beni culturali, Italianieuropei, Fondazione di cultura politica, Roma 2006) che la grande specializzazione delle nostre imprese di restauro non trova spazio sullo scenario internazionale. Queste maestranze altamente qualificate non "sfondano" oltre i confini nazionali e questo viene letto come una debolezza dell'imprenditorialità nostrana. In realtà, questa difficoltà a trovare sbocchi oltre frontiera va ricercata anche nel fatto che i nostri criteri di restauro non appartengono al patrimonio della collettività internazionale (nonostante i buoni propositi che animano lo scenario Unesco con la cosiddetta Carta di Venezia del 1964), dove domina, prevalentemente, il principio del cosiddetto restauro analogico-stilistico, cui poco importa della conservazione della materialità della fabbrica. Lì, ciò che vale è la conservazione dell'immagine del bene nella sua presunta unitarietà stilistica originaria. Per cui, il restauro è spesso un semplice intervento edile di demolizione e ricostruzione. L'esatto contrario dei nostri modi del progetto di conservazione. Mentre ritengo che sulla questione della prevenzione sismica il discorso potrebbe essere molto diverso in termini di esportabilità del sistema.



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