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I limiti della potestà legislativa regionale in materia
di formazione professionale nella tutela dei beni culturali
(Nota a sentenza 9/2004)

di Claudia Tubertini


Sommario: 1. Il contesto normativo di riferimento. - 2. Il restauro quale "attività fondamentale" della tutela dei beni culturali. - 3. La formazione professionale nel campo dei beni culturali: limiti esterni e limiti interni alla competenza legislativa delle regioni. - 4. Formazione degli operatori del restauro e nuovo codice dei beni culturali.



1. Il contesto normativo di riferimento

La Corte Costituzionale sta svolgendo, in questa fase di prima attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, un ruolo di grande rilievo nella definizione dei nuovi confini tra competenza legislativa statale e regionale: ed il settore dei beni culturali, con il difficile discrimine tra "tutela" (come materia esclusiva statale) e "valorizzazione" (come materia concorrente), rappresenta uno degli esempi più emblematici della complessità di questa opera interpretativa [1]. La sentenza n. 9 del 13 gennaio 2004 si inserisce in questo filone, contribuendo alla definizione delle competenze legislative in un sub-settore di particolare rilievo della materia, cioè il restauro. Ma l'interesse suscitato da questa pronuncia non si limita a questo aspetto, poiché viene esaminato anche l'ambito di applicazione di un'altra materia di competenza legislativa regionale: la formazione professionale, nelle sue possibili sovrapposizioni con la tutela dei beni culturali.

La sentenza respinge infatti la questione di legittimità sollevata dalla regione Toscana, per violazione della propria competenza esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale, nei confronti della disciplina regolamentare statale dei requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori di lavori di restauro e manutenzione di beni immobili e superfici decorate di beni architettonici dettata dall'art. 3 d.m. 24/10/2001, n. 420 (adottato in sostituzione dell'articolo 7 del d.m. 3/8/2000, n. 294).

Prima di addentrarsi nelle argomentazioni della Corte, è bene richiamare il contesto nel quale si inserisce la norma oggetto di impugnazione. Essa, infatti, fa parte di un sistema normativo (composto dal d.p.r. 554/1999, regolamento attuativo della legge Merloni [2] e dalla disciplina generale dei requisiti di qualificazione delle imprese appaltatrici, dettata dal d.p.r. 34/2000) che è stato oggetto di forti contestazioni per l'originaria impostazione, che estendeva il regime generale dei lavori pubblici alle attività di restauro e manutenzione di beni culturali [3].

Proprio queste contestazioni hanno portato ad un successivo ripensamento del legislatore e ad all'introduzione di un regime parzialmente differenziato per gli appalti aventi ad oggetto beni del patrimonio culturale, che tenesse conto della specialità dei lavori da eseguire e fosse maggiormente conforme alle esigenze di garanzia di qualità dell'intervento.

In questo quadro si colloca anche l'introduzione di un regime speciale per la qualificazione dei soggetti abilitati ai lavori di restauro e manutenzione, dove ad una prima definizione dei requisiti (operata con il d.m. 294/2000), ne è seguita un'altra, più stringente, ad opera del regolamento impugnato [4].

In base a questa ultima disciplina, la qualifica di restauratore valevole ai fini dell'ammissione ad eseguire lavori di restauro e manutenzione di beni mobili e superfici decorate di beni architettonici per conto dello Stato o di enti pubblici nazionali, è solo quella conseguita presso una scuola di restauro statale, ovvero, quella conseguita ad esito di un corso di laurea specialistica in conservazione e restauro del patrimonio storico-artistico. Solo coloro che già possiedano un diploma ottenuto presso una scuola regionale possono essere ammessi, a determinate condizioni (art. 7, comma 2, lett. a e c) all'esecuzione dei predetti lavori. Rispetto alla disciplina dettata dal d.m. 294/2000, è stata quindi eliminata la possibilità di ottenere tale qualificazione con la frequenza di corsi di formazione regionale.

Questa disciplina viene ritenuta dalla Corte riconducibile alla competenza esclusiva statale in materia di tutela dei beni culturali, e quindi, pienamente compatibile con il nuovo riparto costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni.

 

2. Il restauro quale "attività fondamentale" della tutela dei beni culturali

Per giungere alla conclusione appena richiamata, la Corte parte dalla ricerca della sussistenza di una competenza esclusiva dello Stato idonea a suffragare la legittimità costituzionale della norma regolamentare impugnata, implicitamente richiamando l'articolo 117 comma 6 Cost., il quale (come la stessa Corte ha già avuto modo di precisare) rende illegittimo l'esercizio della potestà regolamentare statale in materie non appartenenti alla sua competenza esclusiva.

Questo percorso argomentativo risulta particolarmente utile nel caso di specie, in quanto consente alla Corte di tralasciare il difficile tema del riparto di competenza tra Stato e Regioni nella materia dei lavori pubblici (materia nella quale, per ragioni di carattere sistematico, ben avrebbe potuto essere ricondotta la norma impugnata), in quanto certamente non compresa nell'elenco delle competenze esclusive statali [5], per passare alla ricerca di un altro possibile titolo di competenza statale.

Proprio la "specialità" del regolamento impugnato rispetto alla disciplina dei lavori pubblici (da cui pure trae fondamento), specialità dovuta alla particolare natura dei beni sui quali vengono svolti i lavori, fonda, secondo la Corte, la sua riconducibilità all'ambito - ritenuto prevalente - dei "beni culturali".

E' su questo presupposto che viene dunque verificata la possibilità di collocare il regolamento in questione nella sfera della tutela dei beni culturali, di competenza esclusiva statale; e tale verifica viene operata attraverso una ricostruzione analitica del riparto di competenze amministrative tra Stato e Regioni operato dal d.lg. 112/1998 (ed in particolare, dagli artt. 148-152) e delle definizioni in esso contenute, con l'intento di cogliere la continuità tra le scelte del legislatore ordinario e la successiva riforma costituzionale.

La Corte poi prosegue con argomentazioni specifiche per giustificare la distinzione tra "restauro" vero e proprio ed "interventi conservativi" rientranti nella valorizzazione, che vengono distinti secondo il duplice e concorrente criterio della natura dell'intervento (che incide sulla stessa struttura materiale del bene solo nel primo caso) e della prevalente finalità (conservazione o recupero, nel primo caso; miglioramento delle condizioni di fruizione, nel secondo caso).

Non è certo la prima volta che la Corte fa ricorso alle definizioni contenute nel d.lg. 112/1998 per risolvere questioni di costituzionalità, e, soprattutto, per compiere un'actio finium regundorum tra tutela e valorizzazione E' significativo, tuttavia, notare come in questa sentenza essa abbia optato per un uso combinato del criterio di tipo finalistico (destinazione dell'intervento al prevalente scopo di tutela) e di quello tipologico-contenutistico (effetto prevalentemente conservativo dell'attività), entrambi presenti nelle pieghe del d.lg. 112/1998. In altri casi, anche recenti, l'applicazione in via preminente del criterio di tipo contenutistico-tipologico ha invece consentito di salvare disposizioni legislative regionali chiaramente ispirate a finalità di tutela. Così è stato, in particolare, nella sentenza n. 94/2003, nella quale la Corte ha escluso la riconducibilità alla "tutela" di disposizioni della legge regionale Lazio n. 31/2001 sulla tutela dei locali storici, in quanto non aventi un effetto conformativo della proprietà dei relativi beni [6].

L'effetto del ricorso combinato ai due criteri è l'accoglimento di una nozione assai ampia di tutela, considerata come ogni attività volta in via prevalente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica; in tal senso, il restauro è riconducibile a pieno titolo nella tutela, anzi, costituisce "una delle attività fondamentali in cui si esplica", in quanto volto a mantenere l'integrità materiale e ad assicurare la conservazione e la protezione del bene (secondo la definizione operata dall'art. 34 del testo unico dei beni culturali, d.lg. 490/1999). E' significativo come, una volta accolta questa ampia nozione di tutela, la Corte non sviluppi il tema della distinzione tra restauro e manutenzione (che pure costituisce l'altro espresso ambito di applicazione del regolamento impugnato), considerandoli quasi una endiadi.

Alla luce di questa ampia nozione di tutela, assumono un particolare significato anche le affermazioni della Corte, volte a sostenere - al di là di quanto necessario in considerazione del thema decidendum - la piena ragionevolezza della scelta operata dalla riforma costituzionale nella direzione di una riserva allo Stato della competenza in materia di tutela dei beni culturali.

Tale scelta è giustificata, secondo la Corte, non solo da ragioni di continuità e coerenza rispetto all'assetto normativo previgente, ma anche dalle caratteristiche e dalle peculiarità del patrimonio storico-artistico italiano, i cui beni "vanno considerati nel loro complesso come tutt'uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato", e la cui tutela appare quindi - sembra dire implicitamente la Corte - una funzione di rilievo nazionale, unitaria e non frazionabile.

Certamente, queste affermazioni non sono passate inosservate al legislatore statale, nel momento in cui è stato dettato il nuovo assetto delle competenze statali e regionali nel settore dei beni culturali. L'occasione è stata la redazione del Nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42), la cui pubblicazione è stata immediatamente successiva a quella della sentenza 9/2004.

Sotto questo profilo, va notato, in primo luogo, come il nuovo codice ricomprenda nella nozione di "tutela" anche le attività dirette a garantire "la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione" dei beni costituenti il patrimonio culturale (art. 3 comma 1) definendo, per converso, la valorizzazione come il complesso delle attività di intervento integrativo e migliorativo, finalizzate in maniera più diretta alla fruizione (art. 6) [7]; in secondo luogo, come venga adottata una nozione assai ampia della stessa conservazione, che comprende, gradatamente, la prevenzione, la manutenzione, ed infine, il restauro, considerato come l'extrema ratio dell'intervento di conservazione, finalizzato nel suo insieme all'integrità materiale del bene (art. 29).

E' evidente, quindi, che la nuova definizione operata dal codice ha lo specifico obiettivo di ricondurre il più possibile nella nozione di tutela tutti gli interventi conservativi, riducendo, in particolare, il residuo margine di incertezza circa l'appartenenza o meno della manutenzione all'ambito della tutela [8].

 

3. La formazione professionale nel campo dei beni culturali: limiti esterni e limiti interni alla competenza legislativa delle regioni

Proseguendo l'analisi della motivazione, va ora posta l'attenzione sulle argomentazioni svolte per escludere la violazione di un titolo di competenza regionale, ed in particolare, la materia "formazione professionale", unanimemente ricondotta in dottrina nell'alveo della competenza di tipo esclusivo o residuale delle Regioni ex art. 117 comma 4 Cost. [9].

Seguendo lo stesso approccio "contenutistico" utilizzato nella prima parte della sentenza, la Corte giunge a sostenere che la norma impugnata non interviene all'interno della materia "formazione professionale", non contenendo prescrizioni in ordine al percorso formativo, né ai requisiti di ammissione, al reclutamento ed allo status dei docenti; il suo ambito di applicazione, infatti, è circoscritto alla identificazione dei soggetti abilitati a svolgere attività di restauro per conto dello Stato o di enti pubblici nazionali. Proprio la materia dei lavori pubblici, che nella prima parte della sentenza era stata considerata non conferente, torna a giustificazione dell'estraneità dell'atto alla materia della formazione professionale.

Pur non volendo contestare l'ineccepibile conclusione della Corte, è chiaro che la norma impugnata incide di fatto sull'ambito materiale della competenza regionale in materia di formazione professionale, anche se il suo ambito di applicazione è limitato alla sola esecuzione di lavori commissionati dallo Stato o da enti pubblici nazionali, considerata l'ampia riserva allo Stato dei compiti amministrativi relativi alla tutela [10] dei beni culturali.

In effetti questa disciplina, pur senza intervenire in via diretta a precludere alle regioni l'esercizio di una attività formativa in questo settore, esclude che la frequenza di un corso di formazione regionale possa avere rilievo per lo Stato, a prescindere dal percorso formativo svolto (e quindi, al limite, anche nel caso in cui il corso regionale fosse equiparabile, per contenuti, durata e requisiti dei docenti, a quello statale).

Particolarmente penalizzante è anche la disciplina prevista per la fase transitoria, in quanto coloro che attualmente frequentano una scuola regionale, senza aver ancora terminato il proprio percorso formativo, non hanno la possibilità di conseguire il titolo di "restauratore" valevole per l'accesso ai restauri eseguiti per conto dello Stato o di enti pubblici nazionali: una lacuna, questa, che la Corte non ha ritenuto opportuno valutare in quanto non ricadente nel profilo della lesione di competenze legislative regionali.

Al di là di queste considerazioni, ciò che si può desumere dalla sentenza, in relazione alla competenza legislativa delle regioni in materia della "formazione professionale", è l'esistenza di un generale limite "esterno" consistente nella facoltà del legislatore statale di porre limiti di efficacia ai titoli formativi rilasciati dalle regioni, considerandoli non validi, se l'attività da svolgere (in tal caso, il restauro) si esplica in un ambito materiale di competenza esclusiva dello Stato (come la tutela dei beni culturali).

A questo punto, occorre tuttavia chiedersi se, oltre a questo limite "esterno", la competenza regionale in materia di formazione professionale possa subire altri più rilevanti limiti quando l'attività professionale ricada in un ambito di competenza esclusiva statale, come la tutela dei beni culturali. In altre parole: lo Stato può, per esigenze di garanzia della professionalità degli esecutori di lavori di restauro, imporre standard formativi comuni su tutto il territorio nazionale, o, in maniera ancora più stringente, riservare a scuole statali la formazione degli operatori dei beni culturali?

Questa domanda ha una portata ben più vasta dell'ambito qui considerato, potendo essere configurabili molte altre ipotesi nelle quali l'oggetto di una attività professionale, per la quale le regioni intendano assicurare la formazione, ricada in una competenza esclusiva statale; sotto questo profilo, ci si potrebbe chiedere anche se l'"attrazione" della formazione professionale degli operatori di un settore entro la materia in cui si svolge l'attività operi sempre ed in via automatica, ovvero, per giustificare tale attrazione, sia necessario ricercare un ulteriore e più stringente fondamento alla competenza dello Stato, come, ad esempio, la competenza statale in materia di "norme generali sull'istruzione" o, ancora la "tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali" ai sensi dell'art. 117, lett. m), Cost. [11].

Sotto questo profilo, la sentenza non offre un particolare ausilio, nonostante nel corso del giudizio dall'Avvocatura dello Stato avesse sostenuto come sia indispensabile la fissazione da parte dello Stato di "criteri unici" che garantiscano l'omogeneità non solo nelle metodologie di intervento, ma anche nella didattica, in considerazione del rilievo rivestito dal restauro dei beni culturali per il nostro paese.

La Corte, infatti, non ha preso posizione in merito, tralasciando volutamente di indagare "se la formazione professionale comprenda anche quella dei restauratori" (cfr. § 8 dei considerato in diritto); e, viceversa, se la tutela dei beni culturali comprenda anche la formazione professionale dei restauratori.

E' tuttavia evidente che le argomentazioni della Corte, unite agli affetti concreti della norma impugnata, pur senza portare direttamente ad una riserva allo Stato della formazione degli operatori del restauro, forniscano un'ampia sponda in questa direzione, vanificando il significato di una formazione professionale differenziata in ambito regionale.

 

4. Formazione degli operatori del restauro e nuovo codice dei beni culturali

Alla luce delle considerazioni sinora svolte, si comprende il senso e la portata delle recentissime scelte effettuate dal legislatore statale nel settore della formazione degli operatori del restauro. Si allude, in particolare, ai commi 7-10 dell'art. 29 del già citato nuovo codice dei beni culturali.

Il fulcro di queste disposizioni - largamente ispirate ad disegno di legge, di iniziativa del Ministro Urbani, approvato dal Consiglio dei ministri il 30 agosto 2002 ("Disciplina dell'insegnamento del restauro dei beni culturali"- A.S. 1955) e mai giunto ad approvazione - è infatti la generalizzazione delle previsioni contenute nella disciplina dei requisiti di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici, in modo da renderle valevoli anche al di fuori di quell'ambito, ma soprattutto l'introduzione di un percorso formativo uniforme su tutto il territorio nazionale per i restauratori.

Sotto i primo profilo, si riserva allo Stato la potestà di disciplinare in via regolamentare i profili di competenza dei restauratori e degli altri operatori svolgenti attività complementari al restauro, o altre attività di conservazione dei beni culturali. Il coinvolgimento delle regioni - proprio in considerazione della loro competenza in materia di formazione professionale - è previsto nella forma dell'intesa in Conferenza Stato-Regioni.

Sotto il secondo profilo, invece, i criteri ed i livelli di qualità cui deve conformarsi l'insegnamento del restauro vengono riservati alla disciplina statale, nella forma di un decreto ministeriale adottato con il semplice parere della Conferenza Stato-Regioni.

Ma la competenza dello Stato non si limita alla definizione degli standards di qualità della formazione professionale dei restauratori, bensì copre anche in maniera rilevante la loro stessa formazione.

Da un lato, infatti, viene confermata l'attribuzione alle scuole di formazione e studio istituite ai sensi dell'art. 9 del d.lg. 368/1998 del compito di impartire l'insegnamento del restauro; dall'altro, si prevede un canale concorrente di formazione, impartita da soggetti pubblici e privati che si sottopongano ad una procedura di accreditamento - presso lo Stato - sulla base di criteri e procedure definite da un regolamento ministeriale (con il solo parere della Conferenza Stato-Regioni).

Nessuna particolare preferenza o riconoscimento vi è quindi per le Regioni, che, da un lato, sembrano essere escluse dalle procedure di accreditamento e dalla relativa vigilanza; possono invece concorrere, come gli altri "enti pubblici", alla formazione, sottoponendosi però al previo "accreditamento statale". Diversa, invece, è la disciplina dettata per la formazione delle figure ausiliarie, per la quale si rinvia alla legislazione regionale, che dovrà comunque attenersi agli standards di qualità definiti (in questo caso) dallo Stato, previo accordo con le Regioni.

La portata innovativa di queste disposizioni, che rinviano, peraltro, ad una serie di atti attuativi, non consentono di approfondire in questa sede i numerosi interrogativi che esse suscitano, ed in particolare, il fondamento giuridico della competenza legislativa statale [12] e la compatibilità dell'assetto delle competenze amministrative rispetto al ruolo assegnato alle regioni ed agli enti locali dalla Costituzione; ci si limiterà pertanto a formulare qualche considerazione di contesto e di prospettiva.

Esaminando la portata della riforma costituzionale e le sue implicazioni sul sistema dei beni culturali, le stesse Regioni [13] hanno sostenuto l'importanza della costituzione di un corpo di operatori validamente formati in modo omogeneo, indipendentemente dall'ambito istituzionale di appartenenza. Solo l'affermarsi di un corpo di operatori "nazionale", in ragione di formazione, sensibilità ed esperienze, è in grado di garantire, secondo le Regioni, un'omogeneità di approccio tecnico-metodologico al patrimonio culturale presente su tutto il territorio della Repubblica.

Tuttavia, se, da, un lato, appare necessario superare la "babele" di offerta formativa attualmente presente in questo settore, e garantire una preparazione altamente qualificata, è necessario, dall'altro, tenere conto dell'esigenza del mercato, in considerazione dell'attuale carenza di figure professionali in questo settore [14]. Questo dato di fatto - prima ancora ed a prescindere dalle competenze riconosciute alle Regioni dalla Costituzione in materia di formazione professionale, ma anche di istruzione (come materia concorrente) - rende necessario valorizzare e non penalizzare il ruolo delle Regioni, coinvolgendole nella realizzazione degli obiettivi di qualità che esse stesse hanno dichiarato di condividere.

In questa direzione, occorre dunque sperimentare tutti gli strumenti previsti dall'ordinamento per garantire un adeguato raccordo tra i diversi livelli di governo, ed in primo luogo le intese previste (proprio nella materia della tutela dei beni culturali) dall'art. 118 ultimo comma Cost., che non a caso è richiamato anche nella sentenza 9/2004 della Corte, come soluzione da perseguire per sciogliere l'inestricabile intreccio tra competenza dello Stato nella tutela dei beni culturali e competenza delle regioni in materia di formazione professionale.

Sotto questo profilo, appare di grande interesse verificare quale applicazione verrà data all'art. 29, comma 11 del nuovo codice (frutto degli emendamenti presentati dalle Regioni e dagli enti locali al primo schema di codice), che prevede che, tramite accordi ed intese, il Ministero e le Regioni, anche con il concorso delle Università e di altri soggetti pubblici e privati, possano istituire congiuntamente centri, a carattere interregionale, dotati di personalità giuridica. Tali centri - oltre a svolgere attività di ricerca, sperimentazione, studio, documentazione o interventi di conservazione e restauro su beni culturali, di particolare complessità - potranno istituire scuole di alta formazione per l'insegnamento del restauro.

Dall'attuazione di queste intese - la cui messa in opera, tuttavia, non è imposta, ma lasciata alla libera iniziativa delle parti interessate - sembra dunque dipendere non solo la possibilità effettiva per le regioni di concorrere in maniera incisiva alla formazione dei restauratori, ma anche il recupero di una (sia pure parziale) differenziazione territoriale nel percorso formativo, nel quale potranno essere introdotti specifici elementi legati alla particolarità del contesto territoriale ed alla natura dei beni oggetto di intervento.

 



Note

[1] Sulla nozione di tutela nel nuovo Titolo cfr. G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon, n. 1/2001; D. Nardella, I beni e le attività culturali tra Stato e Regioni e la riforma del Titolo V della Costituzione, in Diritto pubblico, 2/2002, 671 ss.; A. Poggi, La difficile attuazione del Titolo V: il caso dei beni culturali, in www.federalismi.it., n. 8/2003.

[2] Sul quale si veda G. Santi, Il restauro e la manutenzione di beni culturali mobili nel d.p.r. 21 dicembre 1999, n. 554, in Aedon, n. 2/2001.

[3] Cfr. M. Cammelli, Restauro dei beni culturali mobili e lavori pubblici: principi comuni e necessaria diversità, in Aedon, n. 2/2001.

[4] Cfr. G. Santi, Attività di restauro di beni culturali e legge Merloni-quater: il recupero della specialità nella disciplina dell'evidenza pubblica, in Aedon, n. 2/2002, che evidenzia anche l'effetto di valorizzazione della figura del restauratore di beni culturali, sia nella fase di progettazione che in quella di esecuzione dell'intervento sul bene tutelato, derivante dalle modificazioni apportate dalla legge 166/2002 alla originaria disciplina della legge Merloni n. 109/1994.

[5] Secondo la Corte Costituzionale i lavori pubblici sono infatti da considerarsi, per loro stessa natura, una non-materia, ovvero, una materia trasversale, cioè "ambiti di legislazione che si qualificano a seconda dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti, di volta in volta, a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti" (Sent. n. 303/2003, § 2.3. diritto).

[6] Cfr. sul punto N. Aicardi, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del Ministero per i Beni e le Attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon, n. 1/2003, spec. § 2; Secondo A. Poggi, La difficile attuazione del Titolo V: il caso dei beni culturali, cit., nella sentenza n. 94/2003 la Corte avrebbe invece operato secondo un altro criterio, distinguendo la competenza in relazione alla natura del bene oggetto di intervento, anziché sulla natura dell'intervento stesso. Sottolinea l'inquadramento teleologico dell'attività di restauro operato dalla sentenza G. Servello, La qualifica di restauratore tra tutela e valorizzazione dei bei culturali, in Nuove leggi civ. comm., 1-2/2004, 49.

[7] Conferendo quindi alla valorizzazione una posizione complementare, se non ancillare rispetto alle funzioni di tutela: cfr. G. Pastori, Le funzioni dello Stato in materia di tutela del patrimonio culturale (art. 4), in Aedon, n. 1/2004.

[8] Sul carattere innovativo della nozione di conservazione operata dal nuovo codice, proprio alla luce della sua portata estensiva, cfr. M. Guccione, La conservazione (art. 29), in Aedon, n. 1/2004.

[9] Sull'estensione di questa materia e sui complessi problemi di sovrapposizione con altre materie, sia di competenza concorrente (come le professioni), sia di competenza statale, cfr. A. Natalini, La formazione professionale, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Milano, 2003, parte speciale, spec. 1292 ss.

[10] Tale riserva - rafforzata dal nuovo codice dei beni culturali - non ha mancato di suscitare perplessità in ordine alla sua compatibilità con l'art. 118 della Costituzione. Si è notato, al riguardo, come il legislatore abbia interpretato il ruolo delle regioni e degli enti locali come una cooperazione del tutto ausiliaria, configurando, peraltro, le limitate competenze ad essi riservate in tema di tutela, di fatto, come funzioni delegate (cfr. G. Pastori, La cooperazione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturali (art. 5), in Aedon, n. 1/2004.

[11] Il richiamo a questi due titoli di competenza per giustificare un intervento uniformante dello Stato nel settore della formazione professionale è operato da A. Poggi, Istruzione, formazione e servizi alla persona tra Regioni e comunità nazionale, Torino, 2002, 30 ss.

[12] L. Savini, Il disegno di legge sulla disciplina dell'insegnamento del restauro dei beni culturali, in Aedon, n. 3/2002, sostiene che questa disciplina potrebbe essere ricondotta anche alla competenza esclusiva dello Stato in materia di "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lettera m): in tal modo, potrebbe considerarsi legittima anche la riserva allo Stato della disciplina degli standard di formazione delle figure che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione (sia pure in accordo con le Regioni), che altrimenti ricadrebbero nella competenza esclusiva del legislatore regionale. In tal caso, tuttavia, la procedura prevista (adozione di un decreto ministeriale con il semplice parere delle regioni) non sembra essere pienamente rispondente agli indirizzi sinora elaborati dalla Corte Costituzionale in relazione all'esercizio della competenza statale di definizione dei livelli essenziali, che deve essere operata con legge o con un procedimento (regolato dalla legge) che preveda forme di intesa con le Regioni (cfr. sent. Corte Cost., sent. 88/2003).

[13] In questo senso, si veda il documento approvato dalla Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome l'8 maggio 2003 Più tutela, più valorizzazione del patrimonio culturale: proposte delle regioni per allargare i soggetti che concorrono, con lo Stato, alla tutela dei beni culturali, ed il commento di G. Sciullo, Politiche per la valorizzazione e la tutela dei veni culturali e ruolo delle Regioni, in Aedon, n. 3/2003.

[14] Secondo i dati del Ministero delle Finanze, i restauratori in Italia sono appena 1.500, e ciò nonostante nel nostro paese si concentrino il 70% dei beni culturali del mondo (dati tratti da Restauratore: poca pratica nelle nuove lauree, in www.labitalia.com, 9/9/2003.



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