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Incontro di studio L'intervento pubblico per la promozione
delle attività culturali – Cinema e spettacolo dal vivo

(Roma, 9 ottobre 2007)

La promozione pubblica dello spettacolo: i soggetti
(note di contesto per una disciplina di sistema)

di Carla Barbati

Sommario: 1. Il "chi" dell'intervento pubblico: una questione irrisolta. - 2. I silenzi del legislatore. - 3. Le "resistenze" del settore e le domande che si aprono. - 3.1. Che cosa significa decentrare?- 3.2. Che cosa si decentra? - 4. Le risposte possibili per una disciplina di sistema.

1. Il "chi" dell'intervento pubblico: una questione irrisolta

Riflettere su quelli che sono o che si candidano ad essere, all'interno del nostro ordinamento, i soggetti dell'intervento pubblico per la promozione dello spettacolo può apparire un esercizio essenzialmente teorico-dogmatico che, in quanto tale, non conduce a misurarsi, in via immediata, con i problemi "reali" delle attività culturali, in generale, e dello spettacolo, in particolare.

In effetti, è sufficiente considerare gli argomenti del dibattito che, anche in tempi recenti, ha occupato l'attenzione degli operatori dello spettacolo nonché di diversi osservatori, per avere conferma della centralità assegnata ad un'altra questione: quella relativa al "come" dell'intervento pubblico [1].

La definizione delle forme, delle modalità, delle condizioni, oltre che dell'entità dello stesso sembra, in sostanza, avere assorbito ogni altro interrogativo, compreso quello, di per sé concettualmente preliminare, relativo al "se", ossia alla necessità e, ancor prima, all'opportunità di un intervento pubblico per la promozione dello spettacolo.

Questione che, benché venga riproposta da chi, tuttora, pone in discussione le stesse ragioni istituzionali ed economiche di un'azione pubblica a favore del settore, può apparire, essa sì, provvista di una valenza essenzialmente teorica o "di principio", a fronte di quelle che sono le esperienze consolidate di diversi ordinamenti, avallate, quando non sollecitate, dalle politiche delle sedi sovranazionali, internazionali e comunitarie, e univocamente orientate a riconoscere che i pubblici poteri non possano non interessarsi della promozione della cultura, anche quando si esprima nelle attività di spettacolo, sia dal vivo sia cinematografiche [2].

Non altrettanto può dirsi, invece, per altri interrogativi, segnatamente per quelli che circondano l'identificazione dei soggetti, ossia il "chi", dell'intervento pubblico e, dunque, la definizione dei compiti e delle funzioni ad essi spettanti nonché degli assetti organizzativi immaginabili allo scopo.

Le domande che si aprono, al riguardo, lungi dall'avere ricevuto risposte chiare o definitive, introducono questioni, ancora aperte, che non sembrano occupare solo lo sfondo dei problemi "reali" del settore. Al contrario, esse paiono provviste di una centralità analoga e, comunque, speculare a quella del "come", soprattutto in quegli ordinamenti, come il nostro, in cui non vi è un unico soggetto, coincidente con lo Stato centrale, riconoscibile quale interlocutore delle politiche di settore, ma esistono più livelli di governo legittimati, se non chiamati, ad intervenire per la promozione delle attività culturali e dello spettacolo.

In questi contesti istituzionali, specie quando ci si collochi nella prospettiva di una disciplina di sistema capace di assicurare centralità e stabilità alle vicende del settore, la definizione del "chi" diventa funzionale a quella del "come", sostanzialmente condizionandolo, oltre ad esserne condizionato.

Guardare al solo Stato centrale o alle sole scelte del legislatore statale, senza prestare attenzione agli "altri" soggetti istituzionali e alle loro possibili azioni nel e per il settore, significa, infatti, giungere ad esiti non soltanto parziali, in quanto si considera solo una delle parti in gioco, ma soprattutto deboli, perché incapaci di reggere il confronto con le regole e con le dinamiche del contesto [3].

Basti, d'altro canto, pensare ai numerosi "adattamenti in corsa" che si sono dovuti immaginare per molte soluzioni normative adottate senza tenere conto del ruolo spettante ai diversi livelli istituzionali e alle conseguenti incertezze, in merito alle condizioni e alle regole dell'intervento pubblico [4].

Ma basti anche pensare al fatto che proprio la mancata attenzione al "chi" è all'origine della transitorietà che ha caratterizzato i provvedimenti per il settore, i quali, sul punto, si sono spesso risolti in dichiarazioni tramite le quali il legislatore si è limitato a fare ciò che non poteva non fare, ossia prendere atto dell'esistenza della questione, enunciare di volerla considerare, salvo rinviarne la definizione a futuri interventi che, poi, non sono mai stati effettuati.

Una transitorietà che ha inciso sulle vicende e sull'andamento delle attività di spettacolo, giacché parti pubbliche che non conoscono quale sia il loro ruolo e che, di conseguenza, non si organizzano per l'esercizio delle attività di loro competenza non aiutano i settori né i loro operatori.

2. I silenzi del legislatore

Per misurare il "peso" che ha avuto la mancata definizione del "chi" dell'intervento pubblico, è sufficiente ricordare che è questione rinviata da trent'anni e da altrettanti fatta oggetto di analisi ricostruttive o anche critiche, ogni qualvolta si sono annunciati interventi legislativi che avrebbero dovuto darvi risposta.

Con il solo intento di richiamare qui i passaggi principali di questo percorso, avviato ma rimasto, da allora, incompiuto, il primo provvedimento, al quale può farsi risalire l'apertura della questione, è appunto il d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616 [5].

Nel suo art. 49, comma 2, si operava, infatti, un riferimento espresso all'adozione di future leggi di riforma dei diversi settori dello spettacolo, entro il 31 dicembre 1979, demandando ad esse il riordino delle funzioni (amministrative) delle regioni e degli enti locali, "in ordine alle attività di prosa, musicali e cinematografiche".

Il silenzio che ne seguì fu interrotto, nei termini più incidenti, solo dal referendum del 18 aprile 1993, di iniziativa regionale, con il quale si abrogò la legge 31 luglio 1959, n. 617, istitutiva del ministero del Turismo e dello Spettacolo, sulla base del presupposto, già di allora e non solo di oggi, che un effettivo decentramento si sarebbe realizzato solo intervenendo sul centro statale, ossia ridefinendo il modello organizzativo e funzionale dell'apparato ministeriale di riferimento.

Al referendum fece seguito l'adozione di numerosi provvedimenti d'urgenza, necessari a garantire l'adeguamento del sistema a quest'innovazione, poi confluiti nell'approvazione della legge 30 maggio 1995, n. 203, di conversione del decreto legge 29 marzo 1995, n. 97. La legge, pur rinviando a provvedimenti successivi la definizione dell'assetto delle competenze, operava un nuovo, espresso, riferimento all'adozione di future leggi quadro per il cinema, la musica, la danza, il teatro di prosa e gli spettacoli viaggianti, oltre a prevedere l'istituzione di un'unica autorità di governo competente nel settore della cultura [6].

In questo testo legislativo, in cui si riservavano allo Stato le competenze in relazione alle forme di spettacolo di "prioritario interesse nazionale" (formula ambigua, quanto propria del contesto istituzionale di allora, ma che tuttora ritorna in alcune proposte e ipotesi di riforma), si prevedeva la misura "più forte" di decentramento: giungere alla cosiddetta regionalizzazione del Fus, letteralmente alla "ripartizione delle risorse finanziarie fra Stato e regioni nell'ambito del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) e di eventuali fondi aggiuntivi", sulla base di un'intesa fra il governo e la Conferenza Stato-regioni (art. 2, comma 2, lett. c) legge 203/1995) [7].

Anche queste disposizioni restarono allo stato di annuncio, prive di alcuna attuazione. Nulla di significativo avvenne in occasione dei provvedimenti per il terzo decentramento, ossia per l'avvio del cosiddetto "federalismo amministrativo", quando si assistette, nell'art. 156 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, soltanto all'enucleazione di alcuni compiti, in materia di spettacolo, che, in quanto ritenuti di "rilievo nazionale", dovevano intendersi conservati in capo allo Stato e perciò esclusi dai conferimenti al sistema delle autonomie.

Il solo provvedimento adottato, in quell'occasione, ed in attuazione di quanto richiesto dagli esiti della consultazione referendaria del 1993, fu il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368. Con esso si istituì un unico ministero per il settore della cultura (il ministero per i Beni e le Attività culturali), peraltro delineato nei suoi assetti organizzativi e funzionali al di fuori di ogni raccordo con il conferimento di compiti e funzioni a regioni ed enti locali.

Se il legislatore ha taciuto, molto è però successo nell'esperienza, dove si è assistito ad una continuativa ed incidente presenza delle autonomie territoriali che, soprattutto nel settore dello spettacolo dal vivo, sono intervenute sia direttamente, facendosi operatori del settore, sia indirettamente, tramite sovvenzioni e ausili finanziari, che si sono venuti aggiungendo, spesso superandoli in ammontare, a quelli erogati dal governo centrale [8]. Qualcosa è, poi, accaduto anche nel settore del cinema, benché solo recenti siano le più significative esperienze delle film commissions e dei film funds regionali [9].

Interventi affidati, in prevalenza, alle iniziative, verrebbe da dire, spontanee delle autonomie territoriali, da queste spesso ripensati quanto a condizioni e modalità, e che proprio perché effettuati al di fuori di una disciplina di sistema, attenta al contesto istituzionale e alla questione dei soggetti, hanno impedito che gli attori dei diversi settori potessero fare stabilmente riferimento a politiche di intervento pubblico fondate anche sull'azione degli enti substatali.

Quanto si è fin qui ricordato, sia pure per estrema sintesi, dimostra, dunque, che quella dei "soggetti" non può certo considerarsi una questione nuova e che, perciò, anche il prestarvi attenzione non può essere letto come espressione di un'adesione contingente, se non di principio, alle istanze del decentramento forte o, come si preferisce dire, del federalismo, le quali, sicuramente, occupano la scena di molti dibattiti più oggi di quanto sia avvenuto in passato.

Il "chi" dell'intervento pubblico è questione risalente, alla quale non sono state ancora fornite risposte chiare né definitive e che, certamente, ha acquisito un nuovo spessore ed una nuova urgenza con la riforma costituzionale approvata nell'ottobre 2001.

La riscrittura del Titolo V, parte seconda della Costituzione, ha, infatti, condotto ad un rafforzamento del principio autonomistico e del ruolo dei livelli del governo substatale, per effetto del quale pochi, ed elencati, sono i settori e gli interessi sottratti al loro intervento.

E lo spettacolo non è fra quelli riservati al legislatore statale, meglio, non lo è la sua promozione ed organizzazione, elevate, dal nuovo art. 117 Cost., a materia di competenza legislativa concorrente di Stato e regioni.

Peraltro, ed è bene ricordarlo, questa sua collocazione è stata il frutto di uno sforzo o, comunque, di un adattamento interpretativo della lettera della Costituzione, operato, dapprima, dal governo ed in via d'urgenza, per essere, successivamente, avallato dal giudice costituzionale [10].

La mancanza di una sua espressa menzione indusse, infatti, a ritenere, all'indomani dell'approvazione della revisione costituzionale, che lo spettacolo potesse rientrare nel novero delle materie c.d. innominate, in quanto tali riservate alla competenza legislativa esclusiva delle regioni.

E' stato proprio per evitare le conseguenze di una simile interpretazione letterale la quale avrebbe impedito l'adozione di atti di natura regolamentare, da parte del governo centrale, e comunque avrebbe richiesto misure di riordino della disciplina di settore, anche nei suoi apparati amministrativi, che si è acceduti a quell'adattamento interpretativo, in forza del quale si sono superate le indicazioni di "separazione" dello spettacolo dal complesso delle attività culturali che provenivano dal d.lg. 112/1998 [11].

Che cosa comporti la collocazione dello spettacolo nel novero delle attività culturali, agli effetti dell'art. 117, comma 3, Cost., non è però ancora stato detto da parte del legislatore ordinario, chiamato a dare attuazione al nuovo assetto costituzionale delle competenze.

Lo spettacolo ha, infatti, condiviso la sorte conosciuta da molti altri settori, il cui adeguamento ai mutamenti intervenuti nel contesto istituzionale è stato affidato alle pronunce con le quali il giudice costituzionale ha inteso garantire soprattutto la tenuta di un sistema.

3. Le "resistenze" del settore e le domande che si aprono

Nel caso dello spettacolo, tuttavia, la questione dei "soggetti" dell'intervento pubblico ha incontrato altre difficoltà, oltre a quelle dipendenti dalle lentezze attuative del nuovo disegno costituzionale.

Lo spettacolo si è misurato e continua a misurarsi con qualche cosa in più e di diverso, qualche cosa che sembra condividere con altre espressioni del settore culturale e, fra queste, in particolare, con l'ordinamento dei beni culturali.

Ciò che accomuna le loro vicende è una sorta di "resistenza" degli operatori, ma anche di taluni interpreti istituzionali, a riconoscere che l'intervento pubblico possa essere suddiviso tra più soggetti, quasi a temere che decentrare significhi consegnare la sorte di queste attività all'azione delle autonomie territoriali ritenute, se non tutte, alcune almeno, interlocutrici inadeguate alle loro esigenze.

Sono giustificate queste resistenze? E' vero che le autonomie territoriali non possono essere interlocutrici adeguate dei diversi settori dello spettacolo?

Va da sé che ogni valutazione in merito all'adeguatezza o meno delle autonomie territoriali ad intervenire, in questo come in altri settori, ben difficilmente può essere resa in termini astratti o di principio, ossia sulla base dell'idea che i livelli del governo substatale facciano "meglio" o "peggio" del solo Stato centrale. Un'idea, tra l'altro, estranea ai processi di decentramento, i quali rispondono a motivazioni e a valutazioni più complesse ed articolate.

Di conseguenza, per verificare quanto tali resistenze siano fondate, quali limiti delle autonomie territoriali esse vadano ad esprimere, come questi limiti possano essere superati e quali siano, per contro, le potenzialità di un'azione condivisa da più livelli istituzionali, occorre rispondere ad altre due domande.

Che cosa significa decentrare? Che cosa si andrebbe a decentrare, nell'ambito ed ai fini della promozione pubblica dello spettacolo, e che cosa si riserverebbe allo Stato?

Domande che, al di là della loro ovvietà, servono ad introdurre un approccio differente alla questione. Soprattutto, servono ad andare "oltre" quelle che sono le principali ragioni delle attuali resistenze alla stessa idea di una disciplina di sistema, attenta alle esigenze del pluralismo istituzionale.

Porsi queste domande significa, infatti, presupporre che ogni valutazione del ruolo esercitabile dalle autonomie territoriali, in materia, non possa né debba essere formulata avendo riguardo a quella che, sin qui, è stata l'esperienza del decentramento né considerando solo quelle che sono, sin qui, state le modalità dell'intervento pubblico nel settore.

3.1. Che cosa significa decentrare?

Quanto alla prima domanda, quella volta a verificare che cosa comporti il decentramento, è indubbio che alla base di queste resistenze vi sia l'idea che decentrare significhi lasciare le autonomie "da sole" di fronte ai settori o, il che è lo stesso, lasciare i settori "da soli" di fronte alle autonomie.

In realtà, il principio autonomistico, posto a base dei decentramenti, non descrive, necessariamente, un assetto in cui una somma di soggetti agiscono, autonomamente e singolarmente, al di fuori di ogni coordinamento.

Il pluralismo istituzionale, nel nostro come in tutti gli ordinamenti, richiede, al contrario, e anche al di là della omogeneizzazione assicurata dai principi fondamentali di disciplina posti dalle leggi statali, coordinamento e collaborazione fra soggetti e politiche, richiede momenti o sedi di concertazione, sia orizzontale sia verticale, anche in funzione di riequilibrio.

Richiede, in sostanza, ciò che, con espressione diffusa quanto tecnicamente imprecisa, si definisce una "rete", ma che, più correttamente, potrebbe definirsi definizione e messa a punto di un modello di relazioni capace di assicurare il governo di un sistema complesso, anche perché plurale quanto a soggetti e sedi decisionali nei quali si articola.

Decentrare significa, in sostanza, pensare a soluzioni organizzative o procedimentali atte a superare i limiti del policentrismo e, fra questi, la frammentazione, la disomogeneità e la sovrapposizione delle azioni e delle politiche.

Il decentramento, dunque, non impedisce l'esistenza di un "centro". Esso richiede, semmai, un "nuovo centro", adeguato alle ragioni di un ordinamento informato ai principi del pluralismo istituzionale. Insieme, richiede che anche i soggetti substatali modifichino il modo in cui concepiscono il proprio ruolo, non più e solo difensivo di spazi, ma idoneo a riflettere il loro essere parti di una rete o, comunque, di un sistema.

La separatezza delle azioni, la conseguente insufficienza o inadeguatezza di talune di esse, l'eccessiva diversificazione dei loro interventi e la parallela, se non conseguente, assenza di una sede o di momenti funzionali alla "tenuta" del sistema, sono, semmai, le conseguenze di decentramenti incompiuti o imperfetti.

Non volersi occupare del decentramento possibile, nel quadro di una legge o di leggi attente al contesto e perciò al "chi", significa, dunque, confrontarsi con questa situazione e con i limiti dei decentramenti incompiuti, non già evitarla.

3.2. Che cosa si decentra?

Circa il secondo quesito, volto a chiedersi che cosa si andrebbe a decentrare e che cosa verrebbe riservato allo Stato centrale, rispondervi significa affrontare anche la questione del "come" dell'azione di promozione dello spettacolo. Ritornano qui, o meglio si evidenziano, quelle interferenze e interdipendenze fra il "chi" ed il "come" dell'intervento pubblico, delle quali si diceva.

Certo, nessuna riflessione approfondita sul "come" può essere condotta senza avere riguardo alle diverse forme in cui si esprimono le attività di spettacolo e, dunque, senza tenere conto delle logiche e delle esigenze proprie ad ognuna di esse. In quanto tale, richiede un'analisi che esula dagli obiettivi di questo intervento [12].

Ciò nondimeno, anche un approccio di contesto, o al contesto, come è quello che caratterizza queste note, consente di riconoscere, assumendolo a presupposto dal quale procedere per cercare risposte al quesito con il quale ci si confronta, che quando si pensa alle modalità e ai contenuti dell'azione pubblica a favore dello spettacolo si pensa ad interventi che hanno ad oggetto attività funzionali alla formazione intellettuale degli individui ed espressioni della creatività di singoli, gruppi e comunità, anche in questo senso, dunque, culturali [13].

Attività che appartengono a quella categoria che le analisi economiche hanno definito dei merit goods, ossia dei beni che devono comunque essere offerti, indipendentemente dalla richiesta espressa da parte del mercato [14].

Tuttavia, esse sono anche attività che incontrano il mercato, come luogo di scambio fra una domanda ed un'offerta.

Detto altrimenti, lo spettacolo ben difficilmente può candidarsi ad essere considerato come un insieme di attività "prive di rilevanza economica", per utilizzare locuzioni del più recente legislatore, con ciò che ne conseguirebbe in termini di esigenze di settore e di modalità, organizzative e funzionali, per soddisfarle nonché di ruolo spettante ai pubblici poteri, statali e territoriali.

Le attività di spettacolo, sia pure in misura differente, secondo la forma in cui si esprimono, si collocano nel punto di intersezione fra cultura, intesa come valore da promuovere al di là e indipendentemente dalla domanda che di essa sia espressa, e mercato, meglio esigenze e ragioni del mercato.

E' il punto di intersezione che qualifica anche la cosiddetta industria culturale, di cui almeno alcune attività di spettacolo, in primo luogo il cinema e l'audiovisivo, sono indubbia espressione, non solo per le logiche imprenditoriali che ne governano la produzione e la diffusione, ma anche perché danno vita a prodotti culturali riproducibili [15].

Le difficoltà dell'incontro, fra spettacolo e mercato, maggiori o minori, secondo le attività, possono dunque sollecitare interventi, da parte dei pubblici poteri, idonei a superarle e a consentire il funzionamento o, comunque, un buon funzionamento di ciò che, con tutte le cautele e le approssimazioni del caso, può definirsi il "mercato della cultura".

Mercato, inteso, qui, in un altro dei suoi possibili significati, ossia come luogo che risulta dall'azione non solo di soggetti privati, ma anche di soggetti pubblici che intervengono sia direttamente, il che avviene quando agiscono come operatori del settore, sia indirettamente, ossia per il tramite di misure capaci di condizionare variamente le diverse attività, sottoponendole a vincoli, qualitativi o quantitativi, erogando ausili o incentivi finanziari o comunque esprimendo politiche, anche fiscali, di incentivazione alla loro realizzazione e al loro sviluppo [16].

Quando lo sguardo va oltre quello che è stato sin qui considerato, soprattutto dagli operatori del settore, il core dell'azione pubblica, ossia le sole misure di ausilio finanziario, e si allarga a comprendere il complesso dei possibili interventi per il "mercato della cultura", si aprono, anche nei confronti dello spettacolo, quesiti che interessano molti altri settori.

Soprattutto, la domanda sul "che cosa decentrare" si definisce nel suo significato e nella sua capacità di orientare le risposte necessarie ad una disciplina di sistema, difficili da cogliere ove lo spettacolo fosse assunto come mera espressione di quella "cultura" che, se non sopporta monopoli pubblici, neppure può condurre a porre in dubbio la possibilità di un'azione di promozione pubblica plurale, quali che siano i principi e le regole del contesto istituzionale.

E cioè, quando lo spettacolo venga colto nel suo porsi fra cultura e mercato, la domanda sul "che cosa decentrare" si declina in un'altra: il mercato della cultura è un mercato che appartiene alla sola competenza dello Stato centrale o è un mercato che non soltanto consente ma, di più, sollecita interventi anche da parte dei livelli di governo subnazionali?

Detto in termini maggiormente svolti: quali degli interventi necessari al funzionamento di questo mercato, al superamento delle sue debolezze, possono/devono essere ritenuti propri dello Stato centrale e quali, invece, possono/devono essere posti in atto dagli altri livelli di governo? Inoltre, quali devono essere condivisi o, comunque, interessati da momenti-sedi di coordinamento/collaborazione tra i diversi soggetti pubblici?

Porsi queste domande significa, in sostanza, ritenere che le specificità del settore non legittimino per esso uno "statuto speciale" che lo sottragga alle domande poste dal contesto, alle esigenze del contesto ed anche alle risposte che il contesto già suggerisce, quando non impone, ogni qualvolta ci si confronti con attività che intersecano il mercato.

4. Le risposte possibili per una disciplina di sistema

Ed è, appunto, quando ci si collochi nella prospettiva di una disciplina di sistema, capace di colmare i vuoti legislativi che interessano alcune forme di spettacolo, ed il riferimento è, principalmente, alle attività teatrali di prosa, o comunque capace di superare le limitazioni ed i limiti dei provvedimenti parziali, se non occasionali e contingenti, ai quali si è, sino ad ora, affidato l'intervento pubblico, che la questione dei soggetti e, di conseguenza, degli assetti organizzativi, utili allo scopo, può trovare, nel contesto, alcune possibili risposte, esse stesse "di sistema".

Ancora una volta, è appena il caso di precisare che alcune soluzioni dipenderanno dalla forma in cui si esprimono le attività di spettacolo, stante le differenze che le separano e che, in primo luogo, separano lo spettacolo dal vivo da quello cinematografico.

Tuttavia, alcune indicazioni possono considerarsi "comuni" a tutte le forme espressive dello spettacolo, il quale, agli effetti del "chi" dell'intervento pubblico, si confronta con le medesime esigenze di contesto, acquisendo perciò quella unitarietà di settore che si è assunta a presupposto di queste note.

Alcune risposte sono facili, ossia immediatamente disponibili.

E' indubbio, ad esempio, che esistono misure riferibili a ciò che, in senso figurato, può definirsi la parte "alta" del mercato, come sono le misure a protezione della proprietà intellettuale, ormai considerate in tutti gli ordinamenti fra gli strumenti principali per la promozione delle attività culturali, le quali necessitano di quella disciplina uniforme che solo la legge statale può assicurare e che non può non essere, essa stessa, disciplina di sistema.

In connessione con queste, esistono misure volte a tutelare la concorrenza che, in quanto si risolvano in normative strettamente antitrust, sono di competenza del solo legislatore statale e che interessano, innanzi tutto, il settore cinematografico, ma, per taluni aspetti, possono giungere ad interessare anche le altre espressioni dello spettacolo, così come il settore culturale nel suo complesso [17].

Di là da questi ambiti, cui possono aggiungersene altri, correlati a discipline che rientrano nelle competenze esclusive della legge statale, come sono quelle concernenti i rapporti di lavoro, si apre lo spazio del possibile intervento dei livelli di governo subnazionali, ossia degli "altri" soggetti.

E' in questo spazio che si collocano anche le azioni di incentivazione e di ausilio finanziario. Queste, almeno, sono le indicazioni delle quali si dispone, per opera del giudice costituzionale, sia pure con riguardo alle sole attività cinematografiche, la cui copertura legislativa ha consentito interventi, anche giurisprudenziali, preclusi a quelle forme di spettacolo che, ancora, ne sono prive.

La Corte, intervenuta in più occasioni sul punto, dopo avere riconosciuto la necessità di una profonda riforma della legislazione, in materia, per adeguarla al nuovo quadro costituzionale [18], è giunta ad una conclusione parzialmente difforme quando, con sentenza n. 285 del 7 luglio 2005, ha esaminato i rilievi, formulati dalle regioni Emilia-Romagna e Toscana, a diverse disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28, recante la riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche [19].

Con riguardo al modello di governo del settore e di gestione dei finanziamenti, il giudice, pur riconoscendone il carattere "accentuatamente statalistico ed essenzialmente fondato su poteri ministeriali", ha ritenuto che esso potesse, comunque, considerarsi conforme al disegno costituzionale, in quanto, per tali interventi, era possibile autorizzare la c.d. "chiamata in sussidiarietà" [20].

Con questa sentenza ha, dunque, ritenuto legittimo spostare molte competenze amministrative e, di conseguenza, anche legislative e normative in capo allo Stato centrale, stante la necessità di assicurare una "gestione unitaria a livello nazionale", atta ad evitare che le complesse attività di disciplina e sostegno del settore cinematografico venissero a dipendere da "eccessivi condizionamenti localistici" [21].

A giudizio della Corte esisterebbe, infatti, una "strutturale" inadeguatezza delle regioni ad intervenire, motivata dalle medesime ragioni che, anche in presenza di altre fattispecie economicamente rilevanti, inducono il giudice costituzionale a ritenere necessario spostare verso l'alto, ed in particolare verso lo Stato centrale, le competenze: il rischio che la vicinanza del regolatore al regolato determini la "cattura" del regolatore, aprendo ad una gestione localistica di interessi.

Il conseguente spostamento delle competenze in capo allo Stato non significa però estromissione delle regioni. Come richiede la stessa "chiamata in sussidiarietà", è comunque necessario riconoscerle quale parti di un iter decisionale e gestionale che, in applicazione del principio di leale cooperazione, preveda il ricorso a strumenti di concertazione paritaria fra Stato e regioni.

Un richiamo, dunque, alla necessità di quei momenti o di quelle sedi di coordinamento che, si diceva, devono accompagnare ogni ipotesi di decentramento compiuto e che il giudice costituzionale, stante anche i limiti entro i quali devono mantenersi le sue pronunce, riconduce, pur sempre, al rapporto delle regioni e, prima ancora, dell'organo collegiale che le rappresenta (la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano) con l'apparato ministeriale di settore, ma che ben potrebbe essere soddisfatta da un "altro centro", adeguato alle ragioni delle autonomie.

Le soluzioni disponibili, per soddisfare queste esigenze di raccordo-coordinamento, possono, infatti, essere tanto procedimentali, come sono quelle evocate dalla Corte, quanto organizzative.

Certo, il ricorso a queste ultime, specie quando si traduca nella creazione di "nuove" sedi, deve misurarsi, ben più di quanto avvenga per quelle di natura solo funzionale, con le prioritarie ragioni del contenimento e della razionalizzazione dei soggetti che entrano nei processi decisionali, ricorrendo, in questi casi, necessità che sono, anche, di non appesantimento della scena pubblica.

Nondimeno, l'utilizzo di soluzioni organizzative, per rispondere alle esigenze del coordinamento e del raccordo tra i diversi soggetti pubblici, può esprimere altre, differenti potenzialità. Il che è quanto accade quando diventi occasione per quella ridefinizione degli apparati, specie statali, che da sempre si riconosce prodromica alla realizzazione di un effettivo decentramento, o quando, come può avvenire per il settore dello spettacolo, diventi motivo per ripensare, nel numero e nella configurazione, i soggetti che agiscono come operatori, andando oltre quei tentativi di riforma sin qui affidati ad operazioni di privatizzazione, peraltro solo formale, le quali non hanno ridotto, e neppure contenuto, la presenza pubblica e del centro statale [22].

In questo senso possono leggersi le scelte accolte, ad esempio, nel disegno di legge As 1120, presentato in questa XV legislatura, recante "Disposizioni generali in materia di promozione delle attività cinematografiche e audiovisive, nonché deleghe al governo in materia di agevolazioni fiscali relative al settore cinematografico ed audiovisivo".

Nel capo II di questo testo si propone, infatti, la costituzione di un "nuovo" soggetto pubblico: il "Centro nazionale per il cinema e l'audiovisivo" al quale demandare "tutte le funzioni amministrative, le inerenti risorse ed i compiti di interesse nazionale attualmente esercitati, direttamente o indirettamente, quanto al settore cinematografico, dal ministero per i Beni e le Attività culturali" (art. 6, comma 3) ed al quale devolvere, altresì, "le funzioni, le inerenti risorse ed i compiti attualmente esercitati dalla Fondazione Centro sperimentale di cinematografia" nonché da Cinecittà Holding s.p.a. e dalle società da essa detenute e controllate. (art. 6, comma 4).

Un soggetto, dunque, che non si andrebbe ad aggiungere agli altri presenti ed operanti nel settore, ma che li sostituirebbe, assorbendo anche la direzione generale per il cinema del Mibac, come si legge nella relazione di accompagnamento al nuovo regolamento di organizzazione del ministero, approvato con d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233.

Questo soggetto verrebbe inoltre ripensato, in funzione dell'apertura alle ragioni ed al ruolo delle autonomie, così da configurarsi come un centro "nazionale", in senso proprio.

Esso, infatti, è chiamato a svolgere le proprie funzioni e i propri compiti "in attuazione ed in conformità agli indirizzi generali delle politiche pubbliche di sostegno, promozione e diffusione del cinema e dell'audiovisivo, definiti dal ministro per i Beni e le Attività culturali d'intesa con la Conferenza Stato-regioni" (art. 6, comma 10), coinvolta nell'approvazione di altri atti necessari al suo funzionamento nonché nella costituzione dei suoi organi di vertice (art. 7).

Percorsi che non sono stati ancora immaginati per lo spettacolo dal vivo, benché anche per esso non sembri ipotizzabile un adeguamento alle ragioni del decentramento, da sempre ritenute maggiormente compatibili con le esigenze di questa forma di spettacolo, che non tenga conto delle medesime necessità di coordinamento, anche in funzione del riequilibrio delle azioni e degli interventi posti in essere dai diversi soggetti pubblici.

Se la gestione e l'erogazione degli ausili e degli incentivi finanziari al settore dello spettacolo rappresenta uno dei principali ambiti aperti all'intervento condiviso e coordinato dei diversi soggetti istituzionali, altri possono essere immaginati, egualmente funzionali all'efficacia e alla competitività e, dunque, alla promozione di ogni attività, anche culturale, che si incontri e si confronti con il mercato.

E' questo il caso, ad esempio, delle misure per la semplificazione procedurale, volte a ridurre i costi che le regolazioni e gli adempimenti amministrativi comportano, anch'esse configurabili come oggetto di interventi condivisi da Stato e da autonomie territoriali, in relazione alle competenze ad essi assegnate.

Ma il possibile ruolo delle autonomie, per la promozione dello spettacolo, va anche "oltre". Soprattutto, esso va ad interessare quella che, nei termini atecnici che qui si è scelto di utilizzare, può definirsi la "parte bassa" del mercato e che, forse, meglio può indicarsi come la parte "terminale", finale, della filiera produttiva, quella che interessa la rappresentazione o la diffusione del prodotto.

E' a questo punto che si colloca, fra le altre, la questione degli spazi, ossia delle sale cinematografiche, ma anche teatrali, e del regime delle autorizzazioni alla loro apertura.

In relazione a questi interventi è difficile non riconoscere il ruolo centrale spettante alle autonomie territoriali e che, con riguardo al settore cinematografico, è stato ad esse già riconosciuto dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato e, poi, dallo stesso giudice costituzionale.

L'autorità Antitrust, infatti, in una segnalazione del 19 dicembre 1996, relativa all'Accesso al mercato cinematografico", aveva ritenuto "particolarmente indesiderabile assoggettare ad una regolamentazione strutturale dell'offerta il settore dell'esercizio cinematografico" e, dunque, "palesemente incongruo subordinare la localizzazione delle sale al rispetto di parametri rigidi e predeterminati in modo omogeneo a livello nazionale".

Secondo l'Antitrust, il settore dell'esercizio cinematografico è costituito da una somma di mercati locali che, anche a parità di densità abitativa, possono differenziarsi tra loro, contribuendo a caratterizzare in modo distinto la domanda.

Di qui, le rinnovate censure formulate, nella segnalazione del 11 dicembre 2003, anche nei confronti del d.lg. 28/2004, laddove venivano reintrodotti limiti all'apertura, o agli interventi funzionali alla realizzazione, di sale cinematografiche, comprimendo l'autonomia delle amministrazioni locali e così impedendo, fra l'altro, "assetti maggiormente rispondenti alle effettive esigenze della domanda, così come espressa nei diversi ambiti locali".

Rilievi e censure ripresi, dal giudice costituzionale, nella pronuncia 285/2005, ove si riconosce una concorrente competenza statale ad intervenire, in merito all'autorizzazione all'apertura delle sale cinematografiche di elevata capienza, solo in quanto questione afferente alla materia "governo del territorio", restando altrimenti escluse esigenze unitarie tali da far ritenere inadeguato il livello regionale di governo [23].

In sostanza, tanto l'Antitrust quanto il giudice costituzionale, sia pure nei termini necessariamente differenti, indotti dal loro diverso ruolo, riconoscono alle autonomie (regioni e, poi, enti locali), la capacità di operare per lo sviluppo del settore, tanto più quando i loro interventi conducano a politiche di liberalizzazione capaci di incentivare il mercato, favorendo il dispiegarsi della concorrenza.

Ed, in effetti, alcune regioni hanno incominciato a muoversi in questa direzione, a fronte di altre che, ancora, preferiscono tacere.

Ugualmente funzionali all'azione pubblica di promozione sono, poi, altre misure, per le quali può, del pari, riconoscersi un ruolo delle autonomie territoriale. Il riferimento è, soprattutto, ai provvedimenti che possono essere adottati per agire su quelle che sono definite le "condizioni della creatività", ossia per la formazione e l'educazione di settore, per la promozione delle espressioni culturali e così anche per la conservazione e la valorizzazione dei prodotti filmici e dell'audiovisivo.

Con riguardo al ruolo delle autonomie, vi è comunque anche altro e questo "altro" riguarda lo spettacolo nelle sue relazioni con le restanti espressioni della "cultura".

Riconoscere queste interazioni significa superare ogni tentazione, ma ancor più ogni tendenza, a disarticolare e separare al suo interno il settore culturale, quasi a lasciare che l'identità dell'apparato ministeriale di riferimento si risolva in una mera sistemazione di competenze, priva di altri significati, anche funzionali, per fare, invece, dello spettacolo, in tutte le sue forme, l'occasione o la componente di un processo più ampio, volto allo sviluppo culturale integrato del territorio, in quanto tale titolo, ed insieme ragione, per interventi dei governi subnazionali.

Significa, in sostanza, cogliere le potenzialità del "mercato della cultura" sulla scorta della consapevolezza che, già nel 1912, fu del senatore americano McBridge, per il quale "trade follows films", ma significa anche riconoscere la valenza che, nel 1942, in quello che è considerato il primo manifesto del neorealismo, Giuseppe De Sanctis assegnò, sempre, al cinema, come mezzo per la salvaguardia del paesaggio e del patrimonio culturale, oggi diremmo, anche, mezzo per la sua valorizzazione ed, insieme, per la valorizzazione dei territori. Una potenzialità che ben può appartenere a tutte le attività di spettacolo, quale che sia la loro forma espressiva.

Note

[1] In questo senso è, ad esempio, il dibattito occasionato, con riguardo al settore cinematografico, dalla lettera di Bernardo Bertolucci al direttore del quotidiano "Repubblica", del 11 giugno 2007, poi, ripreso dal movimento "Centoautori" e confluito anche nella pubblicazione, a cura dell'Anac, del dossier, a cura di S. Pecoraro, A. Rossetti, N. Russo, P. Scimeca, Lo stato delle cose. La verità sul cinema italiano, presentato il 2 settembre 2007.

[2] Per quanto concerne il nostro ordinamento, in particolare, la promozione pubblica della cultura trova un proprio fondamento negli stessi principi fondamentali della Carta costituzione, dove l'art. 9 la eleva a finalità/scopo, il cui perseguimento deve guidare l'azione della Repubblica, ossia dello Stato ordinamento, in tutte le sue articolazioni territoriali. Per quanto concerne le politiche sovranazionali in materia, si cfr. E. Chiti, La disciplina europea del cinema e dello spettacolo dal vivo, in questo numero, G. Poggeschi, La "Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali dell'Unesco" entra a far parte del corpus legislativo italiano. Una novità nel panorama degli strumenti giuridici internazionali?, in Aedon 2/2007; I. Quadranti, La politica culturale europea nel periodo di riflessione sul futuro dell'Unione, in Aedon 3/2006; G. Endrici, Il sostegno pubblico all'attività cinematografica, in Aedon 1/2006.

[3] D'altro canto, anche il solo settore che abbia goduto di una qualche disciplina di sistema, come tale attenta al "chi", e non solo al "come", ossia quello delle fondazioni lirico-sinfoniche, per le quali è stato delineato un modello organizzativo che ha inteso ripensare il ruolo della parte pubblica, aprendo all'intervento del privato, meglio alle risorse del privato, si è confrontato e, tuttora, si confronta con le difficoltà attuative del modello, più volte ridefinito, senza che si intervenisse su quella che appare come la maggiore ragione di debolezza del disegno, ossia con l'assenza di un riassetto organizzativo e funzionale dello spettacolo musicale, nel suo insieme. In questo senso, vengono lette anche le vicende che, nel novembre di questo 2007, hanno interessato il Teatro Alla Scala di Milano. In merito, si vedano anche le considerazioni di L. Bentivoglio, La replica del melodramma all'italiana, in La Repubblica del 17 novembre 2007, 27-29. Per le modifiche, ancora una volta parziali, che, da ultimo, hanno interessato questa forma di spettacolo, cfr. art. 2, commi 389-395 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008).

[4] Il riferimento è, qui, soprattutto alle vicende che hanno interessato le attività cinematografiche, oggetto di numerosi provvedimenti, anche di livello solo amministrativo, necessari a garantire l'adeguamento della disciplina dettata, principalmente, dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 al nuovo contesto costituzionale e alle pronunce di cui è stato, perciò, oggetto da parte della Corte costituzionale, su cui v. infra.

[5] Questo, senza voler risalire alla Costituzione del 1948 che, assegnando, nel suo art. 9, alla Repubblica il compito di "promuovere lo sviluppo della cultura", già poneva le condizioni per l'intervento di più livelli di governo e senza voler, del pari, considerare i silenzi o, comunque, le incompiutezze che connotarono i primi provvedimenti con i quali, nel 1970-1972, si diede avvio all'ordinamento regionale.

[6] Così, l'art. 3, comma 1, d.l. 97/1995, come convertito dalla legge 203/1995.

[7] Per una più compiuta rappresentazione delle indicazioni fornite dalla legge 203/1995, sia consentito rinviare all'analisi che se ne fece in C. Barbati, Istituzioni e spettacolo. Pubblico e privato nelle prospettive di riforma, Padova, 1996.

[8] Le regioni sono, infatti, intervenute nel settore dello spettacolo, ancor prima che il d.p.r. 616/1977 procurasse un qualche fondamento normativo al loro ruolo in materia, sulla base delle disposizioni dei loro Statuti che le impegnavano ad operare "per la promozione delle attività culturali". Per un'analisi delle risorse destinate al settore dalle autonomie territoriali, si cfr. C. Bodo e G. Stumpo, Le risorse finanziarie per lo spettacolo, in Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1990-2000, a cura di C. Bodo e C. Spada, Bologna, 2004, 365 ss. Per una rassegna delle loro iniziative, anche legislative, cfr,. da ultimo, C. Tubertini, La disciplina delle attività culturali nella legislazione regionale: un "nuovo" bilancio, in Aedon 1/2007.

[9] Sul punto, cfr. A. Iunti, L'intervento delle regioni nel settore cinematografico, in Aedon 1/2006.

[10] Il riferimento, qui, è al decreto legge 18 febbraio 2003, n. 24, convertito con modificazioni dalla legge 17 aprile 2003, n. 82, il cui art. 1, operava, fra l'altro, un espresso riferimento alla futura adozione di una legge statale per la definizione dei principi fondamentali per la disciplina dello spettacolo, con ciò collocandolo tra le materie oggetto di una competenza legislativa concorrente di Stato e regioni. Sul punto, sia consentito rinviare a C. Barbati, Lo spettacolo: il difficile percorso delle riforme (dalla Costituzione del 1948 al "nuovo" Titolo V e "ritorno"), in Aedon 1/2003. Quanto al giudice costituzionale, è con le sentenze nn. 255 e 256 del 21 luglio 2004 della Corte costituzionale, che lo spettacolo è stato collocato nella "promozione ed organizzazione di attività culturali". In proposito, cfr. C. Tubertini, La disciplina dello spettacolo dal vivo tra continuità e nuovo statuto delle autonomie, in Aedon 3/2004.

[11] In proposito, cfr. anche il punto 2, cons. dir., sent. Corte cost. n. 255 del 2004.

[12] In proposito, si rinvia ai contributi di G. Napolitano e di M. Trimarchi, in questo numero.

[13] Definire il significato e la valenza del concetto di "cultura", ovviamente, non è nei propositi di queste brevi considerazioni. Allo scopo, si preferisce fare riferimento ad una delle tante definizioni che ne sono state proposte in sede giuridica e, così, in particolare a quella, riportata nel testo, di F. Santoro Passarelli, I beni della cultura secondo la Costituzione, in AA.VV. Studi per il ventesimo anniversario dell'Assemblea costituente, Firenze, 1969, II, 435, rinviando altresì alle definizioni che ne sono state offerte dalla Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, Parigi, 20 ottobre 2005.

[14] Per l'elaborazione di questa figura, dei merit goods, o beni meritori, cfr. R.A. Musgrave, The Theory of Public Finance. A Study in Public Economy, New York, 1959; trad. it, parziale in R.A. Musgrave, Finanza pubblica, equità, democrazia, Bologna, 1995, spec. 75 ss.

[15] Sulla c.d. industria culturale e sulle nuove possibilità espressive assicurate dalle tecnologie della comunicazione, cfr., da ultimo, W. Santagata, La fabbrica della cultura. Ritrovare la creatività per aiutare lo sviluppo del paese, Bologna, 2007, spec. 89 ss., ma, ancor prima, D. Throsby, Economia e cultura, Bologna, 2005, 157 ss. Di "industrie culturali", parla anche la Convenzione sulle diversità culturali, di Parigi, cit., dove esse vengono definite come "le industrie che producono e distribuiscono i beni o i servizi culturali".

[16] E' questo il mercato come locus artificialis, su cui cfr., soprattutto, N.Irti, L'ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 2003, 11 e 44.

[17] Sul tema, meritevole di analisi e di considerazioni ben più diffuse, sia consentito, in questa sede, il solo rinvio all'audizione del presidente dell'Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, Antonio Catricalà, presso la VII Commissione cultura del senato della Repubblica, nell'ambito dell'Indagine conoscitiva sul cinema e lo spettacolo dal vivo (15 maggio 2007), per il quale, e fra l'altro," dal punto di vista delle condotte delle imprese, occorre, innanzitutto, premettere che le imprese attive nel settore dello spettacolo rientrano a pieno titolo nell'ambito di applicabilità della regole a tutela della concorrenza tanto ai sensi delle norme di cui alla legge n. 287/1990 quanto in base ai principi comunitari contenuti nel Trattato Ce." Per una prima analisi degli orientamenti espressi dalle sedi comunitarie, in materia, si cfr. anche E. Chiti, in questo numero.

[18] In particolare, ha sollecitato l'adeguamento delle competenze amministrative, circa l'erogazione dei finanziamenti, alle prescrizioni dell'art. 118. In questo senso, cfr., soprattutto p. 3 del considerato in diritto della sent. 255/2004. Sul punto, cfr. L. Zanetti, L'autorizzazione per l'apertura di sale cinematografiche: brevi note sull'art. 22 del 'decreto Urbani', in Aedon 1/2006.

[19] Per un'analisi di questa giurisprudenza, cfr. C. Tubertini, Promozione delle attività culturali e autonomia di spesa delle regioni: il rilievo delle "esigenze unitarie", in Aedon 3/2005.

[20] Cfr. soprattutto punto 8 considerato in diritto della sentenza 285/2005.

[21] La c.d. chiamata in sussidiarietà e le condizioni in presenza delle quali essa può essere autorizzata sono state definite, dal giudice costituzionale, nella sentenza 25 settembre-1 ottobre 2003, n. 303.

[22] Sul punto, ci si permette di rinviare a C. Barbati, voce "Spettacolo", in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006, 5675 ss.

[23] Cfr. punto 10 del considerato in diritto.

 



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