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Il Mibact: dalle origini ad oggi

I tre tempi del Ministero dei beni culturali [*]

di Marco Cammelli

The three times of Ministry for Cultural Heritage
The author analyzes the history of Ministry for cultural heritage with particular attention for the role played by the Ministry in addressing the tasks assigned and the adequacy of the organizational and functional forms adopted for providing it.

Keywords: Centralization; Autonomy; Center-Periphery; Cultural Heritage-Landscape-Environment; Institutional Cooperation.

1. Il Ministero "per" la cultura, come più volte ha precisato da Spadolini per sottolinearne la distanza rispetto al modello dirigista del ministero "della cultura", nasce nel 1974-5 come Ministero per i beni culturali e ambientali, mentre oggi ne ricordiamo l'istituzione in uno dei più prestigiosi saloni del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, come suona l'attuale denominazione. È un segno non marginale dei molti cambiamenti che sono avvenuti e di cui si deve dare conto.

Il punto è come farlo, perché la nascita di un ministero è tante cose insieme: evidenza, anche in forma di diversa composizione, di nuovi interessi pubblici attinenti ad un macro settore di attività; perimetrazione di competenze, e dunque ruolo affidato al ministero in sé e in rapporto a quanto invece riservato ad altri soggetti pubblici (centrali o periferici) e ai privati; destinazione e stabilizzazione a questi fini di risorse pubbliche in termini di personale e mezzi finanziari; struttura tecnica e amministrativa deputata alla messa in opera delle politiche pubbliche e dei relativi compiti.

I temi che cercherò di trattare riguardano il ruolo riconosciuto al ministero nell'affrontare i compiti che gli sono assegnati e l'adeguatezza dei moduli organizzativi e funzionali adottati per provvedervi. Profili, semplificando ma non troppo, che da un lato attengono al modulo (duale o cooperativo) delle relazioni con gli altri soggetti pubblici e privati e dall'altro riguardano le diverse soluzioni richieste dalle crescenti esigenze gestionali, scarsamente compatibili con le forme giuridico-amministrative ministeriali.

L'angolazione prescelta in ogni caso offre due vantaggi: comprendere meglio i problemi di oggi e le possibili prospettive future e evitare nello stesso tempo le secche di un passato decontestualizzato e perciò immodificabile e le certezze dei profeti, che sanno in anticipo come le cose andranno a finire.

2. I quarant'anni del Ministero possono essere distinti in tre tempi. Del primo, quello della sua istituzione, hanno già detto molto bene Giuseppe Galasso e Guido Melis e dunque mi limito a richiamare solo gli elementi significativi per l'angolo di osservazione qui proposto perché mettono in luce, accanto all'obbiettiva debolezza della scelta amministrativa fatta all'epoca, l'innegabile sensibilità del disegno politico che vi stava a base.

Quanto alla prima è noto che il modello ministeriale fu adottato, suscitando immediate e aspre critiche [1], malgrado l'opinione contraria dell'autorevole gruppo di esperti coordinato da Massimo Severo Giannini che in luogo di una struttura pesante, centralizzata e rigida suggeriva strutture amministrative autonome, aziende, agenzie.

Questi dubbi, come l'esperienza successiva ha dimostrato, erano fondati. Il regime organizzativo e funzionale del ministero è risultato ben poco adatto rispetto ad un settore connotato da un alto numero di saperi tecnici e dalla gestione di delicati beni e servizi costretto a fare i conti (e spesso a soccombere) con il criterio opposto della centralità del profilo amministrativo e dell'antica aspirazione alla autosufficienza operativa.

In più, da allora tale scelta ha finito per esporre il ministero a due tensioni contrapposte:

da un lato, l'inevitabile tendenza verso l'uniformità rispetto agli altri ministeri e le dinamiche generali della amministrazione statale, che quando non operata direttamente dal legislatore è frutto della quotidiana omologazione svolta dai corpi dello Stato, dal regime contabile e dall'azione di dirigenze amministrative e organizzazioni del personale;

dall'altro, l'altrettanto irriducibile diversità sostanziale del settore e la conseguente difficoltà a rientrare negli ordinari standard ministeriali, a cominciare dalle atipiche modalità di collocazione e ruolo dei dirigenti generali, rispetto ai quali il ripetersi nel tempo di continui e non risolutivi ritocchi legislativi non è che il segno di un assetto organizzativo fin dall'origine poco adatto.

Ma le controindicazioni non finiscono qui. La concentrazione di funzioni in un unico modulo amministrativo non è di per sé garanzia di coordinamento tra sue articolazioni interne e d'altra parte la relazione di gerarchia può assicurarne la soddisfazione nelle amministrazioni d'ordine ma non in quelle ad alto tasso di specificità tecnica e culturale o chiamate alla produzione di servizi. Oltre tutto, già allora era ben chiaro che date le caratteristiche del patrimonio culturale in Italia l'esigenza, più che di moduli amministrativi di tipo piramidale, era semmai di decentramento interno e di forme adeguate di relazione con i sistemi locali, variamente avanzati ma sempre significativi.

Dunque, e va sottolineato, il discorso su queste scelte precede e supera quello dell'avvento delle regioni a statuto ordinario nel '70 che ne costituisce solo un profilo. Se lo si considera determinante, si rischia di ridurre il tutto all'adempimento giuridico di un atto dovuto e alla pressione di interlocutori istituzionali interessati: con il corollario, tutt'altro che banale, che se su questo fronte la tensione si allenta il punto si considera superato. Il che, evidentemente, non è.

Si tratta infatti di dinamiche assai più profonde e su più livelli: dall'aggiornamento della convenzione Unesco sul patrimonio mondiale (2014) agli indirizzi dei programmi Europa 2014-20 per una maggiore apertura orizzontale del settore alla società e alle altre politiche di settore, al risalente pensiero di studiosi e esperti che da tempo sottolineavano la necessità di un reale decentramento di gestione, correlato peraltro agli indirizzi e al presidio delle grandi istituzioni scientifiche nazionali (commissione Franceschini), per giungere allo sguardo lungo di chi aveva compreso che solo per tale via era possibile giungere alla individuazione dei beni che compongono il patrimonio artistico e del loro stato ai fini di una preventiva e sistematica azione di conservazione (Giovanni Urbani).

A tutto questo, si era aggiunta la traumatica vicenda dell'autunno del 1966 a chiarire una volta per tutte che non basta prendersi cura del singolo bene perché l'alluvione di Firenze aveva dimostrato che o ci si occupa anche dell'ambiente o basta un solo evento per distruggere un intero patrimonio artistico e culturale.

Tutt'altro discorso merita invece il disegno politico di Spadolini, che in questa occasione ho cercato di approfondire meglio [2]. Oltre a quanto messo bene in luce dagli interventi di Giuseppe Galasso e di Guido Melis, vanno sottolineate almeno tre sue esplicite indicazioni particolarmente significative per quanto stiamo osservando:

- il sistema complessivo sta cambiando in senso pluralistico, dal gennaio 1973 le regioni e i relativi trasferimenti sono divenute operativi, e questo richiede tanto un forte ancoraggio centrale del sistema atto a garantire alle politiche di settore un riferimento istituzionale lungo l'asse Parlamento/Governo quanto chiarezza e collaborazione con le regioni a garanzia di unitarietà dei criteri operativi della tutela contro il rischio della frammentazione [3];

- valore strategico, esplicitato già nella intitolazione del nuovo ministero, del collegamento con l'ambiente;

- politiche per la cultura come elementi chiave per l'Italia che in quegli anni sta vivendo una profonda e generalizzata trasformazione verso una società più aperta e più complessa nella quale la cura e (prima ancora) il riconoscimento del patrimonio culturale sono destinati a superare il mondo degli studi riservati ad accademie e specialisti, diventando invece ingredienti chiave per accompagnare il processo e agevolare la maturazione del Paese.

In conclusione. Con uno sguardo d'insieme possiamo affermare che la nascita del ministero è frutto di una felice intuizione e di una particolare sensibilità politica e culturale accompagnata da una soluzione organizzativa problematica e non particolarmente felice.

Eppure, trattandosi di un processo appena avviato, il ruolo svolto dal nuovo ministero restava aperto a due possibili modelli: uno, certo più probabile date le premesse, come centro tecnico-amministrativo dell'organizzazione statale del settore; l'altro, non ancora del tutto escluso, come centro del complesso sistema di beni, ambiente e (poi) attività culturali, di cui lo Stato non è l'unico soggetto pubblico e il pubblico non è l'unica ed esclusiva componente.

3. Veniamo così al secondo tempo, che per molti aspetti appare di chiusura e che se non è la ragione principale delle molte difficoltà odierne certo ha significativamente contribuito ad enfatizzarle.

Si è appena detto che malgrado gli inconvenienti segnalati molte strade erano ancora aperte e sicuramente il periodo delle riforme istituzionali e amministrative degli anni '97-'99, specie dopo la legge 59/1997 e il decreto 112/1998, offriva la possibilità di superare l'impianto originario e procedere verso la seconda opzione: cioè, ministero non come cardine del centro amministrativo statale ma come centro del sistema nel suo complesso.

Le ragioni per riaprire il discorso erano essenzialmente tre:

intanto la modulazione del processo e la sequenza delle fasi esplicitamente disciplinate dalla legge n. 59: prima la semplificazione delle funzioni e dei procedimenti amministrativi; poi il maggiore decentramento possibile (istituzionale, a regioni e enti territoriali, e amministrativo, alle articolazioni periferiche dello stato) dei compiti, in base al criterio della dimensione degli interessi accuditi; infine, e solo a questo punto, riforma del centro statale (e dunque non solo ministeri, ma eventuali loro accorpamenti o altre soluzioni istituzionali) con la identificazione delle funzioni residue e delle adeguate forme organizzative;

procedura certo complessa, in sé e per la necessità di garantirne il rispetto da parte di tutti i soggetti istituzionali coinvolti il che spiega, e veniamo alla seconda ragione, perché la guida del processo e la stesura dei diversi decreti non fosse lasciata alla autogestione dei singoli apparati interessati ma riservata a sedi a competenza trasversale e generale di natura tecnica (gruppi di lavoro presso la Presidenza del Consiglio) e politica (Presidenza del Consiglio e commissione bicamerale per le riforme amministrative).

Il terzo elemento per riaprire il discorso era strettamente contenutistico, e legato alla fondamentale distinzione operata tra:

tutela, che è innanzitutto conservazione affidata a saperi tecnico-professionali e alla relativa attività di regolazione e di controllo, anche se non priva come ovvio di profili anche importanti di gestione, connotata in linea di principio dalla estraneità rispetto agli interessi in gioco;

valorizzazione e fruizione, che sono innanzitutto gestione naturalmente non disgiunta dai necessari saperi tecnici e relative garanzie e che con un patrimonio culturale così naturalmente e storicamente disseminato come in Italia, richiedono una forte cooperazione con i principali soggetti in gioco, senza la quale la stessa identificazione dei beni risulta problematica.

Con il corollario che funzioni diverse vanno assegnate a organizzazioni distinte (Covatta) o addirittura, ma questo riguardava essenzialmente l'ambiente, a ministeri diversi (De Vergottini).

Ci si è soffermati sull'impianto delle riforme di quel periodo per mettere in evidenza le profonde implicazioni sul ministero che avrebbero potuto derivarne: dal ruolo dei vertici, centro del sistema più che apparato centrale dello stato, alle c.d. articolazioni "periferiche" del ministero, così qualificate solo se concepite in necessaria funzione (e derivazione) dal centro e da questo esclusivamente definibili, negando in tal modo la loro possibilità di costituire strutture di base che per svolgere funzioni primarie in contesti tra loro molto diversi necessitano di condizioni di autonomia, naturalmente all'interno di un quadro generale e di indirizzi, regolazioni e controlli affidati (ed effettivamente svolti) dal centro.

Strutture appunto di base, perché effettivamente primari sono i compiti esercitati nel proprio ambito, in necessaria ma dialettica relazione con gli altri attori dei sistemi locali. Una relazione, peraltro, garantita nella propria autonomia da un quadro di funzioni sistemiche, indirizzi, regolazioni e controlli affidati (e adeguatamente svolti) dal centro.

Altrettanto può dirsi in ordine al conseguente ripensamento sul piano funzionale della valorizzazione e dei relativi moduli cooperativi con il restante sistema pubblico (non solo regioni e enti locali, si pensi alle università), e con le molte specificazioni attribuibili al "privato": dall'associazione culturale all'impresa, dal terzo settore alle fondazioni, dal singolo studioso al turista o al semplice cittadino titolare, come si usa dire, di un bene "notificato". Specificazioni diverse che chiamano in causa categorie concettuali e principi costituzionali diversi: libertà di associazione e promozione della cultura, sussidiarietà orizzontale e ricerca scientifica, par condicio tra imprese e diritto alla buona amministrazione del singolo cittadino, e che contemporaneamente richiedono un serio ripensamento strutturale nell'organizzazione del ministero in modo da condurne le modalità di azione verso forme assai più articolate e più prossime al modulo cooperativo.

Modalità tra l'altro che in più di un caso e nello stesso periodo, se pensiamo alle intese istituzionali e all'accordo di programma quadro in materia di beni culturali tra Ministero e regione Lombardia (maggio 1999) o Piemonte (2001), avevano dato esiti positivi come all'epoca non si era mancato di cogliere [4].

Così non è stato, anzi è prevalsa una linea strettamente difensiva in direzione opposta, verso il rafforzamento del modello duale.

Certo, non erano mancate a partire da quel periodo (dal 1995 in poi) dinamiche che in vario modo hanno agevolato una posizione del genere: il vento federalista, fatto di pascoli ricchi di parole ma non privo di richiami sventati a esiti di tipo secessionista; la fragilità delle regioni, sul punto oscillanti tra la controdipendenza di soluzioni altrettanto dualistiche e la (ben più diffusa) preoccupazione di dovere assumere responsabilità poco gradite in una materia così delicata e sensibile rispetto alle politiche locali di sviluppo; la crescente crisi della finanza pubblica e le prime avvisaglie della possibile utilizzazione (di parte) del patrimonio pubblico per farvi fronte.

Elementi innegabili, si è detto, che certo hanno sollevato giustificate preoccupazioni e cautele. Ma dobbiamo essere chiari. Le ragioni determinanti restano altre e attengono ad una opzione di fondo ben diversa: quella per il modello duale.

Che il punto fosse questo risulta in tutta evidenza fin dal primo comma dell'art. 1 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 che riserva al ministero, il quale nel frattempo ha perso l'ambiente ma si è esteso alle attività culturali, l'intero arco delle attività del settore. Recita infatti "il Ministero provvede alla tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali e alla promozione delle attività culturali" limitandosi, per quanto concerne il relativo esercizio, a richiamare il metodo della programmazione e l'impegno, si badi bene, non alla cooperazione ma a "favorire la cooperazione con le regioni e gli enti locali, con le amministrazioni pubbliche, con i privati e con le organizzazioni di volontariato".

La scelta è chiara, ma risulta anche più netta se si considerano gli aspetti più complessivi della vicenda. Intanto il metodo: il decreto 368/1998 anticipa in solitaria (con il ministero dell'Economia) la riforma amministrativa di tutti gli altri ministeri, operata un anno dopo in via generale dal decreto legislativo 300/1999 limitandosi a riproporre all'interno di quest'ultimo, con limitate modifiche, il proprio testo adottato un anno prima. Con due conseguenze: sul piano istituzionale, la formalizzazione della propria estraneità alla riforma complessiva del Governo allora in atto, e sul terreno tecnico-giuridico non trascurabili problemi di coordinamento tra i due testi. L'una e l'altra, peraltro, immediatamente e autorevolmente rilevate [5].

Non meno netta è la scelta in termini di merito: in evidente difformità rispetto ai principi generali della legge delega 59/1997 e ai criteri più specifici dettati dal capo II di quest'ultima nonché alle definizioni della materia e delle funzioni di Stato e regioni operate poche settimane prima dal d.lgs. 112 del marzo 1998, che riconosceva funzioni agli enti territoriali e modalità stabili di cooperazione stato-sistemi locali [6], con il d.lgs. 368 dell'ottobre 1998 si procede a passo spedito verso una opzione che più che duale è ormai decisamente monistica. Una svolta che verrà formalmente perfezionata qualche anno dopo dal codice dei beni culturali (d.lgs. 42/2004) e dal successivo decreto correttivo 156/2006, che provvederanno all'abrogazione di tutte le disposizioni del d.lgs. 112/1998 appena richiamate [7].

Il quadro complessivo che emerge non permette letture diverse.

Sul piano organizzativo, una opzione monistica più che duale sintetizzabile nella sequenza pubblico = stato = ministero = centro amministrativo e nella conseguente netta chiusura a regioni e sistemi locali, accentuata da rigide relazioni gerarchiche al centro, con la scelta segretario generale/direttori generali (rispetto alla diversa logica dei dipartimenti), e con gli uffici periferici.

Sul piano funzionale, il punto chiave dell'intera autorappresentazione proposta e (come si vede) realizzata è rappresentato dalla enfatizzazione della tutela in senso stretto a beneficio non solo della competenza statale (cui la tutela è interamente riservata) ma come modello di relazione privilegiato ispirato ai principi di autoritatività e unilateralità, nei rapporti con le altre amministrazioni pubbliche, i privati e il contesto. Con il risultato, dato lo squilibrio e la marcata asimmetria di risorse tra le parti, di precludere ogni possibilità di cooperazione con i sistemi locali e i diversi interlocutori ivi operanti (Luigi Bobbio, infra).

In questo quadro lo stesso art. 10 del decreto 368, che apriva a possibilità di esternalizzazione della gestione mediante società miste, fondazioni o concessioni, ha finito per essere non tanto il primo passo verso una concezione più ampia delle forme di gestione e verso l'inevitabile quanto necessaria collaborazione con altri soggetti pubblici e privati, ma la clausola di chiusura del principio opposto: insomma l'eccezione, cui ricorrere quando non si può fare altrimenti, che conferma la regola secondo cui al Ministero è riservata in via diretta anche l'intera gestione.

In ogni caso l'ambivalenza dell'art. 10 è durata poco: nel 2006 si è provveduto ad abrogare la disposizione, e da allora la disciplina dei rapporti con i privati nello svolgimento dei compiti di gestione si è frammentata in molti rivoli uniti dalla complicazione delle procedure e dalla generalizzata difficoltà della loro messa in opera. A dimostrazione che non proprio di ambivalenza si trattava.

Date queste premesse, la cui lettura critica è stata largamente e immediatamente condivisa dai più autorevoli studiosi all'atto stesso della pubblicazione del decreto 368/1998 [8], non stupisce che le conseguenze siano risultate particolarmente pesanti.

Non solo viene lasciata cadere la (tenue) possibilità di apertura che la riforma Spadolini lasciava aperta, ma l'arroccamento su se stesso del ministero mentre non risolve le difficoltà tradizionali che in gran parte restano, dalla mancata ricognizione sistematica dei beni culturali [9] al funzionamento ordinario o al rapporto con le imprese [10], pone le premesse per un forte spiazzamento rispetto ai nuovi problemi che nel frattempo si aggiungono.

È ben nota la grave riduzione di risorse che anche in termini di mancato ricambio di quadri e personale, interrompe la socializzazione agli apparati delle nuove leve mettendo in discussione il passaggio delle consegne di memoria e saperi tecnico-professionali, e certo da qui si deve partire. Ma il tema è molto più ampio e profondo.

Quanto avviene negli anni successivi rende infatti ancora più esplicita la tensione tra le forme organizzative adottate in base al modulo duale e relativi corollari (separazione dal contesto, autosufficienza, estensione dei profili di tutela a ogni ambito del bene e del relativo regime, soluzione autoritativa e unilaterale dell'intreccio di interessi), da un lato, e il sovraccarico generato da nuove esigenze e dall'aumento delle funzioni: basti ricordare la dilatazione del perimetro delle competenze che il legislatore nel 2006 estende di colpo all'intero paesaggio senza preoccuparsi dell'impatto sulla organizzazione, il cruciale il rapporto bene culturale-ambiente che porta a riprendere i fili di un binomio che dopo Spadolini, con la costituzione del ministero dell'ambiente si era sciolto; la crescente attenzione ai riflessi sui sistemi sociali ed economici in ragione delle potenzialità di sviluppo legate alla cura del patrimonio culturale, di cui sono prova le iniziative assunte nelle sedi comunitarie e dal mondo dell'impresa; l'interdipendenza con altre politiche pubbliche e la conseguente esigenza di aggiungere alla tradizionale (e certo necessaria) metodica analitico-particellare sul singolo bene anche profili diversi come nuove azioni programmate, approcci sistemici e visione d'insieme.

È esattamente per queste ragioni che la Convenzione europea del paesaggio, ratificata dall'Italia esattamente nello stesso periodo (2006), va nella diversa direzione della integrazione delle competenze e della valorizzazione degli enti territoriali riconoscendo nel suolo "l'elemento del paesaggio e del patrimonio culturale da tutelare contro le minacce costituite dai processi di erosione, compattazione e contaminazione territoriale e dai connessi problemi di equilibrio ecologico" [11].

D'altronde, l'estensione ormai raggiunta dal perimetro della tutela intercetta fatalmente una pluralità di interessi pubblici e privati e richiede comunque una valutazione complessiva, impedita dalla enorme parcellizzazione di 69 soprintendenze con competenze basate su ambiti territoriali e disciplinari diversi. È un punto curiosamente trascurato in questo periodo ed è un peccato perché se è vero che la visione unitaria non è di per sé garantita dall'accorpamento delle strutture, è però certo che ne è impedita dalla relativa frammentazione.

A questi dati, già problematici, si aggiungono le crescenti difficoltà di progetto politico e di ruolo istituzionale di larga parte delle regioni che finiscono per rendere più ardua la stessa azione delle strutture periferiche del ministero il cui operare comunque richiede a questo livello una solida articolazione amministrativa (ricercata con le direzioni e gli attuali segretari regionali) e credibili interlocutori istituzionali. Il che porta a considerare per lo meno incauta la frettolosa eliminazione delle commissioni miste ex artt. 154-5 d.lgs. 112/1998 cui erano affidate le proposte per il piano pluriennale e annuale di valorizzazione dei beni culturali e di promozione delle relative attività. Senza contare i non trascurabili danni collaterali generati dal modulo dualistico, quale ad esempio la dannosa rappresentazione anche mediatica di una anomala divisione del lavoro tra Stato e sistemi locali che rischia di lasciare al primo tutto il peso dei divieti e dell'azione impeditiva e ai secondi il merito di presentarsi, almeno nelle proposte, promotori di sviluppo. Se dopo dieci anni i piani paesaggistici regionali sono solo 2 e risultano assenti regioni da sempre in prima linea, come Lombardia o Emilia Romagna, tra i tanti motivi potrebbero esserci anche questi.

Tra i problemi, infine, vanno annoverati anche quelli di secondo livello, cioè i rimedi maldestri che ai problemi iniziali ne aggiungono altri che non c'erano. Mi limito a due.

Intanto, la tendenza a trasferire sul piano normativo la soluzione di problemi organizzativi che naturalmente proprio sul questo piano andrebbero affrontati.

Resta esemplare il caso della mancata di catalogazione dei beni culturali in mano pubblica cui non si mette mano ex ante con un programma (anche pluridecennale, se del caso) di ricognizione sistematica, completa e preventiva ma si opta per una verifica caso per caso sulla base della singola esigenza (ipotesi di vendita o altro atto di disposizione), estendendo nel frattempo a titolo cautelativo il regime ordinario dettato per i beni culturali a tutti i beni (salvo limitate esclusioni temporali) dei soggetti pubblici o assimilati, e dunque anche ad una larga parte che con evidenza ha poco o nulla a che fare con il patrimonio culturale.

Il risultato è quello di rinunciare a priori alla possibilità di realizzare un completo data-base dei beni culturali in mano pubblica [12], di sovraccaricare le soprintendenze di adempimenti formali che nella maggior parte dei casi riguardano beni di nessun interesse culturale (togliendo così spazio alla cura di quelli che invece lo sono) e infine di lasciare la vasta platea degli interessati (dagli enti locali alle altre amministrazioni pubbliche o altri soggetti equiparati, come enti non profit e fondazioni) nell'incertezza sulla effettiva natura e regime dei propri beni con tutti i risvolti, dalla circolazione al profilo fiscale o alla collocazione in bilancio, che si possono immaginare.

In sintesi: il problema iniziale è rimasto, né poteva essere altrimenti, mentre se ne sono aggiunti molti altri che prima non c'erano, e che potevano essere evitati.

Non meno rischiosa è la tentazione, questa volta dal lato del legislatore e più volta emersa negli ultimi anni, di risolvere i problemi dell'insufficiente funzionamento della pubblica amministrazione ricorrendo a veri e propri by-pass sulla base del principio, non dichiarato ma sempre più evidente, che ciò che non si riesce a migliorare lo si colloca ai margini e si cerca di farne a meno. Naturalmente non è una soluzione, solleva più problemi di quelli che cerca di risolvere e in ogni caso, come osservato in altra occasione, è il segno di una crescente insofferenza che rischia di tradursi in una seria delegittimazione, generale e specifica [13].

4. Il terzo tempo del ministero e della sua vicenda è oggi. In base a quanto visto sin qui, potremmo già concludere che i due modelli di ministero astrattamente restano ma la direzione prevalente verso cui ci si è mossi con particolare decisione negli ultimi quindici anni è quella duale che in verità, strada facendo, si è fatta sempre più monistica.

Perché è vero che il ruolo ben più ampio a cui oggi è chiamato il Ministero richiederebbe una evoluzione nel senso di "centro del sistema", con l'aggiunta ai compiti tradizionali anche di un'ampia azione di governo in grado di articolarsi nelle diverse specificazioni (non solo del ministero, ma del sistema, appunto) in termini di relazioni sovranazionali, comunicazione, formazione, elaborazione tecnica e culturale, promozione, gestione e controllo. Un ruolo concretamente non esercitabile senza forme di apertura, flessibilità, cooperazione e sperimentazione fino ad oggi inedite.

Ma è ancora più vero che la tendenza a insistere sulla linea tracciata dal d.lgs. 368/1998 e cioè sulla separazione, autosufficienza e isolamento non sembra attenuarsi, malgrado qualche apertura dovuta come vedremo alle recenti riforme del 2014-5.

Un esempio: proprio mentre, con l'estensione del perimetro del patrimonio culturale e della relativa tutela si intercettano, come nel paesaggio, altri corposi interessi pubblici e privati con cui è insieme inevitabile e doveroso il confronto anche per i principi comunitari che ormai dopo Lisbona conformano l'azione amministrativa, invece di aprirsi a questi temi e porsi i relativi e non facili interrogativi si è tentati di rifugiarsi all'interno del perimetro più ristretto della tutela, quello giuridico-amministrativo unilaterale e autoritativo fondato sul postulato dell'unicità dell'interesse in gioco, forzando l'art. 9 Cost. verso una sorta di monoteismo del patrimonio culturale di cui un solo soggetto - cioè il pubblico, cioè lo stato, cioè il centro, cioè il ministero - è interprete e garante.

Detto questo, forse i giochi non sono fatti del tutto e lo stato delle cose richiede una lettura più attenta. Il fatto è che quale che sia il modello dual-monistico o cooperativo praticato o perseguito in prospettiva, i radicali mutamenti del contesto e il forte aumento di funzioni che si sono indicati richiedono in ogni caso di mettere mano, e a fondo, alla organizzazione esistente.

Profili come le relazioni con sedi sovranazionali e restanti ministeri, coordinamento interno (orizzontale e verticale tra centro e periferia), adeguamento organizzativo e tecnico delle strutture, innesto di nuove tecnologie, autonomia di luoghi e istituti, reclutamento formazione e allocazione di nuovo personale, regole più adatte nella utilizzazione delle risorse e negli affidamenti, modalità chiare e credibili per tutta l'area della gestione, costituiscono altrettanti passaggi obbligati per chiunque.

Perché nella delicata situazione attuale, razionalizzazione e adeguamento organizzativo vanno comunque operati anche se per gli uni tutto ciò costituirà il limite insuperabile, e per gli altri invece la premessa o la precondizione per un corretto rapporto con le realtà e gli attori del contesto.

È proprio quanto sembra emergere dal biennio che abbiamo alle spalle, per il quale mi limito a richiamare il senso complessivo dei provvedimenti adottati rinviando per il resto agli ultimi numeri di Aedon e al bel libro di Lorenzo Casini [14] tra i cui meriti vanno sottolineati in particolare l'ampiezza dell'orizzonte considerato e la correttezza con la quale esamina nella seconda parte le riforme dell'ultimo biennio, cui ha contribuito come si sa in modo significativo: non per sostenerle, sarebbe scontato e comunque non sarebbe la sede, ma per aiutare il lettore a capire i problemi da cui nascono, premessa (troppo spesso trascurata) indispensabile per una valutazione equilibrata quale che sia la conclusione che se ne tragga nel merito.

Ebbene, se non è possibile ad oggi cogliere scelte strategiche diverse da quelle fin qui prevalenti, è certo invece che si sono introdotte innovazioni potenzialmente orientate ad una ampia razionalizzazione.

Basti pensare, per quanto riguarda il ministero, agli interventi sul piano funzionale volti a stabilizzare (e in parte de-settorializzare) con la commissione regionale criteri di valutazione e modalità di azione delle singole soprintendenze, o il coordinamento interno e verso l'esterno affidato ai segretariati regionali o l'ineccepibile criterio di allocare macro funzioni distinte (tutela e valorizzazione) a distinti apparati (soprintendenze, poli museali e musei ad autonomia speciale) o di ridurre con la soprintendenza unica l'attuale frammentazione settorial/territoriale delle soprintendenze esistenti.

Ma l'arco delle innovazioni va oltre e incide anche su quello che si può definire "il ministero fuori dal ministero" e in particolare i privati e le imprese, con il c.d. "art bonus" e relativi crediti di imposta che a ben guardare non è solo un segnale ai privati ma anche un passo sul terreno dell'acquisizione diretta di risorse e dunque di una relazione più equilibrata rispetto alla dominante posizione in materia del Mef. Merita un cenno, infine, anche la parte dei contratti relativi ai beni culturali dettata dal recente d.lgs. 50/2016, che si sforza di garantire ai lavori sui beni culturali un regime più rispettoso della delicatezza del settore in termini di bandi e modalità di selezione.

5. È il migliore dei mondi possibili? Non proprio, e la strada da fare è ancora molta.

Non ci si riferisce tanto alle opzioni di fondo ancora da chiarire, anche perché nelle condizioni attuali come si è visto sarebbe comunque pregiudiziale una razionalizzazione sia per innovazioni di stampo cooperativo che per varianti più robuste e aggiornate del modulo ministeriale in termini di funzionalità di cui può forse essere colta qualche traccia recente [15].

Il discorso riguarda invece alcune cruciali teste di capitolo del sistema come la mancanza di chiare e credibili modalità di relazione con l'articolato mondo dei "privati" e le relazioni con i sistemi locali tanto al centro, vedi la modesta incidenza dei medesimi nel Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici e nelle attività ivi svolte (G. Volpe) rispetto all'originaria ipotesi di Spadolini che rivestissero ben altro ruolo, quanto in sede regionale con la già ricordata soppressione delle commissioni miste e più ancora l'abbandono del sistema di programmazione fondato su proposte elaborate dai sistemi locali.

Riguarda anche il delicato coordinamento interno al Ministero, paradossalmente accentuato dalle proprie stesse innovazioni: in sede decentrata ove il ruolo dei segretariati regionali è cruciale sull'asse soprintendenze - poli museali pena un dualismo non governabile o il semplice ritorno al passato; al centro ove a tutt'oggi non si intravedono solidi contrappesi alla settorialità delle direzioni generali il che trasferisce (quasi) per intero sul segretario generale lo sforzo, ai limiti delle possibilità per chiunque, del coordinamento tra le direzioni generali e tra queste e le funzioni trasversali, nazionali e sovranazionali, del sistema.

Profili, si noti, che se non risolti adeguatamente aprono il capitolo dei succedanei e dei relativi prezzi perché se il coordinamento funzionale non è operato efficacemente all'interno, può nascere la tentazione di provvedervi dall'esterno, magari sotto il capitolo della semplificazione. Il riferimento, naturalmente, non è casuale anche se è lecito dubitare, data la lunga storia della nostra amministrazione periferica che Guido Melis ci ha insegnato, che ne sarà davvero protagonista il prefetto in occasione delle conferenze di servizi disciplinate dalla legge 124/2015 e relativi decreti delegati.

Sullo sfondo infine, ma ogni giorno più evidente e decisiva, la domanda delle domande: non solo chi, quando e come provvede alla cura del patrimonio culturale, ma ancor prima il significato di farlo oggi in un mondo radicalmente cambiato rispetto al secolo scorso [16].

Per (non) concludere. Come si è visto, problemi complessi e oggettivi che questi "tempi" del ministero hanno messo in luce e dunque altrettante ragioni per discuterne e approfondire laicamente i diversi aspetti, come Spadolini ha insegnato. E proprio per questo, scarsa utilità di posizioni improntate a ideologie, personalismi o a più prosaiche difese del proprio particolare.

Nello stesso tempo anche motivi di fiducia, pensando alla crescente consapevolezza dell'importanza di questi temi, alle significative energie disponibili nelle istituzioni e nella società, ai molti che dentro e fuori il ministero pur tra serie difficoltà vi dedicano il proprio impegno quotidiano e professionale. In un quadro, comunque, che malgrado la dimensione dei problemi nel suo insieme appare obbiettivamente riaperto rispetto alla stasi e alle chiusure degli anni passati.

Sappiamo tutti che non basta dimostrare che una cosa è necessaria perché avvenga: bisogna renderla possibile. È il compito più alto della politica che su questi temi, molti anni dopo Spadolini, ha ripreso a misurarsi.

 

Note

[*] Testo rielaborato e ampliato della relazione tenuta il 4 agosto 2016 in occasione della cerimonia di intitolazione a Giovanni Spadolini della sala "ex Consiglio Nazionale" del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo in via del Collegio Romano.

[1] Tra cui, celebri, quelle di "scatola vuota" (Sabino Cassese) e "un buco nero che tutto ingoia e nulla restituisce" (Giovanni Urbani).

[2] Grazie alla cortesia dell'amico prof. Angelo Varni e alla sensibilità della Fondazione Spadolini, che mi hanno permesso di disporre di due importanti pubblicazioni, quella ufficiale del Ministero, I beni culturali. Dall'istituzione del Ministero ai decreti delegati, Roma, 1976 con introduzione di G. Spadolini e soprattutto G. Spadolini, Beni culturali. Diario, interventi, leggi, Firenze, 1976, per questi aspetti particolarmente preziosa. Dati interessanti anche in Gianluigi Di Giangirolamo, L'evoluzione delle politiche culturali in Italia tra centro e periferia con uno sguardo alla Francia (1959-1975), Università di Bologna, tesi di dottorato di ricerca in Storia contemporanea, ciclo XXVII, Bologna, 2015.

[3] Preoccupazioni in vario modo accentuate da scelte di poco precedenti espressive di forti iniziative regionali in materia: dalla nascita dell'Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (IBC, 1974), il cui ruolo viene precisato da Spadolini in modo che "tutti gli sforzi, pur benemeriti, che da questa parte si muovono, si incanalino secondo un criterio scientifico unitario e secondo un'unica metodologia", cfr. Introduzione, in I Beni culturali. Dall'istituzione del Ministero ai decreti delegati, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma, 1976, p. XIV, al trasferimento alla regione Sicilia delle competenze in materia di tutela del paesaggio, antichità e belle arti disposto con il d.p.r. 30 agosto 1975, n. 637.

[4] Cfr. L. Zanetti, Gli accordi di programma quadro in materia di beni e di attività culturali, in Aedon, 2000, 3, e S .Foà, L'accordo di programma quadro tra ministero per i Beni e le Attività culturali e la regione Piemonte, in Aedon, 2001, 2.

[5] G. Corso, Il Ministero per i beni e le attività culturali, in La riforma del Governo. Commento ai decreti legislativi n.300 e 303 del 1999 sulla riorganizzazione della presidenza del consiglio e dei ministeri, (a cura di) A. Pajno e L. Torchia, Bologna, 2000, pag. 375 ss.

[6] Esemplare la vicenda delle commissioni miste dell'art. 154. Correttamente, la disposizione non prevedeva solo rappresentati del ministero dei beni culturali e delle singole regioni interessate ma una composizione più ampia e espressiva, appunto, delle diverse realtà (non solo istituzionali) presenti in sede locale. Dei 13 componenti, infatti, solo tre erano designati dal ministero beni culturali e due dalla regione: si aggiungevano 2 del Miur, 2 dalla associazione regionale dei comuni e uno da quella delle province, 1 dalla conferenza episcopale regionale e 2 dal Cnel tra le imprese locali .

[7] Salvo gli artt. 149 e 151, riguardanti funzioni riservate allo Stato e biblioteche statali universitarie.

[8] Oltre a G. Corso, Il Ministero per i beni e le attività cultura, cit. vedi G. D'Auria, Filosofia e pratica del capo II della legge 59/1997; G. Pastori, Il ministero per i Beni e le Attività culturali: il ruolo e la struttura centrale; G. Sciullo, Organi di consulenza, strutture tecniche autonome, scuole; E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero; L. Bobbio, Lo Stato e i Beni culturali: due innovazioni in periferia e G. Pitruzzella, L'organizzazione periferica del ministero e gli attori istituzionali locali, tutti in L'istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali nel quadro delle riforme amministrative, in Aedon, 1999, 1 cui adde, particolarmente significativo per le contrarie ragioni del Ministero, O. Forlenza, Intervento, ivi.

[9] Essenziale anche per il patrimonio pubblico: per una occasione persa, basti ricordare l'esito di quanto previsto in materia dal d.p.r. 283/2000 in tema di dismissioni di immobili da parte degli enti pubblici, che rimase senza effetto e fu abrogato nel 2004.

[10] Un rapporto opaco con i privati, a cominciare dai servizi di accoglimento, con confusione di ruoli e di regole. Risultato: sul piano formale "regole senza esternalizzazioni", cioè soluzioni che si arenano sul regime dei beni e sulla difficoltà della amministrazione a rapportarsi con gli interlocutori esterni, e "esternalizzazioni senza regole", perché carenze organizzative e scarsità di risorse creano una zona grigia di compensazioni reciproche nella quale l'amministrazione tenta di recuperare risorse venute meno e il privato si propone per altre attività non previste: sul punto, rinvio al mio Decentramento e "outsourcing" nel settore della cultura: il doppio impasse, in Dir. pubbl., 2002, 1, pag. 261 ss.

[11] V, G.F. Cartei, Autonomia locale e pianificazione del paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2013, 3, pag. 703 ss. I principi della coesione territoriale e della integrazione tra i livelli di governo, anche sotto il profilo della tutela del patrimonio naturale e culturale, sono ribaditi anche più recentemente dal punto 23 della Agenda Territoriale dell'Unione Europea 2020, del 10 maggio 2011 (ivi, pag. 731).

[12] Come si prefiggeva il sistema introdotto dal d.p.r. 283/2000, abrogato dal codice del 2004.

[13] Su questi aspetti rinvio a Amministrare senza amministrazione, il Mulino, 2016, 4 e più ampiamente in Amministrazione e mondo nuovo: medici, cure, riforme, in Attraversare i confini del diritto. Giornata di studio dedicata a Sabino Cassese, (a cura di) L. Torchia, Bologna, 2016, pag. 77 ss.

[14] Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Mulino, 2016.

[15] Cfr. alcune recenti notizie di stampa riguardanti agenzie pubbliche come Ales, Consip e Invitalia.

[16] B. Zanardi, Un patrimonio senza. Ragioni, problemi, soluzioni, Milano, 2013.

 

 



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