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Giornata di studio su "L'istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali" nel quadro delle riforme amministrative

 

L’organizzazione periferica del ministero e gli attori istituzionali locali

di Giovanni Pitruzzella

1. Uno dei problemi più rilevanti dell’organizzazione periferica del ministero per i Beni e le Attività culturali è quello dei rapporti con le autorità regionali e locali. Le soluzioni in astratto possibili sono molteplici e si estendono lungo l’arco delle ipotesi comprese tra il modello del "federalismo duale" e quello del "federalismo cooperativo". Il primo, com'è noto, enfatizza la distinzione-separazione di competenze tra lo Stato e le unità politico-amministrative sub-statali, mentre il secondo pone l’accento sulla costruzione di un sistema di relazioni basato sull’integrazione funzionale e organizzativa tra i differenti livelli territoriali di governo.

Il d.lg. 368/1998 espressamente non dice nulla al riguardo, ma le scelte organizzative da esso adottate devono essere lette alla luce del d.lg. 112/1998, che ha optato per un sistema di relazioni tra Stato, regioni ed enti locali che fa coesistere i due principi della separazione e della cooperazione, applicandoli a campi materiali distinti.

Da una parte, infatti, c’è la funzione di tutela dei beni culturali che è riservata integralmente allo Stato. Il decreto legislativo ha affermato senza mezzi termini il monopolio statale della funzione di tutela, non dando alcun seguito a quella indicazione, che pure era presente nel dpr 616/1977, che avrebbe voluto riconosciuto un ruolo alla regione anche nel campo della tutela. Dall’altra parte, il decreto ha individuato altri campi materiali, in cui si esplicano i compiti dei pubblici poteri che affiancano la tradizionale funzione di tutela risalente alla legge del 1939: la gestione, la valorizzazione, la promozione dei beni e delle attività culturali.

Queste sono materie a "mezzadria" tra lo Stato, le regioni e gli enti locali. Anzi si può osservare come in queste materie il decreto legislativo 112 abbia seguito una tecnica abbastanza peculiare: invece di fissare un preciso criterio di ripartizione dei compiti tra i diversi livelli territoriali di governo ha posto l’accento sul principio di collaborazione. Del resto, la Corte costituzionale ha sempre insistito sul fatto che nella materia dei beni culturali la Costituzione impone la collaborazione tra strutture statali e locali, per "il perseguimento di un grande obiettivo di civiltà" (sentenza 921/1988).

Mentre per la gestione sarà la Commissione paritetica di cui all’art. 150 del d.lg. 112/1998 a individuare i beni in relazione ai quali la gestione è trasferita alle regioni ed agli enti locali, nei campi della valorizzazione e della promozione le interferenze tra autorità statali e autorità sub-statali saranno frequenti e coinvolgeranno innanzi tutto le strutture che formano l’organizzazione periferica del ministero.

Per tentare di capire come le relazioni Stato-regioni-enti locali potranno svilupparsi possiamo osservare quanto segue:

 

2. Quali sono i rischi del sistema che si è molto rapidamente descritto?

Il ministero ha il monopolio della tutela e le soprintendenze che propongono (oggi indirettamente, tramite il soprintendente regionale) i provvedimenti di vincolo possono diventare centri di riferimento di una visione "assolutistica" dell’interesse pubblico alla mera conservazione fisica del bene, a detrimento delle spinte alla valorizzazione, alla gestione economica ed alla fruizione collettiva.

Questo può avvenire perché la funzione di tutela ha una strumentazione giuridica ben definita, di facile utilizzo e soprattutto che può essere impiegata unilateralmente dall’amministrazione statale senza interferenza da parte delle autorità regionali e locali.

L’amministrazione statale ha la possibilità giuridica di agire da sola se si concentra sulla tutela. D’altra parte, poiché le soprintendenze amministrano anche dei fondi per la manutenzione dei beni e gestiscono dei musei possono più facilmente diventare un sistema "autoreferenziale", dominato dalla "cultura della conservazione" e diffidente nei confronti della valorizzazione, soprattutto se quest’ultima vuole accoppiare cultura e sviluppo economico locale.

Peraltro, le attuali destinazioni delle risorse stanziate dal bilancio statale possono incentivare i suddetti orientamenti. Al riguardo può ricordarsi che, nell’esercizio finanziario 1997, gli stanziamenti per la valorizzazione equivalevano al 13,8% del totale (337,8 mld), mentre quelli per la tutela e conservazione riguardavano il 71,35% (pari a 1.948,6 mld). In ogni caso, comunque, si tratta di stanziamenti dotati di elevata rigidità, vista l’altissima incidenza delle spese di funzionamento (il 60,19% del totale dei pagamenti) e tra essi di quelle per il personale (il 50,98% dei pagamenti).

Invece, le regioni e gli enti locali devono comunque fare i conti con l’amministrazione statale, la quale esercita la tutela anche sui loro beni, autorizza i restauri e deve essere necessariamente coinvolta nelle stesse attività di valorizzazione e promozione nel caso non infrequente in cui negli stessi contesti si trovano a convivere beni dello Stato con beni delle regioni e degli enti locali.

Il punto centrale è che attualmente non ci sono incentivi alla cooperazione. Il che può significare sacrificio delle esigenze di valorizzazione o comunque utilizzazione sub-ottimale delle risorse destinate dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali alla suddetta attività.

Se si prende in considerazione il d.lg. 368/1998, è facile accorgersi come alcune soluzioni organizzative, all’interno del quadro descritto, potrebbero rafforzare la separazione tra sfera statale e sfera regionale e con essa lo sbilanciamento del sistema sul versante della tutela.

Una delle innovazioni più importanti del decreto legislativo consiste nella possibilità di attribuire l’autonomia scientifica, finanziaria, organizzativa e contabile alle sovrintendenze. Oggi l’autonomia dell’amministrazione dalla politica ha una grande forza di suggestione, ma non bisogna dimenticare due cose. La prima è che storicamente l’autonomia delle soprintendenze è stata invocata a garanzia della separatezza del corpo professionale dei soprintendenti rispetto alle pressioni degli interessi locali. La seconda è che l’autonomia delle soprintendenze, in passato, è stata proposta proprio per evitare un consistente trasferimento di funzioni a favore delle regioni.

Una seconda innovazione riguarda l’istituzione del soprintendente regionale, dietro la quale però si cela il mantenimento di un’organizzazione periferica estremamente frammentata (nelle 17 Regioni poste sotto il controllo del ministero operano ben 69 soprintendenze).

Frammentazione che, come mette in evidenza Luigi Bobbio nella sua relazione, difficilmente potrà essere superata mediante il soprintendente regionale, i cui compiti di coordinamento, per ora, non si appoggiano ad un robusto armamentario istituzionale.

Se l’organizzazione periferica è frammentata, stenterà a divenire sede di analisi e di elaborazione di visioni globali dell’uso dei beni culturali in cui si integrino armonicamente tutela, valorizzazione e promozione. Un’organizzazione frammentata, per forza di cose, tende a privilegiare l’intervento puntuale (tipico dei poteri di tutela) in luogo del disegno organico di azione.

 

3. Il d.lg. 368/1998 non si occupa dei rapporti degli uffici periferici con gli attori istituzionali locali. Il che potrebbe non essere una cosa così grave se si considera come un eccesso di regolamentazione delle relazioni tra livelli territoriali diversi di amministrazione può essere pericoloso.

Gran parte degli studiosi del "federalismo cooperativo" tedesco concordano sulla circostanza che "l’interdipendenza obbligatoria" (caratterizzata da partecipazione obbligatoria, realistiche possibilità di "exit", assenza di monopolio decisionale) paga spesso costi troppo elevati in termini di complessità del processo decisionale, ritardi, compromessi al più basso livello.

Perciò oggi molti assetti federali, compreso quello tedesco, puntano su forme di "cooperazione volontaria" basata su: partecipazione volontaria, realistiche possibilità di "exit", assenza di sanzioni in caso di raggiungimento dell’accordo. Questi ultimi sviluppi presuppongono la costituzione di policy communities settoriali, coese e orientate ai risultati, le quali prendono in carico gran parte delle relazioni tra lo Stato e le unità sub-statali. Un efficace sistema di relazioni intergovernative, pertanto, è costituito dall’esistenza, a tutti i livelli, di forti burocrazie, capaci di dialogare tra loro sulla base di valori condivisi, di efficienza e di professionalità.

Inoltre, gran parte degli studi sugli assetti politico-amministrativi federali mettono in evidenza che questi non sono il prodotto di un modello ideale, bensì il risultato dell’interazione tra le risorse che i diversi attori sono in grado di mettere in campo. Tutto ciò, peraltro, è sottolineato dalla letteratura in materia quando caratterizza gli assetti federali come "equilibri instabili". Ciò significa che il federalismo in azione è influenzato più che dal riparto astratto di competenze definito in sede di prima applicazione, dalla disponibilità di risorse (politiche, finanziarie, professionali, intellettuali) che i diversi attori coinvolti dalle politiche di decentramento riescono a giocare ciascuno per rafforzare la rispettiva posizione.

Ma è proprio con riguardo a questi ultimi aspetti che si mostrano le maggiori debolezze dell’assetto delle relazioni tra l’organizzazione periferica del ministero e gli attori istituzionali locali. Da una parte, ancora non c’è quella omogeneità culturale e professionale tra burocrazie statali e burocrazie locali, che è indispensabile per creare policy communities settoriali, né esistono "manager pubblici delle relazioni intergovernative".

Dall’altra, le regioni, che dovrebbero essere, dopo lo Stato, il "secondo pilastro" del sistema di amministrazione dei beni e delle attività culturali, ancora non dispongono di adeguate risorse in termini di legittimazione politica e di autorevolezza professionale e culturale per conquistare sul serio il ruolo di partner paritari dello Stato nelle politiche culturali.

Insomma, le politiche di decentramento tipiche degli ultimi, quale che sia il campo materiale interessato, rinviano ad unico problema di fondo: il decentramento ed il "regionalismo forte" difficilmente sono il risultato di processi top-down, che rischiano di essere bloccati dalla forza degli interessi consolidati e dalla debolezza dei soggetti destinatari delle politiche di decentramento. Qualsiasi disegno culturale, politico e normativo di valorizzazione delle strutture politico-amministrative regionali, prima ancora che alla titolarità formale delle competenze, dovrebbe prestare la massima attenzione alle risorse politiche, finanziarie e professionali di cui le regioni potranno disporre.

 



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