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Il riordino del ministero nel sistema dei beni culturali
(giornata di studio, 25 novembre 2004, Roma, Musei capitolini)

I raccordi fra ministero e privati

di Sergio Foà


Sommario: 1. Premessa. - 2. Le competenze ministeriali ed i riflessi sull'organizzazione. - 3. Funzioni, servizi e "materie-attività". - 4. La gestione del servizio pubblico di valorizzazione. - 5. La gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale. - 5.1. Gli accordi e gli strumenti pattizi. - 5.2. Le società di capitali costituite o partecipate dal ministero. - 5.3. Le fondazioni costituite o partecipate dal ministero. - 6. La gestione dei servizi aggiuntivi. - 7. La specialità degli appalti di lavori (e misti) concernenti beni culturali. Rinvio.



1. Premessa

Per poter inquadrare il sistema dei rapporti giuridici tra ministero e privati, occorre anzitutto delineare il quadro delle competenze amministrative del ministero e tra queste distinguere funzioni, servizi ed attività materiali.

Tale distinzione assume rilievo anche per sistemare le attività riconducibili alla tutela ed alla valorizzazione (insieme alla gestione) e per valutare separatamente se ed in quale modo i soggetti privati possano essere coinvolti nel loro svolgimento. Al riguardo si pongono ed intersecano altre questioni fondamentali, che pure debbono essere affrontate: comprendere per quali beni e servizi culturali la disciplina normativa rimane affidata allo Stato e le competenze serventi allocate a livello ministeriale; con riferimento a queste valutare se la scelta della forma di gestione (ed il coinvolgimento dei privati) delle attività strumentali alla cura dei beni e dei servizi culturali sia "libera" oppure costretta - in quale misura - entro schemi normativi predefiniti; valutare quale disciplina regoli le attività utili alla cura del bene quando non si tratta della gestione del bene intesa direttamente a garantire i diritti di fruizione (e dunque di servizio pubblico), ma di semplici interventi, lavori o servizi, pure utili a garantire la rilevanza culturale del bene; in tal caso comprendere in quali termini la disciplina degli appalti risulta corretta con regole speciali rispetto ai settori tradizionali, incidendo sulle modalità di individuazione del privato aggiudicatario.

 

2. Le competenze ministeriali ed i riflessi sull'organizzazione

Se si prova a seguire lo schema appena tratteggiato, si deve subito ricordare che l'individuazione delle competenze ministeriali poggia su due piani, invero entrambi "mobili": quello istituzionale e quello sostanziale, relativo alle attività serventi alla cura dei beni e delle attività culturali.

Sotto il primo profilo, con particolare riferimento ai beni culturali, è bene ricordare che l'art. 53 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, nell'elencare le competenze del ministero, esordisce eloquentemente con un rinvio alla disciplina sostanziale, atteso che il ministero "svolge le funzioni di spettanza statale in materia di tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali (e dei beni ambientali) (...)".

Il recente decreto legislativo 8 gennaio 2004, n. 3 e soprattutto il relativo regolamento di attuazione, che si occupano dell'organizzazione del ministero, hanno inteso assegnare le competenze - così genericamente individuate - nel rispetto della nuova articolazione amministrativa del dicastero [1].

In particolare l'art. 1, comma 4, d.p.r. 8 giugno 2004, n. 173, affida al capo del dipartimento, nei settori di competenza, sulla base degli indirizzi del ministro per i Beni e le Attività culturali, anche su proposta del direttore generale competente, le funzioni di cui al Titolo II della Parte seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, oltre all'esercizio dei diritti dell'azionista negli specifici settori di competenza. Il rinvio al Codice riguarda il titolo dedicato alla "fruizione e valorizzazione" (artt. 101 - 127).

Ai vari direttori generali sono invece affidate competenze riconducibili alla tutela in senso stretto (artt. 7 - 16 d.p.r. 173/2004), che in parte sono state delegate ai direttori regionali per i beni culturali e paesaggistici per effetto del d.m. 5 agosto 2004.

Ai direttori regionali per i beni culturali e paesaggistici spetta anche disporre, previa istruttoria delle soprintendenze di settore, l'affidamento diretto o in concessione delle attività e dei servizi pubblici di valorizzazione di beni culturali ai sensi dell'art. 115 del Codice (art. 20, comma 4, lett. z), d.p.r. 173/2004), ricordando che l'esercizio di tale attività può essere delegato ai titolari delle soprintendenze di settore comprese nella direzione regionale (comma 6 dello stesso articolo). Ciò conferma che i compiti di rilievo tecnico-scientifico rimangono di competenza delle soprintendenze di settore, mentre la delicata decisione in ordine alla forma di gestione è affidata di norma ai direttori regionali, regolata dalle disposizioni sostanziali che si esamineranno [2].

 

3. Funzioni, servizi e "materie-attività"

A rendere "mobile" la definizione delle competenze ministeriali era, forse da ultimo un po' meno, la difficile distinzione tra le funzioni (rectius, gli ambiti di competenza) da ricondurre alle definizioni legislative (poi riprese a livello costituzionale nonostante le criticità interpretative ed il loro carattere circolare) [3].

Il quadro delle definizioni normative è obiettivamente poco chiaro ed è inevitabilmente intrecciato con quello dell'assetto delle competenze; tanto che sia la Corte costituzionale sia il Consiglio di Stato in sede consultiva nella relativa individuazione sono stati marcatamente condizionati dall'altro problema, ritenuto assorbente fino al punto di "piegare" le definizioni normative al risultato più confacente per l'allocazione delle competenze normative ed amministrative.

La Corte costituzionale tende ripetutamente ad inquadrare le materie, oggi corrispondenti alle indicazioni costituzionali, tra le "materie-attività", così operando forse l'unica scelta efficace, ma trae da tale premessa conseguenze divergenti, peraltro riguardo ad ambiti di competenza affidati allo stesso ministero. Così lo stesso richiamo alle definizioni ed al conseguente assetto delle competenze delineato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, è ritenuto utile per la materia dei beni culturali (cfr. sentenza 28 marzo 2003, n. 94 [4] ed anche sentenze 13 gennaio 2004, n. 9 [5] e 20 gennaio 2004, n. 26 [6]); mentre nel vicino caso dello spettacolo lo stesso impianto normativo di cui al d.lg. 112/1998 non viene ritenuto decisivo, attesa la "dubbia idoneità di una argomentazione interpretativa del nuovo dettato costituzionale tratta soltanto dalla collocazione sistematica di una isolata disposizione nella precedente legislazione ordinaria" (si noti che si trattava dell'unica disposizione dedicata allo spettacolo dal d.lg. 112/1998) [7].

Se ora ci si ferma al settore dei beni culturali, basta ricordare che sulla scorta delle definizioni del d.lg. 112/1998 le funzioni di tutela sono arricchite da quelle di valorizzazione ed entrambe, tutela e valorizzazione, sono supportate dall'attività di gestione, che pare rappresentare il segmento iniziale necessario per la sussistenza delle altre. La tesi sul ruolo servente dell'attività di gestione [8] è stata ripresa dal ministero per i Beni culturali nella relazione presentata al Consiglio di Stato in occasione del parere sulle società miste costituite e partecipate dal ministero ai sensi dell'art. 10 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 [9]. In quell'occasione il Consiglio di Stato ha dovuto effettuare un delicato e difficile giudizio di prevalenza, ma non ha potuto smentire tale assunto: la gestione presenta una connessione "innegabile" anche con l'attività di tutela [10], ma va ricondotta alla materia "valorizzazione" per quanto attiene la ripartizione di competenze legislative tra Stato e regioni, con le note conseguenze sulla potestà regolamentare. L'organo consultivo ha quindi giustificato una riconduzione della gestione alla valorizzazione solo per quanto attiene alla nuova competenza legislativa regionale (ed alle ricadute sulla potestà regolamentare): se fosse stata considerata materia autonoma si sarebbe corso il "rischio" di affidarla alla potestà legislativa esclusiva delle regioni [11]. Il Consiglio di Stato è allora divenuto, almeno nella materia di interesse, un vero e proprio "regolatore delle fonti": di fronte al bivio teorico di accorpare la gestione alla tutela (ed affidarla allo Stato) oppure alla valorizzazione (affidando il potere regolamentare alla regione), ha scelto la seconda strada, con una motivazione che appare perplessa proprio perché condiziona l'individuazione della materia alla valutazione sulla allocazione delle corrispondenti competenze ad un livello territoriale piuttosto che ad un altro.

Anche il più recente legislatore non ha aiutato a rendere chiarezza nella delineazione delle attività menzionate [12].

E' vero che riguardo alla tutela esiste la corposa disciplina sostanziale dettata dal d.lg. 42/2004, ma non si può dimenticare che l'art. 10 della legge delega 6 luglio 2002, n. 137, da cui lo stesso Codice ha tratto legittimazione, era ampia e confusa, per esempio circa il rapporto che deve correre tra la "conservazione degli strumenti attuali di tutela", lo "snellimento e abbreviazione dei procedimenti" e "l'aggiornamento degli strumenti di individuazione, conservazione e protezione dei beni culturali", obiettivo perseguito "anche attraverso la costituzione di fondazioni aperte alla partecipazione di regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati". L'unica spiegazione che si può offrire è immaginare che la tutela, nella logica della legge-delega, era intesa in senso assai ampio, fino ad interessare l'organizzazione delle forme di gestione delle attività serventi. Atteso inoltre che il Codice è ispirato a principi di natura finanziaria, tra i quali il "miglioramento dell'efficacia degli interventi concernenti i beni e le attività culturali, anche allo scopo di conseguire l'ottimizzazione delle risorse assegnate e l'incremento delle entrate" e la "assenza di nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato", si debbono trarre al riguardo utili indicazioni nell'interpretazione delle disposizioni relative al coinvolgimento di soggetti privati, a diverso titolo secondo la tipologia di attività loro affidate.

Quanto alla valorizzazione, in base all'art. 101, comma 3, del Codice beni culturali, gli istituti ed i luoghi di cui al comma 1 che appartengono a soggetti pubblici sono destinati alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico; in base all'art. 111 del Codice beni culturali le attività di valorizzazione dei beni culturali consistono nella costituzione ed organizzazione stabile delle risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali finalizzate all'esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate dall'art. 6. A tali attività possono concorrere, cooperare o partecipare i privati (primo comma); inoltre la valorizzazione ad iniziativa pubblica si conforma ai principi di libertà di partecipazione, pluralità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione (quarto comma). La inequivocabile riconduzione della valorizzazione alla nozione di servizio pubblico, unitamente al richiamo ai principi che ne rappresentano la disciplina, dovrebbe riflettersi anche sulle forme di gestione. In particolare, per effetto dell'art. 6, comma 3, e dell'art. 111, comma 4, del Codice è chiarissimo il richiamo al principio di sussidiarietà orizzontale nella valorizzazione [13].

Il principio, con tutti gli importanti corollari discendenti, rafforza quei precedenti giurisprudenziali che già impedivano una integrale occupazione da parte dell'ente territoriale dell'offerta di servizi al pubblico e censuravano la motivazione fondata su un asserito integrale soddisfacimento dell'interesse pubblico da parte dell'amministrazione territoriale: non solo l'ente pubblico competente risulta tenuto a consentire lo svolgimento di attività di interesse pubblico a soggetti privati, ma deve favorire il loro coinvolgimento nell'erogazione delle prestazioni agli utenti [14].

Per completezza e rinviando comunque ai più approfonditi commenti alle relative disposizioni, la disciplina codicistica sulla valorizzazione prevede anche accordi su base regionale con privati per coordinare, armonizzare e integrare le attività di valorizzazione dei beni pubblici ed eventualmente privati (art. 112, commi 4 e 7, d.lg. 42/2004) e convenzioni con associazioni culturali e volontariato (promozione e diffusione conoscenza: art. 112, comma 8).

Salvo quanto si vedrà sulla natura giuridica di tali strumenti e sulle attività che mediante gli stessi si possono affidare a soggetti privati, preme ancora tentare di fornire una nozione di gestione che assuma significato giuridico e consenta di chiarire quale sia il relativo oggetto, con corrispondente definizione del grado di apertura all'intervento di soggetti privati.

Si è già detto che la questione è condizionata anzitutto dalla preoccupazione di garantire uno stabile assetto delle competenze normative. Ma se il Consiglio di Stato, nel citato parere sulle società miste costituite partecipate dal ministero, ha affermato la prossimità della gestione alla valorizzazione, successivamente la Corte costituzionale, con sentenza 26/2004, ha sostanzialmente affermato che la gestione segue la titolarità del bene, non riferendosi tuttavia alla erogazione di un servizio pubblico, ma alla gestione di "servizi relativi a beni culturali di interesse nazionale" di cui all'art. 33 legge 28 dicembre 2001, n. 448. Si tratta, in tale seconda evenienza, di attività che rientrano semmai nella disciplina degli appalti pubblici di servizi, come oggi conferma l'art. 117 del Codice dei beni culturali. Del resto apparirebbe contraddittorio affidare al soggetto proprietario la gestione del bene, intesa come servizio di valorizzazione, se solo si pensa al processo - ancora inattuato - di trasferimento della gestione dei beni culturali statali agli altri enti territoriali nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale: si tratterebbe, almeno per lo Stato, di riacquisire i compiti di gestione per tutti i beni di cui è titolare, a prescindere dalla qualificazione del loro interesse culturale.

A questo punto ed in forza delle considerazioni che precedono si può proporre la seguente classificazione tripartita circa il possibile oggetto dell'attività di gestione in ambito culturale: la gestione di un servizio pubblico (il servizio pubblico di valorizzazione dei beni culturali); la gestione di un bene culturale senza servizio pubblico (ove la gestione risulta strumentale alla tutela, perché serve esclusivamente a mantenere il "carattere culturale" del bene); la gestione di attività non culturali ma strumentali (come i servizi accessori).

 

4. La gestione del servizio pubblico di valorizzazione

Con riferimento alle competenze ministeriali, è necessario anzitutto ricordare la duplicità delle disposizioni normative rilevanti: da un lato gli artt. 114 ss. d.lg. 42/2004 sui livelli di qualità della valorizzazione e sulle forme di gestione [15]; dall'altro l'art. 10 d.lg. 368/1998, dedicato agli accordi ed alle forme associative [16].

Le disposizioni di cui agli artt. 114 ss. del Codice riguardano senza dubbio la gestione del servizio pubblico di valorizzazione, come sopra indicato. Le disposizioni relative individuano infatti i beni culturali come "beni oggetto di servizio", come affermato dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza 26/2004. L'art. 114 prevede in particolare la definizione ministeriale - previa intesa in Conferenza unificata - di "livelli uniformi di qualità della valorizzazione", così abbandonando il riferimento ai "livelli minimi" di fruizione, che nella prima versione del Codice dovevano essere perseguiti mediante gestione in forma diretta, lasciando alle altre forme di gestione il compito di assicurare un "migliore livello di fruizione pubblica". Come avviene in genere per il programma di servizio pubblico imposto dal titolare al soggetto gestore, anche i livelli in esame assumono carattere vincolante. La scelta tra le forme di gestione previste dal Codice deve essere motivata in termini di proporzionalità rispetto ai fini da perseguire, senza presunzioni ex lege - almeno per Stato e regioni - sulla idoneità di alcuni modelli ad assicurare un migliore livello di fruizione pubblica (come invece affermava il testo originario riguardo la gestione indiretta) o un più adeguato livello di valorizzazione (versione del 10 dicembre 2003, dopo la Conferenza dei presidenti delle regioni).

Vista la definizione di valorizzazione, consegue che la fissazione dei livelli di qualità in esame da parte del ministero (ma altresì delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, anche con il concorso delle università) è strettamente legata a valutazioni di tipo organizzativo e finanziario, sottraendosi sotto tali profili al sindacato giurisdizionale (scelte sulla costituzione e organizzazione di risorse, strutture, reti, ecc.).

L'art. 115 del Codice prevede l'alternativa tra forma diretta e forma indiretta di gestione. La gestione diretta avviene mediante strutture organizzative interne alle amministrazioni; la gestione indiretta può avvenire o mediante affidamento a soggetti costituiti o partecipati in misura prevalente dall'amministrazione cui i beni pertengono (conferimento c.d. in house) o mediante concessione a terzi con procedure ad evidenza pubblica. La scelta tra tali modelli richiede la previa valutazione comparativa degli obiettivi di valorizzazione che si intendono conseguire e dei relativi mezzi, metodi e tempi, in base ai principi di economicità, efficienza ed efficacia (sistema inglese del best value).

A differenza di quanto previsto per gli enti territoriali minori, lo Stato (e le regioni) dispongono di maggiore libertà nella scelta della forma di gestione, potendo scegliere tra le forme indirette in vista del raggiungimento di un "adeguato livello di valorizzazione" dei beni culturali (art. 115, quarto comma).

Comunemente a quanto avviene gradualmente anche per le forme di gestione dei servizi pubblici degli enti locali, la tipicità delle previsioni normative risulta temperata e l'elenco delle forme di gestione conserva significato prevalentemente ai fini del criterio dell'affidamento, per individuare i casi in cui esso può essere "diretto" e i casi in cui deve invece avvenire in base a procedure "ad evidenza pubblica" [17]. La distinzione tra affidamento "in house" e concessione a "soggetti terzi" non prevede parametri invece menzionati dalle disposizioni del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 riferite ai servizi pubblici locali, così la soggezione dell'affidatario ad un controllo analogo a quello esercitato dall'amministrazione sui propri servizi e la realizzazione della parte più importante della propria attività con o per la stessa amministrazione controllante [18]. Inoltre il Codice dei beni culturali prevede una formulazione più ampia per il conferimento "in house", perché lo ammette anche nei confronti della "prevalente" e non solo della "intera" partecipazione pubblica al capitale del soggetto affidatario.

Come noto, per gli enti locali la soluzione del problema ruota intorno alla distinzione tra servizi a rilevanza economica e non, perché nel secondo caso non rileva il limite della tutela della concorrenza, come ha recentemente ricordato la Corte costituzionale con sentenza 13-27 luglio 2004, n. 272 [19].

A ben vedere, la questione della rilevanza economica o meno dell'attività gestita rileva anche con riguardo alle forme di gestione dei servizi culturali da parte dello Stato, ovviamente rigettato l'assunto - inammissibile - secondo il quale il servizio culturale non avrebbe mai rilevanza economica. Circa la distinzione in esame, la Commissione europea nel "libro verde sui servizi di interesse generale" [20] ha affermato che le norme sulla concorrenza si applicano soltanto alle attività economiche, dopo aver precisato che la distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo, cosicché non sarebbe possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura "non economica". Secondo la costante giurisprudenza comunitaria spetta infatti al giudice nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare, dell'assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed anche dell'eventuale finanziamento pubblico dell'attività in questione [21]. Per i servizi locali, quindi, che, in relazione al soggetto erogatore, ai caratteri ed alle modalità della prestazione, ai destinatari, appaiono privi di "rilevanza economica", ci sarà dunque spazio per una specifica ed adeguata disciplina di fonte regionale ed anche locale.

Certo, dopo la richiamata pronuncia n. 272/2004 della Corte, che ha dichiarato incostituzionale sia l'art. 113-bis Tuel perché non attinente alla tutela della concorrenza, sia l'art. 113, comma 7, Tuel laddove indicava minuziosamente i criteri di aggiudicazione della gara e li imponeva alle discipline di settore (per es. non tenendo conto delle precedenti esperienze di gestione nel settore) [22], occorre chiedersi se possa ancora considerarsi compatibile con la Costituzione anche l'art. 115 del Codice dei beni culturali in esame, atteso che in questo caso la concentrazione del potere normativo in capo allo Stato si scontra non solo con le esigenze di tutela della concorrenza, ma si estende altresì all'individuazione delle competenze di valorizzazione dei beni culturali, cui la gestione - si è detto - risulta servente [23].

Se si lascia aperto tale interrogativo, oggi a livello statale, in tutti i casi in cui il servizio di valorizzazione assume rilevanza economica occorre distinguere, ai sensi dell'art. 115 del Codice, le ipotesi della concessione ad evidenza pubblica a soggetto privato dalle ipotesi di affidamento in house a struttura mista prevalentemente pubblica.

In tale seconda ipotesi occorre inoltre chiedersi se sia necessaria la soggezione dell'affidatario a controllo analogo, modellato sul tipo del controllo di gestione. La risposta affermativa, nonostante il silenzio sul punto del legislatore con riferimento ai servizi culturali, discende dai principi di derivazione giurisprudenziale comunitaria che regolano l'in house providing, come riassunti dalla Commissione Ue con la nota del 26 giugno 2002, diretta al governo italiano per sollecitare ulteriori modificazioni all'art. 113 del d.lg. 267 del 2000. In tale nota la Commissione ha ricordato che: "Per quanto riguarda in particolare la nozione di "controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi"(...), la Commissione sottolinea che affinché tale tipo di controllo sussista non è sufficiente il semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario. 35. Il controllo contemplato nella sentenza Teckal fa infatti riferimento ad un rapporto che determina, da parte dell'amministrazione controllante, un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell'attività del soggetto partecipato, e che riguarda l'insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo".

Sul punto è necessario ricordare che il Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia Ue questione pregiudiziale riguardo la compatibilità con il diritto comunitario, in particolare con la libertà della prestazione di servizi, il divieto di discriminazione e l'obbligo di parità di trattamento, trasparenza e libera concorrenza, di cui agli artt. 12, 45, 46, 49 e 86 del Trattato, l'affidamento diretto, ossia in deroga ai sistemi di scelta del contraente di cui alla direttiva del Consiglio delle comunità europee 92/50/Cee del 18 giugno 1992, della gestione di servizi pubblici, ad una società per azioni, a capitale pubblico [24]. Il problema della compatibilità con l'ordinamento comunitario dell'affidamento di servizi pubblici a società per azioni a capitale pubblico, totale o maggioritario, cosiddetto "in house providing" non sembra sia stato esaminato dalla Corte di giustizia assumendo come parametro diretto di giudizio le norme del Trattato medesimo citate in precedenza.

L'espressione utilizzata dalla Corte "..controllo analogo a quello da esso esercitato suo propri servizi ..." solleva un nuovo problema interpretativo, dovendosi stabilire quando il controllo esercitato presenti le caratteristiche volute dalla sentenza. Più specificamente si tratta di capire se il possesso dell'intero capitale del soggetto affidatario, nella specie una società per azioni, possa garantire quella situazione di dipendenza organica che normalmente si realizza nell'organizzazione burocratica di una pubblica amministrazione. Ad avviso del Consiglio di Stato, la Commissione sembra alludere, quindi, ad un fenomeno giuridico assimilabile a quello delle aziende municipalizzate di cui al r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578, nel quale si istituiva un nuovo soggetto, con capacità giuridica propria e propri organi, sottoposto peraltro a penetranti poteri di vigilanza da parte dell'amministrazione; tale esperienza, d'altra parte, era caratterizzata dall'obbligo dell'azienda di svolgere la propria attività mediante contratti, scegliendo il contraente con procedure ad evidenza pubblica [25].

Nell'attesa degli invocati chiarimenti comunitari, si può comunque riconoscere decisiva importanza al controllo di gestione, in quanto il suo esercizio da parte dell'ente pubblico di riferimento (dunque anche del ministero) nei confronti del soggetto gestore incide inevitabilmente sulla definizione della stessa natura giuridica di quest'ultimo. Come si noterà più in dettaglio riguardo alle singole forme di gestione, si potrà infatti argomentare la relativa natura privata qualora il ministero non lo eserciti sulla attività spiegata; allorquando invece il ministero lo eserciti e ad esse sia affidata la gestione del servizio, si avrebbe affidamento in house in caso di partecipazione maggioritaria ministeriale (ed occorrerà valutare la possibilità di estendere tale ragionamento al fondo di dotazione delle fondazioni di partecipazione).

 

5. La gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale

Con riferimento alla gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale, la versione attuale dell'art. 10 d.lg. 368/1998 prevede la nota tripartizione di opzioni per il ministero: a) stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati; b) costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società, secondo modalità e criteri definiti con regolamento emanato ai sensi dell'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400; b-bis) dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale.

 

5.1. Gli accordi e gli strumenti pattizi

Fin dai primi commenti della disposizione, la dottrina ha rilevato che nel contesto dell'art. 10 del d.lg. 368/1998 il termine "accordo" è utilizzato in modo neutro, di per sé riferibile sia a rapporti contrattuali che a rapporti non propriamente contrattuali, e tanto a negozi di diritto privato quanto a negozi pubblicistici [26]. Ciò in ragione dell'utilizzazione legislativa del termine, che non sembra ricollegare ad esso, come a quello di convenzione, un univoco e preciso istituto giuridico. La risposta formulata per fronteggiare critiche sulla eccessiva portata estensiva di tale lettura costruiva l'art. 10 cit. come una norma di indirizzo, intesa ad orientare il ministero a ricercare la collaborazione con i soggetti privati (oltre che con altre amministrazioni) e ad utilizzare moduli di azione e di organizzazione di tipo convenzionale, indipendentemente dalla natura giuridica di diritto privato o pubblico.

Senza ripercorrere l'ampio dibattito in ordine alla sussistenza ed alla misura del principio di legalità (e tipicità) riguardo ai contratti di diritto privato dell'amministrazione ed ai negozi pubblicistici [27], è comunque pacifico che le pubbliche amministrazioni, nel legittimo esercizio della loro capacità di diritto privato ovvero dei loro poteri pubblicistici, possano attribuire agli accordi che stipulano con i privati il contenuto che ritengono più conforme alla tutela degli interessi pubblici di cui sono portatrici. La conclusione appare avvalorata da ultimo dalla generale previsione del nuovo comma 1-bis introdotto nell'art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 in forza del quale "la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente" [28].

Ci si può interrogare piuttosto in merito alla possibilità di estendere tale ragionamento anche con riferimento ai principi inerenti l'organizzazione dei pubblici servizi. Come si è notato nelle pagine che precedono, l'elenco delle forme di gestione conserva significato prevalentemente ai fini del criterio dell'affidamento, per individuare i casi in cui esso può essere "diretto" e i casi in cui deve invece avvenire in base a procedure "ad evidenza pubblica"; non solo: come confermato dalla Corte costituzionale, l'eccessiva normazione di dettaglio vanifica illegittimamente la potestà di autoorganizzazione dell'amministrazione, che ha rimodellato rispetto al passato - sia pure sempre nel quadro della riserva relativa di legge posta dall'art. 97 della Costituzione - il rapporto tra norme primarie e norme secondarie nella disciplina dei pubblici uffici.

Nei primi commenti alla disposizione in esame, attenta dottrina aveva ricondotto la previsione degli accordi, intesi come mezzo di gestione, allo strumento della concessione, allora ritenuto di applicazione generale; da ciò si era esclusa la necessità di una disposizione di legge che ne autorizzasse specificamente l'utilizzo con riferimento ai singoli servizi pubblici. Come noto, la concessione è stata estromessa dal novero degli strumenti generali di gestione per i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica (la disposizione era stata espressamente abrogata dall'art. 113-bis Tuel) ed ha perduto la connotazione di strumento generale di gestione, almeno per quella tipologia di servizi, prima prevista qualora sussistessero ragioni economiche, tecniche o di opportunità sociale [29].

A livello statale, fermo restando quanto sopra indicato, in merito alle attuali forme di gestione del servizio pubblico di valorizzazione dei beni culturali, non si può omettere di rilevare che la concessione a terzi del servizio è divenuta strumento di gestione indiretta in alternativa all'affidamento in house, secondo lo schema ed entro i limiti sopra illustrati e segnati dal Codice dei beni culturali. Sempre nei primi commenti all'art. 10 in esame si sosteneva l'opportunità che, nei provvedimenti di organizzazione del ministero, la possibilità di ricorrere alla concessione a privati per la valorizzazione e la gestione di beni culturali venisse esplicitata (oltre che opportunamente disciplinata), pur escludendo che tale previsione costituisse una conditio sine qua non per la sottoscrizione da parte del ministero di accordi concessori.

Quella tesi può essere mantenuta solo ove armonizzata con la doverosa interpretazione del principio di tipicità delle forme di gestione in termini di tipicità del criterio dell'affidamento: gli accordi possono essere "liberi" se non trasferiscono l'esercizio dei compiti di gestione del bene culturale; allorquando divengono un mezzo per trasferire la gestione, non possono assolvere pienamente a tale ruolo, potendo semmai accedere allo strumento utilizzato per individuare il soggetto gestore (conferimento in house o concessione a terzi) ed approssimandosi sostanzialmente e funzionalmente al contratto di servizio. La originaria connotazione "neutra" della nozione di accordo tende in altri termini a recedere di fronte ad una precisa distinzione, nel rispetto della prospettazione proposta in apertura: quando l'accordo è assimilabile ad un negozio di diritto privato e non regola l'esercizio di attività di pubblico servizio, allora mantiene carattere "libero" ed è riconducibile alla generale capacità di diritto privato della pubblica amministrazione; quando invece tende a divenire strumento per la gestione del servizio pubblico di valorizzazione, allora non può sottrarsi agli schemi tipici che individuano i criteri di affidamento e dunque deve rispettare il principio di tipicità, sia pure temperato nei termini sopra illustrati.

Una ipotesi particolare di accordo, meglio convenzione, è oggi prevista al comma 8 dell'art. 112 del Codice dei beni culturali, in forza del quale "i soggetti pubblici interessati" possono stipulare convenzioni con "associazioni culturali o di volontariato" che svolgono "attività di promozione e diffusione della conoscenza dei beni culturali". Come è stato rilevato nei primi commenti della disposizione, la nuova formulazione rispetto a quella dell'art. 105 decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (secondo cui "il ministero" poteva stipulare convenzioni con "associazioni di volontariato" che svolgono "attività per la salvaguardia e la diffusione della conoscenza dei beni culturali) tende ad ampliare il relativo campo di applicazione: sul versante pubblico, le convenzioni possono essere attivate da tutte le amministrazioni competenti per le attività di valorizzazione dei beni culturali, e non più soltanto dagli organismi ministeriali; sul versante privato, alle convenzioni possono partecipare non solo le vere e proprie "associazioni di volontariato" ma anche le semplici "associazioni culturali" [30].

Restano aperti, come già da altri rilevato, i rapporti tra tale disposizione e la disciplina di settore - statale e regionale - relativa ai rapporti tra le pubbliche amministrazioni e le associazioni private. Si è suggerito la sostenibilità di un rapporto convenzionale anche con gli organismi privi dei requisiti contemplati dalla legislazione speciale, pur imponendo siffatta situazione una attenta verifica in ordine alla possibilità di applicare le condizioni di favore previste dalla legislazione speciale stessa.

Non trattandosi di una forma di esternalizzazione in ordine alla gestione di pubblico servizio, nel caso di specie si tratta semmai di definire una idonea disciplina procedimentale che consenta di regolare la conclusione di tali strumenti pattizi: al riguardo lo stesso art. 112 del Codice rinvia ad una definizione in sede di Conferenza unificata, salva ovviamente la disciplina generale in tema di accordi tra privati e pubbliche amministrazioni.

 

5.2. Le società di capitali costituite o partecipate dal ministero

Tra le forme di gestione "strutturali" o di tipo "istituzionalizzato" dei servizi "relativi ai beni culturali di interesse nazionale", l'art. 10 d.lg. 368/1998 annovera il modello della società di capitali. Come prontamente rilevato dagli studiosi di diritto commerciale, esso non solo rappresenta la forma giuridica più utilizzata per l'esternalizzazione nel settore culturale, ma in più può assumere un ruolo rilevante nella valorizzazione dei beni culturali, ruolo che non è incompatibile in via assoluta con la realizzazione del profitto. Ciò significa che la società di capitali non deve essere costretta al mero compito dell'acquisizione di risorse finanziarie, posto che nessuna previsione normativa impone di ricondurre e limitare l'attività a quella di una società finanziaria [31].

Il seguito del ragionamento sviluppato nei primi commenti conduceva ad affermare che per lo Stato non sarebbero valse le regole sull'evidenza pubblica nella scelta del socio previste per le società locali, considerando la "natura speciale" della disciplina dettata per le società miste locali e, soprattutto, applicando la regola del rapporto fiduciario che caratterizza il contratto di società. Con riferimento ai rapporti tra i soci delle costituende società miste statali, si auspicava il mantenimento della disciplina dettata dal codice civile riguardo alle società di capitali, per evitare i vincoli pubblici che sulla carta minavano, ad esempio, la struttura della Sibec, oggi Arcus, spa.

Rispetto a tali considerazioni, ed al fine di poterne verificare la perdurante attualità, si rendono oggi necessari alcuni rilievi.

Anzitutto di compatibilità con il diritto comunitario, atteso che la Commissione europea tende ad assimilare il partenariato pubblico-privato di tipo "istituzionalizzato" a quello di tipo "puramente contrattuale" e, perciò, a considerare applicabile anche al primo tipo di partenariato, il "diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni" [32]. Tale conclusione produce ovvie ricadute sulle modalità di scelta del partner privato, essendo chiaro che anche in tal caso, pur in assenza di specifiche disposizioni, dovranno applicarsi, come avviene per l'affidamento a terzi di servizi mediante concessioni, le norme del Trattato sulla libera prestazione dei servizi e sulla libertà di stabilimento, nonché i principi della trasparenza, della parità di trattamento, della proporzionalità e del reciproco riconoscimento.

La necessità di ricorrere a procedure selettive per la scelta del partner privato con il quale costituire "società miste" è, comunque, una regola ormai acquisita nell'ordinamento interno [33]. Secondo le previsioni del citato "libro verde" comunitario, il modello di società mista ipotizzato diverge da quello che si è tradizionalmente affermato nella prassi italiana. In estrema sintesi può, in proposito, affermarsi che secondo la Commissione: a) la società mista deve essere costituita per svolgere le prestazioni definite "in modo sufficientemente chiaro e preciso" nel bando di gara (§ 61); b) al socio privato spetta svolgere le prestazioni affidate alla società (§ 58); c) il socio pubblico deve, invece, svolgere solamente il ruolo di controllore delle operazioni "in seno agli organi decisionali dell'impresa comune" (§ 54); d) atteso che il socio privato assume il ruolo di "esecutore" degli incarichi affidati alla società, la scelta dello stesso, oltre ad avvenire mediante una procedura concorrenziale, non può basarsi "esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza", dovendosi anche "tenere conto delle caratteristiche della sua offerta (...) per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire" (§ 58); e) nel caso in cui la società mista intenda, a sua volta, affidare degli incarichi non potrà avvalersi del socio privato, ma essendo essa stessa un'amministrazione aggiudicatrice, dovrà bandire un'apposita gara (§ 64); f) la durata della società mista dovrà, infine, coincidere "con la durata del contratto o della concessione", giacché, altrimenti, le amministrazioni aggiudicatrici potrebbero essere indotte "a rinnovi dell'incarico affidato a questa impresa senza che sia posta in essere una reale nuova messa in concorrenza" e, quindi, in definitiva, ad attribuire gli incarichi "per una durata illimitata" (§ 61).

Il modello di società mista ipotizzato dalla Commissione nel libro verde pare, dunque, potersi assimilare allo schema della concessione: nella società il partner privato realizza gli incarichi specificati nel bando di gara e il partner pubblico controlla, dall'interno della società, le modalità di svolgimento.

Evidente deroga al principio si potrà verificare, come si è ampiamente visto, nel caso degli affidamenti in house. Al riguardo si deve distinguere: se si tratta di gestione del servizio pubblico di valorizzazione dei beni culturali, valgono le indicazioni sulle forme di gestione previste dal codice dei beni culturali, sopra commentate; se si tratta di altre attività strumentali alla stessa valorizzazione, valgono le indicazioni provenienti dall'ordinamento comunitario sul partenariato pubblico-privato e sui limiti dell'organizzazione in house.

Altro ordine di considerazioni attiene alla riforma italiana del diritto societario. Se l'ente territoriale mira a ricercare forme più elastiche di organizzazione e gestione di attività di propria competenza, il ricorso al modello societario di diritto privato ha certamente fondamento. L'applicazione degli istituti civilistici relativi alla responsabilità degli amministratori, ulteriormente rafforzati dalla recente riforma delle società per azioni (d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, e successive modificazioni) pare idonea a garantire l'autonomia tecnico-operativa delle società; l'applicazione della normativa societaria in materia di rappresentanza delle società, di pubblicità degli atti sociali, di valutazione del bilancio, di integrità del patrimonio sociale consentono una maggiore snellezza operativa soprattutto nei rapporti con i terzi, per i quali costituiscono una importante forma di tutela; gli atti statutari sono modificabili con semplice decisione dell'assemblea. Ma, come prontamente è stato rilevato, che questa sia la vera motivazione risulta del tutto plausibile quando si tratta di società che svolgono attività imprenditoriali, producono beni o servizi in condizioni di concorrenza almeno per quote significative della loro attività, mentre permangono perplessità quando il modello societario si utilizza per figure per le quali la stessa legge istitutiva prevede la totale incedibilità del patrimonio, e ancor più se l'attività svolta è in monopolio e ha per molti versi carattere amministrativo [34].

Non pare una forzatura affermare che in tali casi la motivazione effettiva potrebbe essere la sottrazione al regime dei controlli ed al reclutamento del personale tramite concorsi [35].

Se inoltre è vero che i poteri che spettano all'azionista sono molto maggiori di quelli esercitati da un ministro vigilante, di fatto consegue un fenomeno di ingerenza politica particolarmente intenso, tanto da far affermare una sua estensione maggiore a quella presente nel sistema delle partecipazioni statali, nelle quali la politica raggiungeva gli enti di gestione e alcune società "di primo livello", ma era debole sulle società operative.

Ed anche se la possibilità ammessa dalla riforma del diritto societario del cd. "sistema dualistico" (artt. 2409-octies ss. c.c.), nel quale il consiglio di sorveglianza assorbirà una parte dei poteri che nel sistema monistico (quello finora vigente) spettano sia all'assemblea che al consiglio di amministrazione (il consiglio di gestione nel sistema dualistico) potrebbe consentire di rideterminare un utile filtro fra politica e gestione, tale obiettivo potrebbe essere vanificato se il consiglio di sorveglianza sarà composto da politici [36].

Il terzo ordine di considerazioni è di tipo istituzionale: come si è ricordato in apertura, l'art. 10 d.lg. 368/1998 ammette il ricorso ministeriale al modello della società di capitali subordinatamente alla previsione di un regolamento ministeriale. A parte il richiamato parere del Consiglio di Stato che ha negato la legittimità del regolamento in esame per violazione dell'assetto costituzionale delle competenze normative, è agevole argomentare che - almeno quando si tratta di scegliere lo strumento societario per la gestione di un servizio pubblico - la previsione regolamentare dovrebbe risultare superflua se si fondasse la scelta dell'ente territoriale semplicemente sulla sua capacità di diritto privato e si riconducesse il rapporto giuridico instaurato negli schemi dell'ordinario contratto di società. Il richiamo ad una fonte regolamentare da parte del legislatore induce invece ad argomentare la natura "speciale" delle società per la valorizzazione dei beni culturali, tale da alterare l'ordinario schema societario: il ministero può infatti disciplinare in dettaglio le modalità relative alla propria partecipazione ed alla costituzione della compagine sociale. V'è da dubitare che la fonte secondaria possa rappresentare l'eccezione all'ordinario regime di diritto privato secondo il nuovo comma 1-bis dell'art. 1 della l. 241/1990 in forza del quale "la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente". Il regolamento non dovrebbe in altri termini disporre praeter legem allontanandosi dallo schema contrattuale definito dalla legge alla quale intende dare attuazione.

 

5.3. Le fondazioni costituite o partecipate dal ministero

Discorso analogo può farsi per le fondazioni di partecipazione costituite o partecipate dal ministero per i Beni e le Attività culturali. Anzitutto occorre osservare che se il regolamento sulle società miste costituite/partecipate dallo stesso ministero è stato ritenuto illegittimo dal Consiglio di Stato perché si occupa di valorizzazione (gestione), allora, alla stregua dello stesso ragionamento, anche del d.m. 27 novembre 2001, n. 491, dedicato alle fondazioni, dovrebbe essere acclarata la sopravvenuta illegittimità dopo l'entrata in vigore della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 e la modifica del Titolo V Cost.

Invero l'unica possibilità per argomentare la compatibilità di tale disposizione regolamentare con il mutato assetto delle competenze normative è ravvisare nel suo contenuto una forma di autolimitazione della autonomia fondatrice ministeriale [37]. Affermazione che, oltre a dover essere congruamente dimostrata, conduce ad individuare nelle fondazioni in esame soggetti di diritto privato non solo formalmente ma anche sostanzialmente.

Anzitutto occorre chiarire quale ruolo sia affidato al ministero nell'ambito di tali fondazioni, alla luce della citata disciplina regolamentare. Oltre al ruolo di fondatore ed al ruolo di autorità governativa preposta dal codice civile al controllo sulle fondazioni di diritto privato, al ministero sono riconosciuti veri e propri poteri di gestione dell'attività della fondazione, tra i quali l'adozione di atti a contenuto generale che individuano le modalità di partecipazione dei privati, i requisiti soggettivi dei membri degli organi della fondazione e le relative cause di incompatibilità, le ipotesi di conflitto di interessi, e la definizione dei parametri di "sana e prudente gestione". Ciò conferma che la fiducia riposta in Italia nel modello della fondazione mista o di partecipazione è subordinata al riconoscimento di un effettivo ruolo di gestione dell'ente pubblico fondatore, che conferisce beni culturali al patrimonio dell'ente e seleziona i privati che garantiscano, soprattutto sotto il profilo finanziario, il raggiungimento dei risultati di gestione stabiliti.

La disparità tra il ruolo del ministero fondatore ed il ruolo dei fondatori privati è ancor più evidente in relazione alla natura ed alla destinazione dei conferimenti al patrimonio dell'ente: il primo può partecipare al patrimonio fondazionale "mediante il conferimento - in uso e non in proprietà - dei beni culturali che ha in consegna", i secondi, così come gli altri enti pubblici che intendono partecipare alla fondazione, possono conferire altri beni culturali oppure risorse finanziarie serventi a garantire un'adeguata conservazione (e fruizione pubblica) dei beni culturali conferiti [38].

Quando si tratta di beni di proprietà frazionata in capo a diversi enti territoriali, il ministero può conferire i beni allo scopo di bilanciare il conferimento degli altri partecipanti alla fondazione, per integrare le attività di gestione e di valorizzazione, incrementando nel territorio di riferimento i servizi offerti al pubblico, migliorandone la qualità e realizzando economie di gestione. Posto che il conferimento del bene da parte del ministero è in concessione d'uso, nell'eventualità dell'estinzione della fondazione lo stesso bene è destinato a ritornare nella disponibilità ministeriale, mentre la sorte dei beni conferiti da altri soggetti è rimessa ad apposite previsioni statutarie, in mancanza delle quali l'art. 31 cod. civ. prevede che l'autorità governativa possa disporre la loro devoluzione ad altri enti che hanno fini analoghi.

Il regolamento non prevede la possibilità per la fondazione di costituire o partecipare a società di capitali: la possibilità di esternalizzare una serie rilevante di attività riconducibili alla gestione dei beni culturali prevista dall'art. 33 della l. 448/2001 ha infatti consentito al ministero di seguire quella procedura anziché costituire la fondazione e, in seconda istanza, partecipare ad una società di capitali.

La fondazione persegue l'autofinanziamento e comunque provvede ai suoi compiti mediante contributi ed assegnazioni di soggetti privati, mentre non sono previsti i contributi pubblici. Il sistema delle agevolazioni fiscali dovrebbe favorire il finanziamento privato, e pare anzi potersi affermare, sulla base dell'impianto normativo descritto, che i privati, almeno le imprese commerciali, probabilmente preferiranno erogare finanziamenti anziché legarsi strutturalmente alla fondazione.

Nell'unico caso presente, quello della fondazione per la gestione del museo egizio di Torino, lo schema è chiaro: il ministero conferisce in uso il bene museale, comprese le relative dotazioni e collezioni, mentre gli altri fondatori debbono conferire "adeguate risorse finanziarie" per la costituzione del fondo di dotazione [39]. Notevole importanza assumerà l'apposito "atto convenzionale" al riguardo richiamato dallo statuto: lo stesso atto, che a tutti gli effetti rappresenta un accordo accessorio rispetto alla concessione d'uso dei beni, deve stabilire le modalità di conferimento da parte del ministero e, sotto altro profilo, deve definire le modalità con cui gli altri fondatori si impegnano a concorrere al finanziamento delle "spese di funzionamento e delle attività della fondazione", nonché a garantire la copertura delle spese necessarie per la ristrutturazione funzionale della sede.

Riguardo a tale ulteriore "impegno", più correttamente qualificabile in termini di obbligazione (trattandosi di atto negoziale), lo statuto precisa che siano gli stessi fondatori ad individuare, ove necessario, nuovi edifici idonei allo svolgimento delle attività ed a sostenere gli oneri derivanti dal nuovo allestimento del museo.

La prima finalità della fondazione si desume proprio dalla disposizione appena richiamata: la necessità di reperire capitale per garantire al museo, quale bene di fruizione, di soddisfare la sua funzione naturale, intesa non solo come adeguata conservazione delle dotazioni, ma altresì come valorizzazione e maggiore visibilità al pubblico.

Il punto più interessante riguarda comunque la previsione della possibile partecipazione della fondazione ad altre organizzazioni, comprese società di capitali, che perseguano finalità "coerenti con le proprie e strumentali al raggiungimento degli scopi" [40]. Premesso che la fondazione non ha fini di lucro e non distribuisce utili, si può ricordare che la previsione in esame riprende la norma originariamente contenuta nello schema di regolamento approvato dal Consiglio dei ministri nella scorsa legislatura, che però subordinava la costituzione e la partecipazione a società di capitali ad autorizzazione ministeriale; mentre il d.m. 491/2001 tace al riguardo. Il silenzio del regolamento deve essere interpretato come mancata imposizione di ulteriori vincoli all'attività fondazionale, lasciando a questa le scelte sull'opportunità di legarsi ad una società di capitali.

La fondazione è stata ritenuta strumento di gestione idoneo per conservare e valorizzare il museo, ovviamente se sostenuta da adeguato fondo di dotazione, e può partecipare a società di capitali ove l'intersezione con l'attività economica risulti strumentale o comunque connessa al perseguimento delle finalità statutarie. L'obiettivo di realizzare economie di gestione giustifica altresì la possibilità di stipulare con enti pubblici o soggetti privati accordi o contratti per l'acquisto di beni e servizi, l'assunzione di personale dipendente e "l'accensione di mutui o finanziamenti": si tratta di previsione a carattere esemplificativo, in parte ultronea, laddove non fa altro che confermare la generale capacità di diritto privato della fondazione, con i conseguenti possibili effetti negoziali che ne rappresentano naturale manifestazione.

Ora, per insegnamento tradizionale, l'atto di fondazione si compone di due negozi distinti: il negozio di fondazione, diretto alla nascita del nuovo soggetto giuridico e funzionalmente collegato con il riconoscimento della persona giuridica; il negozio di dotazione, mero atto di disposizione patrimoniale accessorio al primo. Nel caso di specie, la stessa costituzione del fondo di dotazione è rimessa ad appositi atti convenzionali che, come si è visto, sono destinati ad assumere rilievo decisivo, proprio perché destinati a chiarire in quali termini gli altri fondatori permetteranno alla fondazione di adempiere alle proprie finalità. La determinazione degli impegni finanziari relativi ai primi cinque anni di attività è invece rimessa all'atto costitutivo.

Da tali convenzioni e dall'atto costitutivo si potranno trarre elementi significativi per valutare la fattibilità degli obiettivi previsti in sede statutaria.

A conferma della natura "speciale" di tale tipologia di fondazioni, si deve rilevare la particolare situazione che si verificherebbe in caso di estinzione. Di regola la sorte dei beni conferiti dagli altri fondatori è rimessa ad apposite previsioni statutarie, in mancanza delle quali l'art. 31 cod. civ. prevede che l'autorità governativa possa disporre la loro devoluzione ad enti che hanno fini analoghi. Nel dibattito dottrinale si fronteggiano coloro che ammettono clausole intese al recupero dei beni conferiti e coloro che ritengono tali clausole incompatibili con lo scopo di pubblica utilità che informa l'attività della fondazione, che sarebbe derogabile solo nell'ipotesi in cui il fondatore persegua fini analoghi a quelli dell'ente estinto. Ebbene, nel caso di specie, si è scelta una linea poco conveniente per gli altri fondatori, atteso che "gli altri beni acquisiti a qualunque titolo dalla fondazione vengono devoluti allo stesso ministero o ad altro ente, individuato dal consiglio di amministrazione, che persegua finalità analoghe a quelle della fondazione estinta" [41]. Ciò significa, in altri termini, che i beni conferiti dai privati non potranno tornare nella loro disponibilità in caso di estinzione della fondazione.

Se questo è il quadro che risulta dalla disciplina vigente, testimoniante non solo l'ingerenza ministeriale nell'assetto fondazionale, ma altresì la configurabilità di un modello speciale rispetto alle fondazioni in generale ed anche alle stesse fondazioni di partecipazione come species [42], si deve verificare se tale ente morale esprima realmente una forma di autonomia privata e se questa resti preservata dall'applicazione della disciplina speciale esaminata.

I più recenti studi sulle c.d. fondazioni "speciali" hanno centrato la questione sul limite della "manipolazione" normativa dell'autonomia privata e sul canone della ragionevolezza per configurarne la legittimità.

Il modello prossimo è rappresentato dalle fondazioni di origine bancaria, inquadrate dalla legge 15 giugno 2002, n. 112 in un "regime privatistico speciale" rispetto a quello delle altre fondazioni e sospinte dalla Corte costituzionale nel novero dei soggetti privati espressione delle "libertà sociali" [43].

Anche in tal caso la costituzione dell'ente discende da un atto complesso: la legge che stabilisce i presupposti; il regolamento di indirizzo del ministero dell'Economia; la deliberazione dell'ente pubblico di modifica dello statuto e la successiva approvazione del ministero (anche mediante silenzio assenso). Per salvaguardare la natura giuridica asseritamente privata di tali fondazioni si è sostenuto che le direttive ministeriali devono essere solo "meramente interpretative" delle disposizioni normative che disciplinano la fondazione e si è sostenuta l'impossibilità per la legge di modificare l'atto costitutivo; l'unica possibilità sarebbe la revoca dell'atto di fondazione; altrimenti non ci sarebbe costituzione di una persona giuridica privata ma di un ente pubblico [44].

Nel caso delle fondazioni culturali, come in quello delle fondazioni universitarie, emerge un'ulteriore peculiarità in ordine alla disciplina della relativa organizzazione e funzionamento: la fonte di riferimento - come si è visto - è regolamentare e non legislativa. Si è tentata una interpretazione giustificatrice, che ha ravvisato nel regolamento sulle fondazioni universitarie "una sorta di vademecum" per gli enti destinatari (sulla distinzione tra fondatori e meri partecipanti occasionali) [45] e nel regolamento sulle fondazioni culturali una "regola di comportamento" [46].

Mentre nel caso delle fondazioni universitarie l'utilizzazione della fonte regolamentare appare difficilmente giustificabile se rapportata alla perplessa formulazione della fonte legislativa di riferimento nel richiamo alle fondazioni in alternativa ai consorzi [47], nel caso delle fondazioni culturali è più agevole avallare l'interpretazione della fonte regolamentare in termini di autolimitazione dell'autonomia del fondatore, al contempo titolare del potere normativo.

La costruzione autorevolmente proposta al riguardo ravvisa nella vigilanza ministeriale sulla fondazione una specificazione del potere di controllo governativo previsto dal codice civile [48] e collega all'atto di "indirizzo di carattere generale" di cui all'art. 13 d.m. 491/2001 l'esercizio solo del controllo di legittimità del ministero sugli atti della fondazione e non del controllo di gestione sulla relativa attività.

Anche la dissociazione tra attività di indirizzo e attività di gestione, che consente un ulteriore accostamento al modello delle fondazioni bancarie, appare compatibile con l'autonomia fondazionale del ministero, ed anche in questo caso potrebbe consentire di ripetere le conclusioni della sentenza "ortopedica" della Corte costituzionale che di quelle ha riconosciuto natura giuridica privata.

Senza dubbio la natura pubblica delle fondazioni in esame riemerge perché la componente patrimoniale maggiore è un diritto patrimoniale derivante da un provvedimento amministrativo (concessione in uso del bene culturale).

Seguendo un recente inquadramento teorico, appare corretto riportare le fondazioni in esame tra gli enti pubblici a fondo di dotazione associativo, riprendendo un modello utilizzato negli anni '30, che stimolava il coinvolgimento dei privati non attraverso regole associative ma attraverso le regole della rappresentanza degli interessi [49]. In questo caso la "fondazione di partecipazione" diviene soltanto il mezzo ritenuto più idoneo per coinvolgere finanziatori ed altri enti interessati a valorizzare beni culturali, ma nasconde la sostanza dell'ente pubblico [50], similmente a quanto avviene per le fondazioni derivanti dalla "privatizzazione" degli enti lirici.

Al riguardo si può rilevare ancora una volta l'utilità dei dibattiti teorici dell'inizio del '900 sulla riconducibilità dei cd. "corpi morali" al regime di diritto pubblico: se da un lato si era riconosciuto che "tutti i corpi morali vivono in ultima analisi sotto un regime di diritto pubblico, perché il loro riconoscimento è ispirato a concetti di interesse pubblico", dall'altro si era ritenuto "esagerato affermare che ogni volta che vi è questo interesse di natura ideale o altruistica, vi è un ente pubblico in tutta la estensione del termine, paragonabile allo Stato od agli enti autarchici territoriali, poiché in tal modo si giungerebbe ad un assorbimento troppo grande del diritto privato nel pubblico, che nell'attuale momento storico non è giustificato" [51].

Così le fondazioni a scopo di risparmio, di credito o di previdenza sollevavano "gravi dubbi se esse dalla pura sfera del diritto privato non trapassino in quella del pubblico", posto che le stesse "ottenuto il guadagno, o ne formano una massa di rispetto per garantire sempre meglio coloro che ricorrono ai loro servizi, o ne destinano l'eccedenza ad altri scopi di pubblica utilità". E tra gli stessi enti "di carattere dubbio" erano altresì annoverati "gli enti d'istruzione e d'arte, con scopi meramente ideali che ridondano di regola a vantaggio dell'intera società". La prospettata teoria non riteneva sufficiente il criterio dello scopo perseguito, e riteneva pubblico ogni ente che fosse costituito dallo Stato o "munito di poteri di imperio verso i terzi", o ancora assoggettato a "continua vigilanza od a coattiva fusione o trasformazione" [52].

Invero, come veniva del resto ammesso dalla dottrina, era il fine perseguito a stabilire il discrimine, ed infatti, a fronte della eccezione che si poteva muovere al requisito della soggezione alla vigilanza statale, si replicava che, sebbene questa operasse anche nei confronti delle persone private, in tali casi, a differenza di quanto avveniva riguardo agli enti pubblici, essa aveva un contenuto molto ristretto, posto che "le funzioni dell'ente privato sono diverse da quelle dell'ente pubblico".

I criteri che all'inizio del '900 servivano a definire il carattere pubblico dell'ente tendono a coincidere con quelli oggi stabiliti dall'ordinamento comunitario per "snidare la pubblicità reale" di organismi che solo apparentemente sembrano privati. Il che, in ultima analisi, induce a svalutare il dato meramente formale, e a precisare che, nel caso di fondazioni di diritto privato a prevalente partecipazione pubblica, non si può invocare un fenomeno di sostanziale privatizzazione, ma la semplice utilizzazione da parte della pubblica amministrazione di strumenti di diritto privato, aperti alla partecipazione di soggetti terzi, per garantire la soddisfazione degli interessi pubblici di riferimento. Ed anche in questo caso la deviazione dallo schema tipico del modello fondazionale privato dovrebbe attenersi al nuovo comma 1-bis dell'art. 1 l. 241/1990 in forza del quale "La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente": come già rilevato per il modello societario, il regolamento non dovrebbe disporre praeter legem allontanandosi dallo schema contrattuale definito dalla legge alla quale intende dare attuazione.

Nel caso in esame, si è sostenuto che si può desumere la natura giuridica privata delle fondazioni culturali solo se il ministero non esercita il controllo di gestione sulla relativa attività [53]. Se così fosse e se si affidasse alle stesse fondazioni la gestione di un servizio culturale a rilevanza economica, la partecipazione maggioritaria del ministero al fondo di dotazione della fondazione non sarebbe sufficiente a configurare un affidamento in house, perché mancherebbe il requisito del "controllo analogo", necessario ancorché non espressamente menzionato dall'art. 115 del Codice dei beni culturali. Si dovrebbe pertanto procedere all'affidamento in concessione preceduto da gara. Il problema tuttavia non si dovrebbe porre - almeno negli stessi termini - quando l'attività affidata alla cura della fondazione non configuri servizio pubblico (di valorizzazione) oppure quando si tratti di servizio privo di rilevanza economica [54].

 

6. La gestione dei servizi aggiuntivi

L'art. 117 del Codice dei beni culturali, dedicato ai "servizi aggiuntivi", riprende il contenuto degli artt. 112 e 113 del d.lg. 490/1999 ("servizi di assistenza culturale e di ospitalità" e "concessione dei servizi"), a loro volta originati dalla l. 14 gennaio 1993, n. 4 (legge Ronchey) e successive modifiche.

L'art. 113 del d.lg. 490/1999 definiva "concessione" l'affidamento ai privati della gestione di tali servizi da parte del soprintendente o del capo d'istituto competente, ma vietava il subappalto, così manifestando l'inesattezza del riferimento alla concessione. La disposizione originaria prevedeva l'affidamento con licitazione privata e l'aggiudicazione a soggetti privati e ad enti pubblici economici, anche società o cooperative, mentre l'art. 113 del d.lg. 490/1999 rinviava, per la concessione dei servizi, alle disposizioni in materia di appalti di servizi [55].

Il d.m. 24 marzo 1997, n. 139, regolamento di attuazione della legge 4/1993, prevedeva l'affidamento in gestione a fondazioni culturali e bancarie, a società o consorzi costituiti a tal fine, qualora risultasse finanziariamente conveniente. Oggi l'art. 115 del Codice, richiamato anche per l'affidamento dei servizi aggiuntivi, prevede l'esternalizzazione mediante concessione a terzi con procedura ad evidenza pubblica: quindi anche in questo caso la scelta tra le forme di gestione non è fondata solo sulla convenienza finanziaria ma richiede un più articolato sistema di best value. Anche se il soggetto privato è qualificato concessionario ed è omesso il rinvio alla disciplina sull'appalto di servizi, si deve tuttavia ancora qualificare in termini d'appalto il rapporto che si instaura tra amministrazione e privato gestore, ad eccezione dei casi in cui si configuri una concessione al privato dell'intera gestione e valorizzazione del bene ai sensi dell'art. 115.

Con riferimento alla gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale, l'art. 10 d.lg. 368/1998 rinvia al regolamento ministeriale che dovrà stabilire, tra l'altro: le procedure di affidamento dei servizi che dovranno avvenire mediante licitazione privata, con i criteri concorrenti dell'offerta economica più vantaggiosa e della proposta di offerta di servizi qualitativamente più favorevole dal punto di vista della crescita culturale degli utenti e della tutela e valorizzazione dei beni, e comunque nel rispetto della normativa nazionale ed europea; i rispettivi compiti dello Stato e dei concessionari riguardo alle questioni relative ai restauri e all'ordinaria manutenzione dei beni oggetto del servizio, ferma restando la riserva statale sulla tutela dei beni; i criteri, le regole e le garanzie per il reclutamento del personale, le professionalità necessarie rispetto ai diversi compiti; i parametri di offerta al pubblico e di gestione dei siti culturali.

Dall'individuazione del contenuto necessario del d.m. emerge indubitabilmente che l'erogazione di tali "servizi" incide sulla valorizzazione dei beni stessi: si pensi ai "parametri di offerta al pubblico e di gestione dei beni culturali".

Se si tratta di servizi accessori, l'affidamento a terzi deve seguire le regole dell'appalto di servizi [56].

Se si tratta di attività che rientrano nella gestione del bene culturale/servizio culturale, allora occorre prima individuare il soggetto gestore: ad es. l'art. 11, comma 2, del citato d.m. 491/2001 sulle fondazioni di partecipazione prevede che "La fondazione può svolgere direttamente i servizi previsti dall'articolo 112 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490" (oggi corrispondenti al catalogo di cui all'art. 117 del Codice: i servizi aggiuntivi).

 

7. La specialità degli appalti di lavori (e misti) concernenti beni culturali. Rinvio

Quanto alla disciplina degli appalti pubblici concernenti beni culturali e dunque all'affidamento a privati di attività materiali sui beni stessi, si deve rilevare la esistenza di una disciplina speciale, al cui esame specifico si rinvia salvo qualche precisazione [57].

Anzitutto il corpo normativo di riferimento, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 30, recante Modificazioni alla disciplina degli appalti di lavori pubblici concernenti i beni culturali, riconduce in tale disciplina attività, come quelle effettuate su beni mobili, che potrebbero includere servizi e non solo lavori. Il riferimento è agli appalti aventi ad oggetto "gli allestimenti dei musei, degli archivi e delle biblioteche o di altri luoghi culturali" ovvero "la manutenzione ed il restauro dei giardini storici" (art. 5, comma 1, d.p.r. 30/2004 cit.). Si tratta di appalti misti, con riferimento ai quali la disciplina applicabile segue il criterio della c.d. "accessorietà funzionale". Come da altri è stato rilevato, il rilievo economico di una componente rispetto all'altra, pur non decisivo ai fini del regime contrattuale, mantiene un valore indiziario del tutto rilevante, rendendo obiettivamente improbabile configurare un appalto misto come "appalto di forniture o servizi" laddove le prestazioni qualificati come "lavori" assumano rilievo economico preponderante [58].

Quanto all'individuazione del contraente ed alle disposizioni sull'affidamento dei lavori, l'art. 7 si occupa quasi solo della "trattativa privata" e dell'esecuzione in "economia", salva la licitazione privata semplificata. Senza procedere all'esame di dettaglio, le ipotesi di trattativa privata risultano maggiormente articolate rispetto alla generale disciplina dei lavori pubblici: così l'innalzamento delle soglie previste per il ricorso alla trattativa privata e per l'esecuzione in economia (che passano da 200.000 a 300.000 euro), a causa della inadeguatezza dei risultati ottenuti nei casi in cui sono stati utilizzati sistemi di individuazione del contraente basati su automatismi valutativi. E la stessa "specialità" rispetto alla disciplina ordinaria in materia di lavori pubblici risulta differenziata in ragione alla natura mobile od immobile dei beni interessati.

La centralità degli affidamenti diretti nel settore dei beni culturali è compensata dalla imposta necessità del rispetto dei principi di adeguata pubblicità, trasparenza ed imparzialità [59]. Come correttamente rimarcato, resta da verificare se la fissazione delle soglie economiche della trattativa privata (preceduta da gara ufficiosa a quindici) a 500.000 euro e della esecuzione in economia a 300.000 euro (mediante amministrazione diretta o cottimi) possa risultare giustificata a livello comunitario, atteso che la ineludibile necessità di garantire la tutela dei beni culturali non può comunque sacrificare il principio concorrenziale.

 



Note

[1] Per un primo commento al d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3, M. Cammelli, La riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3), in Aedon, 3/2003. Sul ministero come struttura "totalizzante" nel disegno del d.lg. 30 luglio 1999, n. 300, G. Pastori, Il ministero per i Beni e le Attività culturali: il ruolo e la struttura centrale, in Aedon, 1/1999.

[2] Per un approfondimento, cfr. la relazione di G. Sciullo, L'organizzazione periferica del Mbac, in questo numero di Aedon.

[3] Sul tema, da ultimo, G. Pastori, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia: situazione in atto e tendenze, in Aedon, 3/2004. Cfr. inoltre N. Aicardi, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon, 1/2003.

[4] Corte costituzionale, sentenza 28 marzo 2003, n. 94, in Giornale dir. amm., 2003, 904 ss., con commento di S. Foà, riferita ai locali storici regionali e in Le Regioni, 2003, 1228 ss. con nota di S. Foà, La legge regionale sulla tutela dei locali storici è legittima perché non riguarda "beni culturali" ma beni "a rilevanza culturale". La Corte costituzionale "sorvola" sulla distinzione tra tutela e valorizzazione, ivi, 1232 ss. Cfr. inoltre A. Poggi, Verso una definizione aperta di "bene culturale"? (a proposito della sentenza n. 94/2003 della Corte costituzionale), in Aedon, 1/2003; S. Benini, Circa la tutela dei locali storici, in Foro it., 2003, I, 1308 ss.

[5] Sentenza 13 gennaio 2004, n. 9, in Foro amm. CdS, 2004, 356, con nota di S. Foà, Il restauro è espressione della tutela dei beni culturali: la disciplina normativa è solo statale, ivi, 361 ss.

[6] Sentenza 20 gennaio 2004, n. 26, punto 3 in diritto.

[7] Corte costituzionale, sentenza 21 luglio 2004, n. 255, in www.federalismi.it, con commento di S. Foà, Costituzionalità "provvisoria", continuità istituzionale e monito al legislatore statale: la disciplina dello spettacolo; M. Belletti, Il nuovo riparto di competenze Stato-regioni tra continuità, ultrattività ed urgenza, in Forum di Quaderni costituzionali, 2004; C. Tubertini, La disciplina dello spettacolo dal vivo tra continuità e nuovo statuto delle autonomie, in Aedon, 3/2004.

[8] S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, 33 ss., spec. 35. Si può anche ricordare che la prima elaborazione dottrinale che si è espressamente riferita alla nozione di bene culturale aveva ricondotto sia la potestà di tutela sia quella di valorizzazione nell'ambito della generale attività di gestione, in modo simile a quanto successivamente formalizzato dal d.lg. 112 del 1998: così il noto lavoro di M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 36 ss.

[9] Cons. Stato., sez. consultiva per gli atti normativi, Parere 26 agosto 2002, n. 1794/2002, in Aedon, 2/2002.

[10] Cfr. punto 3.2.2.

[11] Sul punto C. Barbati, Tutela e valorizzazione dei beni culturali dopo la riforma del titolo V: la separazione delle funzioni, in Giorn. dir. amm., 2003, 147 ss.

[12] Lo stesso intervento del Codice dei beni culturali non ha semplificato l'opera di demarcazione tra le funzioni: M. Cammelli, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: dall'analisi all'applicazione, in Aedon, 2/2004.

[13] Per un commento più specifico, C. Barbati, Commento all'art. 111, in M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, 2004, 434 ss. In alcune letture si critica un contrasto tra il contenuto dell'art. 6 e quello dell'art. 111, laddove il primo si riferirebbe alla valorizzazione-fruizione ed il secondo alla valorizzazione nella sua declinazione economica: L. Casini, Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Giornale dir. amm., 2004, 478 ss., spec. 481.

[14] Ad esempio Tar Toscana, sez. I, 6 giugno 1989, n. 404, in Foro it., 1990, III, 515, che aveva annullato per vizio di eccesso di potere per incongruenza della motivazione la deliberazione di giunta regionale che aveva ritenuto l'inopportunità di soggetti-enti privati, che operino per la cura di interessi interamente soddisfatti dall'iniziativa pubblica (pronuncia riferita ad una associazione operante in materia turistico-congressuale).

[15] Per il relativo commento, S. Foà, Commento agli artt. 114-117, in M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 451 ss.

[16] Su cui infra, paragrafo 5.

[17] G. Sciullo, I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002, in Aedon, 1/2002.

[18] Tra i più recenti contributi sull'affidamento in house della gestione dei servizi pubblici locali, M. Capantini, Contratto di servizio ed affidamenti in house, in Riv. it. dir. pubb. comunitario, 2004, 801 ss.; M. Galesi, In house providing: verso una concreta definizione del "controllo analogo"?, in Urbanistica e appalti, 2004, 930 ss.; A. Massera, L'"in house providing": una questione da definire, in Giorn. dir. amm., 2004, 849 ss.; P. Alberti, L'affidamento in house dei servizi pubblici locali, in Economia e dir. terziario, 2003, 589 ss.; D. Casalini, L'organismo di diritto pubblico e l'organizzazione in house, Napoli, 2003, 247 ss.

[19] Per una recente analisi, G. Sciullo, Gestione dei servizi culturali e governo locale dopo la pronuncia 272 del 2004 della Corte costituzionale, in Aedon, 3/2004.

[20] COM-2003-270 del 21 maggio 2003.

[21] Ad es. Corte di giustizia Ce, sentenza 22 maggio 2003, causa 18/2001, in Foro amm. CdS, 2003, 1498.

[22] Con la citata sentenza n. 272/2004 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 113 comma 7 Tuel perché "stabilisce, dettagliatamente e con tecnica autoapplicativa, i vari criteri in base ai quali la gara viene aggiudicata, introduce la prescrizione che le previsioni dello stesso comma 7 "devono considerarsi integrative delle discipline di settore". L'estremo dettaglio nell'indicazione di questi criteri, che peraltro non prendono in considerazione ulteriori requisiti dell'aspirante, quali, ad esempio, precedenti esperienze di gestione nel settore, va al di là della pur doverosa tutela degli aspetti concorrenziali inerenti alla gara, che peraltro appaiono sufficientemente garantiti dalla puntuale indicazione, nella prima parte del comma, di una serie di standard - coerenti con quelli contenuti nella direttiva 2004/18/CE - nel cui rispetto la gara appunto deve essere indetta ed aggiudicata. E' evidente quindi che la norma in esame, prescrivendo che deve considerarsi integrativa delle discipline settoriali di fonte regionale la disposizione estremamente dettagliata ed autoapplicativa di cui al citato art. 113, comma 7, pone in essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiché risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all'obiettivo della tutela della concorrenza l'intervento legislativo statale".

[23] Critica l'eccessivo dettaglio delle disposizioni codicistiche M. Cammelli, Un ministero tentato dall'autosufficienza, in Il Giornale dell'arte, 2004, 230 ss.; Id., Introduzione, in M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 46.

[24] Cons. Stato, sez. V, ordinanza 22 aprile 2004, n. 2316, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui l'affidamento diretto a società per azioni, del tutto autonome, salvo l'esercizio dei poteri propri del possessore della maggioranza delle azioni, secondo le norme del diritto commerciale comune, sembra esporre la gestione delle pubbliche risorse a procedure diverse da quelle destinate a garantire una crescita del mercato interno, l'economia nelle spese e il vantaggio per l'utenza. Cfr. anche Tribunale di giustizia amministrativa per il Trentino-Alto Adige, sezione autonoma di Bolzano, ordinanza 27 settembre 2003, n. 25, estratto in Guce 10 gennaio 2003, C. 7/23.

[25] Art. 57 ss. del regolamento di cui al d.p.r. 4 ottobre 1986, n. 902.

[26] E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero (art. 10 del d.lg. 368/1998), in Aedon, 1/1999.

[27] Su cui, come noto, la letteratura è vastissima. Ci si limita, con riferimento al problema specifico della tipicità, a richiamare M. Dugato, Atipicità e funzionalizzazione nell'attività amministrativa per contratti, Milano, 1996; E. Bruti Liberati, Consenso e funzione nei contratti di diritto pubblico, Milano, 1996; G. Falcon, Le convenzioni pubblicistiche, Milano, 1984; R. Ferrara, Gli accordi tra privati e pubblica amministrazione, Milano, 1985; C. Marzuoli, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982; G. D'Auria, Autorità e contratto nell'amministrazione italiana oggi, in Pol. dir., 1998, 201 ss.; G. Pericu, L'attività consensuale della pubblica amministrazione, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2001, 1697 ss.

[28] Per effetto dell'approvazione definitiva della legge recante "Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa" (testo approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati il 26 gennaio 2005, non ancora promulgato). Per un commento alla previsione specifica del d.d.l., S. Civitarese Matteucci, La funzione amministrativa e il diritto privato, in S. Civitarese Matteucci e L. Gardini (a cura di), Dal procedimento amministrativo all'azione amministrativa, Bologna, 2004, 35 ss.

[29] Salvo argomentare il carattere cumulativo delle previsioni del Codice dei beni culturali rispetto a quelle del Tuel: così M. Cammelli, Introduzione, in Id. (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 45. In ogni caso, come si è visto, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 113-bis Tuel, lasciando maggiore libertà agli enti locali nella scelta della forma di gestione dei servizi privi di rilevanza economica.

[30] L. Zanetti, La valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica (art. 112), in Aedon, 1/2004.

[31] N. Rocco di Torrepadula, Le società per la valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 3/2001.

[32] Commissione europea, 30/4/2004 n. COM(2004)327, libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni.

[33] In tal senso si è costantemente espressa la giurisprudenza nazionale a partire dalla decisione del Consiglio di Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192, in Foro amm., 1998, 432, 2097: cfr. E. Casetta - S. Foà, Pubblica amministrazione, voce in Digesto delle discipline pubblicistiche, aggiornamento, Torino, 2000, 436 ss.

[34] G. Rossi, Gli enti pubblici in forma societaria, in Servizi pubblici e appalti, 2004. Dello stesso Autore, più in generale, Enti pubblici associativi, Napoli, 1979, passim.

[35] G. Rossi, loc. cit., secondo cui in tali casi si deve condividere l'opinione di quegli studiosi che giudicano "insincere" queste formule (Ascarelli) o che considerano "farisaica l'adozione del modello societario" (Irti).

[36] Ancora condivisibili le conclusioni di G. Rossi, loc. cit., secondo cui l'effetto in tal caso sarà inverso e vi sarà un'ingerenza della politica nella vita della società ancora più forte di quella attuale.

[37] Come sostenuto, non senza perplessità, da F. Merusi, La privatizzazione per fondazioni tra pubblico e privato, in Dir. amm., 2004, 502 ss.

[38] S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni culturali a partecipazione statale, in Giorn. dir. amm., 2002, 829 ss.

[39] S. Foà, Lo statuto tipo della fondazione museale: il caso del museo egizio di Torino, in Aedon, 2/2003.

[40] Cfr. art. 2, comma 4, lett. b) dell'atto costitutivo.

[41] Art. 14, comma 3, dell'atto costitutivo.

[42] Sulla disciplina generale di riferimento per le fondazioni di partecipazione, il Consiglio di Stato in sede consultiva ha chiarito che l'istituto rinviene la propria disciplina nel disposto dell'art. 12 cod. civ. (ora art. 1 d.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361), nella parte in cui affianca alle associazioni e alle fondazioni le "altre persone giuridiche private", senza che sia quindi necessario definire una disciplina che contenga una commistione tra la normativa prescritta per le associazioni e quella prevista per le fondazioni, perché sarà quest'ultima a fornire le coordinate fondamentali ed uniche della fondazione di partecipazione: Cons. Stato, Commiss. spec., 20 dicembre 2000, n. 288/00, in Cons. Stato, 2001, I, 490 ss. Né in caso di lacune nella disciplina dei singoli istituti speciali è possibile argomentare il ricorso per analogia alle disposizioni codicistiche relative alle associazioni: si è ad es. negata l'applicabilità di tali disposizioni ad un fondo pensioni, che per i suoi caratteri è stato ritenuto riconducibile nella categoria delle fondazioni, con conseguente legittimità tanto del ricorso a sistemi di democrazia indiretta, mediante i quali i partecipanti designano i soggetti che prenderanno parte alle decisioni dell'ente, quanto dell'uso del referendum, se meramente consultivo: Tribunale Milano, 3 novembre 1994, in Nuova giur. civ., 1995, I, 1076, con nota di M. Cavanna.

[43] F. Merusi, La privatizzazione per fondazioni, cit., 484. Corte costituzionale, sent. 24-29 settembre 2003, n. 300, con nota di S. Foà, Le fondazioni di origine bancaria quali soggetti privati espressione delle "libertà sociali": "ordinamento civile" e sussidiarietà orizzontale, in Foro amm. CdS, 2003, 2838 ss., ed ivi ulteriori richiami bibliografici. Si noti che anche il metodo di individuazione delle attività affidate alle fondazioni appare analogo: come per le fondazioni di origine bancaria, anche il d.m. 491/2001 prevede che il conferimento in uso dei beni (in questo caso culturali) è finalizzato a conseguire almeno uno degli obiettivi di seguito elencati, permettendo alla fondazione di scegliere nell'ambito di un "paniere" di interventi ritenuti rilevanti a livello normativo.

[44] Mentre il negozio di fondazione integra un atto di autonomia privata, che non partecipa della natura del provvedimento amministrativo di riconoscimento, ma è regolato in relazione alla sua validità ed efficacia dalle norme privatistiche e genera rapporti di diritto privato e posizioni di diritto soggettivo: cfr. ad es. Cass., sez. un., 26 febbraio 2004, n. 3892, relativa a fondazioni ecclesiastiche, in Rep. Foro it., 2004, voce Persona giuridica, n. 1, 4950.

[45] Si tratta del d.p.r. 24 maggio 2001, n. 254. Per un commento, G.M. Riccio, Le fondazioni universitarie. Analisi del d.p.r. 24.5.2001, n. 254, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, 159 ss.; criticamente F. Merusi, op. ult. cit., 500 ss.

[46] F. Merusi, op. ult. cit., 503.

[47] Al riguardo cfr. Cons. Stato, sez. II, 30 marzo 1994, n. 491/94, in Cons. Stato, 1994, I, 1465 (m) che riconobbe personalità giuridica di diritto privato al consorzio universitario Nettuno, utilizzando un ragionamento analogicamente estensibile alle fondazioni in merito alla natura dell'interesse perseguito.

[48] Si riporta l'art. 25 cod. civ.: Controllo sull'amministrazione delle fondazioni. - L'autorità governativa esercita il controllo e la vigilanza sull'amministrazione delle fondazioni; provvede alla nomina e alla sostituzione degli amministratori o dei rappresentanti, quando le disposizioni contenute nell'atto di fondazione non possono attuarsi; annulla, sentiti gli amministratori, con provvedimento definitivo, le deliberazioni contrarie a norme imperative, all'atto di fondazione, all'ordine pubblico o al buon costume; può sciogliere l'amministrazione e nominare un commissario straordinario, qualora gli amministratori non agiscano in conformità dello statuto e dello scopo della fondazione o della legge.

Nella scienza giusprivatistica l'affidamento del controllo all'autorità governativa veniva in un primo momento giustificato in ragione della assenza di "un congegno interno alla struttura dell'ente (cioè l'assemblea) che consenta una correzione o una regolarizzazione della gestione": così F. Ferrara Sr., con note di F. Ferrara Jr., Le persone giuridiche, in Trattato Vassalli, II ed., ristampa, Torino, 1958, 353. Sul contenuto del controllo e sulla sua limitazione alla "legittimità della gestione" o, secondo un'altra teoria, sulla sua estensione al merito delle scelte effettuate dagli amministratori, si veda la ricostruzione del dibattito dottrinale in G. Iorio, Le fondazioni, Milano, 1997, 304, ed ivi richiami bibliografici. Secondo F. Galgano, Delle persone giuridiche, in Commentario al codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1969, 341, i poteri di controllo di cui all'art. 25 cod. civ., dandosi carico degli interessi propri dell'ente, configurerebbero una competenza ascrivibile all'area dell'"amministrazione pubblica del diritto privato".

Con riferimento all'istituto tradizionale, la giurisprudenza ribadisce costantemente che il controllo pubblico sulle fondazioni è funzionale alla protezione dell'interesse dell'ente, in quanto si ricollega alla mancanza di un controllo interno corrispondente a quello delle corporazioni e mira a tutelare il vincolo di destinazione del patrimonio allo scopo voluto dal fondatore (Tar Lombardia, sez. III, 23 giugno 2000, n. 4598, in Giust. Civ., 2001, I, 279 ss.). Non contrasta con la natura privata di un ente la circostanza che esso sia soggetto a controlli da parte di soggetti pubblici e persegua uno scopo di interesse generale, atteso da un lato che l'art. 25 c.c. prevede penetranti controlli pubblici anche sulle fondazioni di diritto privato e dall'altro che l'ordinamento vigente consente ai privati di svolgere funzioni un tempo ritenute di pertinenza esclusivamente pubblica (Cons. Stato, Commiss. spec., 28 settembre 2000, n. 289/00, in Cons. Stato, 2000, I, 2409).

[49] F. Merusi, op. ult. cit., 510 ss.

[50] Come analogamente avviene per la veste societaria "insincera": supra, G. Rossi, Gli enti pubblici in forma societaria, loc. cit.

[51] Così, per tutti, C. Vitta, Le persone giuridiche pubbliche in Francia e in Italia, Modena, 1928, 18 ss., ed ivi richiami alle diverse ricostruzioni dottrinali dell'epoca.

[52] Per un approfondimento, S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni costituite e partecipate dal ministero per i Beni e le Attività culturali, in Aedon, 1/2002.

[53] F. Merusi, op. ult. cit., 503.

[54] D'altro canto, al di fuori del campo della gestione in house, il conferimento del servizio "privo di rilevanza economica" e la scelta del partner privato restano esposti all'applicazione del generale principio di concorsualità, richiamato dal giudice amministrativo in ossequio ad esigenze di imparzialità e trasparenza: G. Sciullo, Gestione dei servizi culturali e governo locale dopo la pronuncia 272 del 2004 della Corte costituzionale, in Aedon, 3/2004.

[55] G. Corso, Commento agli artt. 112 e 113, in M. Cammelli (a cura di), La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, Bologna, 2000; sulla necessità della licitazione privata, Cons. Stato, sez. II, 24 gennaio 1996, n. 70/96, in Cons. Stato, 1997, I, 154; Cons. Stato, sez. VI, 12 novembre 2003, n. 7249, con commento di S. Foà, Licitazione privata per la "concessione" dei servizi aggiuntivi museali e inesistenza di riserva di attività a favore dell'Istituto poligrafico dello Stato, in Foro amm. CdS, 2003, 3850 ss.

[56] Atteso che i servizi aggiuntivi di cui all'art. 117 del Codice non possono essere interessati direttamente dalle forme di gestione di cui all'art. 115: cfr. M. Cammelli, Introduzione, in Id. (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 45.

[57] G. Santi, Verso la istituzione di un sistema autonomo degli affidamenti dei "lavori" nel settore dei beni culturali (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 30), in Aedon, 2/2004.

[58] G. Santi, loc. cit.

[59] Cfr. Relazione illustrativa al d.p.r. 30/2004, cit.

 



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