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La riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3)

di Marco Cammelli



Con il decreto legislativo 3/2004 si apre un'intensa stagione di riforme legislative nel settore dei beni culturali, destinate ad incidere su aspetti specifici, ma rilevanti (come le modificazioni alla disciplina degli appalti pubblici di lavori concernenti i beni culturali (decreto legislativo del 22 gennaio 2004), e su questioni ordinamentali generali, come il codice dei beni culturali e paesaggistici, di imminente pubblicazione.

Si tratta di temi cui la Rivista dedicherà specifici approfondimenti nei prossimi numeri, ma fin d'ora può essere utile esprimere qualche considerazione sulla riorganizzazione del ministero che ancora una volta, come già era avvenuto per la prima riforma (d.lg. 368/1998) rispetto al d.lg. 112/1998], appare slegata rispetto alla ricostruzione del ruolo affidato al ministero o meglio, e più esattamente, mira ad affermarne una versione, quella della generalità delle competenze e della operatività dei compiti, pregiudiziale rispetto a quella che dovrebbe essere frutto invece della puntuale ricognizione delle funzioni assegnate e, più in generale, del riparto di compiti tra stato e sistema regionale e locale. Ma su questo, torneremo tra breve.

Si tenga conto, inoltre, che il decreto opera amplissimi rinvii ad atti successivi di organizzazione, sicché non è facile intravedere con sicurezza quale sarà la fisionomia definitiva del ministero. Basti citare, per limitarsi ad un esempio, l'accenno operato dal Ministro (comunicato ufficiale del 23 dicembre 2003) all'intenzione di costituire gradualmente "uffici provinciali che consentiranno la presenza di almeno uno sportello dei Beni Culturali in ogni provincia": può darsi che questo "agevoli i cittadini" ma di sicuro complica enormemente le relazioni tra centro e autonomie e un accettabile definizione dei rispettivi ruoli.

Il decreto in ogni caso, che nasce come correttivo dei decreti di riordino della organizzazione ministeriale previsti dall'art. 11.1 della legge 59/1997 e dunque in quella logica e secondo quei criteri direttivi va considerato, a una prima lettura presenta alcuni elementi di particolare interesse.

Intanto, va positivamente accolto il fatto di rivedere l'originaria scelta per il modello a segretario generale con l'opzione per i dipartimenti (comma 1 del nuovo art. 54 d.lg. 300/99). Come si ricorderà, infatti, l'innesto del segretario generale era parso fin dai primi commenti (D'Auria) poco indovinato perché legato, diversamente dalla organizzazione per dipartimenti, all'esigenza di governare il ministero secondo un'unica "linea di comando" (ove i direttori generali hanno il "filo diretto" con il ministro ed il segretario generale ha, rispetto ad essi, compiti di coordinamento e di controllo), come avviene appunto nei ministeri "d'ordine", come quelli degli affari esteri e della difesa.

Un'unica linea di comando per molte ragioni poco proponibile nel ministero per i Beni e le Attività culturali, a cominciare da quella che la missione affidata non è affatto unica (come negli esempi appena riferiti) ma comprende anche aree del tutto eterogenee rispetto a quella principale, come lo spettacolo e lo sport. Assai più consona, dunque, la soluzione organizzativa basata sui dipartimenti, concepiti dal d.lg. n. 300/1999 come strutture qualificate dalla natura dei loro compiti e dai modi in cui essi debbono essere svolti. I compiti sono infatti riferiti a grandi aree di materie omogenee e corrispondono, per lo più, alle policies che ciascun ministero è chiamato a realizzare.

Ecco perché ciascun dipartimento è titolare di una specifica missione, perché il capo del dipartimento è responsabile della relativa attuazione e perché, infine, il rapporto è articolato tra ministro e quest'ultimo e tra capo del dipartimento e direzioni generali.

Non è chiaro quanto queste considerazioni abbiano avuto effettivamente peso nella scelta operata, ma in ogni caso resta il fatto che la scelta è giusta e che altri aspetti eventualmente emersi, quali le tensioni venutesi a creare tra gabinetto del ministro e segretariato del ministero, andrebbero considerati più come riflessi di questi elementi strutturali che accidentali patologie riferibili ad altro.

Un altro elemento positivo è rappresentato dalla definizione della natura e delle attribuzioni delle direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici (comma 3 art. 54 d.lg. 300/99 e nuovo art. 7 del d.lg. 368/98). L'istituto, come si sa, è stato oggetto di molte critiche peraltro non del tutto persuasive: in ogni caso, sia per i critici che per i favorevoli (come chi scrive) resta il fatto che una volta imboccata la strada dell'articolazione regionale degli apparati ministeriali quest'ultima deve essere compiutamente disciplinata ed ha ragione di essere solo se, come appunto avviene nel presente decreto, le vengono riconosciuti poteri incisivi sulla restante organizzazione periferica del ministero.

Semmai si può discutere sulla opportunità che i direttori regionali cumulino anche la titolarità delle soprintendenze dotate di autonomia (nuovo art. 7.6 del d.lg. 368/1998), perché si tratta di incarichi tra loro decisamente eterogenei e indubitabilmente impegnativi, sì che il rischio che all'unione personale del titolare consegua la marginalizzazione dell'uno o dell'altro compito appare elevato. Ma la disposizione si limita saggiamente a facoltizzare l'ipotesi e la questione può porsi in modo diverso a seconda dei tempi e dei luoghi.

Per altri, e determinanti, aspetti il decreto solleva invece numerose perplessità.

Intanto il d.lg. 300/1999 in cui le correzioni del d.lg. 3/2004 si inseriscono è, come ovvio, precedente al nuovo titolo V Cost. ed in particolare lo è la ricognizione delle funzioni operate dagli artt. 52 e 53 che non corrispondono più né a quanto disposto dall'art. 117, commi 2 e 3, Cost. (potestà legislative riservate allo stato o concorrenti) né al sistema introdotto dall'art. 118.1 Cost. per l'allocazione delle funzioni amministrative. Ma il problema del rispetto del nuovo regime costituzionale, o almeno di una plausibile interpretazione del medesimo, evidentemente non è ancora all'ordine del giorno del Governo che continua a rimuoverlo limitandosi ad ripetere in ogni sede che la riforma del titolo V è stata frettolosa e che la distinzione tra tutela e valorizzazione è cervellotica.

Può darsi che le cose stiano così, ma a parte il fatto che non è stata ancora formulata una soluzione migliore, rimuovere un problema non è un buon modo per risolverlo, tanto più che invece c'è chi invece vi fa riferimento come il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale, e mentre il parere del primo può in qualche caso essere specificamente escluso come del resto si è fatto (il che è singolare, ma possibile), la pronuncia della seconda è sicura, in ragione degli inevitabili ricorsi delle regioni e dell'altrettanto inevitabile richiamo del dettato costituzionale.

Quanto tutto ciò sia destinato a pesare sul codice dei beni culturali, lo si vedrà nel prossimo futuro in sede di commento del provvedimento legislativo. Qui preme solo richiamare due importanti e recentissime pronunce interpretative della Corte, la sentenza n. 9 e quella n. 26 del 2004, nelle quali il giudice costituzionale interpreta il riparto di competenze tra stato e regioni definito dal titolo V basandosi sulle definizioni introdotte in materia dall'art. 158.1 del d.lg. 112/1998, cui si riferisce per intero in ordine alla nozione di tutela e di valorizzazione. Il che, per quanto ora interessa, suggerisce tre considerazioni, e cioè che il ministero continua a considerare statali funzioni che ormai non lo sono, che riorganizza i propri apparati su queste erronee premesse, e che infine sarebbe probabilmente più utile per il ministero stesso e positivo per l'intero sistema se, abbandonando la fase della rimozione, si approdasse a quella assai più produttiva per tutti della messa a punto di ragionevoli, e condivise, ipotesi di assetto istituzionale e di cooperazione amministrativa. Una cooperazione per il momento solo annunciata, specie dal Codice dei beni culturali e paesaggistici, e che invece ha bisogno anche della messa a punto di strumenti e modalità attuative, evidentemente determinanti.

Sul punto non può tacersi più di una preoccupazione, sia per il dato formale che la disciplina di questi aspetti è espressamente riservata alla legge dall'art.118.3 Cost., ed è dunque dubbio che possa essere dettata come prevede il Codice da semplici fonti regolamentari, sia per la ragione sostanziale che proprio in questa materia l'esperienza passata della collaborazione tra stato e regioni è stata spesso "difficile", ed è dunque indispensabile chiarire chi e come sappia superare l'impasse e le incomprensioni che ne hanno costellato la storia.

A meno che non si pensi, e non è escluso che qualcuno lo abbia fatto, che il punto su cui far leva per venirne a capo sia costituito dagli ingenti mezzi finanziari a disposizione del centro (e della costituenda Arcus spa) rappresentati dai proventi del 3% sull'importo delle infrastrutture del piano Lunardi (valutati, secondo prime stime, tra i 150 e i 300 miliardi di vecchie lire solo per le opere varate nel secondo semestre 2003), il che consegnerebbe al centro un formidabile strumento di persuasione cui certo regioni ed enti locali non potrebbero rimanere insensibili.

Ma a parte ogni considerazione sulla compatibilità di tale sistema con i principi che presiedono il finanziamento del sistema regionale e locale stabiliti dal nuovo art.119 Cost., questa, come è ovvio, sarebbe una ragione in più per precisare una volta per tutte e nel modo più solenne, con legge, come si svolgono queste relazioni tra centro e sistema delle autonomie e in che modo evitare che la cooperazione si riduca nei fatti a determinazioni unilaterali del primo e al semplice prendere o lasciare delle altre.

Un altro punto riguarda i dipartimenti: nell'iter di formazione del decreto l'attenzione degli addetti ai lavori si è concentrata sulla esclusione, poi rientrata, del dipartimento per i beni archivistici e librari. Si può capire, ed è sicuramente da condividere la soluzione definitiva, ma il problema è più ampio e pregiudiziale e riguarda il senso e il ruolo dei dipartimenti.

Di questi ultimi può darsi una versione debole, come mero agglomerato di strutture che restano ancorate in tutto e per tutto alle direzioni generali, il che si traduce nella semplice aggiunta di una nuova (ma non si sa quanto utile) figura di responsabile del procedimento.

Oppure se ne dà una interpretazione più forte, e compatta, ove la responsabilità di coordinamento del capo del dipartimento non è credibile se priva dei poteri di direzione, organizzazione e controllo in ordine a tutti i "fattori della produzione", vale a dire le risorse finanziarie e strumentali, l'assetto degli uffici e dei servizi, il personale. In questo modo, come è stato osservato (ancora D'Auria) i dipartimenti riuniscono in sé il complesso organico di attività che compongono ciascuna macrofunzione e, con esso, la gestione delle risorse (finanziarie, umane, materiali) disponibili, i poteri organizzativi necessari al miglior esercizio della funzione, la responsabilità per i risultati e per la qualità dei "prodotti" realizzati.

Ebbene, è certo che i criteri della legge delega 59/1997 si muovevano in questa direzione ed è altrettanto innegabile che la strada presa (dal d.lg. 300/1999, ben prima del decreto qui commentato) è stata invece nel senso più debole. Si dirà che la disciplina puntuale dei dipartimenti è rinviata a normative (governative e ministeriali) successive, ma la scelta già operata direttamente dal d.lg. 3/2004 di concentrare la disponibilità delle risorse (finanziarie e di personale) in una sola struttura (all'interno del dipartimento ricerca, innovazione, organizzazione), invece che assicurarne la disponibilità ad ogni singolo dipartimento, sottolinea la continuità con l'assetto tradizionale (v. direzione affari generali) e la conseguente esclusione delle innovazioni che si sono dette.

Resta da accennare, da ultimo, alla sorte assegnata agli organi consultivi del ministero. Argomento apparentemente minore, e comunque interamente delegificato quanto a composizione, compiti e incompatibilità (nuovo art. 4.2 d.lg. 368/98), se non fosse per il fatto che gli organi tecnici nella materia giocano (o dovrebbero giocare) un ruolo assai importante e per la considerazione che proprio in queste sedi si gioca (o si dovrebbe giocare) una quota consistente di quella cooperazione tra stato e sistema delle autonomie che il titolo V (e, con grande decisione, le stesse sentenze Corte cost. 9 e 26 del 2004) presuppongono, e le ragioni prima indicate sollecitano con urgenza..

Nell'art. 1 delle legge delega 137/2002, da cui è nato il decreto qui commentato, e in quest'ultimo alla questione non si fa il minimo accenno. Ma il problema è semplicemente rinviato al regolamento, perché una cosa ormai dovrebbe essere chiara a tutti: il modo di affrontare la costituzionalizzazione della distinzione tra tutela e valorizzazione, ormai operante in modo positivo nel nostro ordinamento, non è quello di ignorarne la prescrittività con le inevitabili conseguenze giurisdizionali, ma di darne una interpretazione plausibile (la Corte costituzionale, ci prova) e di attrezzarsi con robuste modalità di collaborazione tra centro e sistemi locali.

Se no, come nel gioco dell'oca, si torna sempre al punto di partenza.



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