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Città d'arte e centri storici

Città d'arte tra autonomia e regimi speciali [*]

di Marco Cammelli

Sommario: 1. Il contesto. - 2. I quesiti. - 3. Le risposte. - 3.1. Intanto, un preliminare problema di metodo. - 3.2. Dunque, differenziare per aderire ai sistemi locali: come? - 3.3. - Ma esaminiamo "l'amministrare" in modo più ravvicinato. - 3.4. Le virtù e le premesse della cooperazione. - 3.5. Al centro. - 4. Considerazioni finali.

Art Cities: between Autonomy and Special Regimes
The specialty of the Art Cities for the unique concentration and quality of historical and artistic heritage within an urban context leads us to reflect on the opportunity to imagine for them a special legal regime. The answer to this question goes through the same definition of the Art City and the correct identification of its problems.

Keywords: Art City; Cultural Heritage; Special Legal Regime; Interinstitutional Cooperation.

1. Il contesto

In che cosa esattamente sono "speciali" le città d'arte? Queste particolarità richiedono un regime giuridico speciale, e in caso affermativo quale? E a quali fini? Queste sono le domande a cui cercare di dare una risposta.

In termini concettuali, la città d'arte è espressione di una particolare concentrazione e qualità delle testimonianze storiche e artistiche presenti nel contesto urbano e assume un carattere simbolico e identitario così forte e universalmente riconosciuto da generare particolari e qualificati interessi non solo scientifici e culturali ma anche di altro genere, e in particolare economici (importanti flussi turistici) e in qualche caso politici (come capitale di stato). Sono città che si rapportano direttamente a reti sovranazionali per il ruolo che globalmente è loro riconosciuto, e nel complesso hanno opportunità (attenzione dei media e dei mercati) e corrono rischi incomparabilmente superiori a ogni altra città: in particolare, del deterioramento del patrimonio culturale per sovraccarico turistico e della alterazione del tessuto urbano ordinario, sia sociale che economico, per il prevalere di dinamiche turistiche e di mercato operanti su scala planetaria.

Come si vede, non si tratta di problemi in sé diversi ma semmai della particolare intensità con la quale elementi comuni ad altre città sono sottoposti a condizioni di stress così elevati da richiedere soluzioni particolari. Questo ci aiuta ad impostare più correttamente il problema: a ritenere cioè che è dall'azione ordinaria che si deve partire e che interventi speciali vanno immaginati solo per la parte di problemi che nelle attività ordinarie, sia pure dimensionate alle particolari esigenze del caso, non possono trovare risposta. Naturalmente, si tratta di una dimensione di ordinario qualificata, e dunque innanzitutto necessità di:

- coordinamento e razionalizzazione dell'offerta, sul piano strettamente culturale (programma eventi, mostre; orario, bigliettazione musei) e su quello della forma urbis (supporto alla mobilità, contrasto al degrado ecologico e ambientale) e della civitas (convivenza sostenibile delle esigenze del turismo con quelle dei residenti e delle attività ordinarie, produttive e commerciali; ripartizione diseguale degli effetti del turismo: costi, a tutti, vantaggi a soggetti e aree assai più limitate);

- tutela e valorizzazione del patrimonio culturale (inteso come complesso di beni culturali e paesaggio): più in generale, tutela e valorizzazione dell'ambiente, del paesaggio e della città, sia nelle specifiche emergenze artistiche/culturali che nel loro insieme: naturalmente, è qui che si innestano i temi più specifici legati alle dinamiche idrogeologiche e alle relative criticità a cui è dedicato il nostro incontro;

- governo dell'insieme, oltre che dei singoli settori, con una cura particolare dedicata a tre principali versanti: lo spazio (spesso decisivo) della "città prima della città", vale a dire la relazione tra città e regione, Stato centrale, livelli sovranazionali, reti globali; l'interdipendenza reciproca tra le politiche pubbliche confinanti con il patrimonio culturale, prima tra tutte quella riguardante tutela e valorizzazione dei beni culturali; infine, la necessità di disporre di una dimensione temporale lunga di piani e programmi, presupposto cruciale per la cooperazione tra enti e apparati pubblici o tra questi e il privato, nonché per il reperimento di risorse vale a dire l'identificazione e la valorizzazione delle altre risorse che ci sono, e che spesso non sono né viste né cercate...

Nell'ordinamento italiano non esiste una definizione di città d'arte né una disciplina apposita (salvo frammenti sparsi, per lo più in leggi regionali) [1]. Ma il tema non è totalmente privo di rilevanza giuridica perché in alcuni casi è affrontato direttamente sia pure in modo parziale, come per tutela dei centri storici nella legge 765/1967 (peraltro in chiave fortemente difensiva: restano al di fuori le attività economiche e commerciali, essenziali per la effettiva vitalità dei centri cittadini) [2] e nella legge 77/2006 sui siti Unesco, che invece si estende anche alla gestione. In altri casi il riferimento è indiretto, e deriva da leggi di settore in tema di beni culturali (attività commerciali, orari dei negozi) o di fiscalità (contributo di soggiorno, d.lg. 23/2011), mentre tale carattere è stato il presupposto per interventi complessi ma diretti ad una specifica realtà, come avvenuto per singole città spesso in conseguenza di particolari calamità: Todi, Orvieto, Assisi, Urbino, Venezia, Roma, Lecce, Aquila).

2. I quesiti

A questo punto è possibile una formulazione più precisa dei quesiti cui cercare di dare una risposta: i problemi più acuti che le città d'arte incontrano, quanto sono comuni (almeno in parte) alle altre città? E se non lo sono, hanno almeno una base comune tra loro? Ancora: quanto di regolamentazione giuridica e quanto di azione (intesa come azione amministrativa, organizzazione, risorse) richiedono? Se di regolamentazione vi è necessità, quanto di legislazione e quanto di altre forme di regolazione (dai veri e propri regolamenti pubblici a forme consensuali come accordi, patti, convenzioni attraverso le quali regolare rapporti e azioni)? E infine: se è necessaria una regolazione legislativa, quanto di disciplina generale e quanto di regimi o leggi speciali? Senza dimenticare che la risposta non può giungere da un'unica autorità, il che aggiunge un ulteriore quesito: con quali modalità e sulla base di quali presupposti realizzare tra i principali attori (governi locali, ministero dei beni culturali, apparati tecnici sulle tematiche del territorio e dell'ambiente) quella leale cooperazione alla quale la Corte Costituzionale opera costante richiamo per garantire la necessaria tenuta di un sistema istituzionale pluralistico e per evitare conflittualità?

3. Le risposte

3.1. Intanto, un preliminare problema di metodo

Non dimentichiamo infatti l'obbiettivo: il governo delle città d'arte, articolato nelle specificazioni appena fatte e assistito da tutti i supporti che si diranno, deve essere un governo responsabile del sistema con antenne in grado di intercettare le reti globali e dialogare con le sedi, politiche e tecniche, istituzionali nazionali; capace di cooperare con le agenzie pubbliche nazionali e gli altri enti presenti, e che trova nelle istituzioni cittadine a base rappresentativa la sua sede, la sua legittimazione e la scala alla quale assicurare l'operatività dei settori valutandone l'interdipendenza. Insomma il primo, ancorché non unico, referente. Tutto questo non è possibile senza piani integrati di sviluppo che su una linea strategica di medio lungo periodo sappiano allineare singoli progetti, possibili attori pubblici e privati, risorse. Ne deriva un corollario importante: per fare questo sono necessarie risposte differenziate calibrate su ogni situazione, il che presuppone un assetto istituzionale flessibile in grado di permettere uno specifico assemblaggio di risorse e politiche di settore inevitabilmente diverse e correlate a ciascun contesto. Purtroppo la situazione attuale delle città italiane è ad una distanza siderale da questo schema, per la fortissima e concomitante azione di centralizzazione e di frammentazione di risorse sia finanziarie (tagli e cofinanziamenti) che regolative, il cui kombinat fa ormai dipendere dal centro quote crescenti di ordinaria amministrazione.

3.2. Dunque, differenziare per aderire ai sistemi locali: come?

Due soluzioni concettualmente, e anche positivamente, opposte:

A) Regime legislativo speciale, intendendo per tale le disposizioni dettate in deroga al regime ordinario, stabili o meno. E' certo un modo di differenziare, ma per lo più i costi superano i vantaggi.

Restando ad un livello generale, a parte l'ovvia necessità di ricorrervi per le emergenze (ma allora, basterebbero misure tradizionali come ordinanze di necessità e di urgenza, salvo leggi di spesa per lo stanziamento fondi) o per una prima linea di difesa rispetto a problemi inediti, a questa soluzione si possono muovere due ordini di critiche.

In termini sostanziali.

- rispetto all'obbiettivo appena enunciato (restituire alle città d'arte il governo effettivo del proprio sviluppo), è evidente lo scarto: la specialità legislativa crea frammentazione (per settore) e verticalizzazione (verso il centro nazionale) il che incide sulle modalità dei processi decisionali rendendo ancor più difficile il governo dell'insieme da parte del sistema locale;

- semplificazioni e snellimenti invece o sono rischiosi, perché abbassano controlli e garanzie con il rischio di patologie ben note, o sono virtuosi perché eliminano obsolete incrostazioni burocratiche. Con un risultato, però, paradossale: se sono utili anche in tutti gli altri casi, allora la deroga per il caso singolo finisce per essere funzionale al generale (e contraddittorio) mantenimento di cose superate, ancorché sostenute da combattivi gruppi di interesse. Insomma, una giusta innovazione curiosamente concessa ad uno solo e negata a tutti gli altri;

- cristallizza nel tempo una misura opportuna nel momento in cui è stata adottata (la Carta di Gubbio, da cui è nata la tutela dei centri storici, è del 1960) ma destinata a non essere più tale se non aggiornata e declinata in forme diverse: la legge del 1966, come si è già osservato, tutela la conservazione dei beni materiali ma trascura un elemento decisivo, le attività che rendono vivo e vitale un centro urbano) [3].

In termini formali.

Dubbi sul ricorso a regimi speciali emergono anche sul piano più strettamente tecnico-formale, per due conseguenze che ne discendono e che non sono da sottovalutare:

- rigidezza normativa nello spazio (dovere di interpretazione "stretta" della deroga, cioè con divieto di letture estensive o analogiche, con il risultato che il silenzio - cioè tutto ciò che non è espressamente previsto - resta fuori perimetro e rimette in gioco il regime ordinario) e nel tempo (il diritto generale successivo non si applica alla disciplina speciale antecedente, con il serio rischio che quest'ultima nel corso degli anni finisca per trovarsi in una condizione di sfavore);

- difficoltà operative negli apparati esecutivi (se ordinari, chiamati ad applicare una inconsueta normativa speciale; se speciali, legati a doppio filo a quest'ultima e isolati rispetto al resto), nei controlli e nella giurisdizione. Con forti oscillazioni tra l'estemporaneità e la tentazione, sempre più forte con il passare del tempo, di omologare la parte (speciale) al tutto (ordinario), con conseguenti e seri problemi di chiarezza, stabilità, trasparenza.

B) Differenziare in via amministrativa. Si deve allora concludere sconsolatamente che la necessità di aderire alle singole realtà e contesti, per definizione diversi, non ha spazio e che non ci sono alternative alla più ferrea uniformità? Le cose non stanno così: il punto, è cercare la differenziazione su un terreno diverso, quello amministrativo, contenendo e facendo arretrare la legge a principi sostanziali e procedurali generali e riservando il resto all'amministrare, vale a dire (come si dice nei classici) alla messa a punto della regola destinata al caso concreto, ciò che costituisce nello stesso tempo la premessa dell'autonomia, dell'autogoverno e della stessa responsabilità degli apparati tecnici e amministrativi.

L'illimitata cedevolezza dell'amministrare all'invasività della legge è da considerare, in questo caso come in molti altri, uno dei maggiori problemi dei sistemi istituzionali contemporanei, al punto da essere affrontato in alcuni casi con la costituzionalizzazione del principio di "riserva di amministrazione", intesa come divieto al legislatore di passare dal "prevedere" della norma al "provvedere" del concreto operare e dunque divieto di ingerenza sulla sfera amministrativa.

Se questo è vero, è allora necessario sottolineare fin da ora che la più credibile e solida resilienza delle città d'arte rispetto alle calamità naturali e idrogeologiche passa anche per questo principio di riserva, cioè una vera e propria "resilienza amministrativa" nella quale la capacità dei sistemi locali di resistere e reagire positivamente alle crisi poggia su un insieme di misure complesso e correlato al contesto locale specifico, il cui montaggio, la cui esecuzione e il cui governo presuppongono autonomie tecniche, discrezionalità amministrative, responsabilità di governo. A queste condizioni, infatti, la necessaria diversificazione dell'operare è pienamente compatibile con il regime legislativo ordinario essendo tutto il resto affidato alle valutazioni e alle scelte dell'autonomia e dell'autogoverno. E' esattamente la stessa conclusione a cui giunge la più recente e lucida riflessione in tema di tutela dei centri storici, ove si sottolinea l'esigenza di garantirne la vitalità "pena la stessa perdita anche materiale dei nostri centri storici. Il punto è che questo fattore va coniugato con una politiche urbane fatte, intelligentemente e in ragione delle specificità delle singole città, con maggiore attenzione alla reale dimensione sociale. Non occorrono altre leggi, occorrono altre politiche" [4].

3.3. Ma esaminiamo "l'amministrare" in modo più ravvicinato

In generale. Intanto, lo sviluppo delle città d'arte dipende come e più di ogni altra città del buon funzionamento quotidiano del complessivo sistema istituzionale specie sul terreno, squisitamente ordinario, delle regole e degli apparati chiamati ad applicarle. Il che implica una pluralità di elementi:

- evitare automatismi legislativi restituendo discrezionalità e conseguente responsabilità all'amministrazione, in generale e con particolare riguardo allo statuto degli apparati tecnici, in modo da garantire la necessaria e trasparente dialettica che deve contrassegnare le distinte funzioni (e responsabilità) nelle istruttorie che precedono la decisione finale.

- riconoscere alle città con appositi "statuti" approvati al centro, di contenuto ben più ampio di quelli attuali e con il necessario gradualismo entro principi generali fissati dall'ordinamento, stabili condizioni di autonomia in termini di funzioni, governance, acquisizione e utilizzazione di risorse, relazioni dirette con le agenzie nazionali preposte allo sviluppo delle reti (stradali e ferroviarie, di energia e delle comunicazioni), organizzazione e gestione di servizi. Dunque, statuti da modulare in funzione di ogni singola situazione [5]. Da sottolineare che questi caratteri istituzionali, sia pure in parte, già oggi si riscontrano nelle città metropolitane formalmente operative in Italia dal 1° gennaio 2015 e che vi rientrano le città d'arte più importanti, a cominciare da Venezia, Firenze, Roma e Napoli.

Piuttosto, l'autonomia vera presuppone un centro vero capace di definire il quadro generale di regole e di politiche entro cui collocare i diversi elementi, di acquisire i dati e di assicurarne la circolazione, di assegnare con un minimo di prevedibilità e tempestività la quota di risorse spettante alla fiscalità nazionale, di porre le condizioni di un corretto rapporto con le sedi sovranazionali e tra i sistemi locali e l'amministrazione periferica dello Stato. Il che non è esattamente quanto oggi avviene

In particolare. Si apre poi il terreno delle azioni locali funzionali allo sviluppo delle città d'arte. Si tratta di un complesso molto vario che si può articolare su due livelli:

- il primo è rappresentato dal collegamento dei beni culturali con il paesaggio, l'ambiente e il territorio, il che indica una molteplicità di piste da seguire: sottolinea l'interdipendenza di questi elementi, peraltro determinanti per il governo dell'assetto idrogeologico; richiede che la loro tutela sia comprensiva anche del profilo attivo della fruizione e relativa valorizzazione. Dunque, ennesima conferma delle tesi sulla necessità di politiche integrate di protezione del patrimonio culturale e ambientale [6], cui è da aggiungere una messa a punto del Codice dei beni culturali in materia di beni paesaggistici, per inserire queste più ampie esigenze in un assetto ancora troppo ancorato alla sola tutela [7]. E' proprio su questo terreno, e sulla adozione di una nuova legge urbanistica ormai improcrastinabile, che può aversi il necessario incontro con le politiche in materia e con le regioni. Ecco perché suscita perplessità l'obbiettivo indebolimento dell'articolazione regionale del Mibact (d.p.c.m. 29 agosto 2014, n. 171 in GU 25 novembre 2014) che, fatto salvo il programma di valorizzazione dei poli museali regionali, per il resto aggrava il vuoto statale di uno spazio cruciale di politiche di area vasta reso ancora più delicato dalla debolezza delle Regioni;

- il secondo riguarda due versanti: quello esterno delle relazioni con le articolazioni periferiche del Mibact, con autonomia per azioni programmate di interesse sistemico nei sistemi locali: in particolare, in tema di centri storici, di restauro, di manutenzione programmata e della valorizzazione; quello interno, di misure ormai indispensabili per il governo delle città d'arte: da quelle specifiche, come il coordinamento comunicazione, eventi, biglietteria; accompagnamento e di guida, misure di vigilanza e vero e proprio ordine pubblico per la salvaguardia dei beni e dei luoghi artistici e del relativo decoro, a quelle generali, concernenti l'afflusso turistico (fino all'inevitabile, in alcuni casi, blocco o controllo degli accessi tramite il numero chiuso), le attività ordinarie e gli esercizi commerciali (orari compresi), la corretta utilizzazione contributo di soggiorno, le attività di comunicazione (esterna e interna).

3.4. Le virtù e le premesse della cooperazione

Nulla o ben poco di quanto fin qui si è detto, è possibile senza un largo ricorso alla cooperazione tra sistemi pubblici e tra pubblico e privato, ed anzi il richiamo alle virtù della collaborazione è ormai l'invocazione di ogni proposta in materia. Ma, come tutti sanno, la cooperazione è il punto di arrivo, tutt'altro che scontato, di molte variabili. Ci si limiterà a ricordare alcune di quelle la cui sussistenza è pregiudiziale al caso nostro:

- linee strategiche, piani e programmi, cui riferire non solo innovazione e progetti ma la stessa ordinaria amministrazione (v. manutenzione). Il che è peraltro funzionale a considerare la cultura non solo di per sé e per il suo valore intrinseco, ma come volano per lo sviluppo dei territori e filo rosso che lega molte politiche di settore. Ciò significa superare la logica dei singoli progetti e muoversi su un orizzonte lungo e strategico, ove è il processo che già di per sé costituisce una parte consistente del valore aggiunto e del prodotto e della sua capacità di generare risorse: come insegnano, in modo esemplare, le dinamiche legate alle candidature a capitale europea della cultura;

- limiti chiari di funzioni e responsabilità di enti e dirigenti;

- incentivi al fare, a innovare, a trovare risorse (e disincentivi per il contrario), alle piccole-grandi virtù (v. corsie privilegiate per interessi strategici, infrastrutture, o interlocutori titolari di interessi qualificati), aree e occasioni obbligatorie di formazione/aggiornamento congiunte tra amministrazione statale e locale;

- competenze concorrenti (cioè attivabili da più soggetti) e interventi sostitutivi in caso di inerzia. Con l'avvertenza, necessaria considerando l'esperienza negativa in materia, che oltre ai grandi temi (v. compatibilità con l'ordinamento costituzionale delle competenze) vanno coltivate anche le piccole virtù tra le quali è da annoverare, ad esempio, la disponibilità di una quota sia pure ridotta di risorse in capo a chi dovrebbe provvedere alla sostituzione. Altrimenti, v. demolizioni immobili abusivi su aree a vincolo paesaggistico disposte dalle Soprintendenze a fronte di amministrazioni comunali inerti, non si interviene perché la spesa non è prevista e non si dispone neppure delle risorse necessarie, ancorché destinate ad essere rimborsate dall'amministrazione inadempiente;

- controlli ispettivi e sanzioni tempestive: elemento determinante come contrappeso dell'autonomia e punti di riferimento per un attendibile esercizio, e valutazione, delle responsabilità;

3.5. Al centro

Tutto questo, in ogni caso, richiede anche un quadro istituzionale generale più solido e meglio attrezzato, anche per i profili che qui stiamo esaminando.

Benché sia noto a tutti che il molto operabile in sede locale ha comunque necessità di politiche nazionali dedicate alle città, ormai evidenti e principali protagoniste dei sistemi territoriali e del loro sviluppo socio-economico, nella situazione attuale in Italia spicca l'assenza di referenti istituzionali effettivi, se si eccettuano le apprezzabili ma limitate esperienze di Conte, ministro per le aree urbane nel '89-'93 e Barca, ministro per la coesione territoriale, agenda urbana, CIPU, nei primi mesi del 2013.

Dato l'argomento, tuttavia, un ruolo significativo nel decretare la possibilità o meno di assicurare il governo responsabile delle città d'arte è ovviamente giocato dal Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo (Mibact) sia in termini di politiche di settore che di organizzazione centrale e periferica. Per quanto vadano registrate azioni innovative sull'uno e sull'altro fronte che nelle ultime settimane hanno avviato importanti cambiamenti di passo (d.l. 83/2014 e legge 106/2014 sulle attività, c.d. Art bonus; il regolamento adottato con il d.p.c.m. n. 171/2014 in tema di organizzazione), la strada da percorrere è ancora lunga soprattutto su quest'ultimo terreno, considerando le condizioni di partenza e la perdurante fortissima centralizzazione e settorializzazione della macchina ministeriale [8]. Basti pensare, per quanto fin qui si è detto, al rilievo oggettivo che in tema di cooperazione assumono indirizzi generali, linee guida e orientamenti ponderati e stabili di azione, gli unici effettivi antidoti alle forti discontinuità indotte nelle sedi periferiche dal cambiamento dei titolari.

Da questo punto di vista, perciò, va valutato positivamente l'avvio della commissione regionale di garanzia, ex art. 12 d.l. 83/2014 e L. 106/2014 di conversione, cui è riconosciuta la possibilità di riformare atti adottati dalle singole soprintendenze. E' infatti questo piano, quello cioè del buon andamento, più che quello para-contenzioso, che prevale e ne costituisce la ratio, come segnalano in modo chiaro elementi quali la limitatezza dei termini per attivarne la valutazione (10 gg), la praticabilità della richiesta riservata solo ad altre pubbliche amministrazioni (con esclusione dei privati), la composizione limitata al solo personale del Mibact.

4. Considerazioni finali

Per quanto fin qui si è visto, è necessario un passo avanti in tema di cooperazione. E' ormai chiaro che per la cura e il governo dell'interdipendenza, non è necessario né risolutivo ricorrere a miracolistiche soluzioni affidate a leggi più o meno speciali: cruciale, invece, è la cura della orizzontalità e delle "cerniere" tra le politiche di settore sia all'interno del singolo soggetto istituzionale che tra livelli di governo, il che tra l'altro rappresenta anche la migliore premessa per costruttive relazioni tra soggetti pubblici e privati.

Nelle città d'arte, ancor più che nel resto, è evidente la necessità della collaborazione tra più amministrazioni e in particolare tra Mibact e Città, ma anche qui la strada è lunga. Non mancano previsioni normative varie, come la programmazione negoziata nei suoi tre momenti di intesa istituzionale di programma, accordo di programma quadro, accordo di programma semplice (finanziaria 2007), né qualche esperienza significativa in Lombardia. Nel Codice dei BC la collaborazione è addirittura un principio generale posto tra le disposizioni generali iniziali (artt. 5, cooperazione con le regioni in materia di tutela) e artt. 6 e 7 (valorizzazione) + art. 112 (piani strategici di sviluppo culturale condivisi e accordi sulla gestione), ma i risultati restano modesti.

Tra le tante ragioni, una di fondo: le relazioni tra amministrazioni pubbliche e in particolare tra Mibact e sistemi locali, malgrado come si è visto le politiche pubbliche che incidono sulla materia siano irrimediabilmente connesse, sono tuttora poggianti sulla pietra angolare di un impianto pensato per un contesto diverso, e cioè sull'inevitabile conflittualità del rapporto tra intangibilità della proprietà privata e necessaria prevalenza del superiore interesse pubblico.

Questo dato genetico (e connesse modalità), trasferito alle relazioni tra istituzioni, presenta due importanti inconvenienti: l'incapacità di una declinazione in positivo dell'azione amministrativa (non limitata alle cose escluse, ma estesa a quelle possibili, anzi consigliate o addirittura attivamente promosse), in molti casi indispensabile, e il tratto di una insuperabile unilateralità tipica dei provvedimenti adottati (limiti, divieti, autorizzazioni, sanzioni).

Niente di più lontano dalle basi, e dalla pratica, della cooperazione, con il risultato anzi che al termine di complesse procedure di reciproco confronto si rende inevitabile una parola definitiva e finale, dell'una o dell'altra parte: normalmente della Soprintendenza, in casi particolari, del livello istituzionale più elevato, politico o amministrativo. Il che, come si può immaginare, non aiuta ad impostare e gestire in termini effettivamente cooperativi tutta la fase precedente specie nelle città d'arte dove, per definizione, governo della città e cura del patrimonio culturale sono intimamente connessi e quasi coincidono.

Certo, una parte di questi problemi può essere assorbita nel quadro di piani e programmi condivisi e in proposito un esempio particolarmente significativo è rappresentato da come viene affrontata la questione nei siti Unesco (particolarmente numerosi in Italia) ove la cooperazione è giocata quasi esclusivamente sul piano funzionale e affidata alla adozione e attuazione del "piano di gestione", in cui confluiscono tutti gli interventi regolativi e operativi riguardanti l'ambito territoriale interessato quali che siano le autorità pubbliche di volta in volta competenti. Un piano le cui guidelines sono state di recente recepite nell'ordinamento interno italiano dall'art. 3 della legge 77/2006 [9].

Ma naturalmente i problemi non finiscono qui.

Intanto, come le più recenti vicende riguardanti le grandi navi a Venezia dimostrano [10], quando il sito (in questo caso città e laguna) combacia con l'intero territorio comunale si pongono problemi delicati per l'evidente asimmetria tra poteri regolativi condivisi, dato che la gestione del sito e la gestione della città sono due facce della stessa medaglia, e concentrazione in capo al sindaco e all'amministrazione comunale di elementi essenziali del sistema, dalla disponibilità delle risorse necessarie alle responsabilità politiche e amministrative.

Poi si tratta di ripensare, a mio avviso e secondo una riflessione convinta ma largamente minoritaria, non solo all'organizzazione ma alla definizione concettuale e legislativa della tutela: se questa incorpora, e non può essere altrimenti, anche la parte attiva della fruizione e valorizzazione, ebbene su questi punti e per tutti i beni che non rientrano nel cerchio stretto, di cui subito si dirà, si tratta di aprire un piano inedito fondato nello stesso tempo su forti incentivi alla codecisione e altrettanto forti disincentivi all'inerzia: gli uni e gli altri, ancora oggi, terreni inesplorati a vantaggio di dispute semi-teologiche e più prosaici pascoli ricchi solo di parole.

Ma tutto ciò è concepibile solo con la distinzione tra un'area, più limitata, di patrimonio culturale nella quale le esigenze di tutela e conservazione sono indeclinabili e comportano se necessario il sacrificio di qualunque altro interesse vi si rapporti, fosse anche di natura pubblica e di carattere primario, come rispetto del patto di stabilità o le esigenze della difesa, e una diversa area ben più ampia ove tutela e conservazione ovviamente restano ma ne è ammessa ed anzi richiesta la specifica declinazione, in termini di proporzionalità - congruità - economicità - efficienza, con altri interessi pubblici e privati meritevoli di essere considerati e dunque da valutare in termini di adeguata ponderazione.

Un accenno, infine, al ruolo cruciale per lo sviluppo delle città d'arte dei programmi integrati di sviluppo, di cui quasi tutte le città (comprese le neonate città metropolitane) continuano ad essere carenti. Ove la carenza, soprattutto in casi come questi, non è solo e tanto di risorse, basta pensare alle vicende dei fondi europei, ma di consapevolezza dell'importanza della cosa. Cioè, una carenza strettamente "culturale".

E qui, il discorso si fa molto concreto e attuale: la necessità cioè di una utilizzazione corretta dei fondi europei del prossimo settennio (2014-2020) e in particolare del PON (programma operativo nazionale) cultura, rivolto alle regioni meno sviluppate (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia), il cui testo in termini di proposta italiana sarà varato definitivamente proprio in questi giorni. Se il Mibact, invece di porsi l'obbiettivo di supportare la definizione e messa in opera di progetti integrati di valorizzazione e gestione di area vasta (il che presupporrebbe tra l'altro prendere sul serio la definizione della c.d. "area di attrazione"), dovesse passare la linea della concentrazione di queste importanti risorse solo su beni statali o addirittura si insistesse su strade più facili ma già inutilmente praticate quali il restauro (che di per sé, senza la previsione realistica di sistemi e piani di attività economicamente rischia l'inutilità) o l'assemblaggio di progetti datati e privi di ogni idea strategica, sarebbe più di una occasione persa.

Sarebbe il segno che il problema, appunto, è "culturale" e che soprattutto a questo livello, come ci si sforza di fare in questa occasione grazie alla ospitalità della Accademia dei Lincei, va affrontato.

 

Note

[*] Il testo riproduce la relazione presentata al Convegno dell'Accademia dei Lincei del 4 novembre 2014.

[1] A. Serra, Riflessioni in tema di governo delle città d'arte: esigenze, obbiettivi, strumenti, in Aedon, 2008, 1, sulla base di una ricerca effettuata per conto della associazione Cidac-Mecenate '90.

[2] B. Zanardi, Terremoto e centri storici, in Aedon, 2013, 2; G. Severini, Centri storici: occorre una legge speciale o politiche speciali?, in Aedon, 2015, 2.

[3] S. Amorosino, Le "città d'arte": nozione e ipotesi di discipline amministrativistiche di tutela, in Riv. giur. urb., 1990, 3-4, pag. 527 ss.

[4] G. Severini, Centri storici: occorre una legge speciale o politiche speciali?, cit.

[5] G. Dematteis (a cura di), Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre, Venezia, 2011, da una ricerca promossa dal Consiglio italiano per le scienze sociali.

[6] G. Urbani, Problemi di conservazione, Bologna, 1973.

[7] L. Casini, La valorizzazione del paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2014, 2, pag. 385 ss.

[8] M. Cammelli, Bonus cultura e riorganizzazione del Ministero: navigazione difficile, direzione giusta, in Aedon, 2014, 2.

[9] G. Garzia, Tutela e valorizzazione dei beni culturali nel sistema dei piani di gestione dei siti Unesco, in Aedon, 2014, 2.

[10] A. Somers Cocks, L'Unesco avverte Venezia: vi cacciamo dalla lista, in Giornale dell'Arte, novembre 2014, n. 347, pag. 17.

 

 



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