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Terremoto, beni culturali e paesaggio

Terremoto e centri storici

di Bruno Zanardi

Earthquake and old city centres
The state of substantial neglect in the old city centres of L'Aquila province, four years after the 2009 earthquake, and in the areas between Modena and Ferrara (Mirandola, Cavezzo, Medolla, etc.) struck by the earth tremors of one year ago, bear witness to the ongoing, complete and scandalous lack of preparation of the Ministry of Cultural Heritage, Central Institute for Restoration and university schools of history of art and architecture in dealing with a problem such as that of earthquakes, both in taking preventive measures and, when the earthquake has occurred, in tackling the rebuilding of historic buildings that have been damaged or destroyed. This is the umpteenth case of cultural backwardness in Italy, seen here on two fronts. Firstly, policies for protecting our artistic heritage, which have never moved on from the museum culture of the aesthetic and critical restoration theory based on principles expressed in the 1930s by figures like Giulio Carlo Argan and Cesare Brandi. Secondly, policies for safeguarding old town centres, which have always been directed towards turning these town centres into museums, filling them with constraints, bans, limitations on use and never linking them to the modern world that is being constructed around them and that is suffocating them more and more. These policies, over forty years, have led to a three-quarters reduction in residents. We can get out of this situation by moving in two directions. One is to accept the plain truth that only stylistic restoration allows buildings, churches and historic monuments damaged by earthquakes to be rebuilt in a logical way; it is therefore a matter of getting out of the doldrums of the more and more discredited taboo on falsification, the linchpin of the aesthetic, museum theory of restoration. The other is to surrender to the fact that, as Lavoisier taught us almost three centuries ago, in nature nothing is created and nothing is destroyed, but everything changes.

Lo scorso cinque maggio eravamo in molti, tra restauratori, storici dell'arte antica e moderna, uomini della società civile e uomini della Chiesa, a marciare nel silenzio dell'Aquila, manifestando la nostra indignazione per l'assenza d'un qualsiasi intervento sugli edifici - monumentali e non - del centro storico della città a quattro anni dal terremoto del 2009. Indignazione non minore di quella che si deve avere verso quanto accade, o meglio, non accade nelle zone tra Modena e Ferrara colpite dal sisma d'un anno fa. Uguale è infatti nei due casi lo spettrale paesaggio di case, chiese e palazzi da cui è uscita la vita e che continuano a degradarsi sempre più nel tempo di quella che appare una tanto voluta, quanto criminosa, assenza di interventi. Uguale il fitto polemizzare di storici dell'arte, architetti e politici, mentre nulla accade, tra chi vuole una ricostruzione dell'abitato com'era dov'era, chi dov'era ma non com'era e chi non com'era né dov'era. Uguale infine, la ratio di tutto ciò. Il perdurare della completa quanto scandalosa impreparazione di Ministero dei beni culturali, Istituto centrale del restauro e Scuole universitarie di storia dell'arte e d'architettura a affrontare un problema come quello dei terremoti. Sia in via di prevenzione che, a sisma accaduto, come affrontare la ricostruzione degli edifici storici lesionati o distrutti. Quasi i terremoti si succedessero in Italia ogni dieci secoli e non, come è, con cadenza di più o meno breve o brevissimo periodo: ultimo, in questi giorni (giugno 2013) quello tra Lunigiana a e Garfagnana.

Dunque l'ennesimo ritardo culturale dell'Italia, la cui nascita va individuata in anni lontani. Lasciando perdere i generosi, anche se forse un poco ingenui, primi segni d'interesse verso i centi storici quali, nel 1960, la "Carta di Gubbio" e il "Codice dell'urbanistica", documento morale d'indirizzo redatto dall'Istituto nazionale d'urbanistica (INU), sorvolando inoltre sulla violenta stroncatura della proposta di legge avanzata dal ministro Sullo nel 1962 d'espropriare le aree edificabili d'interesse pubblico, quella nascita può essere vista nella promulgazione, nel 1967, della cosiddetta "Legge ponte sull'urbanistica" (765/67) e nel di poco successivo decreto ministeriale (1444/68) che quella stessa legge chiarisce e amplia; un'attenzione ai centri storici, lo dico di passaggio, cui certamente non furono estranei gli esiti degli appena conclusi lavori della "Commissione Franceschini" (1964-1966) in cui si relazionava del gravissimo degrado raggiunto dal patrimonio artistico del Paese. A questi fatti aurorali si aggiungono, prima, nel 1970, l'istituzione delle Regioni ex art. 114 della Costituzione: e chissà come sarebbero state le Regioni quando attuate dagli stessi Padri costituzionali che le avevano volute: la "Costituzione inattuata" di Piero Calamandrei; poi, nel 1972, il passaggio (d.p.r. 8) a questi nuovi Enti territoriali delle competenze in materia urbanistica ex art. 117 della Costituzione. E tutti sappiamo come da subito i centri storici divengono un cavallo di battaglia dell'allora sinistra che, attraverso le Regioni - Regione Emilia in primis -, vuole dimostrare d'essere in grado d'amministrare la cosa pubblica meglio del Governo di Roma.

Nella stessa logica di "lunga marcia verso il governo centrale del Paese" si pone la battaglia aperta dalle Regioni sulla questione ambientale, chiedendone la potestà, sempre ex art. 117 della Costituzione. Potestà sull'ambiente che le stesse Regioni avranno nel 1977 (d.p.r. 616/77) combattendo però per ottenerla numerose battaglie. Ad esempio, quella contro la Prima relazione sulla situazione ambientale in Italia presentata a Urbino il 29 giugno 1973. Un formidabile quanto innovativo lavoro di ricerca promosso dall'ENI, alla cui realizzazione viene chiamato il meglio del pensiero scientifico internazionale, inoltre ricerca pionieristicamente aperta ai problemi conservativi del patrimonio artistico, settore di ricerca coordinato dall'allora direttore dell'Icr, Giovanni Urbani. Prima relazione sulla situazione ambientale in Italia che però resta anche l'ultima per le ragioni indicate anni dopo da un testimone diretto, Marcello Colitti, in quegli anni alto dirigente dell'ENI:

Si disse allora che erano bastati i dieci minuti dell'intervento di Giovanni Berlinguer [membro del Comitato centrale del PCI, l'intervento si legge su "l'Unità", 1° luglio 1973, pag. 2] all'inaugurazione di quella Prima relazione per fare naufragare tutto. Cioè per segnare l'atto di morte del tentativo dell'ENI di conquistare un ruolo istituzionale nel settore dell'ecologia. Un grande lavoro e un'équipe di qualità risultarono sprecati. La relazione sui problemi dell'ecologia nel paese non fu più rifatta e la TECNECO, la società che era stata appositamente creata entro l'ambito SNAM Progetti e della quale Franco Briatico doveva dopo qualche tempo diventare presidente, fallì prima di nascere. Da allora, al discorso ecologico italiano è mancato per molti anni un elemento fondamentale: un centro di rilevazione e di elaborazione che avesse i mezzi per operare e la capacità tecnica e imprenditoriale, oltre alla credibilità verso il pubblico.

Sempre invocando l'art. 117 della Costituzione, in quegli stessi anni le Regioni tentano anche di ottenere la potestà su restauro, conservazione e tutela del patrimonio artistico, senza però ottenerla, Una questione per alcuni versi ancora oggi aperta, l'interpretazione dell'art. 117 della Costituzione sul punto, che se da una parte spiega il voto contrario dei parlamentari dell'allora Pci alla legge (5/1975) che istituiva il nuovo Ministero per i Beni culturali, dall'altra spiega la radicale opposizione, sempre dell'allora Pci (siamo nel 1976), al Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria. Un grande lavoro di ricerca realizzato dall'Istituto centrale del restauro di Giovanni Urbani, cui partecipano Università italiane e straniere, laboratori di ricerca di alcune industrie che producevano materiali utilizzabili nel restauro (Eni e Montedison), oltre a Cnr, Cnen. Lavoro di ricerca che, secondo una visione del tutto innovativa del problema, pone al proprio orizzonte il tema della prevenzione del patrimonio artistico dai rischi ambientali, sismico e idrogeologico in primis. Opposizione, quella del Pci, inverata nel frontale attacco al "Piano" umbro che compare sulle pagine de "l'Unità" (22 sett. 1976) a firma d'un docente d'archeologia, Mario Torelli, il quale definisce il "Piano" un lavoro "di bassissimo livello culturale e largamente disinformato, un preciso attentato alle proposte avanzate dalle forze di sinistra per una più democratica gestione dei beni culturali", definizione semi-farneticante di cui è inutile il commento.

Non per questo si deve però pensare che, a fronte del "Piano" di Urbani, di meglio faccia il neonato (d.l. 657/74, convertito nella l. 5/75) Ministero dei beni culturali voluto a tutti i costi da Giovanni Spadolini contro il parere di molti (Giovanni Urbani, Pasquale Rotondi, Massimo Severo Giannini, Sabino Cassese, per fare solo alcuni nomi), che paventavano, facili profeti, come un Ministero non avrebbe portato a una più efficiente e agile azione di tutela in senso organizzativo e tecnico scientifico, bensì a una burocratizzazione clientelare del sistema. Neonato Ministero di Spadolini che infatti, nel burocratizzare in via clientelare il sistema, rifiuta radicalmente il "Piano" umbro. Senza nemmeno dare il minimo seguito, sempre il Ministero, all'altro lavoro di ricerca in cui Urbani qualche anno dopo (il 1983) isola il problema dei terremoti: La prevenzione del patrimonio monumentale dal rischio sismico. Non vi si dà seguito perché la cultura media dei soprintendenti, qui come già nel "Piano" umbro, non permette loro di capire problemi di portata generale, né lo vogliono fare trovando più comodo continuare a lucrare le tradizionali rendite di posizione del loro ruolo istituzionale. Quel che spiega la reazione d'uno dei più noti soprintendenti italiani (nel racconto di Massimo Ferretti) quando una sua funzionaria gli chiede d'ospitare (siamo sempre nel 1983) nella sede della soprintendenza un dibattito sull'appena concluso lavoro di ricerca di Urbani sulla prevenzione dai terremoti. Reazione consistita in urla scaramantiche, scongiuri e altri riti apotropaici nel mentre che buttava fuori dall'ufficio la malcapitata.

Tutto ciò - volontà delle Regioni d'appropriarsi ex lege della tutela del patrimonio artistico, anche per così dare sostanza formale alla conservazione dei centri storici, e opposizione del Ministero dei beni culturali a qualsiasi innovazione tecnico-scientifica e organizzativa del settore della tutela, ad esempio nella direzione della conservazione preventiva e programmata - che trova ragione in una generale cultura della tutela, universitaria come istituzionale, che reca al proprio centro (ancora oggi, nella gran parte dei casi) i principi storicistici e estetici e gli intenti tecnico-scientifici e organizzativi elaborati alla fine degli anni '30 del Novecento dal gruppo di intellettuali che contornavano l'allora ministro della Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: su tutti Giulio Carlo Argan, ma anche Roberto Longhi e Cesare Brandi.

Gli obiettivi che saranno in gran parte formalizzati nel 1939 con la promulgazione dell'organico corpo di leggi sulla tutela scritte per la quasi totalità da Santi Romano. Tra loro, in primis, la legge n. 1089/39, "Tutela delle cose d'interesse Artistico o Storico", ma anche la l. n. 1497/39 sul paesaggio e la l. n. 1240/39 di fondazione dell'Istituto centrale del restauro. Leggi pensate per l'Italia del re e del duce, cioè per un paese con un'organizzazione dello Stato ferreamente verticistica e centralistica, una dittatura, quindi leggi che facevano dell'esercizio della tutela soprattutto un insieme di notifiche, limitazioni d'uso e altri strumenti in negativo sempre e solo applicati ai privati proprietari. Ma anche leggi pensate per l'intatta e immobile Italia rurale in cui chi esercitava l'azione di tutela, sempre i soprintendenti, poteva tranquillamente disinteressarsi dei problemi ambientali, infatti assenti nella l. 1089/39; gli stessi divenuti invece centrali con la progressiva industrializzazione e cementificazione del paese avvenuta dopo il termine della seconda guerra mondiale, quindi dopo la promulgazione delle leggi del 1939 che in tal modo da subito si sono venute a trovare in falso rispetto ai problemi che dovevano regolare.

A tutto questo, che già non è poco, s'aggiunge la sempre più palese insufficienza del quadro teorico in cui la tutela si muove, dominato (ancora oggi) dalla museificante Teoria estetica del restauro elaborata da Cesare Brandi tra il 1948 e il 1953 (in via definitiva nel 1963). Teoria entro la quale gli architetti tentano negli anni '70 di trovare una loro autonomia, elaborando - lo fa l'architetto milanese Marco Dezzi Bardeschi - una nuova teoria del restauro, però ancora più arretrata, perciò del tutto inadeguata, di quella che vuole superare. Nuova teoria del restauro che potremmo chiamare "teoria dell'imbalsamazione". Teoria che, nei fatti, è solo un confuso e improvvisato centone tra Ruskin, Riegl e Brandi mal letti e non storicizzati, con aggiunta una spruzzata di psicologisno alla Freud, per la quale il restauro deve fissare l'oggetto su cui interviene, paramento lapideo, affresco, scultura, dipinto su tela o su tavola, all'esatto stato in cui lo si è trovato. Anche quando sia fatiscente.

Ma anche una nuova teoria, quella del culto della fatiscenza, che deve fare i conti con l'ennesima anomalia italiana. Il fatto apparentemente incredibile, ma vero, di scuole universitarie d'architettura, cioè i luoghi di formazione dei soprintendenti ai monumenti, come dei funzionari regionali e comunali addetti a edilizia e urbanistica e di chi progetta il nuovo entro il paesaggio storico (urbano, agrario e naturale), che da sempre non prevedono entro i loro corsi di studio esami di storia dell'arte. Un fatto assurdo, architetti che ex lege possono non conoscere la storia dell'arte (e lasciamo perdere che spesso non sanno nemmeno disegnare, essendo stato abolito nelle facoltà d'Architettura l'esame di disegno), alla cui base non è improbabile vi sia stata l'influenza della figura di Bruno Zevi, cioè di chi, con i suoi fortunatissimi volumi Einaudi Saper vedere l'architettura (1948) e Storia dell'architettura moderna (1950), è stato indiscusso sacerdote della cultura storica e progettuale degli architetti italiani nell'ultimo mezzo secolo: in modo quasi assoluto fino agli anni '70. In particolare la radicatissima convinzione dell'architetto romano che il "nuovo" costruito non debba avere rapporto alcuno con il "vecchio". Una posizione che già nel 1945 Zevi sostiene nel suo (anche) "Manifesto dell'Architettura Organica", mantenendola poi per sempre. Tanto da arrivare a prendersela (nel 1966) addirittura con l'Acropoli di Atene, invitando i suoi adepti (allora la gran parte degli architetti italiani) a "sottrarsi alla spazialità statica, alla volumetria finita e chiusa, insomma a tutti i dogmi e precetti che a distanza di 25 (venticinque) secoli, vengono ancora gabellati come 'valori' eterni e permanenti dell'architettura". Il che significa che la quasi totalità dei restauratori di architetture si è trovata quasi in via naturale a lavorare entro una cultura della progettazione totalmente disabituata a misurarsi con la città storica, ossia, più in generale, con la storia e l'arte della città e del paesaggio entro cui va a operare.

Dunque un ring di dilettanti allo sbaraglio, quello che prende in mano la tutela dei centri storici agli inizi degli anni '70 del Novecento, equamente diviso tra vincolisti in servizio permanente e attivo, i soprintendenti, museificatori, i restauratori argano-brandiani, imbalsamatori, i dezzi-bardeschiani e i "nuovisti senza storia", i zeviani, come in genere quasi tutti gli architetti. Ring entro il quale la politica, cioè chi deve fare da arbitro tra i contendenti, appare palesemente inadeguata a svolgere il proprio compito. Il che consente l'innescarsi di un'ultra decennale e mai conclusa querelle accademica tra i vantati padri nobili per via di teoria del restauro, ovviamente estesa anche ai loro figli. La querelle che oggi anima le ormai annose, perché iniziate nel 2009, e inutili discussioni di lana caprina sui destini dei centri storici dell'Aquila come di Mirandola, Finale, Medolla, San Felice, eccetera. Appunto se ricostruirli com'erano dov'erano, ovvero dov'erano ma non com'erano, oppure non com'erano e non dov'erano, e così via ideologizzando e improvvisando.

Risultato di tutto ciò? La morte dei centri storici. Di tutti i centri storici, non solo quelli dell'Aquila e di Modena e Ferrara. Uccisi dall'elisir misto di vincolismo, museificazione, imbalsamazione e nuovismo privo di radici storiche. Morte attestata da una statistica dei nostri giorni che ne dice diminuita in quarant'anni di due terzi la popolazione. Né poteva accadere nulla di diverso vedendo il completo dilettantismo con cui questo immenso, molto complesso e sempre meno rimandabile problema è stato affrontato da chi aveva (e ancora ha) importanti e dirette responsabilità di specie. Ad esempio, conducendo, accade negli anni '90 del secolo appena chiuso, un soprintendente e un noto architetto centro-storicista dei raid aerei sul centro storico d'una grande città emiliana (sostenuti da una stampa plaudente: il servilismo e l'impreparazione del giornalismo culturale sono una seconda faccia del problema della tutela, ma questo è altro discorso), per colpire quei cittadini che, per il rifacimento dei tetti delle loro case, avevano usato le tegole e non i coppi, ovvero apponendo vincoli alle cantine dei palazzi del centro storico, come fa quello stesso soprintendente volante, pensando così di difendere la storia e l'arte italiane.

Come uscire da questa situazione, vera, anche se apparentemente incredibile? In particolare a fronte del doppio disastro di l'Aquila e Modena e Ferrara, doppio, perché materiale, il crollo di palazzi, chiese, case, e culturale, il dilettantismo di chi vi dovrebbe provvedere? In particolare a fronte di quel doppio disastro dobbiamo forse concludere che i centri storici non vanno vincolati, museificati o imbalsamati? Certamente no. Dobbiamo invece affermare con forza che "si governa governando"; formula lapalissiana, ma in Italia ancora poco capita e quasi mai posta in essere da una politica sempre più vittima del suo ritardo culturale, come dei suoi esasperanti tatticismi e del non aver mai capito che il tema del lavoro va versato anche, se non sopratttutto, sul versante più difficile: da quello della ricerca scientifica a quello della decementificazione.

Formula, "si governa governando", la cui applicazione ai centri storici, per prima cosa deve coincidere con attuarne una ricostruzione, che avverrà necessariamente applicando vincoli, ma non mai museificandoli, né tanto meno imbalsamandoli. Dopo di ché formula che coincide con un'azione di governo che finalmente prenda atto di come in Italia lavorino anche architetti in grado di progettare (pur se da punti di vista tra loro molto distanti) entro i centri storici nuove architetture eleganti, intelligenti e civili, inoltre abitabili secondo gli standard d'oggi: per tutte, l'intervento di Renzo Piano al porto vecchio di Genova, come le architetture di Mario Botta, Paolo Marconi, Franco Stella, Michele De Lucchi, Pier Carlo Bontempi, per fare solo alcuni nomi.

Sarà allora a figure come queste che si deve chiedere d'intervenire sui centri storici resi in macerie dai terremoti, come sono quelli di l'Aquila e di Modena e Ferrara. Non ovviamente affidando a Piano, Botta, eccetera, gli interventi sul patrimonio monumentale dove, con buona pace degli "storicisti argano-brandiani", dei "neo-riegleiani cultori della fatiscenza" e dei "modernisti senza storia", l'unica soluzione è quella del restauro stilistico: sempre trovando chi sia ancora in grado di realizzarlo in Italia, vista la dannazione in cui da molti decenni questa ovvia soluzione del problema del restauro degli edifici monumentali è stata confinata da museificatori, imbalsamatori e nuovisti. Bensì per farli lavorare sul tessuto urbano minore. Quello dove la gente normale abita e da cui sempre più velocemente sta fuggendo in risposta a vincoli, limitazioni d'uso e alle quasi sempre insensate politiche urbanistiche del nuovo costruito, le politiche che hanno condotto la città moderna a soffocare in un abbraccio mortale la vecchia. Obbligando però, Soprintendenti e Sindaci, quelle stesse figure di architetti chiamati a lavorare nei centri storici al rispetto di proporzioni, tipologia, materiali di costruzione e disposizione urbanistica dell'esistente.

Né dimenticando un altro importante e innovativo lavoro di ricerca, che attesta una volta di più i vastissimi margini di creatività connessi al problema conservativo. Un lavoro di ricerca da condurre sulla mobilità veicolare di chi lavora per trovare i modi (vettori, loro fonti energetiche e vie di transito) per raccordare rapidamente i piccoli paesi in via d'estinzione con i luoghi di lavoro delle città, così da ovviarne lo spopolamento. Ma anche aprendo la strada a un flusso al contrario. Esemplare in questo senso la vicenda dell'industriale tessile Brunello Cucinelli, che ha acquistato un intero paesino medievale abbandonato nelle campagne dell'Umbria, Solomeo, vi ha trasferito la sua azienda, cogliendo il paradosso di operai che, alla sera, tornano malvolentieri a chiudersi nei condomini speculativi di Perugia.

Il che significherebbe, per Soprintendenti e Sindaci, confrontarsi con realtà progettuali in positivo, quindi svolgere il ruolo istituzionale originario. I Soprintendenti, quello di esperti di storia della città e di storia dell'arte che guidano gli architetti incaricati di intervenire sul centro storico, sempre però operando all'interno d'un razionale, coerente e competente lavoro comune. I Sindaci, quello di committenti sempre perfettamente in grado di giustificare di fronte alla cittadinanza le mutazioni della città da loro stessi promosse.

Con un rilancio dell'industria edile che si convertirebbe in tal modo dal cemento al mattone: conversione tanto inedita nell'Italia d'oggi, quanto sempre più auspicabile. Anche perché già verso la fine del Settecento uno scienziato, Antoine-Laurent de Lavoisier, ci ha insegnato come in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Quel che vale anche per il particolare organismo vivente che sono le città, da sempre cresciute su se stesse con continue trasformazioni più o meno risolute, ma mai abbandonate dagli abitanti per via di quelle trasformazioni, ed è il contrario di quanto avviene invece oggi per via di forzato immobilismo ideologico. Trasformazioni a cui non è tanto impossibile contrapporsi, bensì inutile, perché avvengono comunque. E che perciò vanno, torno a dire, governate. A partire dal prendere atto, per quanto riguarda i vincoli da porre ai privati, che circa chiese, palazzi o semplici edifici storici la distinzione tra pubblico e privato diventa inessenziale se ci si decide a far valere questi beni come traguardi o punti fissi per la messa a fuoco d'un qualsiasi disegno di pianificazione urbanistica, territoriale o paesistica­, come dei criteri per le "valutazioni di impatto ambientale".

 

 

 



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