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Ancora sul patrimonio culturale immateriale

I beni culturali immateriali: ancora senza ali?

di Annalisa Gualdani

Sommario: 1. Premessa. - 2. Esiste un bene culturale oltre la "materialità". - 3. La categoria "bene culturale immateriale". - 4. Esiste una tutela per i beni culturali immateriali?. - 5. Valorizzazione, territorio e sussidiarietà.

The Intangible Cultural Heritage: Still without Wings?
Intangible cultural heritage is safeguarded by Italian law only to the extent that it is linked to a tangible element. However, along the time, the process of globalization of cultural heritage and the progressively growing influence of international law has led to a formal distinction between tangible and intangible cultural heritage, so as to determine the need for a specific legal regulation of the latter as a separate and distinct category of cultural heritage. The present contribution has the purpose of investigating the peculiar perspectives of safeguarding and valorization of intangible cultural heritage, distinguished from those concerning cultural heritage as a whole, emphasizing the role to be played by the Ministry of cultural goods and activities and tourism in connection with territorial bodies and private persons.

Keywords: Intangible, Safeguarding, Valorization, Subsidiarity.

1. Premessa

"Non c'è passato, né futuro in arte. Se un'opera d'arte non può vivere sempre nel presente, non se ne deve assolutamente tener conto" [1].

Tale pensiero pare calzare perfettamente al tema che ci occupa, quello dei beni culturali immateriali, di quei beni, cioè, che, non consistendo in cose mobili o immobili, si caratterizzano per la loro intangibilità.

Queste entità si distinguono dai "comuni" beni culturali, perché, anziché essere legati o immedesimati ad una res, sono correlati alle dinamiche culturali, essendo identificati con espressioni che l'antropologia riconduce alla cultura dei popoli: spettacoli, musiche, folklore, canti, giochi, feste, tradizioni, cibi, proverbi, mitologie, riti, abitudini, credenze popolari e financo le consuetudini giuridiche [2]. Non è un caso pertanto che tali beni siano stati definiti anche "volatili" [3], in quanto caratterizzati dalla mancanza di "durevolezza" degli oggetti che li connotano e dall'essere al contempo "identici e mutevoli" [4].

Il dubbio amletico che permea chi si approccia allo studio di tale categoria di beni concerne le ragioni dell'assenza di una loro organica disciplina nell'ordinamento italiano; pertanto, senza l'ambizione di volere essere esaustivi, si cercherà di comprendere le ragioni di tale lacuna.

2. Esiste un bene culturale oltre la "materialità"?

La scienza giuridica è sempre stata attratta dalla nozione di bene culturale; fiumi di inchiostro sono stati spesi per assegnare ad essa un contenuto definitorio e per tracciarne i mutevoli confini [5].

Il dibattito scientifico sorto intorno al bene culturale ha visto compiersi, nel tempo, l'evoluzione da un "concetto ristretto di bene artistico-storico," di cui alla legge 1 giugno 1939, n. 1089, a quello di bene culturale, inteso come "qualsiasi testimonianza del divenire umano" [6], passando dalla nozione estetizzante crociana: "l'arte è ciò che tutti sanno cosa sia" di appagamento del bello, alla testimonianza materiale avente valore di civiltà rispetto alla storia del progresso dell'uomo, secondo la nota definizione della Commissione Franceschini.

L'intrinseco valore "civilizzante" del bene è, pertanto, ciò che porta a "trascendere" la sua realità ed a condurre alla sua natura immateriale, poiché "la cosa non sarebbe che un'entità extragiuridica che si qualifica giuridicamente, in quanto presenta un interesse che può essere tutelato dal diritto" [7].

Come ebbe a rilevare un grande maestro come Massimo Severo Giannini, "il bene culturale non è bene materiale, ma immateriale: l'essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da questa distinta, nel senso che esse sono supporto fisico, ma non bene giuridico" [8].

Dunque nel bene culturale coesisterebbero due anime: la res ed il valore culturale immateriale. Ma se il valore culturale di un bene è rappresentato dall'essere testimonianza avente valore di civiltà, ben si potrebbe prescindere allora dal supporto, ma tant'è [9].

A ben vedere infatti l'orientamento dominante ha conferito prevalenza all'aspetto materiale, rispetto a quello immateriale: "nell'opera d'arte, come in ogni altra cosa in cui si riconosce un valore culturale che giustifica la soggezione della cosa alla speciale ragione di tutela, il profilo ideale che è oggetto di protezione si è talmente immedesimato nella materia in cui si esprime da restarne definitivamente prigioniero, così che esso si pone come oggetto di protezione giuridica inscindibile dalla cosa che lo racchiude" [10], e tale impostazione ha prodotto i suoi effetti sulla legislazione, la quale, salvo episodiche eccezioni di ampliamento verso una nozione "aperta" (presto rinnegata) è rimasta strettamente ancorata alla realità del bene culturale [11].

Così l'art. 2, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio afferma che "sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli artt. 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà." Dunque il Codice da un lato fa ricorso alla tecnica, nota alla l. 1089/1939, della c.d. "coseità", predisponendo un'elencazione tipologica delle categorie di beni descritte negli art. 10 e 11, dall'altra àncora saldamente la nozione di bene culturale al concetto di "res qui tangi potest".

Risulta sfumato l'intento, contenuto nell'art. 148, lett. a), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, (ora abrogato dall'art. 184 cod.), il quale, affermando che: "sono beni culturali quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demo-etnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuato in base alla legge", avrebbe consentito di affrancare i beni culturali dal riferimento alla materialità.

Allo stato dell'arte, pertanto, il legislatore conosce solo i beni culturali materiali, di cui ne detta una compiuta ed analitica disciplina [12]. Ciò non significa, tuttavia, che nel nostro ordinamento sia stata rinnegata l'esistenza della categoria dei beni immateriali o l'idea di una loro tutela giuridica, ma piuttosto che "questa idea richiede, per natura e per obiettivi, la messa a punto di strumentazioni ed istituti giuridici adeguati e diversi da quelli delle cose" [13].

E se è vero che con l'art. 7-bis, del Codice dei beni culturali (introdotto con il decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 62), il legislatore - recependo le due convenzioni Unesco, adottate a Parigi il 3 dicembre 2003 [14] ed il 20 ottobre 2005 [15], sulla "salvaguardia del patrimonio culturale immateriale" - ha inteso ricondurre nella disciplina codicistica i beni culturali immateriali protetti dalla Convenzione Unesco: "le espressioni di identità culturale collettiva contemplate nelle Convenzioni Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'art. 10" [16], è altrettanto vero che non si è intrapresa quella scelta coraggiosa che avrebbe condotto a sdoganare i beni culturali dal supporto materiale [17].

3. La categoria "bene culturale immateriale"

Il diritto positivo dunque tutela il bene culturale immateriale solo se ancorato al supporto reale. L'ossimoro è evidente, tanto più se si considera che il configurarsi di una categoria autonoma dei beni immateriali è pacificamente ammessa per le ragioni che si andrà ad esporre.

Il ruolo svolto dall'antropologia e dalle scienze sociologiche nella individuazione del termine cultura, per le quali essa è definita come "espressione dei modi di vita creati e trasmessi da una generazione all'altra tra i membri di una particolare società" [18], è allo stato dell'arte consolidato. Lo stesso art. 9 della Costituzione ha risentito dell'influenza del metodo antropologico e della nozione di cultura collegata a quella di civiltà [19], se pensiamo che nella volontà del costituente la cultura doveva essere riferita non solo alle qualità mentali, ma all'insieme dei comportamenti e delle credenze umane. Tali considerazioni ci inducono a ritenere che la categoria dei beni culturali immateriali fosse implicitamente presente nel nostro ordinamento e che le convenzioni internazionali abbiano costituito l'occasione per acquisire tale presa di coscienza.

Vero è che in passato, da più parti, fu avanzato il timore che la concezione antropologica di bene culturale con la sua forza espansiva rischiasse di far incorrere nel c.d. panculturalismo, per il quale tutto è cultura [20].

Nel tempo, però, il processo di globalizzazione dei beni culturali e l'integrazione sempre più penetrante del diritto internazionale, per il quale "le norme sui beni culturali superano le frontiere nazionali" ed i beni culturali diventano patrimonio dell'umanità, ha formalmente consacrato la bipartizione beni culturali materiali ed immateriali, tanto da far acquisire una consapevolezza della "necessità di prevedere forme di protezione del patrimonio intangibile, cosicché l'impostazione storicistica e materiale della disciplina italiana mostra alcuni limiti" [21].

In che cosa consistono dunque i beni immateriali?

Essi si sostanziano, così come chiaramente espresso dalla Convenzione Unesco, nelle tradizioni orali, nelle lingue, nelle arti performative, nelle pratiche sociali e rituali (canti, folklore, giochi), nei cibi, nelle conoscenze e nelle pratiche che riguardano la natura e l'universo, nelle conoscenze, nelle abilità artigiane e negli spazi ad essi associati [22]. E così, in Italia, sono stati dichiarati dall'Unesco capolavori del Patrimonio orale ed immateriale dell'umanità: il Teatro delle marionette siciliane, l'Opera dei pupi (iscritto il 18 maggio 2001), il Canto a tenore dei pastori del centro della Barbagia (25 novembre 2005), la dieta mediterranea [23] e di recente la Rete delle grandi macchine a spalla: i candelieri di Sassari, la macchina di Santa Rosa di Viterbo, la Varia di Palmi ed i gigli di Nola (4 dicembre 2013); altri beni aspirano (avendo avanzato una precandidatura) ad essere assurti in tale lista: la pizza napoletana, la festa dei ceri di Gubbio, mentre per altri è stato opposto aprioristicamente il veto da parte del ministero: la giostra del Saracino di Arezzo [24] ed il palio di Siena [25].

Dalla definizione dei beni intangibili, contenuta nella Convenzione Unesco, emergono due aspetti: il primo attiene all'impiego del termine "conoscenza", che evoca l'assonanza con la tutela delle opere dell'ingegno (di cui nel prosieguo ne evidenzieremo le differenze), l'altro attiene al fatto che, sostanziandosi alcuni beni immateriali in "pratiche, azioni", si potrebbe profilare un loro collegamento con le "attività" [26].s

A tal riguardo però non si incorra nell'errore di identificarli con i beni culturali attività, che secondo l'intendimento della Corte costituzionale, sono altro: e cioè sono quelli "che riguardano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura" (Corte costituzionale, sentenza 7-9 luglio 2005, n. 285 e sentenza 21 luglio 2004, n. 255). Infatti, mentre i beni intangibili sono "espressioni testimoniali culturali" [27], le attività culturali sarebbero "funzioni strumentali ", rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell'arte" [28].

La vastità e l'ampia congerie delle "manifestazioni" che possono ricondursi alla categoria oggetto di esame, impone quindi la necessità da parte dell'ordinamento, di stabilirne limiti e criteri e/o comunque una loro "tipica" disciplina di tutela, pur nella consapevolezza che ad essi non possono essere estese le misure "classiche", utilizzate per i beni culturali materiali.

4. Esiste una tutela per i beni culturali immateriali?

L'inapplicabilità della disciplina codicistica ai beni culturali immateriali, giusto il tenore dell'art. 2, comma 2, induce a chiedersi se si possa prevedere una qualche forma di tutela per questa categoria di beni. Un dato incontrovertibile infatti è che le misure tipiche della tutela, quali: la prelazione, l'espropriazione, i limiti all'esportazione e la stessa tutela penale, presupponendo l'esistenza di un supporto, non possano estendersi ai beni intangibili.

Inoltre, gli escamotage utilizzati, in passato, per tutelare i beni immateriali non hanno prodotto risultati convincenti. E' il caso per esempio della tecnica impiegata per tutelare le attività tradizionali che rivestono comunque un valore culturale, per le quali, non essendo prevista una disciplina, si è addivenuti ad apporre il vincolo "sulle strutture materiali (gli immobili) o attraverso le quali (arredi e suppellettili) queste attività venivano esercitate" [29]. Si sono così tutelati gli antichi mestieri o le botteghe storiche non ampliando la nozione di bene culturale, ma percorrendo altre vie, per così dire indirette [30].

Parrebbe pertanto che per tali beni possano declinarsi soltanto attività di valorizzazione, di promozione della conoscenza, affinché le tradizioni si tramandino e non cadano nell'oblio, con le relative conseguenze in punto di individuazione dei soggetti titolari di tali funzioni e di amministrazioni competenti.

A conferma di ciò viene in ausilio la stessa Convenzione Unesco [31], la quale, identificando nelle misure di salvaguardia: l'adozione di linee di politica generale, volte a promuovere le funzioni del patrimonio culturale nella società, l'elaborazione di inventari, le attività di divulgazione, educazione, sensibilizzazione, lascia intendere che per il diritto internazionale salvaguardare significhi, per lo più promuovere la conoscenza, valorizzare.

A ben vedere, però, se è senz'altro vero che per questi beni la valorizzazione è chiamata a svolgere un ruolo da protagonista, un circoscritto e liminale spazio per la tutela pare, ad avviso di chi scrive, configurabile. Ed infatti, per valorizzare un bene immateriale occorre prima individuarlo e conoscerlo, così come per preservarne la memoria e garantirne la sua riproducibilità occorre identificarlo. Tale esigenza si fa sempre più pressante, specie in un'epoca di fenomeni di globalizzazione e di trasformazione sociale [32], atteso che il patrimonio culturale immateriale rappresenta un fattore principale delle diversità culturali e di garanzia di uno sviluppo duraturo, la cui protezione ne impedisce il deterioramento.

Non v'è chi non veda allora come la dichiarazione del loro valore culturale ("diversa rispetto a quella prevista dal Codice e di cui all'art. 117, comma 2, lett. s, Costituzione, non fosse altro perché priva di effetti giuridici conformativi") [33], la catalogazione e l'iscrizione in appositi registri di tali beni vadano senz'altro ascritte nell'alveo delle misure di tutela.

Ciò che cambia, però, è la diversa prospettiva della disciplina di tutela che caratterizza i beni culturali tout court, da quelli intangibili: mentre per i beni culturali materiali è necessaria una tutela per così dire "statica", vincolistica e fidecommissaria, per i beni immateriali è indispensabile una tutela "dinamica", che si armonizzi con il continuo divenire, che è l'essenza del fenomeno che si vuol preservare. Di qui il continuo aggiornamento della relativa catalogazione e l'attenzione a riconoscere nuovi fenomeni tradizionali emergenti o prima sconosciuti.

E se "dichiarare" un bene immateriale potrebbe significare cristalizzarne la memoria e quindi tarpagli le ali, l'ometterne la loro individuazione farebbe incorrere nel più grave rischio di sottrarre alla memoria importanti tradizioni legate alla storia dei popoli.

Acclarato il possibile profilarsi di una funzione di tutela per i beni de quo, occorre individuare il soggetto competente, che non può che essere identificato nel ministero per i Beni e le Attività culturali. Dal tenore delle norme organizzative sul Mibac, si evince, infatti, che nell'ambito delle competenze di quest'ultimo vi sia spazio non solo per i beni culturali materiali e per i beni culturali attività [34], ma anche per i beni immateriali. Come è stato puntualmente rilevato: "il primo e vero tratto unitario della nozione in esame (dal punto di vista giuridico) è proprio rinvenibile nella norma di conferimento delle attribuzioni al Mibac, che non distingue, anche alla luce del principio di unicità, tra beni immateriali e materiali: difatti, al Mibac sono attribuite tutte le funzioni sui beni culturali, anche al di fuori di quelle previste dal Codice (v. in tal senso art. 52, comma 1, decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300), anche con riferimento a quelle discendenti dalla necessità di curare rapporti con le organizzazioni internazionali di settore (art. 2, comma 4, d.lgs. 300/1999), e, quindi, anche quelle derivanti dalle Convenzioni Unesco sui beni culturali intangibili" [35].

Il problema di fondo è rappresentato dal fatto che il ministero, fino ad oggi [36], si è disinteressato dei beni immateriali, abdicando le relative funzioni in materia. Ciò ha comportato che attualmente ogni singola amministrazione si occupa della parte di propria competenza (tradizione agricola - ministero dell'Agricoltura; dieta mediterranea - ministero della Salute; protezione del patrimonio immateriale culturale Unesco - Commissione nazionale italiana Unesco). In che termini allora il Mibac può essere chiamato a svolgere un ruolo attivo nell'ambito della tutela? Innanzi tutto riappropriandosi delle funzioni demandate ad altri, inoltre creando una struttura interna che, attraverso attività di monitoraggio, di studio e di ricerca intercetti i beni immateriali da dichiarare e rediga una loro catalogazione.

A riguardo occorre evidenziare che l'attività di tutela del Mibac dovrebbe connotarsi per una forma sui generis di catalogazione, diversa da quella utilizzata per i beni materiali. Infatti, nello scegliere l'entità da ricondurre nell'ambito dei beni intangibili, pensiamo ad esempio ad un prodotto alimentare, il ministero non dovrebbe soffermarsi sulle caratteristiche organolettiche del bene (queste sì di competenza del ministero dell'Agricoltura), ma valutare l'immedesimazione in esso della cultura, della storia di un popolo e del suo territorio, che il bene stesso ha assorbito e che in esso si è stratificato nei secoli [37].

Tuttavia occorre evidenziare che l'attività di individuazione dei beni immateriali non può essere praticata in "solitudine" dal Mibac, ma dovrà avvenire necessariamente attraverso organismi e forme di raccordo tra centro e periferia, perché è nel contesto locale che sorgono e vivono i fenomeni espressione della tradizione e dell'identità culturale.

Si profila infine un ulteriore quesito: è possibile nell'ambito dei beni culturali intangibili parlare di tutela della "conoscenza" ed attingere ad altre discipline "dell'immateriale", dettate ad esempio per il diritto d'autore, o dal codice per la proprietà industriale?

La legge speciale 22 aprile 1941, n. 633, istituisce la tutela delle opere dell'ingegno di carattere creativo, che appartengano alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all'architettura, al teatro, al cinema. La tutela consiste in una serie di diritti esclusivi di utilizzazione economica dell'opera (diritti patrimoniali dell'autore e cioè diritti di riproduzione, esecuzione, rappresentazione, lettura dell'opera ecc...) e di diritti morali, a tutela della personalità dell'autore (paternità, integrità, pubblicazione), che nel loro complesso costituiscono il "diritto d'autore". Appare ictu oculi come le differenze tra la tutela dettata per le opere dell'ingegno, rispetto alla potenziale tutela dei beni culturali immateriali siano evidenti. I beni intangibili, infatti, essendo res communes omnium, prescindono dalla loro riferibilità ad un soggetto; essi sono beni adèspoti, mentre le norme sul diritto d'autore sono dettate a tutela dei diritti patrimoniali di utilizzazione economica di uno o più soggetti individuati. A riguardo anche la giurisprudenza ha sottolineato la natura a non domino di tali beni. Così, nella sentenza del Tribunale di Milano del 9 novembre 1992, relativa al Palio di Siena, si è affermato che: "il Palio di Siena è pubblico evento risalente al XIII secolo dunque appartenente al patrimonio storico, culturale e folkloristico della nazione, senza che chicchessia possa vantare diritti esclusivi di sorta su di esso" [38]; ed inoltre, mentre la tutela del diritto d'autore è di tipo dominicale, quella pensata per i beni immateriali è di tipo pubblicistico, perché volta a perseguire l'interesse pubblico che si concretizza nel tramandare e promuovere la conoscenza delle tradizioni identitarie di una comunità.

Analoghe riserve paiono configurarsi, ad avviso di che scrive, per l'applicabilità ai beni de quo della disciplina del Codice della proprietà industriale, decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, dove all'art. 19, comma 3, ha previsto che "anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possono ottenere registrazioni di marchio, anche aventi ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del relativo territorio". La lettera della norma parla di "elementi grafici distintivi" e non v'è chi non veda come ciò possa riferirsi soltanto ai beni culturali materiali. Come sarebbe possibile consolidare l'immagine di una rappresentazione, di una danza, o di una rievocazione storica, la cui mutevolezza è insita nella loro natura ontologica, perché la loro riproduzione seriale può essere simile, ma mai uguale e/o identica? Inoltre si configurerebbe anche qui un problema di proprietà: i beni immateriali appartengono alla comunità, a tutti ed a nessuno in particolare. Pertanto come potrebbe un ente pubblico ottenere la registrazione di un bene privo di titolare?

5. Valorizzazione, territorio e sussidiarietà

Pur avendo ipotizzato il profilarsi di una funzione di tutela nei termini sopra descritti, ciò che è incontrovertibile è che la conoscenza e la "sopravvivenza" dei beni culturali immateriali sia fattivamente garantita dall'attività di valorizzazione [39].

In tal senso l'intervenuta modifica del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) che ha delineato le distinte funzioni spettanti nella materia dei beni culturali allo Stato ed alle Regioni, ben si armonizza con le necessità intrinseche dei beni esaminati, i quali per essere tramandati e salvaguardati non possono prescindere da una loro promozione e fruizione. Senza effettuare una dissertazione sul riparto di competenze, valga soltanto rammentare che, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. s), spetta allo Stato la potestà legislativa esclusiva riguardo alla tutela, mentre il comma 3, della medesima disposizione, affida la valorizzazione e la promozione/organizzazione delle attività culturali alla potestà legislativa concorrente delle regioni, incontrando il solo limite dei principi fondamentali posti dalla legge dello Stato [40].

Come è stato sostenuto "è però vero che sussiste un problema aggiuntivo nel riparto delle competenze sulla valorizzazione della componente immateriale o dei beni culturali immateriali, per la difficoltà di utilizzare il criterio di appartenenza (art. 102, comma 2, decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) ed anche per la mancanza di una disciplina statale contenente i principi fondamentali in tema di patrimonio culturale immateriale" [41]. Sorge a riguardo un interrogativo: se il patrimonio immateriale appartiene alla comunità, chi è il soggetto competente a promuoverne la valorizzazione? La regione? I comuni? Le soprintendenze? Di qui la necessità di una normativa ad hoc ed il ruolo di primo piano che lo Stato potrebbe giocare, in punto di uniformità, nel dettare le linee guida per la valorizzazione, vincolanti per tutte le regioni, superando quel rischio, insito nella differenziazione tra territori, che potrebbe condurre ad una frammentazione delle discipline ed alla dispersione dei saperi, in quei contesti non attenti a "valorizzare" i propri patrimoni immateriali. Ad oggi, infatti, soltanto alcune regioni hanno disciplinato organicamente la materia: la Liguria, con la legge 2 maggio 1990, n. 32 (poi modificata dalla legge regionale 17 dicembre 1998, n. 37): Norme per lo studio, la tutela, la valorizzazione e l'uso sociale di alcune categorie di beni culturali ed in particolare dei dialetti e delle tradizioni popolari della Liguria;il Molise, con le leggi regionali 11 aprile 1997, n. 9, e 5 maggio 2005, n. 19, aventi ad oggetto il patrimonio culturale immateriale: etnologico, sociale, antropologico, produttivo; la Sicilia, che con decreto assessoriale 26 luglio 2005, n. 77, ha istituito il registro delle eredità immateriali di Sicilia (Rei) [42], con il fine di individuare, tutelare e valorizzare l'eredità orale e culturale immateriale della regione [43]; la Lombardia, che con la legge regionale 23 ottobre 2008, n. 27, ha istituito il registro delle eredità immateriali Lombarde [44] ed infine la Puglia, che con la legge regionale 22 ottobre 2012, n. 30, ha disciplinato gli "interventi regionali di tutela e valorizzazione delle musiche e delle danze popolari di tradizione orale".

Più ampia invece la produzione normativa regionale a tutela dei dialetti, volta ad impedire il processo di erosione linguistica e la conseguente perdita del patrimonio orale locale: il Piemonte, con la legge regionale 10 aprile 1990, n. 26, Tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza dell'originale patrimonio linguistico del Piemonte, integrata dalla legge regionale 17 giugno 1997, n. 37 ed infine con la legge statutaria 4 marzo 2005, n. 1 [45]; l'Emilia-Romagna, con la legge regionale 7 novembre 1994, n. 45, Legge per la tutela e valorizzazione dei dialetti dell'Emilia-Romagna; la Basilicata con la legge regionale 28 marzo 1996, n. 16, Promozione e tutela delle minoranze etniche-linguistiche di origine greco-albanese in Basilicata; la Sardegna con la legge regionale 15 ottobre 1997, n. 26, Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna; il Lazio, con la legge regionale 21 febbraio 2005, n. 12, Tutela e valorizzazione dei dialetti di Roma e del Lazio; il Veneto, con la legge regionale 13 aprile 2007, n. 8, Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto; il Friuli-Venezia Giulia, con la legge regionale n. 17 febbraio 2010, n. 5, Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella regione Friuli-Venezia Giulia [46]; la Sicilia, con la legge regionale 31 maggio 2011, n. 9, Norme sulla promozione, valorizzazione e l'insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole e la Calabria con la legge 11 giugno 2012, n. 21, Tutela, Valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico, dialettale e culturale della Regione Calabria.

Preme brevemente soffermarsi sul concetto di valorizzazione, consistente "nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura" (art. 6, comma 1, del d.lgs. 42/2004); essa si sostanzia, dunque, nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina di tutte quelle attività, volte a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione del patrimonio stesso ad ogni tipo di pubblico, così da incentivare lo sviluppo della cultura.

L'elemento teleologico della valorizzazione ben si armonizza con i beni culturali intangibili [47], i quali possono essere tramandati alle generazioni future soltanto attraverso politiche culturali che ne migliorino ed incentivino la conoscenza, ne incrementino la fruibilità, prevedano misure di sostegno di interventi e di promozione ad esse deputati.

Ma vi è di più. Una compiuta valorizzazione si può conseguire soltanto attraverso la predisposizione di un'organizzazione stabile di risorse finanziarie o strumentali, di competenze specialistiche e ad una sinergia pubblico - privato, volta a preservare la memoria ed i saperi identitari di un popolo. Infatti la partecipazione ed il ruolo dei cittadini, nell'ambito dell'azione dei soggetti istituzionali, viene ad assumere un ruolo centrale negli obiettivi propri dell'attività di valorizzazione.

Non v'è chi non veda, allora, come nel tema che ci occupa si innestino due elementi fondamentali e cioè: il dato territoriale - locale e la rilevanza che, nell'ambito dei beni culturali intangibili, viene ad assumere il principio di sussidiarietà. Uno degli elementi che connota i beni immateriali, infatti, è il dato antropico - territoriale, in quanto luogo che li genera, che ne conserva il ricordo e nel quale prendono forma e si manifestano. Il territorio rappresenta dunque il "vivaio per questi beni, che si possono incontrare o meno in un dato spazio e in un dato tempo" [48].

Appare pertanto chiaro il ruolo che assumono i soggetti istituzionali più vicini a tali realtà ed ai suoi abitanti e l'operatività che, in tale settore, è chiamato a svolgere il principio di sussidiarietà nella sua duplice accezione: verticale ed orizzontale.

Se è vero che spetta al legislatore nazionale (per le ragioni in precedenza esposte) il compito di identificare normativamente il bene immateriale, nell'ambito della propria funzione di tutela, è nel contesto locale l'habitat in cui, grazie all'apporto delle comunità di riferimento (associazioni, terzo settore, pro loco ecc..., custodi delle tradizioni di una comunità), esso può essere intercettato, preservato e promosso. In questo senso la sussidiarietà orizzontale può essere di ausilio al legislatore non solo nella fase iniziale della individuazione di ciò che rappresenta l'origine, la tradizione di un popolo e quindi di ciò che può essere annoverato tra i beni immateriali, ma anche nel delineare i fini a cui la valorizzazione del patrimonio immateriale deve tendere; di qui appunto l'imprescindibilità di forme di raccordo centro - periferia.

La sussidiarietà orizzontale potrebbe esplicare al massimo le proprie potenzialità, svolgendo i gruppi, le formazioni sociali e gli individui un ruolo di primo piano nella salvaguardia, promozione, ripristino del patrimonio culturale immateriale. Non che il soggetto pubblico debba sottrarsi alle proprie responsabilità ed abdicare a favore del privato, ma semplicemente incentivare lo svolgimento di compiti e di servizi da parte della comunità di riferimento, perché in grado di arricchire, con il loro apporto, la stessa diversità culturale ed incentivare, così, la creatività umana.

Dai rilievi sopra svolti ne deriva un'ulteriore considerazione: se correttamente valorizzato il patrimonio immateriale potrebbe rappresentare un elemento di potenzialità per il territorio, in termini di riscontri economici, turistici ed occupazionali. In altre parole consentirebbe di investire in cultura.

 

Note

[1] Pablo Picasso, The Arts, 1923.

[2] P. Stella Richter, E. Scotti, Lo statuto dei beni culturali tra conservazione e valorizzazione, in I beni e le attività culturali, in I beni e le attività culturali, (a cura di) A. Catelani, S. Cattaneo, Padova, 2002, pag. 396.

[3] Tale definizione è stata coniata da A. Cirese, negli anni '80 del secolo scorso, I beni demologici in Italia e la loro museografia, in Graffiti di museografia antropologica italiana, (a cura di) P. Clemente, Siena, 1996, pagg. 249-262.

[4] C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2006, pag. 3.

[5] Sulla nozione di beni culturali cfr. M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, in Trattato di diritto Amministrativo. Diritto Amministrativo speciale, (a cura di) S. Cassese, II, Milano, 2003, pag. 1451; S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, 1975, in L'Amministrazione dello Stato, Saggi, Milano, 1976, pag. 153 ss.; T. Alibrandi, P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001.

[6] F. Lemme, Tra arte e diritto, Torino, 1993, pag. 12.

[7] M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse artistico o storico, Padova, 1953, pag. 98.

[8] M.S. Giannini, I beni culturali, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 1976, pag. 24.

[9] Sui beni culturali cfr. G. Sciullo, I beni, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna 2011, pag. 23.

[10] T. Alibrandi, P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001, pag. 47.

[11] A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, in questa Rivista.

[12] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in questa Rivista.

[13] G. Severini, Commento agli artt. 1 e 2, in Codice dei beni culturali e del Paesaggio, a cura di A.M. Sandulli, Milano, 2011, pag. 26 ss.

[14] La Convenzione sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale è stata approvata il 17 ottobre 2003 dalla Conferenza generale dell'Unesco, entrata in vigore alla 40ma ratifica, il 30 aprile 2006, e ratificata dall'Italia con legge 27 settembre 2007, n. 167.

[15] Nel 2005 l'Unesco ha adottato la Convenzione sulla protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali, che si prefigge il fine di proteggere e promuovere l'interculturalità. La Convenzione è stata adottata a Parigi il 20 ottobre 2005 nella 33° sessione della Conferenza Generale dell'Unesco e ratificata in Italia con legge 19 febbraio 2007, n. 19.

[16] A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, cit.

[17] Si rammenta che a Torino nel 2001 si era tenuta una conferenza dell'Unesco che aveva espresso la necessità di creare strumenti normativi internazionali finalizzati alla tutela e protezione dei beni immateriali.. Nella definizione Unesco venivano ricondotte tra i beni immateriali tutte le forme della cultura tradizionale popolare e folklorica, ovvero: attività collettive che si producono entro una comunità data e fondate sulla tradizione. Vi si includono le tradizioni orali, le usanze, il linguaggio, la musica, la danza, i rituali, le feste, le tradizioni mediche e farmacologiche, le arti gastronomiche ed ogni genere di abilità specifiche connesse all'aspetto materiale della cultura, quali ad esempio le strumentazioni tecniche e gli habitat. La conferenza di Torino ha arricchito di contenuti la suddetta nozione comprendendo anche "i processi di conoscenza delle persone insieme ai saperi, alle abilità ed alle creatività che li informano e che da essi vengono sviluppate, i prodotti che vengono creati e le risorse, gli spazi, e gli altri aspetti del contesto sociale e naturale necessari alla loro sostenibilità; questi processi offrono alle comunità viventi un senso di continuità con le generazioni precedenti e sono fondamentali per la identità culturale tanto quanto per la salvaguardia della diversità culturale e della creatività umana." Cfr. il sito web dell'Unesco alla sezione intangible heritage.

[18] M. Abbagnano, Cultura, in Dizionario di filosofia, Torino 1961, pag. 201.

[19] M. Ainis, Cultura e politica, cit., pag. 63 il quale afferma che in Germania vengono contrapposti i concetti di "kultur" e "zivilisation": il primo utilizzato come riferimento a tutto ciò che è espressione della natura umana e il secondo, come espressione della cultura dei popoli più avanzati, o più precisamente come cultura dei popoli che vivono nella città

[20] G. Severini, La nozione di bene culturale e le tipologie di beni culturali, in Il Testo unico sui beni culturali ambientali. Analisi sistematica e lezioni, (a cura di) G. Caia, Milano, 2000, pag. 12.

[21] In tal senso S. Cassese, Il futuro della disciplina dei bei culturali, in Giorn. dir. amm., 2012, 7, pag. 781. Per una completa trattazione del tema della globalizzazione riferita ai beni culturali cfr. La globalizzazione dei beni culturali, in L. Casini (a cura di), Bologna, 2010.

[22] L'art. 2, comma 1, della Convenzione Unesco afferma che si riconducono al concetto di bene culturale immateriale: "le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale".

[23] La Campania, con legge regionale 30 marzo 2012, n. 6 riconosce la dieta mediterranea come patrimonio immateriale.

[24] Perché la corsa del cavaliere cristiano con la lancia contro il buratto (rappresentante il nemico saraceno) non sarebbe in linea con il dialogo interculturale.

[25] Per un'ampia e completa trattazione a riguardo cfr. G. Severini, Immaterialità di beni culturali?, cit.

[26] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit.

[27] A. Bartolini, voce Beni culturali, in Enc. Dir, VI, Milano, 2013, pag. 110.

[28] M. Chiti, La nuova nozione di beni culturali nel d.lgs. n. 112/199: prime note esegetiche, in Aedon, 1998, 1.

[29] A. Crosetti, D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino, 2011, pag. 37.

[30] E' il caso della Fiaschetteria Beltramme, Cons. Stato, sez. VI, 10 ottobre 1983, n. 723, in Cons. Stato, 1983, 1, pag. 1074; la Libreria Croce, Cons. Stato, sez. VI, 5 maggio 1986, pag. 359, in Riv. Giur. Ed. 1986, 1, pag. 585; l'Antica farmacia di Piazza del Campo di Siena, Cons. Stato, sez. VI, 18 ottobre 1993, n. 741, in Riv. Giur. Ed., 1994, 1, pag. 133; La Libreria del Teatro di Reggio Emilia, Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 1998, n. 358, in Cons. Stato, 1998, II, pag. 454; Il Caffè Genovese di Cagliari, Cons. Stato, sez. VI, 28 novembre 1992, n. 964, in Cons. Stato, 1992, pag. 1725.

[31] Tra i suoi principali obiettivi, essa ha inteso, appunto, salvaguardare gli elementi e le espressioni del patrimonio culturale immateriale, promuovere (a livello locale, nazionale e internazionale) la consapevolezza del loro valore in quanto componenti vitali delle culture tradizionali, assicurare che tale valore sia reciprocamente apprezzato dalle diverse comunità, gruppi ed individui interessati ed infine incoraggiare le relative attività di cooperazione e sostegno su scala internazionale (articolo 1).

[32] S. Cassese, Il futuro della disciplina dei beni culturali, cit., pag. 781.

[33] G. Morbidelli, op. cit.

[34] In tal senso anche A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, in Amministrazione in cammino, 11 dicembre 2008.

[35] A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, op. cit.

[36] La proposta di un nuovo regolamento del Mibac prevede infatti che venga istituita una direzione dedicata al patrimonio immateriale.

[37] Pertanto la porchetta di Ariccia o di Monte San Savino assurgono a beni culturali immateriali non per il gusto, per la genuinità del prodotto, ma perché esprimono la storia di una tecnica di preparazione, di saperi specialistici, di modalità di allevamento che vanno ricondotte alla tradizione di una determinata popolazione. Infatti mentre l'indicazione geografica protetta, attribuita dall'Unione europea ai prodotti agricoli e alimentari, ha il fine di tutelare una determinata qualità, la reputazione o un'altra caratteristica del prodotto dipendente dall'origine geografica, l'individuazione del bene immateriale ha il fine di tutelare la cultura degli abitanti di un dato territorio, le loro consuetudini ed i loro usi atavici: in sintesi la loro memoria. Gli esempi sul cibo possono moltiplicarsi, ma le medesime considerazioni valgono anche per le danze, i canti, il folklore: si pensi alla pizzica salentina o alla tarantella napoletana.

[38] Tribunale Milano, 9 Novembre 1992, in Giur. it., 1993, I, 2, pag. 747.

[39] M. Ainis, M. Fiorillo, L'ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, Milano, 2008, pag. 1067 ss.

[40] C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon, 2001, 3.

[41] S. Fantini, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, in questa Rivista.

[42] A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, cit.

[43] la Sardegna con la legge regionale 20 settembre 2006, n. 14, disciplina il patrimonio culturale materiale e immateriale.

[44] Il registro è suddiviso in quattro parti: libro dei saperi, libro delle celebrazioni, libro delle espressioni, libro dei tesori umani viventi.

[45] La legge tutela il dialetto piemontese, occitano, franco-provenzale e walser.

[46] In precedenza la Regione Friuli-Venezia Giulia con la legge regionale 22 marzo 1996, n. 15 ha tutelato il dialetto friulano, con la legge regionale 23 febbraio 2001, n. 38 lo sloveno, con la legge regionale n. 20 novembre 2009, n. 20 il tedesco.

[47] C. Barbati, Art. 6, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Commento al Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 22, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2007, pag. 75. Si veda anche: Corte costituzionale, sentenza 8-16 giugno 2005, n. 232.

[48] In tal senso R. Tucci, Il patrimonio demoetnoantropologico immateriale fra territorio, documentazione e catalogazione, Regione Lazio, Centro Regionale per la Documentazione dei beni culturali e ambientali.

 

 



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