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La gestione dei beni culturali: tappe di un percorso

La formazione alla gestione del patrimonio culturale: pregiudizi e nuovi orizzonti [*]

di Antonio Leo Tarasco

Cultural Heritage Management Education: Prejudice and New Horizons
The paper analyzes the issue of the professional skills required to manage the Italian cultural heritage publicly owned. Given the prevalence in this field of job profiles specialized in the technical protection (i.e., archivists, librarians, art historians, archaeologists, architects), in the paper the Author instead proposes to support these technical specialists with management experts (economists of culture, media experts, lawyers goods cultural) or to integrate the training of technicians currently employed in the cultural sector through a major awareness and knowledge on issues of profitability and communication of cultural heritage. Moreover, a new training program in skills not only open to technical or conservative discipline would give new job opportunities to many unemployed young people who have followed post-graduate training courses in the field of "cultural heritage" without being absorbed by this sector.

Il tema della formazione nei beni culturali può sintetizzarsi in due concetti, nel contempo estremi e complementari: frammentarietà e integrazione.

La descrizione della realtà attuale offre un panorama in cui le conoscenze in materia, cui corrispondono competenze istituzionali, appaiono estremamente frammentate. Le cognizioni tecniche (storico-artistiche, archeologiche, archivistiche, bibliotecarie, etno-antropologiche) sono normalmente disgiunte da quelle giuridiche e (lato sensu) gestionali; tale segmentazione di conoscenze corrisponde (ed è parallela) alla frammentazione delle figure chiamate a gestire complessivamente le risorse del patrimonio culturale. Al soprintendente (storico-artistico, architettonico, archeologo, archivistico, bibliotecario) non si affiancano gli esperti del diritto dei beni culturali, della comunicazione, gli economisti della cultura. Nel settore del patrimonio culturale italiano, conoscenze complessive (quelle necessarie alla gestione) e figure istituzionali (concepite per quella gestione) sono distinte, essendo le prime distribuite fra più professionisti. Il che - potrebbe ragionevolmente osservarsi - appare fisiologico in un contesto specializzato come quello preteso dalla società moderna.

La patologia del sistema risiede nel fatto che la segmentazione delle conoscenze, per divenire virtuosa specializzazione, deve aprirsi alla collaborazione di ogni diversa figura professionale in grado di completare il panorama delle cognizioni necessarie a curare complessivamente gli interessi di un certo settore. La peculiarità del sistema di gestione del patrimonio culturale italiano e, nel contempo, il suo vizio genetico, sta in ciò che talune competenze e professionalità hanno assunto un ruolo talmente preponderante da impedire una sana osmosi relazionale. E così, le conoscenze tecniche finalizzate essenzialmente alla conservazione continuano a dominare la scena del settore finendo con l'impedire a sensibilità culturali diverse di offrire il proprio contributo per la migliore gestione del patrimonio culturale. Pur essendo consapevoli della essenzialità delle funzioni conservative (cfr. art. 1, Codice dei beni culturali e del paesaggio), non può non notarsi come ragionando a partire dal presupposto della superiorità della scienza tecnica (conservazione, restauro, amministrazione di vincoli etc.) rispetto a quella della gestione, anche sul piano delle professionalità e delle risorse umane nel settore del patrimonio culturale italiano sono stati ipertrofizzati i profili conservativi rispetto a quelli gestionali; conseguentemente, le figure professionali dominanti sono diventate quelle tecniche a discapito di quelle dotate di maggiore sensibilità gestionale (economia, comunicazione). Un riflesso di tale assetto culturale, tipicamente italiano, sta nel riconoscimento giuridico, avvenuto solo di recente rispetto alla nascita del diritto dei beni culturali, delle funzioni di fruizione e valorizzazione di cui il legislatore si comincia ad occupare per la prima volta nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 fino a consacrarlo definitivamente nel Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

Al riconoscimento culturale (prima) e giuridico (poi), però, non ha fatto da pendant la costruzione di una architettura amministrativa pensata allo scopo di far convivere assieme gli aspetti conservativi con quelli di mise en valer: per tutti, basti pensare che nel ministero per i Beni e le Attività culturali (Mibac), anche nella recentissima classificazione dei profili professionali, è completamente assente la figura dell'economista della cultura attento ai profili di valorizzazione economica del patrimonio culturale in dotazione così come alla integrazione sistemica delle risorse culturali all'interno dello sviluppo del territorio [1], mentre entra fortunatamente in scena (per la prima volta nella storia del Mibac) l'esperto di comunicazione, sebbene in posizione nettamente subordinata rispetto ad altre figure professionali.

Sul piano delle competenze istituzionali, si pensi, poi, che - sempre a livello statale - le attribuzioni in materia di beni culturali sono state a lungo disgiunte da quelle delle attività culturali (pur essendo entrambe ora intestate al ministero per i Beni e le Attività culturali, sebbene relativamente di recente e senza particolare armonizzazione), così come da quelle turistiche (in capo ad un Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri) ed economico-commerciali (quest'ultime pertinenti ad altri dicasteri) [2].

I beni culturali immateriali, poi, sono erroneamente disconosciuti quali beni culturali nel Codice dei beni culturali e del paesaggio e non tutelati unitamente ai tradizionali beni culturali materiali (secondo la formula dell'art. 7-bis d.lg. 42/2004). Nonostante l'espunzione del riferimento alla "materialità" operata dall'art. 148, lett. a), d.lg. 112/1998, e l'approvazione della Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale fatta a Parigi il 17 ottobre 2003 (ratificata dall'Italia con la legge 27 settembre 2007, n. 167), la nozione di bene culturale italiana (non così in altri Paesi nel mondo) resta tuttora saldamente ancorata al concetto di res qui tangi potest. L'art. 2 del più volte rimaneggiato Codice continua a legare assieme i beni culturali alle cose che presentano un interesse normativamente qualificato (storico, artistico, archeologico, etnoantropologico, archeologico, archivistico, bibliografico) [3].

Inoltre, da una parte siedono i soprintendenti quali tutori dell'integrità del patrimonio culturale e dall'altro, con reciproche difficoltà comunicative e di comprensione dell'altrui mondo, vi sono giuristi ed economisti della cultura, esperti di comunicazione; così come, sul versante dell'ambito applicativo, da un lato vi sono gli esperti d'arte e di antichità in genere, mentre dall'altro vi sono antropologi ed etnoantropologi.

Sul piano dei rapporti istituzionali, la funzione di tutela (di cui è intestatario il ministero: art. 117, comma 2, lett. s), Cost.) appare distinta e finanche contrapposta a quella di valorizzazione, affidata (dall'art. 117, comma 3, Cost.) alle regioni, almeno per i beni in proprietà di queste (come saggiamente interpretato da Corte cost. 20 gennaio 2004, n. 26) [4]. Ne consegue, sotto tale ultimo profilo, che è ben possibile che chi detiene i beni non sia responsabile delle infrastrutture che ne permettano di fruire, così come i responsabili delle politiche locali governino senza una visione organica del patrimonio culturale che insiste nel proprio territorio e senza, perciò, predisporre un sistema di servizi ed infrastrutture posto a servizio di quello. E non pare che il pur opportuno meccanismo di concertazione di cui all'art. 112, comma 4, Codice del 2004 abbia prodotto risultati utili e percepibili dalla collettività (piuttosto che dalle burocrazie interne) ad ormai cinque anni dalla riforma del 2006, attese le ridotte esperienza di accordi di valorizzazione ad oggi conclusi [5].

Ne risulta un quadro del governo del patrimonio culturale estremamente frastagliato, frammentato, diviso e scarsamente coordinato il cui assetto rende di per sé difficoltosa ogni opera di salvaguardia e, soprattutto, promozione delle risorse culturali così come del territorio circostante.

Tale premessa appare indispensabile per comprendere non solo il limite dell'attuale assetto istituzionale di governo del patrimonio culturale ma anche per analizzare, prospetticamente, i bisogni formativi del comparto [6]. E veniamo quindi al secondo profilo prima anticipato: la connessione.

Se quelli veduti sono i limiti del sistema, la formazione professionale nel settore non potrà che puntare ad integrare e porre in relazione dialogica tutte le conoscenze necessarie per gestire; e che sono non solo - come a torto ritenuto per decenni - quelle conservative ma anche quelle che servono per comunicare e mettere a reddito il patrimonio culturale.

L'antica polemica tra gestione tecnico-istituzionale e gestione manageriale potrebbe trovare una ragionevole sintesi nella definizione degli obiettivi della gestione dei siti culturali: perseguimento delle finalità culturali (in termini di ricerca, conservazione, comunicazione ed educazione) nel rispetto delle condizioni di equilibrio economico di lungo termine [7], in modo tale che il rispetto di tali condizioni si pongano come un modo per consentire la migliore realizzazione delle finalità istituzionali degli istituti e luoghi della cultura italiani, siano essi di proprietà statali o locali. Così ragionando, la ricerca delle condizioni di economicità, opportunamente guidata dal fine culturale, esclude una volgare ricerca del lucro e, dunque, l'abdicazione delle finalità proprie degli istituti e luoghi della culturale; per converso, la realizzazione delle finalità istituzionali nel rispetto delle condizioni di sostenibilità economica duratura esclude che le finalità culturali diventino la comoda egida sotto cui nascondere inefficienze, sprechi gestionali [8] o, peggio ancora, il modo economico per realizzare personali visioni di museologia degli addetti ai lavori.

Così definiti obiettivi e metodo della gestione [9], ne deriva che il settore del patrimonio culturale ha bisogno, sul piano formativo, non solo di competenze nelle discipline tipicamente umanistiche (archivistica, biblioteconomia, storia dell'arte, archeologia etc.) ma anche di aggiornamenti in discipline giuridiche, economiche e quelle mutuate dalle scienze delle comunicazione. Il gestore del patrimonio culturale, oggi, non può permettersi di essere solo un tecnico specializzato in un'unica branca disciplinare dovendo intendere necessariamente anche di altre discipline, come quelle cui ora si è fatto riferimento.

L'integrazione delle conoscenze risulta tanto più necessaria quanto più le professionalità sono distinte. Delle due l'una: o si affiancano nuove professionalità a quelle tradizionali (che sono di marca più conservatrice anche perché preoccupate prevalentemente della conservazione) oppure coloro che sono deputati a gestire il patrimonio sono chiamati ad un ampliamento dello spettro delle conoscenze in base alle quali realizzare pienamente le funzioni principali in materia: (non solo) conservare (ma anche), valorizzare (ed in ogni senso, anche economico), ed offrire alla pubblica fruizione [10]. Essendo la prima opzione più teorica che pratica, appare indispensabile che alla formazione delle figure professionali in grado di affiancare ai tecnici della conservazione gli esperti della gestione vera e propria si unisca un'opera di sensibilizzazione culturale verso coloro che detengono materialmente il patrimonio da valorizzare in modo da aprirsi ad un virtuoso dialogo osmotico con gli altri specialisti cui riconoscere analoga dignità professionale dei "conservatori" in quanto impegnati nel comune percorso di offerta alla fruizione pubblica del patrimonio culturale.

La miriade di corsi di formazione sul c.d. management dei beni culturali che partoriscono decine di esperti disoccupati [11]è sintomatica dell'attuale chiusura al nuovo e della necessità che alla formazione scientifica nelle diverse discipline prima accennate corrisponda un'opera di sensibilizzazione culturale verso coloro cui sono affidate le chiavi del patrimonio culturale italiano affinché divengano consapevoli della sterilità della solitudine professionale e della necessità di una integrazione di conoscenze che torni utile sia al patrimonio culturale che all'occupazione e, in generale, allo sviluppo economico.

 

 

Note

[*] Testo riveduto dell'intervento svolto dall'Autore nei "Colloqui internazionali di RavelloLAB 2010", organizzati dal Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali, da Federculture e dal Formez, svoltosi a Ravello dal 21 al 23 ottobre 2010, ed ora in corso di pubblicazione nei relativi atti del convegno curati da P.L. Sacco, Lo sviluppo guidato dalla cultura: creatività, crescita, inclusione sociale. Le politiche urbane per la competitività territoriale, Giappichelli, Torino, 2011. Le opinioni espresse non vincolano la posizione dell'Amministrazione di appartenenza, essendo rese a titolo personale.

[1] Sul problema della messa a reddito del patrimonio culturale che sappia coniugare finalità di promozione culturale con quella di efficienza aziendale, si veda A.L. Tarasco, La redditività del patrimonio cultura. Promozione culturale e efficienza aziendale, Giappichelli, Torino, 2006.

[2] Si veda più ampiamente A.L. Tarasco, Beni, patrimonio e attività culturali. Attori privati ed autonomie territoriali, Editoriale scientifica, Napoli, 2004.

[3] In argomento, A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, in Foro amm. - CdS, n. 7-8/2008, 2261 ss., nonché in www.amministrazioneincammino.luiss.it. Sul problema della concezione materiale dei beni culturali, si veda già S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Rass. Arch. Stato, 1975, n. 1-3, 116 ss., ora in Id., L'Amministrazione dello Stato, Giuffrè, Milano, 1976, 152 ss.

[4] Sui profili costituzionali della disciplina dei beni culturali risultante dalla riforma costituzionale del 2001, si veda F. Merusi, Pubblico e privato e qualche dubbio di costituzionalità nello statuto dei beni culturali, in Dir. amm., 2007, 1 ss.

[5] Sui pochi casi finora registrati, M. Cammelli, Il protocollo d'intesa tra Mibac, regione Emilia-Romagna e Associazione delle fondazioni di origine bancaria dell'Emilia-Romagna per il coordinamento degli interventi di conservazione, restauro e valorizzazione del patrimonio cultura regionale. Presentazione, in Aedon, n. 2/2010; B. Accettura, L'accordo di programma tra il ministero per i Beni e le Attività culturali e la regione Campania, in Aedon, n. 3/2009.

[6] Si tenga presente che distinti appaiono anche i luoghi di formazione deputati alla creazione di beni culturali, materiali ed immateriali (che sono accademie di arte e conservatori di musica da una parte) e scuole di restauro dall'altro (di pertinenza dei ministero ovvero delle regioni: art. 29 Codice): sull'argomento, ci si permette ancora di rinviare al nostro Beni, patrimonio, cit., passim.

[7] Secondo le indicazioni di F. Donato, La direzione del museo nella prospettiva economica e aziendale, in F. Donato e A.M. Visser Travagli, Il museo oltre la crisi. Dialogo tra museologia e management, Electa per le belle arti, Milano, 2010, 140.

[8] F. Donato, La direzione del museo nella prospettiva economica e aziendale, cit., 143.

[9] Sul tema, si vedano, di recente, S. Baia Curioni - L. Forti, Note sull'esperienza delle concessioni per la gestione del patrimonio culturale in Italia, in Aedon, n. 3/2009; G. Sciullo, Novità sul partenariato pubblico-privato nella valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, n. 2/2009.

[10] S'inserisce in questa linea direttrice il corso di formazione su "Il diritto e l'economia del patrimonio culturale" organizzato dal ministero per i Beni e le Attività culturali dall'8 al 12 novembre 2010 e rivolto ai direttori degli istituti e luoghi della cultura statali.

Sul tema dell'integrazione tra realtà culturale e tessuto produttivo-infrastrutturale circostante, si vedano i volumi di A. Hinna - M. Minuti, Progettazione e sviluppo delle aziende culturali. Principi, strumenti, esperienze, Hoepli, Milano, 2009; A. Hinna, Organizzare e valorizzare il patrimonio culturale. Uno studio empirico, McGraw-Hill Companies, Columbus, 2009. Per una prospettiva di studio giuridico del patrimonio culturale ispirata ai principi di concorrenza e sussidiarietà orizzontale, vedansi D. Donati - A. Paci (a cura di), Sussidiarietà e concorrenza. Una nuova prospettiva per la gestione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2010.

[11] Sul tema, si veda P. Valentino e A. La Regina, La formazione vale un patrimonio. Beni culturali, saperi, occupazione, Giunti, Milano, 2007 che raccoglie i risultati di una ricerca sull'offerta formativa universitaria e post-universitaria nonchè il mercato del lavoro nel campo dei beni culturali con riferimento alle figure professionali destinate alle attività di tutela, conservazione e valorizzazione, dal quale emerge chiarissimamente la dissociazione tra mondo del lavoro e formazione nel settore, quest'ultima decisamente eccedente la reale richiesta di "addetti".

 



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