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La gestione del patrimonio culturale

Note sull'esperienza delle concessioni per la gestione del patrimonio culturale in Italia

di Stefano Baia Curioni e Laura Forti

Sommario: 1. Premessa. - 2. L'evoluzione degli esercizi di concessione dal 2000. - 3. Gli assetti organizzativi e le modificazioni indotte nelle istituzioni di gestione. - 4. Ipotesi e suggerimenti.

Cultural heritage management and contracting out experiences in Italy: some annotations
The possibility for private enterprises to set museum shops within the Italian cultural institutions was originally provided by the law 4 of 1993, known as the Ronchey law. Having introduced the possibility of a private intervention in a traditionally public-driven environment, the law also, and above all, represented a significant and large-scale revision of the public-private relationship in the cultural field. In accordance with the relevant economic purpose of the law, this note firstly takes into account a quali-quantitative evaluation of the economic performances of Italian museum shops in the recent years. As the law's organizational impact changed roles and rules within the Italian museum "industry", the paper elaborates a further reflection - based upon empirical evidences - about the consequences of the law for the development of competencies in the Italian heritage institutions.

1. Premessa

Uno degli orizzonti fondamentali della gestione del patrimonio culturale nel nostro paese è rappresentato dalla possibilità di determinare appropriate forme di collaborazione tra soggetti pubblici e soggetti privati.

L'ambito principale in cui si sono realizzate, ormai da oltre vent'anni, le principali sperimentazioni di queste collaborazioni è costituito dai cosiddetti servizi aggiuntivi, il cui appalto è stato originariamente normato dalla legge 14 gennaio 1993, n. 4 (legge Ronchey) e successive modificazioni fino all'attuale Testo Unico.

L'evoluzione attuale del sistema complessivo della gestione del patrimonio culturale, caratterizzata da crescenti vincoli di bilancio per gli attori pubblici, da un decentramento sempre più accentuato e da una sempre maggiore competitività nel mercato della fruizione culturale, rende oggi particolarmente opportuna una riflessione complessiva sull'esperienza delle concessioni per i servizi aggiuntivi nella realtà italiana.

Uno dei moventi originari della legge è stata la consapevolezza che l'evoluzione dei consumi culturali e delle scelte di mobilità turistica potesse aprire una stagione favorevole per l'arricchimento dell'offerta commerciale e di servizio delle istituzioni preposte alla gestione del patrimonio storico-artistico del nostro paese. La legge ha quindi risposto ad una motivazione anche, e in misura rilevante, economica, delimitando le condizioni affinché il settore privato potesse cooperare con il settore pubblico sfruttando l'opportunità che il "mercato della cultura" sembrava offrire. Ogni considerazione e valutazione della legge Ronchey non può, dunque, trascurare una quantificazione e qualificazione comparativa dei principali e concreti risultati prodotti dagli esercizi di concessione in termini di risorse e di infrastrutture generate, evidenziando, se possibile, gli elementi più positivi così come anche le criticità dell'esperienza svolta. A questo obiettivo è dedicato il primo paragrafo di questo contributo.

Gli esiti della legge non possono però essere ridotti alla mera contabilizzazione dei fatturati e dei dati economici e infrastrutturali. Essa, infatti, si qualifica soprattutto in quanto esperimento rilevante, condotto su larga scala, di revisione del rapporto tra pubblico e privato nel campo della gestione della cultura.

La storia del patrimonio culturale italiano è stata, com'è noto, caratterizzata da un forte e consolidato presidio pubblico (statale in primo luogo, ma anche regionale, provinciale e soprattutto comunale), affiancato dalla diffusa presenza di privati o di enti ecclesiastici proprietari di beni monumentali e di importanti collezioni. Il ruolo del privato per le attività dirette di gestione e valorizzazione del patrimonio è stato certamente fondamentale, ma, a parte l'esperienza più strutturata e recente del Fondo Ambiente Italiano, è stato difficilmente censibile e disomogeneo per qualità e intensità.

Rispetto a questa tradizione, la legge Ronchey ha rappresentato una svolta molto significativa. Essa ha infatti introdotto la possibilità di una sussidiarietà "orizzontale", ovvero di una collaborazione sistematica tra pubblico e privato. Singolarmente, forse anche in ragione delle coalizioni di interessi e degli equilibri negoziali che si sono strutturati grazie alle sperimentazioni consentite dalla legge, per molti anni la Ronchey e il sistema da essa normato sono comunque restati il principale, se non l'unico, ambito in cui si è misurato e plasmato il confronto organizzativo tra pubblico e privato nel campo dei beni culturali.

Una legge nata per sfruttare un'opportunità economica introducendo servizi privati di natura commerciale - pensati come indipendenti e separati dai ruoli classici di gestione culturale - è stata investita di un ruolo assai più importante di quel che si poteva immaginare, e l'impatto organizzativo della sua attuazione ha impresso una direzione evolutiva al mondo dei beni culturali che richiede una considerazione e una valutazione specifica.

Riflettere sull'attuale proposta di revisione della legge impone quindi il tentativo di riconoscere anche le traiettorie evolutive più generali delle istituzioni pubbliche di gestione del patrimonio e le prospettive di collaborazione pubblico-privato che in esse si delineano. A questi temi è dedicato il secondo paragrafo del testo.

2. L'evoluzione degli esercizi di concessione dal 2000

Da un punto di vista quantitativo, la risposta dei "nuovi fruitori" di cultura all'offerta di collezioni d'arte, di monumenti e di paesaggi italiani è stata adeguata alle aspettative da cui la legge Ronchey ha preso le mosse.

Il dato globale, anche considerando il periodo successivo al 2000, dopo la prima ondata di aumento dei cosiddetti consumi culturali, mostra un andamento crescente, con un tasso medio di sviluppo annuale, su scala nazionale, del 3%. Gli incassi lordi dei servizi aggiuntivi passano da 25,7 milioni di euro del 2000 a 43,4 milioni del 2007, con un incremento medio annuo del 9% (dati Sistan, escluse le istituzioni ecclesiastiche e locali) [1].

Qualitativamente, questa crescita sembra mostrare segnali di progressiva concentrazione su alcune città e, all'interno di esse, su poche icone monumentali ed espositive i cui visitatori crescono in modo più che proporzionale rispetto alla media [2].

In Italia, quindi, coerentemente con altre nazioni in cui il fenomeno è ancora più accentuato, i trend fondamentali della crescita nella fruizione culturale indicano una divaricazione tra le attitudini di visita di una fruizione di massa, standardizzata e concentrata sui luoghi più noti e presenti nell'immaginario collettivo, e quelle di una fruizione più sofisticata (anch'essa in crescita su scala nazionale) rivolta a percorsi meno frequentati.

Queste evidenze suggeriscono che, per una valutazione, anche sintetica e di prima approssimazione, dei risultati economici e infrastrutturali raggiunti grazie all'esperienza Ronchey, occorrerebbe affiancare ai dati relativi alla produttività specifica delle attività commerciali anche una riflessione sulla capacità dell'impianto regolativo di incentivare, ove possibile, correzioni ad una gestione delle destinazioni principalmente orientata a sfruttare l'effetto blockbuster delle grandi icone monumentali del paese.

Il dato complessivo non sembra dare indicazioni confortanti in merito, poiché il trend dei consumi sembra muoversi con un'energia difficilmente contrastabile da qualsivoglia ricetta istituzionale locale; d'altra parte, la molteplicità di variabili implicate in questa dinamica dei consumi impedisce di comprendere in modo specifico, senza una ricerca ad hoc, quanta influenza abbia esercitato su questo risultato l'assetto delle concessioni Ronchey: la questione non è quindi affrontata in questa sede.

Ciò che invece si è potuto fare è un sintetico monitoraggio dell'evoluzione delle attività commerciali svolte nei negozi e nelle librerie dei musei italiani.

 

Tabella 1. Dati sui punti vendita delle concessionarie in Italia (Elaborazione dati Sistan, 2007)

Anno

Punti vendita [3]

Numero scontrini

Incassi totali ()

% crescita incassi

Valore singolo acquisto ()

Incassi medi per punto vendita ()

2001

83

1.840.534

17.584.283

-

9,6

211.859

2002

101

1.981.560

17.662.180

0,4%

8,9

174.873

2003

97

2.112.775

19.284.290

9,2%

9,1

198.807

2004

96

2.183.974

20.204.404

4,8%

9,3

210.463

2005

101

2.154.406

20.745.719

2,7%

9,6

205.403

2006

96

2.206.425

22.596.145

8,9%

10,2

235.377

2007

96

1.960.086

21.199.172

-6,2%

10,8

220.825

Var. % 2001/07

16%

6%

21%

-

13%

4%

* Sulle royalties 2006 si sottolinea l'anomalia del dato fornito dal Sistan. Si rammenta inoltre che i musei statali sono 400 (Sistan), rappresentando circa il 10% del totale dei 4.120 censiti da Trimarchi e Longo, I Musei, in Rapporto sull'economia della cultura, Il Mulino, 2004, p. 287.

 

Dal 2001 al 2007 si è registrata una significativa crescita degli incassi lordi generati dai punti vendita gestiti nei musei italiani (+21%), del numero di scontrini battuti (+6%), dei punti vendita (+16%), del fatturato per punto vendita (+4%) e del valore per singolo acquisto (+13%).

Considerando che le istituzioni in cui sono presenti i punti vendita hanno avuto nel 2007 quasi 22 milioni di visitatori, si evince che il conversion rate, ovvero il rapporto tra il numero dei clienti dei punti vendita e il numero di visitatori delle istituzioni, è stato pari all'8,64%, mentre la spesa per visitatore è stata pari a 0,94 euro.

Nonostante questa innegabile crescita delle attività, il fatturato consolidato a livello nazionale per i musei statali resta modesto, pari cioè a poco più di 40 milioni di euro [4].

Per avere un dato di confronto, nel 2007/08 le attività di commercial trading del British Museum hanno generato ricavi per oltre 21 milioni di euro, quelle di Tate hanno superato i 35, la voce "merchandising" del Metropolitan è stata postata a 53, le auxiliary activities del Moma ne hanno raccolti più di 40 e i punti vendita del Louvre nel 2007 hanno fatturato 20.647.217 euro.

Questo significa che tutto il fatturato commerciale dei musei italiani (considerando insieme gli statali, aree archeologiche incluse) è equivalente al fatturato commerciale di un solo grande museo statunitense.

Questa performance, non particolarmente soddisfacente nonostante la crescita dimostrata, dipende da diversi fattori che, in prima battuta, possono essere attribuibili a spese medie pro-capite e numero di clienti nei punti vendita inferiori agli standard internazionali: in presenza di un conversion rate che in Italia, negli istituti statali, non arriva al 9%, si registrano il 16% del Louvre, il 24% del Thyssen Bornemisza di Madrid, il 25% di Tate, il 26% del Rijks di Amsterdam, il 31% del British Museum, il 33% della National Gallery di Londra.

Anche la spesa media pro-capite è spesso superiore: nel 2007, in Italia si attesta sui 10,86 euro, rispetto agli 11 euro della National Portrait Gallery di Londra, ai 12 euro del British Museum, ai 15 del Thyssen Bornemisza, ai 16 del Louvre o ai 30 del Moma.

Le ragioni della relativa arretratezza della struttura commerciale italiana dipendono però anche da fattori di natura più strutturale: se si analizzano i dati prodotti dalla Museum Store Association nel 2009, relativi a un campione di 439 istituzioni[5], si evince che la superficie media dei punti vendita era pari a 130 mq, il fatturato a 456.959 euro e gli addetti 19, esclusi i volontari non retribuiti. La spesa media per visitatore (un dato che include sia i compratori sia coloro che non acquistano) è stata pari a 2,09 euro per visitatore. Limitando l’analisi ai 128 musei d’arte negli USA risultava una superficie media di 145 mq, un fatturato medio di 569.254 euro, un numero di dipendenti pari a 16 e una spesa media per visitatore pari a 2,84 euro.
In Italia invece la dimensione media dei corrispondenti punti vendita non arriva ai 45 mq, il fatturato medio nel 2006 è stato pari a 235.377 euro e la spesa media per visitatore è pari a circa 1,02 euro, valori rispettivamente pari a circa 1/3, 2/5 e 1/3 degli equivalenti statunitensi.

A confermare la presenza di un serio problema infrastrutturale come elemento rilevante della sottoperformance italiana di questi anni vi è anche l'evidente disomogeneità dei risultati ottenuti dai diversi musei che può inferire dall'elaborazione dei dati del 2007, relativi ai primi 20 negozi per fatturato. E' rilevante inoltre il fatto che solo 38 negozi hanno fatturato più di 100.000 euro.

Questi punti vendita, che coincidono ovviamente con le grandi attrazioni iconiche del turismo culturale italiano, possiedono un più elevato conversion rate - in media pari al 12,7% - e coprono da soli più dell'81% del fatturato complessivo.

Tra loro però si riscontrano importanti differenze: ad esempio il negozio situato negli scavi di Pompei, pur presentando un elevato valore di scontrino medio (11,43 euro), ha un conversion rate del 2,1%, mentre il contrario accade al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, con uno scontrino medio più basso (6,56 euro) e un conversion rate del 21,5% [6].

Tabella 2. Dati sui primi 20 negozi delle concessionarie in Italia per incassi lordi registrati (Sistan, 2007)

Istituzione

Incassi negozio ()

Visitatori

Numero scontrini

Conversion rate

Val. medio acq. ()

Incasso a visitatore ()

Galleria degli Uffizi e Corridoio Vasariano

4.850.188

1.615.986

378.127

23,4%

12,83

3,00

Colosseo (Circuito Colosseo e Palatino)

2.771.300

4.441.453

231.613

5,2%

11,97

0,62

Galleria dell'Accademia di Firenze

2.132.187

1.286.798

218.615

17,0%

9,75

1,66

Museo e Galleria Borghese

1.256.722

485.548

86.706

17,9%

14,49

2,59

Gall. Palatina, Palazzo Pitti, Gall. d'Arte Moderna

664.730

448.785

63.837

14,2%

10,41

1,48

Museo Archeologico Nazionale - Napoli

660.750

357.032

63.439

17,8%

10,42

1,85

Scavi Vecchi e Nuovi di Pompei

604.409

2.545.232

52.876

2,1%

11,43

0,24

Cenacolo Vinciano

583.144

330.678

70.230

21,2%

8,30

1,76

Pinacoteca di Brera

452.226

203.411

44.106

21,7%

10,25

2,22

Scavi di Ostia Antica e Museo

411.111

312.369

30.594

9,8%

13,44

1,32

Museo di San Marco - Firenze

338.582

184.270

35.997

19,5%

9,41

1,84

Villa d'Este - Tivoli

325.920

554.320

44.158

8,0%

7,38

0,59

Gallerie dell'Accademia - Venezia

294.500

337.672

22.580

6,7%

13,04

0,87

Villa Adriana - Tivoli

288.189

294.355

26.294

8,9%

10,96

0,98

Cappelle Medicee

247.577

389.103

30.985

8,0%

7,99

0,64

Galleria d'Arte Antica - Palazzo Barberini

239.544

124.375

22.509

18,1%

10,64

1,93

Museo Naz. Romano - Pal. Massimo alle Terme

235.383

238.800

14.497

6,1%

16,24

0,99

Galleria Naz. d'Arte Moderna e Cont. - Roma

225.499

163.427

-

-

-

1,38

Museo Nazionale del Bargello - Firenze

216.229

242.750

22.172

9,1%

9,75

0,89

Scavi e Teatro Antico di Ercolano

214.533

279.354

19.876

7,1%

10,79

0,77

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il sottodimensionamento della performance italiana, che costituisce un primo indicatore dei risultati complessivi dell'applicazione della legge Ronchey, deve essere interpretato anche alla luce di fattori non direttamente collegati con le caratteristiche e le qualità dei concessionari.

Una prima differenza rispetto agli esempi internazionali considerati riguarda ad esempio i bacini di utenza, che all'estero sono molto più concentrati: nel 2007-08 lo Smithsonian ha accolto 24 milioni di visitatori, il Louvre 8,2; Tate ne ha attirati 7,7, il Met e il British più di 4; la National Gallery di Londra 3,9, il MoMA, il Victoria&Albert e il Prado 2,6 milioni.

Sono poi diverse le dimensioni economiche, organizzative e infrastrutturali delle istituzioni che ospitano i punti vendita: il Getty Museum nel 2007-08 ha speso 239 milioni di euro, meno della metà dello Smithsonian (arrivato a 742), ma più dei 219 gestiti dal Met, mentre il MoMA ha impiegato per la gestione ordinaria più di 130 milioni di euro, la Tate 115, il Louvre quasi 180 e il Poumpidou 114; la National Gallery e il sistema Guggenheim non sono scesi sotto i 40.

L'abbondanza di risorse consente di mantenere strutture organizzative imponenti (1.334 persone al Centre Pompidou, 1.146 al British, 2.090 al Louvre, 1.175 alla Tate, 2.500 al Met, 987 al V&A, 834 al Moma, 787 nei Guggenheim) e dotate di profili professionali molto specializzati: la divisione Merchandising del Met, commessi inclusi, coinvolge 510 persone, quello del Moma 100, quello del British 118.

 

Tabella 3. Dati istituzioni internazionali (Rielaborazioni - Annual reports)

Istituzione/anno

Visitatori

Costi operativi (000 )*

Staff

 Smithsonian Institution (2007-08)

24.000.000

742

6.000

 Louvre (2007)

8.259.978

173

2.090

 Tate (2007-08)

7.708.140

115

1.175**

 Centre Pompidou (2006)

5.133.000

114

1.334

 British Museum (2007-08)

4.903.000

105

1.146

 Metropolitan (2007-08)

4.450.000

219

2.500

 National Gallery (2007-08)

3.900.000

41

455

 Guggenheim Museum (2007)

2.700.000

44

792

 Victoria&Albert Museum (2007-08)

2.620.000

89

987**

 MoMA (2007-08)

2.600.000

132

834***

 Getty Center + Museum (2007-08)

1.600.000

239

1.816

* Considerato il cambio medio nel periodo aprile 2007 - marzo 2008 (anno contabile per i report considerati).

** Personale misurato con il sistema Equivalente a Tempo Pieno.

*** Dato 2006.

 

Altri elementi sono invece più direttamente connessi alla gestione specifica dei rapporti con le attività di servizio che nelle principali istituzioni internazionali:

a) non sono quasi mai date in concessione (ad eccezione del caso spagnolo, dove Aldeasa opera in regime di semimonopolio) e di quello francese, dove opera un soggetto di origine pubblica come RMN.

b) operano formalmente con margini bassi, o incorporano quote maggiori dei costi generali dell'istituzione: a fronte dei 75.554.000 dollari, pari a 53,3 milioni di euro incassati nel 2007/08 dalla divisione Merchandising, i contabili del Met hanno postato tra le corrispondenti spese 76.990.000 dollari di cost of sales and expenses, pari a 54,2 milioni di euro. Ciò significa che la perdita ante imposte della divisione è stata pari a circa 1 milione di euro, corrispondente allo 0,5% circa del fatturato complessivo. Gli utili ante imposte di British Museum Company, la società che gestisce i punti vendita del museo britannico, (considerato uno dei best case europei) si attesta intorno al 2,3% del fatturato, laddove la corrispondente divisione del Moma (il best case statunitense, nel 2007/08 ha incassato 40,1 milioni di euro a fronte di 35,7 di spese corrispondenti, con utili ante imposte pari al 4,2% del fatturato, un dato molto più alto della media). Gli utili, piuttosto modesti, incamerati nelle attività di store management (che includono tutto il publishing, anche questo gestito in house), denotano comunque una notevole attenzione al tema, posto che i punti vendita all'estero assolvono, prima di tutto, funzioni informative e promozionali, identitarie, comunicative, educative e didattiche.

c) sono considerati un servizio indispensabile, assolutamente centrale nelle politiche di marketing strategico, che pertanto è gestito con obiettivi economici minimi (anche in perdita): il giudizio sulla qualità della visita è sempre più associato a quella degli oggetti che possono perpetuarne e comunicarne il ricordo.

Di qui la scelta generalizzata di gestire internamente tali attività, investendo risorse cospicue, formando personale estremamente specializzato e contando su un mercato del lavoro maturo e ben strutturato.

In conseguenza di queste scelte, le istituzioni internazionali attuano politiche molto attente e consapevoli di gestione dei punti vendita, che negli ultimi anni hanno puntato a:

- una moltiplicazione dei punti vendita interni (il Met ne ha circa 15 - di cui 10 aperti tutto l’anno e altri a rotazione in collegamento con le mostre più importanti - la National Gallery di Londra e Tate Modern 3, il British 4, il Moma 3, il Louvre 4) ed esterni (il Met ne ha 6 negli Stati Uniti e 17 in altri paesi);

- una notevole attenzione alla multicanalità (licensing, franchising, vendite postali, all'ingrosso e on-line);

- forti investimenti nei layout dei punti vendita, nelle tecniche di visual merchandising, nella formazione del personale e nelle attività di back-office (legale, selezione fornitori, direzione artistica), con rapporti assai stretti con il personale scientifico (i curatori sono sempre coinvolti in varie fasi dei processi di ideazione e produzione);

- una revisione degli assortimenti (dai 3.500 dei grandi punti venduta ai 1.500 dei medi), con particolare attenzione ai prodotti di fascia medio-bassa e al rapporto tra prodotti propri e di terzi (50-50);

- notevoli investimenti nello sviluppo di linee customized, legate alle collezioni interne;

- un riequilibrio dei rapporti tra prodotti librari e non librari (in termini di fatturati e presenze a catalogo i prodotti editoriali raramente fanno più del 45% del fatturato complessivo).

Da questo sintetico confronto internazionale emergono alcune indicazioni generali riguardo all'esperienza delle concessioni Ronchey in Italia. Come è già stato evidenziato, la legge ha avuto il merito di aprire la strada della partecipazione privata e dell'investimento in servizi commerciali per i visitatori. D'altra parte è piuttosto evidente che, a oltre dieci anni dalla sua introduzione, essa ha prodotto risultati gestionali quanto meno migliorabili, che non sembrano reggere il confronto con gli analoghi dati internazionali.

La valutazione dell'andamento delle attività di servizio e di concessione non può prescindere da un'attenta e puntuale considerazione degli effetti della relativa arretratezza del sistema paese sia riguardo alla gestione dei flussi turistici, sia riguardo alla consapevolezza da parte delle istituzioni di gestione del patrimonio del proprio effettivo ruolo economico. Ma ciò che sembra più evidente dal confronto internazionale non è tanto la dimensione quantitativa dei ricavi, quanto piuttosto il fatto che la scelta delle concessioni, la decisione di separare drasticamente la dimensione gestionale (sovente pubblica) da quella commerciale (affidata ai privati), non appare condivisa dalle principali istituzioni europee.

3. Gli assetti organizzativi e le modificazioni indotte nelle istituzioni di gestione

Quali sono stati i principali problemi istituzionali sollevati dall'applicazione della Ronchey? Certamente essa ha posto il problema della sussidiarietà "orizzontale" pubblico-privato, ma non è stata in grado di dare ad esso un'adeguata sistemazione regolativa.

L'ipotesi di fondo del legislatore, condivisa dai soggetti privati anche se non completamente esplicitata, è stata almeno duplice: da un lato che i servizi "aggiuntivi" rappresentassero un "di più", un'aggiunta solo marginalmente intersecata ai più classici lavori di valorizzazione e che, quindi, potesse concettualmente essere delegata o appaltata a concessionari privati senza alterare le attività tradizionali degli enti culturali; dall'altro, che la crescita delle "economie di mercato" avrebbe creato le condizioni per un vantaggio economico comune tale da consentire, nel tempo, una spontanea armonizzazione delle aree di frizione e sovrapposizione dei compiti.

Entrambe le ipotesi si sono rivelate sostanzialmente false.

La domanda di cultura è senza dubbio cresciuta, ma si è anche profondamente trasformata ed evoluta. Il pubblico dei musei è aumentato, ma non ovunque e non alle stesse condizioni. Il lavoro delle concessionarie, nel contesto di una generale arretratezza del sistema turistico del paese, si è rivelato inscindibile dalle politiche di comunicazione e valorizzazione complessivamente adottate dai musei. Ad esempio, soprattutto nei primi esperimenti, il rapporto di concessione non è sempre stato progettato e gestito garantendo condizioni (spazi, visibilità, autonomia) compatibili con la sostenibilità dei servizi offerti. Ancora oggi il relativo "rachitismo" dei bookshop museali italiani rispetto a quelli internazionali pare un'eredità della patologia originaria. Inoltre, il decollo dell'industria culturale (media, cinema, sistemi di riproduzione visiva e sonora, internet) e la corrispondente sofisticazione della domanda culturale, sottoposta ad una gamma ampia e sempre più competitiva di offerte alternative, ha imposto alla valorizzazione del patrimonio l'adozione di modelli di offerta sempre meno compatibili con la netta delimitazione di ruoli tra pubblico e privato ipotizzata dalla Ronchey. Si è dunque assistito, nel tempo, ad una progressiva estensione delle competenze assegnate ai concessionari, che, dalla mera esecuzione di servizi "accessori" e relativamente standardizzabili (ristorazione e librerie), hanno assunto compiti di natura assai più significativa sul piano culturale e strategico (visite guidate, supporti didattici, mostre temporanee, allestimenti ecc.), trasformando gli assetti gestionali delle istituzioni.

La pressione che questa evoluzione ha imposto agli enti pubblici di gestione del patrimonio (musei e soprintendenze) ha suscitato reazioni ed "anticorpi" che gli incentivi di natura economico-commerciale hanno potuto bilanciare solo in parte, anche perché il regime di gestione dei musei pubblici non ha consentito che i risultati economici ottenuti dalle singole amministrazioni si traducessero in effettivi incentivi per i funzionari o per i loro progetti operativi [7].

Un segnale evidente della reattività e della sostanziale reciproca chiusura delle due controparti è dato dalle condizioni frammentate e rarefatte del dibattito comune, troppo spesso avvelenato da una contrapposizione culturale e ideologica che ha impedito uno scambio e una crescita reciproca delle competenze. Differenze importanti, non solo lessicali ma anche concettuali e valoriali, hanno separato il mondo del pubblico dal mondo del privato, il mondo dell'economia da quello dei beni culturali. Tali differenze, che avrebbero potuto confluire in un arricchimento bilaterale delle competenze, si sono per diversi motivi fossilizzate in giudizi e pregiudizi [8]. Pregiudizi di origine "economica", che hanno talvolta consentito ai privati un uso spregiudicato o qualitativamente inadeguato del patrimonio; simmetriche rigidità nel campo della tradizione "beniculturalista", che hanno costituito alibi per il mantenimento di un sostanziale disinteresse per i processi di natura più commerciale e le loro sofisticazioni. Non sono mancati casi in cui, soprattutto nei primi esercizi, la concessione è stata vissuta come la possibilità di scaricare su terzi privati l'onere di servizi percepiti come inessenziali e indegni della pratica culturale di gestione del patrimonio. In seguito, con il maturare di una maggiore consapevolezza della rilevanza di questi servizi, le istituzioni, strutturalmente sotto-staffate, si sono scontrate con una crescente scarsità di competenze e di risorse umane qualificate da impegnare su questi fronti.

Insomma, oggi, la cooperazione tra pubblico e privato, inizialmente pensata come lo sfondo naturale del dettato legislativo, costituisce piuttosto un orizzonte cui tendere, un traguardo ambizioso, e non ancora raggiunto, per la modernizzazione del settore.

Questo non significa che ogni responsabilità per il mancato raggiungimento del risultato sia da imputarsi alla legge Ronchey. Piuttosto essa si è trovata "sola" a reggere un fronte tanto complesso, con la compagnia indiretta di leggi concepite per scopi più generali, i cui effetti hanno da un lato rinforzato la netta separazione tra pubblico e privato (le leggi sugli appalti Bassanini) e dall'altro reso meno chiari i canali gerarchici di governo delle istituzioni statali di gestione (riforma del titolo V della Costituzione). Anche il fondamentale tentativo di aprire il sistema all'istituto delle Fondazioni (pure o di partecipazione), intese come "contenitori" dell'interrelazione tra pubblico e privato, non è riuscito a dirimere le ambiguità di fondo che hanno minato l'intero percorso e vincolato gravemente il processo di formazione delle competenze nell'intero comparto. L'evidenza suggerisce piuttosto che la frontiera aperta per ragioni di opportunità economica dalla Ronchey ha avviato un sentiero di trasformazione caratterizzato da complessità e resilienze ben più articolate di quelle automaticamente risolvibili da incentivi economici la cui applicabilità è ancora in forse; un cammino ad oggi ancora incompiuto e quanto mai nevralgico per la qualità con cui la presenza del patrimonio artistico si istituirà nella società contemporanea.

Ciò che a mio parere è importante rilevare è che ogni modificazione gestionale nel lungo periodo si traduce in una modificazione istituzionale. Questo è forse il risultato più rilevante indotto, sul piano istituzionale, dalla sperimentazione Ronchey. La presenza delle concessionarie non si è aggiunta al mondo della gestione pubblica del patrimonio senza nulla cambiare. Al contrario, la loro azione, che per oltre quindici anni si è confrontata con la modificazione dei gusti e delle propensioni alla fruizione culturale, ha contribuito alla trasformazione delle attese da parte del pubblico, alla crescita della rilevanza del patrimonio italiano nella consapevolezza nazionale e internazionale e ha progressivamente indotto una modificazione della sostanza operativa, organizzativa e, infine, istituzionale degli enti pubblici di gestione, Soprintendenze in testa.

Questa trasformazione chiede di essere vista, concettualizzata, pensata e se possibile progettata, non negata, trascurata o assunta come un dato ineluttabile di condanna della gestione pubblicistica o, alternativamente, privatistica del patrimonio.

Le evidenze di ricerca in proposito sono piuttosto rarefatte: come sono mutati gli enti pubblici di gestione del patrimonio in seguito alla Ronchey? Come sono cambiate non tanto le loro attribuzioni formali, che plausibilmente sono rimaste costanti al netto di interventi legislativi di carattere generale, ma le loro competenze effettive: come si sono evolute le loro pratiche? Sono ancora rispondenti alle istanze di tutela e gestione presenti nella contemporaneità?

Domande di questo genere suggeriscono l'esigenza di un percorso di analisi e pensiero che oggi non è ancora neppure avviato.

Le questioni di fondo sono diverse:

A. La prima può essere descritta nei termini della sempre più evidente "non univocità" dei fini delle istituzioni di gestione del patrimonio. Non solo per l'estrema varietà di situazioni e condizioni operative che le caratterizzano a seconda delle dimensioni dei plessi, della loro estensione e articolazione territoriale (la differenza più lampante è data dalla disomogeneità tra le dinamiche che si generano nei siti archeologici e quelle proprie dei musei tradizionali), degli spazi fisici che li contraddistinguono e dalle loro esigenze di infrastrutturazione, delle reciproche interferenze tra gli spazi di servizio e le attività di tutela e conservazione. La principale e strutturale "non univocità" è determinata dalla sostanziale multidimensionalità del valore generato da tali istituzioni che - per ovvie ragioni di redditività - non rispondono in modo esclusivo né alle istanze di "azionisti" e investitori, quindi ai vincoli imposti ad una produzione di valore economico finanziario, né - per ragioni di limiti alle risorse pubbliche - alle sole istanze pubblicistiche (relative alla qualità della cittadinanza): rispondono piuttosto alla somma di richieste provenienti da una molteplicità di portatori di interesse che sono simultaneamente di natura pubblica (enti pubblici in rappresentanza degli interessi dei cittadini), di natura privata (visitatori), di natura scientifica e professionale (esperti e critici). Tali istanze possono anche determinare la presenza di valutazioni economiche dei risultati ottenuti (per esempio gli indotti generati dalle risorse impiegate nelle istituzioni di gestione), ma certamente impongono anche valutazioni di carattere qualitativo, culturale, scientifico, identitario. Questo significa che, per natura, queste istituzioni sono "ibride", portatrici di logiche simultaneamente pubblicistiche e privatistiche e che ogni determinazione preventiva e regolativa delle condizioni di tale ibridazione rischia di forzare le condizioni effettive di negoziazione e quindi contrastare la distribuzione più efficiente delle risorse.

B. La seconda riguarda la nozione di "imprenditorialità culturale" che, nello specifico delle istituzioni di gestione del patrimonio, consiste nella capacità, non sostituibile, di governo strategico ed operativo di istituzioni destinate a negoziare le loro risorse, la loro sostenibilità e il loro sviluppo su una molteplicità di tavoli che trasferiscono istanze potenzialmente contraddittorie. La presenza necessaria di una dimensione imprenditoriale nel governo delle imprese di gestione del patrimonio non deve ovviamente essere letta come una sostanziale privatizzazione della missione delle stesse, ma piuttosto come l'unico vero mezzo per mantenerle all'interno di un alveo pubblicistico in presenza di una trasformazione non reversibile del welfare state e delle logiche di trasferimento dei fondi pubblici tenendo conto di rapporti costo/beneficio. Questa prospettiva implica che l'istituzione culturale, coerentemente con quanto accade in molte esperienze internazionali, ha proprio il dovere di governare tutte le leve di relazione con il pubblico, comprese le attività definite sotto il riduttivo capitolo di "servizi aggiuntivi", e quindi molte delle attività attualmente gestite in regime concessorio, in quanto non periferiche e irrilevanti, ma, al contrario, elementi centrali e strategici per la qualità complessiva dell'offerta culturale. Ancora una volta, questo non significa che tutto debba essere fatto "all'interno", in una logica di completa integrazione verticale. Al contrario, questo è il principio in nome del quale è possibile concepire la più ampia gamma di decentramenti e outsourcing, purché ovviamente questo non implichi una sostanziale cessione di sovranità e di controllo nella relazione con i "mercati" di riferimento.

C. La terza riguarda quindi i modi con cui condurre l'inevitabile ricorso a collaborazioni esterne, con partner prevalentemente privati, ma non solo e non necessariamente (vale ad esempio anche per le università). Proprio perché interessano persone e sistemi di rappresentanza diversi tra loro, le istituzioni culturali ereditano una struttura di potere fortemente stratificata: il direttore o presidente di un museo, l'imprenditore culturale, è chiamato a tener conto delle interferenze nella gestione di una molteplicità di interlocutori legittimamente interessati (ministeri, assessorati, sponsor, sindacati, visitatori ecc.). La dimensione imprenditoriale del governo dell'istituzione culturale consiste appunto nel mantenere un bilanciamento nei confronti di queste spinte e una sufficiente indipendenza per la progettazione culturale. La concessione di attività che si estendono dai servizi di accoglienza e biglietteria fino alla produzione di mostre incide nel processo in modo particolare: essa non si configura, infatti, come un'acquisizione puntuale di subforniture, ma come una delega di sovranità su elementi strategici per i processi di produzione del valore. In questa prospettiva il sistema delle concessioni mostra la sua più sostanziale problematicità. Una problematicità che non viene risolta ma se mai accentuata dalla prospettiva ripetutamente celebrata delle concessioni in global service. Non è infatti immaginabile, data la strutturale incompletezza di qualunque contratto, che un'attività strategica in un processo imprenditoriale possa essere data in appalto. O l'esternalizzazione è fortemente controllata nel merito, o il percorso di outsourcing si trasforma istituzionalmente in un partenariato o in una struttura a rete. La concessione, in particolare nella prospettiva del global service non è né l'uno né l'altro, ma piuttosto assomiglia ad una soluzione di abdicazione rispetto a competenze centrali da parte degli enti pubblici di gestione. Si tratta di una soluzione che potrebbe contrastare con le istanze di un'autentica modernizzazione del settore, o meglio di una soluzione di modernizzazione che appare in contrasto con la natura pubblico-privata del patrimonio culturale.

D. E' molto difficile immaginare privati forti in presenza di uno Stato debole: in tutti gli ambiti caratterizzati da un'ibridazione di funzioni pubbliche e private entrambi gli attori si rafforzano o si indeboliscono insieme e i poco soddisfacenti risultati operativi ottenuti dalle concessioni in Italia fino a questo momento, nella loro coerenza con la diffusa decadenza organizzativa delle istituzioni pubbliche di gestione del patrimonio, sono una buona testimonianza di questa antica regola. Anche rispetto a questo principio il regime delle concessioni, e a maggior ragione la sua forma radicalizzata nel global service, presenta elementi di forte problematicità. Il fatto che l'attività di contatto con il pubblico dei visitatori sia gestita in prevalenza dai concessionari implica che su di essi si concentri l'apprendimento determinato da questo contatto, la comprensione degli elementi che determinano il successo o l'insuccesso di un'offerta, la formazione delle competenze di relazione e le migliori risorse umane. Se il concetto di dipendenze intertemporali ha senso, questo comporta che i sentieri di apprendimento organizzativo delle due organizzazioni - appaltante e concessionario - saranno divergenti. La concessione non implica solo una cessione di sovranità nel breve termine, ma, nel lungo, una divergenza nelle competenze e, nello specifico, una concentrazione delle stesse nel privato e un impoverimento simmetrico nel pubblico. Una simile divergenza non potrà che rendere sempre più improbabile per le istituzioni pubbliche un ruolo di controllo, di garanzia, ma anche di supporto nei confronti di un mestiere e di un pubblico di cui ignoreranno le caratteristiche evolutive.

Questa deduzione non significa preconizzare il declino delle attività di valorizzazione del patrimonio in conseguenza della diffusione e dell'estensione dei contratti di concessione a società private. Significa solo suggerire che questa scelta rende irreversibile il processo, già ampliamente avviato, e a cui la Ronchey ha contribuito per la sua parte, di depauperamento delle competenze delle istituzioni pubbliche, la progressiva e non evitabile riduzione della loro capacità di proposizione culturale, l'incremento del differenziale di competenze tra i due contraenti e quindi la riduzione della capacità negoziale da parte del settore pubblico. In conseguenza di questo decadimento si registrerà plausibilmente un ulteriore decadimento delle relazioni pubblico-privato.

Una sezione importante, strategica del sistema di produzione del valore nella gestione del patrimonio è in questa logica completamente "catturata" da un solo insieme di portatori di interessi, quelli connessi al mercato privato della fruizione e dell'industria culturale. Viene così a cadere, per decisione regolativa, la natura "ibrida" delle istituzioni di gestione del patrimonio. E'possibile che nel breve termine questa soluzione possa determinare conseguenze "positive", ad esempio un maggior "orientamento al cliente" dei modelli di offerta e un conseguente incremento della redditività, ma nel lungo periodo la convivenza tra le due parti sarà probabilmente minata dalla forte asimmetria di competenze e di esperienze.

4. Ipotesi e suggerimenti

La relativa durezza con cui sono stati esposti i principi cui far riferimento per organizzare una futura possibile convergenza tra pubblico e privato nella gestione del patrimonio non implica una rinuncia alla collaborazione con il privato, o tantomeno - prospettiva impraticabile e non augurabile - un ritorno alla monolitica gestione pubblica della cultura e del patrimonio. Porre in modo non ambiguo le questioni di principio è coerente con l'esigenza di comprendere quali sentieri nella pratica possono utilmente essere sperimentati senza interrompere gli ingaggi e gli interessi che attualmente consentono al sistema di operare.

Troppo è cambiato in questi anni per immaginare apodittiche linee di difesa dei sistemi istituzionali del passato, non solo per la crescita di alcune realtà aziendali (o consortili) concessionarie, che hanno accumulato preziose esperienze e competenze di gestione, ma anche al processo di decentramento delle competenze che ha collocato il presidio delle attività di valorizzazione (che abbiamo visto essere assai poco distinguibili da quelle più generali di gestione) negli apparati amministrativi regionali.

Forse è possibile immaginare che vi possa essere, nel quadro di un orientamento prevalente alla concessione estesa, un sistema regolativo che preveda una marcata flessibilità nelle forme e negli strumenti contrattuali disponibili per gestire il decentramento.

Altri elementi non dipendono tanto dalla struttura regolativa, quanto dagli intenti di politica economica e culturale che si delineeranno in futuro: in particolare il rafforzamento delle competenze gestionali proprie delle istituzioni pubbliche di gestione del patrimonio, soprattutto nelle aree afferenti alla trasparenza, alla rendicontazione e all'ascolto dei mercati. Si tratta di un tema di tale rilevanza da poter essere solo accennato in questa sede, ma la sua declinazione plausibilmente potrà riguardare in modo privilegiato soprattutto i grandi plessi caratterizzati da quell'inizio di autogoverno e responsabilizzazione che corrisponde alle "autonomie". Queste istituzioni potrebbero in futuro essere oggetto di interventi formativi e di sperimentazioni nella relazione pubblico-privato capaci di tracciare un sentiero alternativo alla concessione trovando risposta più adeguata alla difficile alchimia che conduce alla costruzione di un forte mercato in un forte sistema di competenze pubbliche.

Note

[1] Nel dato, che rileva i servizi aggiuntivi di musei, monumenti e aree archeologiche statali, sono inclusi: bookshop e vendita gadget, caffetterie, ristoranti, servizi di prenotazione/prevendita, visite guidate, audioguide.

[2] I primi 5 siti museali e archeologici statali a pagamento coprono nel 2000 il 26% del totale dei visitatori; nel 2008 arrivano al 32% (elaborazione su dati Sistan). L'incremento dei visitatori nelle città d'arte è del 16% superiore a quello di altri centri minori (dato 2003-2006).

[3] Sono inclusi solo i bookshop e i negozi all'interno di musei, monumenti e aree archeologiche statali.

[4] Includendo gli incassi dei punti vendita attivati presso le istituzioni culturali degli enti locali, le private ed ecclesiastiche si può ipotizzare su base parametrica di raggiungere a fatica i 60 milioni di euro

[5] Le istituzioni culturali considerate nel 2003 MSA Retail Industry Report includono musei, biblioteche, giardini botanici, acquari, zoo e parchi negli Stati Uniti.

[6] Gli scarti e le varianze sono notevoli, posto che istituzioni gestite nella stessa città, dal medesimo concessionario, con pubblici simili, palesano valori diversi; ad esempio, lo store di Ercolano ha un conversion rate quasi quattro volte più alto di quello di Pompei. Il problema di fondo è che, di là dall'attendibilità dei dati, ogni negozio ha una storia particolare, che deve essere indagata in profondità.

[7] Un segnale in questa direzione è stato quello delle autonomie amministrative assegnate a plessi archeologici e poli museali di particolare importanza, ma la "timida" prudenza con cui l'iniziativa è stata condotta non ha prodotto finora adeguati risultati.

[8] Non ultima la sovrapposizione tra la complessa sussidiarietà pubblico - privato e l'ancor più critica sussidiarietà stato-regioni, accelerata dalla riforma del titolo V della Costituzione.

 

 



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