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Valorizzazione e dintorni

(nota a Consiglio di Stato, sez. VI, decisione 20 marzo - 3 aprile 2007, n. 1514)

di Girolamo Sciullo

Sommario: 1. I fatti e la vicenda processuale. - 2. Le questioni rilevanti: a) l'in house negli appalti e nei servizi pubblici relativi a beni culturali. - 3. (segue) b) la disciplina della valorizzazione in rapporto a quella degli appalti e dei servizi pubblici.

1. I fatti e la vicenda processuale

Zètema Progetto Cultura s.r.l., come si legge nel sito che la concerne [1], è "società partecipata al 100% dal comune di Roma" e opera "con modalità in house nel settore cultura". In particolare sono ad essa affidate, oltre alla gestione della rete dei musei civici, "l'attività di progettazione, manutenzione e conservazione, e catalogazione per conto della soprintendenza comunale".

Nel 2005, con la delibera n. 663 la giunta comunale di Roma approva il contratto di servizio 2005-07 fra il comune e la società, concernente "l'affidamento delle attività per la fornitura di servizi relativi (meglio, come specificato dall'art. 4 del contratto, "di servizi di supporto") alla progettazione, conservazione, manutenzione, documentazione e catalogazione dei beni culturali, mobili ed immobili, del comune di Roma" [2].

Contro tale delibera [3] propongono ricorso giurisdizionale talune imprese operanti nel settore del restauro e della conservazione dei beni culturali, lamentando il fatto che per effetto di essa il comune abbia proceduto all'affidamento diretto di una rilevante parte degli interventi di manutenzione ordinaria e di restauro nonché delle attività di progettazione di lavori relativi ai beni culturali dello stesso comune, in precedenza aggiudicati in esito a procedure di gara.

Con la sentenza 23 agosto 2006, n. 7373, il Tar Lazio, sez. II, accoglie il ricorso, affermando che il comune non poteva procedere all'affidamento diretto delle attività di progettazione, conservazione e manutenzione dei beni culturali dello stesso comune. Ciò sulla base dei seguenti argomenti:

a) l'art. 115, comma 3, lett. a), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 - si badi, nel testo ratione temporis applicabile e cioè nella versione precedente a quella sostituita dall'art. 2, comma 1, lett. hh), del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156 - consentiva l'affidamento diretto delle attività di valorizzazione, ma il relativo dato testuale non autorizzava a "concludere che l'affidamento in house ... copr[isse] anche quelle solo lato sensu ascrivibili alla valorizzazione e in realtà disciplinate da altre regole inderogabili, e ... dall'evidenza pubblica";

b) in particolare "è da escludere che, in difetto di fissazione dei livelli essenziali sulla qualità della valorizzazione, quest'ultima copra, sotto la generica dizione della conservazione, tutte le attività di progettazione e di restauro dei beni culturali, ossia di istituti che riguardano appalti pubblici di lavori e restano disciplinati dalle relative norme [all'epoca, dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 30" [4].

La sentenza viene (sul punto) confermata da Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514 [5]. Il giudice di appello reputa che Zètema possedesse i requisiti per l'affidamento in house dei servizi di valorizzazione oggetto della delibera contestata (tali sono considerati quelli di documentazione e di catalogazione), ma al contempo non ritiene che il comune potesse assegnare direttamente anche i lavori di progettazione, conservazione e manutenzione dei beni [6]:

a) per un verso, secondo il collegio, l'in house costituisce non un principio generale, ma un "principio derogatorio di carattere eccezionale" rispetto alle regole del diritto comunitario, che come tale non vincola il legislatore nazionale a prevederlo, sicché esso non trova applicazione nella disciplina italiana dei lavori pubblici, in particolare nel settore dei beni culturali, mancando una disposizione in tal senso;

b) per altro verso, pur rilevando che l'art. 115 del d.lg. 42/2004 (versione originaria) prevedeva forme di gestione dell'attività di valorizzazione relativa a beni culturali anche attraverso società in house, il giudice di appello esclude che queste potessero applicarsi alle attività di progettazione, conservazione e manutenzione di beni culturali affidate con la delibera comunale, dal momento che "tali attività non sono sicuramente ascrivibili alla valorizzazione" [7].

2. Le questioni rilevanti: a) l'in house negli appalti e nei servizi pubblici relativi a beni culturali

Due le questioni che le pronunce prospettano: la prima concerne l'applicabilità del principio dell'in house in tema di appalti e servizi pubblici relativi a beni culturali, la seconda, sempre con riferimento a detti beni, il 'regolamento di confini' fra la disciplina della valorizzazione e quella degli appalti e dei servizi pubblici. L'una questione, pur concernendo nel caso in esame i beni culturali, presenta un rilievo più ampio, investendo i limiti che incontra in generale il principio dell'in house, e come tale in questa sede non può essere considerata che per tratti salienti. L'altra, viceversa, concerne specificamente i beni culturali e si sostanzia nella perimetrazione del concetto di valorizzazione.

Le due questioni richiedono un esame distinto.

Muovendo dal presupposto che talune attività affidate dal comune di Roma a Zètema non rientrassero nell'area della valorizzazione dei beni culturali (ossia i lavori di progettazione, conservazione e manutenzione) ma fossero da ricondurre all'ambito dell'appalto pubblico di lavori, il giudice di primo grado (implicitamente) e quello di secondo grado (esplicitamente) hanno ritenuto non applicabile il principio dell'in house. In particolare il secondo non dubita che ricorressero i requisiti tradizionalmente richiesti dal giudice comunitario per l'invocabilità del principio, ossia il 'controllo analogo' (da parte del comune su Zètema) e il 'prevalente svolgimento dell'attività del controllato a favore del controllante' (ossia di Zètema rispetto al comune), ma considera come ostativa la mancanza di un'apposita norma nella disciplina italiana degli appalti pubblici che ne consentisse l'utilizzo.

Si tratta, come è stato sottolineato dalla generalità dei commentatori [8], di un nuovo requisito che il Consiglio introduce per l'applicabilità dell'in house, basandosi sul carattere "eccezionale" che il principio presenterebbe nell'ordinamento comunitario.

Non pochi, per la verità, sono i rilievi cui l'orientamento presta il fianco.

Nella giurisprudenza comunitaria il carattere eccezionale (o meglio rigoroso) è riferito propriamente ai (primi) due requisiti sopra indicati [9], ma, come si può desumere dagli orientamenti dello stesso giudice amministrativo, l'eccezionalità dei requisiti che devono ricorrere perché trovi applicazione un principio non si traduce nell'eccezionalità del principio in quanto tale [10].

L'in house, poi, nasce dal tentativo di comporre due principi, entrambi generali, quello di concorrenza e quello di auto-organizzazione degli enti pubblici, e la PA può considerarsi sottoposta al primo se ed in quanto decida di rivolgersi all'esterno della sua organizzazione per procurarsi beni o servizi per le sue necessità ovvero per fornire alla collettività servizi pubblici (ossia esternalizzando gli uni o gli altri) [11]. Sicché nell'ordinamento comunitario sembra delinearsi la "mera alternatività" tra l'affidamento a terzi, l'in house providing e il partenariato pubblico-privato [12].

Decisiva pare in particolare la seguente considerazione: l'in house providing è un istituto elaborato dalla Corte di giustizia, che ha proceduto alla sua formulazione e progressivo affinamento in relazione all'ordinamento comunitario. La sua dimensione è quindi, 'a tutto tondo', comunitaria.

Anche in ordine all'istituto pertanto il giudice nazionale incontra il vincolo costituito dalle previsioni dell'art. 234 del Trattato Ce, che vuole che tale giudice utilizzi il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per sciogliere le questioni interpretative che si pongano in ordine alle disposizioni oppure, come ha chiarito la stessa Corte, dei principi non scritti del diritto comunitario. Pertanto il giudice amministrativo italiano, quando ha reputato che fra i requisiti dell'in house dovesse ormai annoverarsi anche la espressa previsione di ammissibilità da parte del legislatore nazionale, non avrebbe potuto che limitarsi ad utilizzare il meccanismo del rinvio pregiudiziale, senza pervenire alla definizione della questione interpretativa rilevata.

Con ciò non si intende negare che sia nella possibilità del legislatore nazionale porre condizioni più restrittive (rispetto a quelle imposte dal diritto comunitario) o addirittura escludere l'operatività dell'in house [13]. A ben considerare, infatti, il suo intervento si risolverebbe nel definire i limiti di vigenza del principio di autorganizzazione dei soggetti pubblici (ferma restando naturalmente l'osservanza degli eventuali vincoli che si dovessero rinvenire al riguardo nel contesto costituzionale di riferimento). Ma si tratta appunto di una possibilità per il legislatore e non anche per il giudice.

3. (segue) b) la disciplina della valorizzazione in rapporto a quella degli appalti e dei servizi pubblici

Di più diretto interesse per la disciplina dei beni culturali è, come accennato, la seconda questione, relativa in sostanza alla perimetrazione dei concetto di valorizzazione. Anche in ordine ad essa quanto affermato dal giudice amministrativo (di entrambi i gradi) suscita dubbi, non tanto sulla soluzione accolta (le attività di progettazione, conservazione e manutenzione affidate dal comune di Roma a Zètema senz'altro andavano ricondotte alla disciplina degli appalti pubblici), quanto sull'iter logico seguito per pervenirvi. Non si può, invero, nascondere l'impressione di una certa difficoltà argomentativa riscontrabile nelle due pronunce.

Che la fissazione dei livelli essenziali sulla qualità della valorizzazione possa giocare un qualche ruolo nel definire l'ambito della nozione - come lascia intendere il Tar -, è seriamente dubitabile: i livelli essenziali stabiliscono standard al di sotto dei quali la valorizzazione non può essere condotta (cfr. art. 114, comma 3, d.lg. 42/2004), ma non concorrono a definirne il concetto, che invece si deduce dagli artt. 6 e 111 del Codice [14].

L'affermazione poi - del Consiglio di Stato - che le attività di progettazione, conservazione e manutenzione "non sono sicuramente ascrivibili alla valorizzazione" suscita l'incertezza di un confine definitorio non chiaramente tracciato, forse mobile a certe circostanze (peraltro non precisate), in ogni caso non motivato nella sua perentorietà.

Il fatto è che ambedue le prospettazioni muovono da un presupposto non condivisibile: l'omogeneità e quindi la raffrontabilità fra la nozione di attività di valorizzazione e quella di attività oggetto di appalti pubblici (di lavori, di forniture o di servizi). Viceversa i due concetti si muovono su livelli distinti, che li rendono non commisurabili.

Le attività di valorizzazione, sul piano concettuale, sono connesse alle attività di tutela. Valorizzazione e tutela descrivono le attività che si esplicano in ordine ai beni culturali (si trascurano la gestione e la fruizione che nel d.lg. 42/2004 non paiono avere autonomia rispetto alla prima [15]) essenzialmente a fini di un riparto di competenze che si fonda sulle disposizioni del nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione (artt. 117, commi 2 e 3, e 118, comma 3). Affermare quindi che una certa attività (ad es. di restauro) si colloca nell'area della valorizzazione o della tutela (cfr. Corte cost. n. 9/2004), significa anzitutto definire una competenza fra soggetti pubblici.

Con la nozione di attività oggetto di appalti pubblici ci si muove, viceversa, sul piano della disciplina giuridica delle ipotesi nelle quali i soggetti pubblici (precipuamente) ricorrono a terzi per l'acquisizione di beni o servizi oppure per l'esecuzione di opere di cui necessitano per il perseguimento dei fini assegnati dall'ordinamento. Sul piano concettuale, il rapporto predicabile per le attività oggetto di appalti pubblici è quello con le attività oggetto di servizi pubblici (in particolare fra le attività di appalto di servizi e quelle di concessione di servizi pubblici di cui all'art. 30 decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163).

Tutto ciò non esclude che fra la coppia valorizzazione/tutela e quella appalti pubblici/servizi pubblici si possano determinare delle interferenze sul piano della qualificazione e del regime giuridico.

Ciò accade, in primo luogo, quando il soggetto pubblico (fondamentalmente) per svolgere un'attività di valorizzazione o di tutela (si pensi, ad es., alla promozione, alla catalogazione o al restauro di un bene culturale) acquisisca da un terzo un opus, un facere o un dare. In questo caso non pare dubbio, pena la violazione del diritto comunitario, che, quale che sia la qualificazione in termini di valorizzazione o di tutela, trovi applicazione la disciplina degli appalti pubblici. Lo comprova la circostanza che il d.lg. 163/2006, sia pure dettando norme di specie, si occupi dei "contratti relativi ai beni culturali" (Capo II del Titolo IV) e dei "servizi culturali" (All. B e art. 20).

Lo stesso sarebbe da dirsi allorché le attività di valorizzazione o di tutela si traducano nell'erogazione di servizi pubblici a favore della collettività. In questo caso dovrebbe applicarsi, in linea di principio, la disciplina ora contenuta nell'art. 30, comma 3, del d.lg. 163/2006. Sennonché l'art. 115 del d.lg. 42/2004, nel normare le "forme di gestione" dei beni culturali ovvero le "attività e [i] servizi pubblici di valorizzazione", come più chiaramente recita l'art. 17, comma 3, lett. dd), del d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233 (Regolamento di riorganizzazione del Mbac), stabilisce un regime specifico per le attività di valorizzazione che si realizzano nelle forme del servizio pubblico.

Tornando al caso sottoposto all'esame del giudice amministrativo, non pare dubbio che i lavori di progettazione, conservazione e manutenzione affidati dal comune a Zètema fossero da qualificarsi in termini di appalto di servizi (e non di concessione di servizio pubblico), trattandosi di attività da prestare al comune di Roma, sul quale inoltre gravava il pagamento del corrispettivo (cfr. punto 1 della delibera 663/2005) [16]. Lo stesso peraltro andava detto per le attività di documentazione e di catalogazione, dal giudice di appello ritenute attività di valorizzazione e in quanto tali considerate suscettibili di affidamento in house (ai sensi dell'originario art. 115 del d.lg. 42/2004). In realtà anch'esse erano da qualificarsi, in quanto affidate dal comune a Zètema, oggetto di un appalto di servizi e pertanto potevano ben reputarsi - ma al pari di quelle di progettazione, conservazione e manutenzione - affidabili in house, ma a condizione di ritenere in linea di principio ammissibile tale figura per gli appalti pubblici nell'ordinamento italiano.

 

 

Note

[1] www.zetema.it.

[2] La delibera è reperibile nel sito www.comune.roma.it.

[3] Il ricorso è proposto anche contro la precedente delibera n. 286/2005 con la quale il Consiglio comunale aveva acquisito l'intero capitale di Zètema. Si prescinde dal suo esame perché non rilevante ai fini dell'analisi che si intende condurre.

[4] Punto 5 in diritto. La sentenza è annotata da P. Michiara su questa stessa Rivista, n. 1/2007, e da M.R. Famiglietti, in Gior. dir. amm., 2007, 43 ss.

[5] La pronuncia è commentata da C. Lacava, in Gior. dir. amm., 2007, 844 ss.

[6] Punti 1 e 5 in diritto.

[7] Punto 5 in diritto.

[8] Cfr., ad es., C. Lacava, Occorre, cit., 847, F. Bucchi, La giurisprudenza sull'in house dalla sentenza Teckal a Zètema, in Ed. e terr., 2007, n. 27, 21.

[9] Cfr. sentenze 11 gennaio 2005, causa C-23/03, Stadt Halle e RPL Lochau, punto 46, 13 ottobre 2005, causa C-458/03, Parking Brixen, punto 63, e 6 aprile 2006, causa C-410-04, ANAV, punto 26.

[10] Cfr. Cons. St., sez. V, 23 ottobre 2007, n. 5587, in www.giustamm.it, 2007, n. 10, punto 82: "Al riguardo, la Sezione ritiene che il necessario rigore con cui devono essere accertati i concreti presupposti del legittimo affidamento ad una società mista non significhi affatto che il modulo societario debba essere considerato "eccezionale", o consentito in presenza di particolari situazioni, trattandosi di scelta riconducibile all'autonomia organizzativa del singolo ente pubblico".

[11] Sul punto, e anche per un inquadramento generale dell'istituto, cfr. G. Giovagnoli, Gli affidamenti in house tra le lacune del codice e recenti interventi legislativi, in www.giustizia-amministrativa.it, R. Garofoli, L'affidamento diretto a società in house e a società a capitale misto: ricognizione degli indirizzi sul tappeto, in www.giustamm.it, 2007, n. 11.

[12] Cfr. ancora Cons. St., Sez. V, n. 5597/2007, cit., punto 103.

[13] E' quanto intenderebbe fare il ddl n. 772 della XV Legislatura (c.d. Lanzillotta) a proposito dei servizi pubblici locali e (forse) ha fatto il d.lg. 12 aprile 2006, n. 163, all'art. 53, con riguardo ai lavori pubblici (ma non anche peraltro ai servizi e alle forniture), cfr. R. Giovagnoli, Gli affidamenti, cit. par. 5.2.4).

[14] Sul punto cfr. C. Barbati, Art. 6 e Art. 111, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, il Mulino, Bologna 2007, 74 ss. e 431ss.

[15] Cfr. C. Barbati, Art. 6, cit., 78 e G. Sciullo, Le funzioni, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, il Mulino, Bologna 2006, 43 s.

[16] Per gli elementi distintivi fra appalto pubblico di servizi e concessione di servizio pubblico cfr. la comunicazione interpretativa della Commissione delle comunità europee del 12 aprile 2000.

 



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