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Considerazioni sulla nozione di valorizzazione dei beni culturali

(nota a Tar Lazio, Roma, sez. II, 23 agosto 2006, n. 7373)

di Paolo Michiara

Sommario: 1. Premessa: la trasparenza nei servizi di interesse generale. - 2. La difficile apertura alla concorrenza dei servizi relativi ai beni culturali. - 3. Il rilievo economico del servizio (pubblico) di valorizzazione. - 4. La delimitazione della nozione di valorizzazione dei beni culturali. - 5. Circa il difficile confine tra pubblici servizi e meri servizi. - 6. Conclusioni.

1. Premessa: la trasparenza nei servizi di interesse generale

E' opportuno, prima di procedere all'analisi delle diverse questioni affrontate dall'interessante sentenza del Tar Lazio che si commenta ed al fine di meglio comprendere la complessità dei temi, procedere ad una seppur breve descrizione delle vicende problematiche e quindi anche dei fatti dai quali è sorta la controversia.

La sentenza che si esamina non è infatti che l'ultima di una serie di pronunce aventi ad oggetto l'affidamento, da parte del comune di Roma ed in favore di una medesima società "mista" dallo stesso comune "diretta" (società denominata Zètema Progetto Cultura a r.l.), di servizi di vario tipo e natura inerenti ai beni culturali.

Si vedano, a questo proposito, le precedenti decisioni e cioè: a) Tar Lazio, Roma, sez. II, 17 novembre 2005, n. 11471, commentata in questa Rivista [1], nella quale sono analizzate, fra le altre cose, alcune questioni relative alle società miste degli enti locali, alla specialità della disciplina inerenti i beni culturali e alla "messa in concorrenza" dei servizi di supporto; b) Tar Lazio, Roma, sez. II, 24 febbraio 2006, n. 1385, che affronta - senza deciderle nel merito - svariate censure formulate da società operanti nel settore del restauro avverso l'affidamento, non preceduto da selezione concorsuale, di servizi e lavori riguardanti la valorizzazione, il restauro, la conservazione ed altro di beni culturali.

Nel paragrafo successivo si darà pertanto conto di alcuni fatti e circostanze, desumibili dalle sentenze in questione, che possono essere considerati propedeutici all'analisi giuridica della decisione che poi si commenterà.

Le parti sono infatti (grosso modo) coincidenti e l'oggetto del contendere, pur apparentemente diversificato e "sfaccettato", è riconducibile alla fin fine ad un unico aspetto problematico, non ancora risolto neppure a livello comunitario, e cioè con quali modalità attuare i principi di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza [2] nell'ambito dei servizi di interesse generale tradizionalmente definiti di natura non economica [3].

Dalla ricostruzione dei fatti, estrapolati dalle diverse sentenze, troverà altresì conferma il convincimento - ormai diffuso - secondo il quale lo strumento societario, nell'ambito dei servizi in questione, risulta ora di non facile praticabilità, essendo in crisi, più in generale, il modello del partenariato pubblico-privato [4].

Si fa quindi presente, per maggior precisione, come gli affidamenti dei servizi in questione siano avvenuti prima della riforma del Codice dei beni culturali (decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156) e pertanto fossero "governati" da una versione dell'art. 115 contente ancora l'espressa previsione, fra le forme di gestione, della società mista. Il caso che si esamina riguarda inoltre, come si vedrà, una società inizialmente "mista" ma poi divenuta pubblica nella sua interezza (100% del capitale sociale).

2. La difficile apertura alla concorrenza dei servizi relativi ai beni culturali

Il comune di Roma, a partire dal 2000, ha iniziato ad affidare a Zètema Progetto Cultura a r.l. - società mista parzialmente partecipata dall'amministrazione comunale a seguito dell'acquisizione del 75% del capitale sociale - un complesso di lavori e servizi aventi ad oggetto la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali della città capitolina.

In questo modo, a detta di una svariata serie di possibili competitori alternativi al socio privato partner della società mista, sarebbe stato alterato, ridotto e falsato il mercato di tutti quei soggetti che, a diverso titolo, offrono le loro prestazioni nell'ambito della gestione dei beni culturali.

In relazione alle predette censure (si pensi anche al fatto che non è stato costituita una società ad hoc, con le conseguenti garanzie del caso, ma che il comune ha reso parzialmente "pubblica" una società mediante il diretto acquisto del pacchetto di maggioranza), è stato quindi formulato un esposto all'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato la quale, con propria nota del 29 agosto 2005, ha invitato il comune ad adottare idonee iniziative per "rimettere in concorrenza le attività di manutenzione ordinaria e di restauro dei beni culturali, anche mediante una procedura ad evidenza pubblica".

Nel novembre 2005 il comune di Roma, probabilmente per cercare di rientrare nell'alveo delle società in house, ha provveduto, con due differenti e successive delibere, in primo luogo ad acquisire la quota residua del capitale sociale di Zètema Progetto Cultura a r.l. (pari al 25% del capitale medesimo) e ad approvare, in secondo luogo, un "corposo" e dettagliato contratto di servizio tra l'amministrazione Comunale e Zètema (oramai interamente pubblica).

Nel contratto di servizio, avente per oggetto in senso lato la valorizzazione dei beni culturali comunali, sono stati ripresi ed ampliati, nella sostanza, i precedenti affidamenti e sono state pertanto assegnate anche una serie di prestazioni (accessorie, di modesto rilievo economico) aventi ad oggetto la "fornitura" dei servizi di progettazione, conservazione, restauro, manutenzione, documentazione e catalogazione dei beni culturali del comune medesimo.

Queste ultime delibere sono quindi state impugnate congiuntamente da imprese operanti nel settore del restauro, della conservazione dei beni culturali e della progettazione di opere pubbliche (le stesse imprese avevano promosso analoga impugnativa definita con la sentenza 1385/2006, citata, che ha rigettato le censure, senza entrare "nel merito", per una presunta inammissibilità del ricorso).

Le predette società, in particolare e questa volta "fruttuosamente", hanno ritenuto che l'amministrazione comunale avesse violato, con il proprio comportamento, la normativa nazionale e comunitaria in materia di appalti di lavori pubblici, i principi comunitari e nazionali in materia di evidenza pubblica e di libera concorrenza nonché la normativa dettata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (in specie per un'errata interpretazione del concetto di valorizzazione).

Il Tar Lazio ha quindi statuito, con la pronuncia, assai articolata, che si commenta, innanzitutto che il settore dei restauri e quello della valorizzazione e promozione dei beni culturali rientrano nei servizi a rilevanza economica, dal momento che per essi esiste, almeno potenzialmente, una redditività e, conseguentemente, una competizione sul libero mercato indipendentemente da forme di finanziamento pubblico delle attività che li caratterizzano. In tale prospettiva i servizi in questione dovrebbero essere assoggettati al principio di libera concorrenza.

L'Organo giudicante ha quindi rilevato che l'affidamento dei servizi pubblici in house, così come disciplinato dall'art. 113 comma 5, lett. c) del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 deve comunque avvenire, in base a quanto stabilito in quest'ultimo articolo, secondo le discipline di settore.

Con riferimento ai beni culturali, l'art. 115, comma 3, lett. a), del d.lg. 42/2004 prevede la possibilità di fare ricorso a tale forma di affidamento solamente nel caso di attività di "valorizzazione" dei beni medesimi. Valorizzazione che consisteva, ai sensi dell'art. 6, comma 1, del Codice dei beni culturali nel testo antecedente alle modifiche introdotte dai d.lg. 156/2006 e 157/2006, "nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso" e che comprende "anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale".

Secondo il Tar Lazio, dalla definizione predetta non può ritenersi che possano essere affidate direttamente, senza procedure di gara, anche attività disciplinate da altre norme inderogabili, e precisamente dalle regole dell'evidenza pubblica (Codice dei contratti pubblici, solamente in ragione della loro riconducibilità, in senso lato, alla valorizzazione.

Tale considerazione riguarda, in particolare, le attività di progettazione, conservazione e manutenzione, le quali, qualora non siano in senso stretto ascrivibili alla valorizzazione (ed è difficile ritenere, secondo la sentenza, che tutte le attività di progettazione e di restauro dei beni culturali possano esservi ricomprese sotto la generare definizione di "conservazione del patrimonio culturale" di cui all'art. 6, comma 1, d.lg. 42/2004), resterebbero disciplinate dalle norme sui lavori pubblici ad esse relative (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 30 e ora dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 [5].

Infine, il Tar Lazio ha affermato che non è legittimo procedere all'affidamento in house di lavori pubblici (prestazioni soggette alle regole dell'evidenza pubblica) "mascherandoli" da servizi; a ciò osterebbero le puntuali definizioni di cui all'art. 3, commi 7 e 10 del d.lg. 163/2006.

In tal senso è la complessa e articolata parte motivazionale della sentenza.

Per completezza espositiva, e per comprendere la problematicità della materia, si rileva come, con la precedente sentenza n. 11471/2005, il Tar Lazio fosse giunto, con riferimento proprio alla valorizzazione dei beni culturali, a conclusioni differenti rispetto a quelle oggetto di esame nel presente commento, affermando che i servizi inerenti ai beni culturali sono privi di rilevanza economica in ragione della specificità della materia e del fatto che per i servizi (pubblici) culturali non esiste un mercato concorrenziale.

Ebbene, dalla ricostruzione operata è agevole constatare come i fatti, i conflitti e le motivazioni esposte, ben lungi dal poter essere confinati nel ristretto settore della legislazione dei beni culturali [6], tocchino gran parte delle tematiche attualmente più dibattute anche nell'ambito del diritto pubblico e del diritto dell'economia.

Si pensi alla circostanza che, oltre al complesso tema della delimitazione del concetto di valorizzazione dei beni culturali, nelle questioni evidenziate emergono, con maggiore o minore chiarezza (sono comunque "presupposte"), le problematiche relative alle modalità di gestione dei servizi pubblici locali (la tipicità, il rapporto tra mere esternalizzazioni e forme di gestione, la "settorialità" ed altro) [7], alla enucleazione di una nozione comprensibile di servizi di interesse generale (economici o meno) [8], al difficile rapporto ed agli intrecci tra appalti di lavori e appalti di servizi e tra meri servizi e servizi pubblici, alla messa in concorrenza o meno delle attività altrimenti gestite in house [9] e, da ultimo, alla difficile "vocazione" delle società miste o interamente partecipate [10].

In questa sede, non essendo ovviamente possibile esaminare compiutamente neppure una delle predette questioni, ci si limiterà ad esporre alcune brevi considerazioni relative, specificatamente, al rilievo economico (o meno) dei servizi culturali, al concetto di valorizzazione dei beni pubblici e al rapporto tra pubblici servizi e meri servizi.

Il tutto limitando la disamina a quanto strettamente necessario per comprendere la portata e i punti critici della sentenza.

3. Il rilievo economico del servizio (pubblico) di valorizzazione

Si provvederà quindi ora ad esaminare, nel dettaglio, il punto della sentenza nella quale, diversamente dalla impostazione tradizionale (si pensi al fatto che la cultura era espressamente menzionata nell'art. 113-bis del d.lg. 267/2000), si definisce quale servizio a rilevanza economica quello inerente alla valorizzazione dei beni culturali [11].

La questione riveste una notevole importanza dal momento che, come è noto, l'attribuzione del rilievo economico comporta la necessaria applicazione di tutte le regole e dei principi, non solo comunitari, inerenti la libera concorrenza [12].

Il Collegio effettua, a tal proposito, due distinti ragionamenti.

In primo luogo formula un ragionamento "in negativo", evidenziando come l'economicità discenda dal fatto che il comune entri, mediante lo strumento societario (di per sé deputato ad attività aventi rilievo economico), in un mercato destinato per tale motivo a comprimersi, a "ridursi" [13].

Il fatto cioè che l'intervento diretto sia idoneo a "negare" e sottrarre ai soggetti operanti nel settore di riferimento (restauro, valorizzazione) la possibilità di accesso alla contrattazione con la p.a., è per la sentenza sufficiente per fondare (meglio sarebbe dire postulare) l'esistenza di un mercato, quindi di un mercato avente rilievo economico. L'economicità, in questo primo caso, è sganciata dai concetti di remuneratività e redditività.

In secondo luogo quindi la sentenza, come a voler "chiudere il cerchio" affrontando anche la problematica della redditività, precisa "che un servizio ha rilevanza economica quando s'innesta in un settore in cui esiste, perlomeno in potenza, una redditività e, quindi, una competizione sul libero mercato, indipendentemente da forme di finanziamento pubblico, più o meno cospicuo, dell'attività in questione".

Giova a tal proposito constatare come, in tal modo ed aderendo all'assunto, si arriverebbe a limitare fortemente (forse si negherebbe) la possibilità di considerare alcuni settori di rilievo non economico, posto che sono ben pochi - forse inesistenti - gli ambiti nei quali, anche attraverso ausili economici ed almeno "in potenza", non vi sia o non si possa creare un minimo di concorrenza e quindi, secondo il ragionamento della sentenza, un mercato [14].

Si osserva quindi come la sentenza, che asserisce di basarsi "sugli arresti della giurisprudenza comunitaria e nazionale", sia in realtà espressione non di un vero e proprio "arresto" ma della linea più radicale che tende, tanto a livello nazionale quanto a livello comunitario, ad accreditare una ben precisa tesi e cioè che vi sarebbe "economicità" ogni qual volta sia possibile, anche in via meramente potenziale, direttamente o indirettamente, promuovere una qualche forma di confronto concorrenziale.

In tal senso (linea "radicale") nel Libro verde sui servizi di interesse generale (pag. 14), si afferma che "per quanto riguarda la distinzione fra servizi di natura economica e servizi di natura non economica, ogni attività che implica l'offerta di beni e servizi su un dato mercato è un'attività economica. Pertanto i servizi economici e non economici possono coesistere all'interno dello stesso settore e talora possono essere forniti dallo stesso organismo. Inoltre, se da un lato può non esserci un mercato per la fornitura alla popolazione di particolari servizi, dall'altro potrebbe esserci un mercato a monte in cui le imprese contrattano con le autorità pubbliche per la fornitura di questi servizi. Per questi mercati a monte valgono le regole del mercato interno, della concorrenza e degli aiuti di stato".

Ebbene, è agevole constatare come, in base a questa tesi, vi sarebbe "rilievo economico" ogni volta in cui la pubblica amministrazione, avendo i relativi mezzi finanziari, sia in grado di offrire agli utenti dei servizi e intenda gestirli mediante soggetti terzi appositamente selezionati [15].

Sennonché questa linea non è tracciata in modo netto ed univoco neppure in ambito comunitario, tant'è che lo stesso Tar Lazio, con la precedente sentenza 17 novembre 2005, n. 11471 e proprio citando l'interpretazione che la Corte costituzionale aveva fornito del quadro comunitario di riferimento, aveva negato rilevanza economica ai servizi afferenti i beni culturali  [16]. La Corte di Giustizia Ce del resto ha sempre mantenuto sull'argomento una certa cautela e ha, per esempio, ammesso che potessero essere rilevanti, per la definizione della problematica in questione, anche altri indici, quali la presenza o meno di uno scopo lucrativo, l'assunzione dei rischi connessi all'attività e la sussistenza o meno di un finanziamento pubblico (Corte di Giustizia Ce, sentenza 22 maggio 2003, causa 18/2001) [17].

Si fa presente del resto che la sentenza che si commenta, non ponendosi problemi riguardanti la possibilità che il mercato e la libera competizione siano mezzi adeguati (o meno) per realizzare gli "obiettivi di interesse pubblico" sottesi alla disciplina di settore, sia più radicale anche della giurisprudenza nazionale che pure aveva riconosciuto la rilevanza economica di ambiti, quali i servizi socio-educativi, considerati invece tradizionalmente non economici [18].

Ma vi è di più. Una tesi che prescindesse totalmente, come avviene nel caso in questione, dal riferimento alle peculiarità delle singole materie [19] e dalla presenza o meno di un mercato "lucrativo", non terrebbe conto in realtà di quanto previsto anche dalle direttive comunitarie in materia di contrattualistica pubblica.

E' noto infatti che la direttiva 2004/18/CE (ed ancor prima la direttiva 92/50/CEE) conserva un allegato nel quale sono indicate delle materie, quali ad esempio i servizi culturali, i servizi relativi all'istruzione e i servizi sanitari, sottratte, per la loro peculiarità, all'applicazione dell'evidenza pubblica comunitaria e quindi al libero e pieno dispiegarsi del principio di concorrenza [20].

E' opportuno a questo punto chiarire come le considerazioni sopra riportate non valgano, di per sé, a negare o sminuire la portata della tesi - in sé corretta - che si è definita come "radicale" (è del resto più che ragionevole fornire un'interpretazione estensiva di mercato, che tenga per esempio conto anche dei "quasi mercati" [21]), ma servano invece essenzialmente a portare alla luce la problematicità della distinzione tra servizi economici e non economici.

Si rileva insomma come, nel momento in cui si è abbandonata la (pur problematica, ma comunque più agevole) distinzione tra servizi ed attività aventi o meno carattere industriale [22] e non si è potuto utilizzare un elenco di materie come fattore dirimente [23], si è iniziato un percorso che pare essere senza via d'uscita. L'effetto che ne deriva sarà, alla lunga, se non verrà operata un'inversione di tendenza, se non si darà per esempio un qualche rilievo alla specificità delle singole discipline ed al fatto che, per determinati servizi, più che di utenti - consumatori si dovrebbe parlare di cittadini titolari di diritti costituzionalmente garantiti [24], la progressiva e sostanziale eliminazione della stessa distinzione.

L'eliminazione della distinzione, a sua volta, avrebbe l'effetto, non desiderato ovviamente neppure in ambito comunitario, di assoggettare alle regole del Trattato e, più in generale, a tutti i principi relativi alla competizione ed ai mercati tradizionali (per esempio selezioni basate anche solo sul massimo ribasso e non sulla qualità e la consistenza delle proposte progettuali e dei proponenti), attività giuridicamente qualificate in funzione di interessi non economici, ma culturali, personali e sociali [25].

Ebbene, dovendo ora tracciare una prima sommaria conclusione e non essendo questa la sede per fornire vie d'uscita e soluzioni alla predetta possibile conseguenza indesiderata, si osserva quindi come le tendenze sopra evidenziate e la descrizione della valorizzazione dei beni culturali come attività avente rilievo economico conservino un evidente aspetto problematico. Se da un lato infatti la definizione ha l'effetto benefico di aprire un settore tradizionalmente chiuso (nonostante il pluralismo e la trasparenza siano da sempre fondamentali principi del Codice dei beni culturali e in particolare dell'art. 111) al confronto concorrenziale, dall'altro la stessa definizione potrebbe indurre alla promozione di un concetto di valorizzazione di tipo "commerciale".

In altre parole: si correrebbe il rischio di passare dall'economicità - intesa come corretto uso delle risorse [26] - di cui all'art. 111 del Codice, ad una concezione "consumistica" della predetta nozione e dell'idea stessa di cultura. Chi deve competere sui mercati aperti tenderà infatti, allo scopo di conseguire un lucro, ad accreditare forme di valorizzazione appunto di tipo mercantile, lontane dal concetto "alto" di cultura di cui all'art. 9 della Costituzione [27].

Si conviene pertanto con l'esigenza, avvertita ripetutamente in sede comunitaria, di fornire direttive più precise in grado di delimitare la nozione di servizio di interesse generale non economico [28]. Ciò allo scopo di permettere ad alcuni settori particolarmente delicati - ed essenziali per la tutela di diritti costituzionalmente garantiti - di crescere ed affermarsi, senza dover scontare gli effetti negativi dei mercati altamente e pienamente concorrenziali.

4. La delimitazione della nozione di valorizzazione dei beni culturali

Resta ora da esaminare la nozione di valorizzazione [29] e, in particolare, la delimitazione dell'attività che emerge dalla sentenza.

Secondo il Collegio la valorizzazione consiste in una attività essenzialmente rivolta alla promozione ed al sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale; la nozione non può esser dilatata, in via di mera interpretazione, fino a comprendere istituti di altre normative inderogabili. In particolare per il Collegio è da escludere che la nozione copra, sotto la generica dizione della conservazione, tutte le attività di progettazione e di restauro dei beni culturali, ossia di istituti che riguardano appalti pubblici di lavori e restano disciplinati dalle relative norme, individuabili nel corpo del d.lg. 30/2004.

Si è provveduto a porre in corsivo alcuni termini per evidenziare, subito e con riserva di ritornare sull'argomento, come si adotti un concetto "ristretto" (e in sé corretto) di valorizzazione, concetto, come si vedrà, compatibile con la predetta attribuzione del rilievo economico all'attività stessa.

Si ritiene quindi opportuno, per analizzare l'assunto e procedendo, per brevità, solo dagli interventi normativi più recenti, premettere quanto segue.

L'art. 152, comma 3, lett. a) del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, articolo riguardante il concetto di valorizzazione, evidenziava come le funzioni ed i compiti alla stessa riferibili comprendessero, fra le altre, le attività concernenti il "miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza, integrità, e valore". Nella lett. g) del medesimo comma si parlava anche di recupero e restauro (anche se in collegamento all'organizzazione di eventi culturali). Il miglioramento e la conservazione in questione sembravano a loro volta coincidere con la manutenzione, la sicurezza e l'integrità dei beni, indicati come aspetti della gestione, di cui all'art. 150, comma 4, lett. b) del medesimo decreto [30].

Sembra pertanto evincibile da quanto sopra che, nell'assetto del d.lg. 112/1998, il miglioramento della conservazione fisica dei beni, di cui all'art. 152 (riguardante la valorizzazione), includesse, almeno in parte, anche le attività di restauro e manutenzione.

L'attuale Codice dei beni culturali quindi, ponendosi sull'argomento "in una sorta di ideale corrispondenza con l'art. 152" cit. [31], precisa come la valorizzazione consista, fra le altre cose, nella messa a disposizione delle risorse e competenze tecniche/finanziarie "finalizzate all'esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all'articolo 6", articolo dove si parla ancora espressamene di conservazione. L'art. 6, nella versione introdotta a seguito dei d.lg. 156 e 157/2006, accenna inoltre anche alla riqualificazione degli immobili.

E' pertanto forse possibile ritenere, in base alle considerazioni sopra riportate, come sia ancor oggi utilizzabile, almeno in relazione alla gestione, una nozione di valorizzazione un po' più ampia di quella portata dalla sentenza [32], nozione all'interno della quale potrebbe "in astratto" rientrare anche l'espletamento di lavori manutentivi accessori (alle gestione) e di modesta entità [33].

Ciò a condizione di non voler spostare l'accento sul concetto di "promozione" di cui all'art. 6 del Codice dei beni culturali, a condizione cioè di non ritenere che il soggetto deputato allo svolgimento della valorizzazione sia legittimato ad effettuare solo ed esclusivamente la promozione degli interventi di conservazione e non anche, seppur attraverso personale qualificato, alcune limitate prestazioni (sussidiarie) di tipo conservativo. La tesi in questione, che fa leva su una netta differenziazione tra tutela (all'interno della quale sono situati nel codice gli interventi conservativi) e valorizzazione, è stata di recente sostenuta proprio in relazione al caso "Zètema" [34].

Sennonché un'interpretazione in tal senso, corretta in quanto basata sul tenore letterale del testo normativo, potrebbe essere considerata, ragionando ora anche in termini "evolutivi" e de iure condendo, non interamente soddisfacente(specialmente nel caso in cui le attività manutentive siano, come si vedrà al prossimo paragrafo, di modesta entità, accessorie e affidate ad un soggetto interamente pubblico che cura la gestione del bene). Il Capo II (Titolo II) del Codice del resto, sotto la generale indicazione dei "Principi della valorizzazione", tratta congiuntamente delle attività di valorizzazione, delle forme di gestione e dei soggetti tenuti ad attuare i principi del capo II [35].

Si può, di conseguenza, soffermarsi ora sul motivo e sui presupposti in base ai quali sia stata adottata una visione "rigorosa" del concetto di valorizzazione. Le ragioni di interesse della sentenza stanno infatti non tanto nella decisione conclusiva, di per sé - per le considerazioni esposte - tendenzialmente corretta, ma nel percorso effettuato ed in particolar modo nel collegamento intercorrente tra le premesse (rilievo economico dell'attività) e le conclusioni.

Allo scopo si rende opportuno riportare una riflessione, minima ed introduttiva, circa il rapporto ed il difficile confine tra meri servizi e pubblici servizi.

5. Circa il difficile confine tra pubblici servizi e meri servizi

Gli enti pubblici locali, in base ad una concezione radicale ed estrema dei principi di sussidiarietà e tipicità, principi che sembrerebbero costituire il presupposto logico della sentenza, hanno facoltà di costituire società miste [36], nei confronti delle quali procedere ad affidamenti diretti (e prescindendo dalla problematica delle società meramente strumentali), esclusivamente per la gestione di pubblici servizi [37].

Per pubblico servizio [38], come è noto come è noto e non essendo questa la sede per esporre il variegato dibattito sull'argomento, la giurisprudenza maggioritaria intende - esclusivamente - un servizio rivolto alla generalità indifferenziata degli utenti [39].

Non è invece pubblico servizio (ma mero servizio) la prestazione, anche se complessa, che venga resa in favore dell'ente pubblico [40]. Sono state in tal senso considerate come illegittimamente costituite, anche alla luce della tipicità delle forme di gestione, società miste deputate allo svolgimento della progettazione per conto di enti pubblici [41].

Ebbene, venendo ora al caso che si esamina, si osserva come, considerata la premessa "ideologica" di cui sopra e visto che il Collegio aveva già esplicitamente dichiarato la rilevanza economica dell'attività di valorizzazione, sia stato coerente l'aver adottato una visione ristretta della nozione di valorizzazione.

Se insomma gli enti pubblici, anche prescindendo dalla consistenza della partecipazione azionaria, possono effettuare affidamenti diretti solo per pubblici servizi, utilizzando forme tipiche di gestione, garantendo in tal modo il libero esplicarsi della concorrenza (nel nostro caso in ragione della dichiarata rilevanza economica dell'attività), ne consegue come sia stato comprensibile, nella parte motivazionale della sentenza, l'aver circoscritto e individuato i servizi di progettazione, manutenzione e restauro, in relazione alla normativa di cui al Codice dei contratti (in tal modo escludendoli dalla disciplina circa i pubblici servizi e dalla possibilità di affidamento diretto nonostante la società fosse interamente pubblica).

Sennonché l'assunto, anche a voler aderire senza alcun tipo di riserva alle premesse logiche di cui sopra e non volendo considerare quanto esposto nel precedente paragrafo, si può prestare alle seguenti osservazioni di ordine generale.

I pubblici servizi, nella loro generalità, non sono identificabili attraverso l'enucleazione di una sola prestazione, ma consistono in un complesso di svariate attività (alcune potrebbero essere definite principali ed altre accessorie) necessarie per la soddisfazione di un determinato interesse pubblico.

Se il nucleo centrale della prestazione è diretto alla comunità degli utenti/cittadini, non è quindi detto che, all'interno del medesimo nucleo, non possano trovare spazio servizi accessori che potrebbero essere definiti, per ragioni "tecniche", come non scorporabili. I servizi in questione, seppur non direttamente rivolti ai predetti soggetti, contribuiscono comunque a perseguire l'interesse pubblico e pertanto a far parte del contenuto del pubblico servizio.

Si pensi alla gestione di una casa di riposo ad opera di un concessionario. A fronte di un servizio (pubblico) prevalente consistente nell'assistenza agli anziani, vi sono attività accessorie, quali ad esempio le pulizie, che, non essendo pubblico servizio, potrebbero in astratto essere scorporate e gestite direttamente dall'ente pubblico concedente. Sennonché ben difficilmente l'ente pubblico concedente potrebbe proficuamente affidare a soggetti diversi dal gestore tali attività. In ogni caso non sembra possano esserci dei dubbi circa la bontà (sotto il profilo tecnico e giuridico) dell'affidamento congiunto.

Se cioè, in astratto ed in linea generale, non si può negare che vi sia la possibilità dello scorporo di alcune prestazioni (riserva a favore dell'ente pubblico), resterebbe in ogni modo comunque saldo il principio generale (gestione unitaria del servizio pubblico) e quindi confermata la legittimità della scelta di non effettuare frazionamenti.

Ritornando quindi ora al caso oggetto di esame, si rileva come la progettazione, la manutenzione ed il restauro, presi nella loro individualità, effettivamente siano rispettivamente meri servizi e lavori pubblici, non pubblici servizi.

Le medesime attività però, nel momento in cui sono destinate a confluire nell'alveo di una prestazione principale (la valorizzazione di un complesso di beni culturali), perdono la loro autonomia e, ragionando anche de iure condendo, potrebbero quindi entrare a far parte del servizio pubblico affidato al gestore (nel nostro caso la società a partecipazione pubblica totalitaria).

E' del resto logico, e conforme ad un'interpretazione sistematica del Codice dei beni culturali, fornire una visione d'insieme della valorizzazione (intesa in senso ampio) e della gestione [42]. Pare altresì conveniente e congruo affidare la responsabilità di alcune attività, quali ad esempio la manutenzione, al soggetto che si assume l'onere ed eventualmente anche i proventi della gestione.

Le considerazioni di cui sopra, necessariamente "ipotetiche" in ragione della persistente incertezza dei confini del servizio pubblico (e nel nostro caso anche in relazione all'esistenza di interferenze tra tutela, valorizzazione e gestione), sono invece decisamente avversate dalla sentenza esaminata.

Le ragioni di tale avversione risiedono, a parere di chi scrive e come già accennato, nella premessa e cioè nel fatto che l'attività di valorizzazione è stata considerata di rilievo economico, da assoggettarsi pertanto in tutto e per tutto alle regole di libera ed ampia concorrenzialità. Per assicurare una competizione ampia occorre quindi fornire una nozione "ristretta" di servizio pubblico, come effettivamente è avvenuto in sentenza e serve altresì limitare le possibilità di intervento (mediante affidamenti diretti) delle società pubbliche, anche se "totalitarie".

Si può di conseguenza affermare che la parte motivazionale della decisione, nel suo complesso, sia la coerente espressione di una linea radicale che tende, nell'ambito dei pubblici servizi, ad enfatizzare il valore della concorrenza e del mercato.

6. Conclusioni

E' pertanto possibile proporre ora qualche breve riflessione di tipo conclusivo, fermo restando che le problematiche evidenziate sono e rimarranno ancora per molto tempo aperte, posto che non sono all'orizzonte interventi normativi di tipo risolutivo; la tematica dei pubblici servizi è del resto, per sua natura, "dinamica".

Ebbene, proprio per quanto concerne i pubblici servizi, nella loro declinazione comunitaria di servizi di interesse generale, si rileva come l'incertezza circa l'economicità o meno di molte attività si stia traducendo in una sostanziale (nel senso etimologico del termine) "con-fusione". Sembra profilarsi infatti una confluenza tra servizi di vario genere, a volte assimilati e collegati in strane forme di "global service" [43], in favore di una visione di tipo unitario che potrebbe essere definita come "paneconomica".

La tendenza di cui sopra è riscontrabile appunto nel fatto che attività da sempre considerate, per la loro intrinseca natura e per il loro stretto collegamento con diritti sociali garantiti dalla costituzione, come non economiche, vengono ora definite (almeno in alcune pronunce della giurisprudenza) come economiche [44]. Ciò anche in ragione dell'utilizzo sempre più frequente, per le stesse, di modelli di gestione di tipo "commerciale-industriale" (la finanza di progetto, le società di capitali e non per esempio le istituzioni ed altro) [45].

L'utilizzo indifferenziato di tutte le diverse forme di gestione - a prescindere dal tipo di materia - e la sempre più marcata inclinazione a fuoriuscire dai modelli tipici (si consideri l'indeterminatezza della stessa nozione - ormai in voga - di esternalizzazione) [46], costituiscono quindi insieme, se così si può dire, tanto la causa quanto l'effetto dell'evidenziata incertezza, sia in ambito comunitario quanto in ambito nazionale, di qualificare i servizi pubblici locali.

Si pensi anche, in tale prospettiva, alla trattazione congiunta, in ambito comunitario, delle ben diverse forme del partenariato istituzionalizzato e contrattuale [47], all'evidenziata difficoltà di definire il confine tra servizi (appalti) e pubblici servizi e alla conseguente tendenza ad attrarre pertanto quest'ultimi, nella loro interezza, nella sfera dell'economia di mercato.

Quanto sopra comporta una dilatazione del concetto di mercato, che si estende anche ad aree tradizionalmente dallo stesso escluse, con la conseguenza che si viene a determinare un effetto espansivo delle regole di più ampia concorrenzialità, regole che non hanno peraltro convinto appieno, in termini di soddisfacimento dei pubblici interessi, neppure nelle attività degli enti locali di tipo industriale [48].

Con questo si vuol dire che, di fronte alle incertezze evidenziate, si è portati, per quanto concerne le regole e la qualificazione dei servizi, a tralasciare le differenze di genere tra le varie materie e ad esaltare non tanto i contenuti ed i fini quanto lo strumento e cioè l'esternalizzazione, termine (non istituto) onnicomprensivo che, a sua volta, richiama un altro mezzo e cioè l'evidenza pubblica [49]. Il fatto che sia possibile esperire procedure concorsuali, come precisato nei paragrafi precedenti, determina quindi, come in un moto circolare, la connotazione di economicità alla quasi generalità dei servizi di interesse generale.

Ciò premesso in termini generali, è comprensibile il "restringimento", in sé corretto, operato dalla sentenza, della nozione del servizio di valorizzazione. Una rigorosa delimitazione dell'istituto e la qualificazione di economicità ha infatti permesso di aprire al mercato prestazioni che, altrimenti, sarebbero state oggetto di affidamento diretto alla società pubblica. E' del resto necessario, se si abbia una visione "radicale", che sembra accolta dalla sentenza, ridurre per quanto possibile il pubblico servizio ad un contenuto minimo, in modo tale da riportare tutte le prestazioni di confine alla materia dei meri servizi, assoggettati interamente alle regole di concorrenza [50].

Se tale tendenza dovesse essere confermata, potrebbe però determinarsi il sostanziale "svuotamento" dello strumento dell'affidamento in house; si consideri che nel nostro caso, la società era divenuta interamente pubblica.

In generale ed a maggior ragione si cagionerebbe una sensibile riduzione di appetibilità delle forme di partenariato con soggetti privati, soprattutto in settori, come quello della valorizzazione dei beni culturali, dove il lucro, se il servizio è effettivamente rispondente a criteri "culturali" e non commerciali, è assai difficilmente raggiungibile (in specie se costretti, a seguito di procedure concorsuali e quindi per "vincere", a praticare consistenti ribassi).

 

 

Note

[1] Cfr. P. Michiara, I servizi pubblici locali tra mercati protetti e libertà di iniziativa economica (nota a Tar Lazio, Roma, 17 novembre 2005, n. 11471), in Aedon, 2/2006.

[2] Il Libro bianco sui servizi di interesse generale (Bruxelles, 12 maggio 2004, COM (2004) 374) ha sottolineato come il principio di trasparenza sia fondamentale per lo sviluppo e l'attuazione delle politiche pubbliche riguardanti tali servizi, in quanto idoneo a garantire che le competenze e le scelte delle autorità pubbliche siano fatte su base democratica e, successivamente, siano rispettate; ciò che permette di raggiungere, peraltro, l'obiettivo di avere un mercato reale e competitivo.

Per una recente e sintetica illustrazione della trasparenza quale "modo di essere della pubblica amministrazione", e non già quale istituto giuridico, si veda in dottrina G. Arena, voce "Trasparenza Amministrativa", in Dizionario di Diritto Pubblico diretto da S. Cassese, Milano, 2006, 5945 ss., il quale evidenzia la strettissima connessione esistente tra la concezione "esterna" di trasparenza (in base alla quale l'amministrazione deve essere visibile e trasparente non solo al proprio interno ma anche e soprattutto per i cittadini), oggi prevalente, ed i principi democratici.

Sul concetto in generale di trasparenza si veda R. Villata, La trasparenza dell'azione amministrativa, in Dir. proc. amm. 1987, 534 ss.; G. Arena, La trasparenza amministrativa ed il diritto di accesso ai documenti amministrativi, in L'accesso ai documenti amministrativi, a cura di G. Arena, Bologna, 1991; A. Police, Trasparenza e formazione graduale delle decisioni amministrative, in Dir. Amm., 1996, 229 ss.

[3] Nella sentenza che si esamina, come si vedrà, i servizi di valorizzazione del patrimonio culturale vengono invece definiti, diversamente dalla tradizionale impostazione (e dalla precedente sentenza del Tar Lazio, Roma, sez. II, 17 novembre 2005, n. 11471), di natura "economica".

[4] Per quanto riguarda la "crisi" del modello delle società miste si richiamano, in dottrina, F.G. Scoca, Il punto sulle c.d. società pubbliche, in Dir. econ., 2005, 258 ss. (che evidenzia la problematicità della possibile "doppia gara") e M.P. Chiti, Verso la fine del modello di gestione dei servizi pubblici locali tramite società miste, in Foro Amm. Tar, 2006, 1161 ss.

In giurisprudenza, sulla problematica della doppia gara, si veda la recente sentenza del Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 27 ottobre 2006, n. 589 (reperibile, così come le altre sentenze amministrative di seguito citate, sul sito www.giustizia-amministrativa.it), con la quale è stato rilevato che la costituzione di una società mista, con scelta del socio privato a seguito di gara, non dispensa gli enti locali dall'effettuare una seconda gara per l'affidamento del servizio.

Sull'argomento, in materia di società di trasformazione urbana, si veda, in ambito comunitario, Corte di Giustizia Ce, sez. I, 18 gennaio 2007, causa C-220/05, in Edilizia e territorio, 2007, 4, 44 ss.

In generale, sul partenariato pubblico-privato, si vedano gli atti del convegno "Il Partenariato Pubblico-Privato e il Diritto Europeo degli Appalti e delle Concessioni" (Firenze, 28 gennaio 2005) i cui atti, reperibili tutti in www.iisa.it, sono essenziali per un approfondimento in materia. A questo proposito si richiamano, in particolare, M.P. Chiti, Introduzione- Luci, ombre e vaghezze nella disciplina del Partenariato Pubblico-Privato; A. Massera, Il Partenariato Pubblico-Privato e il diritto europeo degli appalti; M.A. Sandulli, Il Partenariato Pubblico- Privato e il diritto europeo degli appalti e delle concessioni: profili della tutela; M. Clarich, Conclusioni.

Cfr. quindi M.P. Chiti (a cura di), Il partenariato pubblico-privato. Profili di diritto amministrativo e di scienza dell'amministrazione, Bologna, 2005.

Una riflessione a livello comunitario su questo tema è contenuta nel Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, Commissione CE, Bruxelles, 30 aprile 2004, Com (2004) 327, nella comunicazione della Commissione CE sui partenariati pubblico-privati e sul diritto comunitario in materia di appalti pubblici e concessioni, 15 novembre 2005, COM (2005) 569 e, da ultimo, nella Risoluzione del Parlamento CE sui partenariati pubblico-privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, Strasburgo, 26 ottobre 2006, 2006/2043(INI), documenti reperibili nel sito http://europa.eu.

Infine, per uno sguardo sull'esperienza relativa al partenariato pubblico-privato in Francia, si veda M. Cerritelli, Il contratto di partenariato pubblico-privato nell'ordinamento francese, in Riv. amm. degli app., 2006, 1, 5 ss.

[5] Gli appalti di lavori pubblici concernenti i beni culturali (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 30, successivamente abrogato dal d.lg. 12 aprile 2006, n. 163) sono esaminati da G. Santi, Verso la istituzione di un sistema autonomo degli affidamenti dei "lavori" nel settore dei beni culturali (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 30), in Aedon, 2/2004; G. Failla, P. Urciuoli, Gli appalti di lavori in materia di beni del patrimonio culturale. Il d.lg. 22 gennaio 2004, n. 30, in Riv. trim. app., 2005, 4, 1059 ss.

Per le prime considerazioni in tale materia a seguito dell'entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture di cui al d.lg. 163/2006 si veda C. Vitale, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali nel nuovo Codice degli appalti, in Aedon, 2/2006.

[6] Per un approfondimento in generale sulla legislazione concernente i beni culturali si vedano, fra gli altri, AA.VV., Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, con il coordinamento di C. Barbati, G. Sciullo, Bologna, 2004; AA.VV., Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di A. Angiulli e V. Caputi Jambrenghi, Torino, 2005; D. Amirante, V. De Falco (a cura di), Tutela e valorizzazione dei beni culturali. Aspetti sovranazionali e comparati, Torino, 2005; AA.VV., Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di G. Trotta, G. Caia e N. Aicardi in Le nuove leggi civ. comm., 2005, 5-6, 1045 ss.; N. Assini e G. Cordini, I beni culturali e paesaggistici, Padova, 2006; M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2006; C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2006;

Per quanto riguarda, in particolare, le forme e le modalità di gestione dei beni culturali si richiamano S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001; C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon, 3/2001; G. Sciullo, Gestione dei servizi culturali e governo locale dopo la pronuncia 272 del 2004 della Corte costituzionale, in Aedon, 3/2004; P. Carpentieri, Commento all'art. 115, in AA.VV., Il codice dei beni culturali e del paesaggio, commento coordinato da R. Tomiozzo, cit., 504 ss.; Bilancia (a cura di), La valorizzazione dei beni culturali tra pubblico e privato. Studio dei modelli di gestione integrata, Milano, 2005; D. Vaiano, Commento all'art. 115, in AA.VV., Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di G. Trotta, G. Caia e N. Aicardi, in Le nuove leggi civ. comm., cit., 1452 ss.

Un'illustrazione delle novità introdotte, anche in materia di valorizzazione e forme di gestione, dal d.lg. 156/2006, è contenuta in G. Sciullo, Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006, in Aedon, 2/2006 e in L. Casini, La disciplina dei beni culturali dopo il d.lg. n. 156/2006, in Giorn. dir. amm., 2006, 10, 1072 ss.

[7] Si rimanda, per le diverse ed alterne vicende dei servizi pubblici locali in generale, da ultimo a G. Morbidelli, Introduzione: i servizi pubblici locali in Europa, in Diritto pubblico comparato ed europeo 2001, 2, 783 ss.; V. Domenichelli, I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e diritto privato, in Dir. amm. 2002, 311; L.R. Perfetti, I servizi pubblici locali, in Dir. amm., 2002, 575; M. Dugato, I servizi pubblici locali, in Trattato di diritto amministrativo a cura di S. Cassese, Diritto Amministrativo speciale, III, Milano, 2003, 2581 ss.; M. Dugato, La disciplina dei servizi pubblici locali, in Giorn. dir. amm., 2004, 121 s.; A. Vigneri, Servizi pubblici e interventi pubblici locali, in Commenti al T.U. sull'ordinamento delle autonomie locali, coord. L. Vandelli, Rimini, 2004; G. Piperata, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano, 2005; G. Caia, I servizi sociali degli enti locali e la loro gestione con affidamento a terzi. Premesse di inquadramento, in www.giustizia-amministrativa.it e, da ultimo, AA.VV., Le forme di gestione dei servizi pubblici locali tra diritto europeo e diritto locale, a cura di M.P. Chiti, Bologna, 2006.

In relazione alla disciplina dei servizi pubblici locali così come delineati dagli ultimi disegni di legge si veda C. Franchini, Le principali questioni della disciplina dei servizi pubblici locali, Relazione introduttiva al Convegno su "La disciplina dei servizi pubblici locali: novità recenti e ulteriori prospettive di riforma", Bologna, 27 gennaio 2007, dattiloscritto.

[8] I servizi di interesse generale sono esaminati nel Libro verde sui servizi di interesse generale, Bruxelles, 21 maggio 2003, COM (2003) 270 e nel Libro bianco sui servizi di interesse generale, Bruxelles, 12 maggio 2004, COM (2004) 374; a quest'ultimo hanno fatto seguito la Relazione del Parlamento europeo sul Libro bianco della Commissione sui servizi di interesse generale del 14 settembre 2006, n. A6-0275/2006 e la Risoluzione del Parlamento europeo sul Libro bianco della Commissione sui servizi di interesse generale del 27 settembre 2006, n. 2006/2101 (INI).

[9] La necessità del confronto concorrenziale, nell'ambito dell'affidamento dei servizi pubblici locali aventi rilevanza economica, è stata recentemente ribadita dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato nell'Atto di segnalazione n. AS 375 del 28 dicembre 2006.

In generale, in materia di in house providing si vedano, in generale, G. Greco, Gli affidamenti "in house" di servizi e forniture, le concessioni di pubblico servizio e il principio della gara, in Riv. ital. dir. pubbl. com., 2000, 1399 ss.; M. Mazzamuto, Brevi note su normativa comunitaria e in house providing, in Dir. Un. Eur., 2001, 537; A. Alberti, Appalti in house, concessioni in house ed esternalizzazione, in Riv. ital. dir. pubbl. com., 2001, 495 ss.; A. Massera, L'"in house providing": una questione da definire, in Giorn. dir. amm., 2004, 849; R. Cavallo Perin - D. Casalini, L'in house providing:un'impresa dimezzata, in Dir.amm., 2006, 51 ss.

Con particolare riferimento agli affidamenti in house dei servizi pubblici locali (e alle società miste) si richiamano L. Perfetti, L'affidamento diretto di servizi pubblici locali a società partecipate dai comuni, tra amministrazione indiretta e privilegi extra legem, in Foro amm., CDS, 2004, 1160 ss.; F. Gualtieri, Società miste ed in house providing: un rapporto da definire (nota a Tar Lazio, Latina, 5 maggio 2006, n. 310), in Serv. pubbl. e app., 2006, 3, 445 ss.

[10] A proposito di tali società, si evidenzia che l'art. 13 d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, ha stabilito che le società, a capitale interamente pubblico o misto devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti. Si tratta di un primo passo volto a limitare il "potere" delle società pubbliche locali e la distorsione che le stesse creano nel settore dei servizi di pubblica utilità.

[11] Con riferimento alla valorizzazione dei beni culturali quale servizio privo (a determinate condizioni) di rilevanza economica, si veda, da ultimo, G. Sciullo, Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006, cit., ove l'Autore afferma che le attività di valorizzazione di cui all'art. 115 del Codice dei beni culturali risultano, in genere, qualificabili come servizi pubblici privi di rilevanza economica, mentre i servizi aggiuntivi di cui all'art. 117 sembrano idonei, di massima, ad essere definiti servizi pubblici con rilevanza economica.

[12] A questo proposito, si vedano le comunicazioni della Commissione e del Parlamento europei richiamate in precedenza.

In particolare, nel Libro Verde sui servizi di interesse generale, Bruxelles, 21 maggio 2003, COM (2003) 270 è espresso chiaramente che "la distinzione fra servizi di natura economica e servizi di natura non economica è importante in quanto questi servizi non sono soggetti alle stesse norme del trattato. Ad esempio, le disposizioni quali il principio di non discriminazione e il principio della libera circolazione delle persone valgono per l'accesso a tutti i tipi di servizi. Le norme sugli appalti pubblici si applicano ai beni, ai servizi o alle opere acquisite da enti pubblici nella prospettiva di fornire servizi sia di natura economica che non economica. Tuttavia, la libertà di fornire servizi, il diritto di stabilimento, le norme sulla concorrenza e sugli aiuti di stato si applicano soltanto alle attività economiche...".

[13] Con riferimento alla "individuazione" dell'economicità o meno dei singoli servizi pubblici si veda G. Caia, I servizi sociali degli enti locali e la loro gestione con affidamento a terzi. Premesse di inquadramento, cit., il quale ritiene (capitolo 3.2) che la rilevanza economica di un servizio pubblico possa derivare anche dalla modalità gestionale prescelta e possa non essere influenzata per nulla dal carattere del servizio medesimo in relazione agli utenti che ne fruiscono.

In tal senso, cfr. altresì G. Piperata, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, cit., 242 ss., ove è affermato che la rilevanza economica o meno dei servizi pubblici è la semplice conseguenza delle scelte discrezionali effettuate dalle amministrazioni locali con riferimento all'organizzazione dei servizi medesimi. Già F. Merusi, voce Servizio Pubblico, in Nss. D.I., XVII, Torino, 1970, 215 ss., peraltro, sosteneva che i servizi pubblici sono caratterizzati da un "momento politico" all'atto della scelta del modello - economico o non economico - sulla base del quale gestire i servizi medesimi.

Di recente, con particolare riferimento all'economicità dei servizi culturali, si richiama A. Iunti, Il "nodo gordiano" della gestione dei servizi culturali locali: il riconoscimento del carattere dell'economicità, in Serv. pubbl. e app., 2006, 2, 489 ss.

[14] Dalla sentenza emerge altresì la difficoltà di trovare una nozione unica di mercato, concetto per il quale la dottrina ha identificato almeno quattro significati e, precisamente, il mercato come luogo, il mercato come ideologia, il mercato come paradigma di azione sociale, il mercato come istituzione (cfr. M.R. Ferrarese, Diritto e mercato. Il caso degli Stati Uniti, Torino, 1992, 17 ss. e G.C. Spattini, Poteri pubblici dopo la privatizzazione. Saggio di diritto amministrativo dell'economia, Torino, 2006, 74 ss).

Per una riflessione, in generale, sul concetto di mercato nell'ambito della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici cfr. A. Zito, Mercato, regolazione del mercato e legislazione antitrust: profili costituzionali, Jus, 1989, fasc. n. 2, 223 ss.; S. Cassese, Stato e mercato dopo privatizzazioni e deregulation, in Riv. trim. dir. pubbl., 1991, 383 ss.; G. Amato, Il mercato nella Costituzione, in Quad. cost., 1992, 12 ss. C. Marzuoli, Mercato e valore dell'intervento pubblico, in Reg., 1993, 1595 ss.; A Bardusco, Servizi locali e libertà di mercato, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1994, 27 ss.; F. Salvia, Il mercato e l'attività amministrativa, in Scritti in onore di Alberto Predieri, tomo II, Milano, 1996, 1291 ss.; M. D'alberti, Riforma della regolazione e sviluppo dei mercati in Italia, in G. Tesauro e M. D'alberti (a cura di), Regolazione e concorrenza, Bologna, 2000, 171 ss.; F. Merusi, Le leggi del mercato. Innovazione comunitaria e autarchia nazionale, Bologna, 2002, 7 ss.; F. Liguori, I servizi pubblici locali. Contendibilità del mercato e impresa pubblica, Torino, 2004; C. Barbati- G. Endrici, Territorialità positiva, Mercato, ambiente e poteri subnazionali, Bologna, 2005; G. Napolitano, Regole e mercato nei servizi pubblici, Bologna, 2005, 33 ss.

Per quanto riguarda, invece, la concorrenza in relazione ai servizi pubblici si vedano L. Vasques, I servizi pubblici locali nella prospettiva dei principi della libera concorrenza, Torino, 1999; S. Cassese, Regolazione e concorrenza, in G. Tesauro e M. D'Alberti (a cura di), Regolazione e concorrenza, Bologna, 2000, 10 ss.; L. Ammannati, M.A. Cabiddu, P. De Carli (a cura di), Servizi pubblici, concorrenza, diritti, Milano, 2001; G. CAIA, Autonomia territoriale e concorrenza nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali, in www.giustizia-amministrativa.it; M. Cammelli, Concorrenza, mercato e servizi pubblici: le due riforme, in Riv. trim. app., 2003, 513 ss.; S. Varone, Servizi pubblici locali e concorrenza, Torino, 2004.

[15] A questo proposito ci si permette di rinviare a P. Michiara, I servizi pubblici locali tra mercati protetti e libertà di iniziativa economica (nota a Tar Lazio, Roma, 17 novembre 2005, n. 11471), cit., ed in particolare al paragrafo 3.

[16] La massima della sentenza del Tar Lazio è pubblicata in Aedon, 2/2006.

Per un recente commento di questa decisione si rinvia anche A. Iunti, Il "nodo gordiano" della gestione dei servizi culturali locali: il riconoscimento del carattere dell'economicità, cit., 476 ss.

[17] Ai sensi della citata sentenza della Corte di Giustizia "una società per azioni costituita, detenuta e gestita da un ente locale soddisfa un bisogno di interesse generale, ai sensi dell'art. 1, lett. b), secondo comma, della direttiva 92/50, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, qualora acquisti servizi di pianificazione e di costruzione diretti a promuovere lo sviluppo di attività industriali o commerciali sul territorio del detto ente locale mediante la costruzione di locali destinati ad essere dati in locazione ad imprese. Attività del genere sono infatti idonee a dare un impulso agli scambi e allo sviluppo economico e sociale dell'ente locale interessato, dato che l'insediamento di imprese nel territorio di un comune produce spesso effetti favorevoli per tale comune in termini di creazione di posti di lavoro, di aumento del gettito fiscale nonché di miglioramento dell'offerta e della domanda di beni e servizi. Al fine di determinare se tale bisogno sia privo di carattere industriale o commerciale, spetta al giudice nazionale valutare le circostanze nelle quali tale società è stata costituita e le condizioni in cui essa esercita la propria attività, tra cui, in particolare, l'assenza di uno scopo principalmente lucrativo, la mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività nonché l'eventuale finanziamento pubblico dell'attività in esame".

[18] Cfr. Tar Liguria, sez. II, 28 aprile 2005, n. 527 ove è stato evidenziato, in relazione ad un affidamento diretto (peraltro censurato) ad una società che avrebbe dovuto gestire comunità alloggio per minori, centri educativi e mense sociali che: "La distinzione tra servizi di rilevanza economica e servizi privi di tale rilevanza è legata all'impatto che l'attività può avere sull'assetto della concorrenza ed ai suoi caratteri di redditività; di modo che deve ritenersi di rilevanza economica il servizio che si innesta in un settore per il quale esiste, quantomeno in potenza, una redditività, e quindi una competizione sul mercato e ciò ancorché siano previste forme di finanziamento pubblico, più o meno ampie, dell'attività in questione; può invece considerarsi privo di rilevanza quello che, per sua natura o per i vincoli ai quali è sottoposta la relativa gestione, non dà luogo ad alcuna competizione e quindi appare irrilevante ai fini della concorrenza. In altri termini, laddove il settore di attività è economicamente competitivo e la libertà di iniziativa economica appaia in grado di conseguire anche gli obiettivi di interesse pubblico sottesi alla disciplina del settore, al servizio dovrà riconoscersi rilevanza economica, ai sensi dell'art. 113 del d.lg. 267/2000, mentre, in via residuale, il servizio potrà qualificarsi come privo di rilevanza economica laddove non sia possibile riscontrare i caratteri che connotano l'altra categoria". Si sono espressi in tal senso anche Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, 2 agosto 2005, n. 1729 (confermata da Cons. Stato, sez. V, 30 agosto 2006, n. 5072) e Tar Puglia, Bari, sez. I, 12 aprile 2006, n. 1318.

In dottrina, si veda G. Sciullo, Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006, cit. ed in particolare la nota n. 9 relativa alla distinzione comunitaria fra servizi di natura economica e servizi di natura non economica; come già evidenziato in precedenza, l'Autore, con riferimento ai servizi in ambito culturale, conclude per una presunzione (di fatto) di non economicità degli stessi.

[19] Il problema del rapporto tra qualificazione dei servizi e materie verrà trattato anche successivamente.

Per un approfondimento di ordine generale in relazione alla rilevanza degli interessi generali che i servizi pubblici sono chiamati a soddisfare, al fine di definire i servizi medesimi come non economici (pur essendo idonei gli stessi ad assumere una valenza economica), cfr. D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2000, 121 ss.; E. Menichetti, I servizi sociali nell'ordinamento comunitario, in A. Albanese - C. Marzuoli (a cura di), Istruzione e servizio pubblico, Bologna, 2003, 104 ss.; M. Cocconi, Il diritto europeo dell'istruzione - Oltre l'integrazione dei mercati, Milano, 2006, 185 ss.

[20] Si è citata la direttiva comunitaria nella consapevolezza che in realtà la stessa direttiva si occupa di meri servizi e non di pubblici servizi.

Si veda ora, per quanto concerne l'allegato relativo ai servizi esclusi, l'art. 20 del d.lg. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici). In realtà anche per questi servizi non vi è una sottrazione "totale" alla libera concorrenza. L'art. 27 del Codice dei contratti pubblici prevede infatti che l'affidamento dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture esclusi dall'applicazione del codice medesimo avvenga comunque con il rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità; inoltre, l'affidamento deve necessariamente essere preceduto dall'invito ad almeno cinque concorrenti, ove ciò sia compatibile con l'oggetto del contratto.

[21] Un'illustrazione del fenomeno dei "quasi mercati" è contenuta, seppure limitatamente agli aspetti puramente economici, in AA.VV., a cura di D. Lanzi, Aiccon, Regolamentazione dei mercati per i servizi sociali e cooperazione sociale, Forlì, 2003, 21 ss. Inoltre, ci si permette di rinviare a P. Michiara, Le convenzioni tra pubblica amministrazione e terzo settore. Considerazioni sulle procedure selettive a concorrenza limitata nell'ambito dei rapporti a collaborazione necessaria, in Istituto Editoriale Regioni Italiane, Roma, 2005.

[22] Si ricorda che gli articoli 113 e 113-bis del d.lg. 267/2002 riguardavano, prima delle modifiche introdotte dal d.l. 269/2003 (e successivamente alle modifiche introdotte dalla legge 448/2001), rispettivamente, la gestione delle reti e l'erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza industriale (art. 113) e la gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale (113-bis).

[23] A tale proposito, si rileva che il terzo comma dell'art. 113-bis del d.lg. 267/2000 riconduceva l'intero genus dei servizi culturali alla categoria dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica.

[24] Si condivide, a tal proposito e anche in relazione alla materia dei servizi, l'impostazione formulata da Arena, in G. Arena, Cittadini attivi, 2006.

[25] La valorizzazione dei beni culturali è, ai sensi del comma 4 dell'art. 111 del Codice dei beni culturali, "attività socialmente utile" e ne è riconosciuta la "finalità di solidarietà sociale" (in tal senso si può pensare ad uno stretto legame tra servizi culturali e servizi sociali).

[26] Per una definizione del principio di economicità quale corretto uso delle risorse mediante il minor impiego possibile di mezzi personali, finanziari e procedimentali cfr. E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005, 380 ss.

[27] La nuova versione dell'art. 6 del Codice dei beni culturali evidenzia come l'attività di valorizzazione non debba limitarsi alla "promozione" del singolo bene, ma come debba avere il fine, di cui appunto all'art. 9 della Costituzione, di promuovere la cultura in generale.

[28] Si vedano, a proposito dell'individuazione dei servizi di interesse generale non economici, le comunicazioni/risoluzioni della Commissione e del Parlamento europei citate nelle note che precedono. In particolare, con la Risoluzione sul Libro bianco della Commissione sui servizi di interesse generale del 27 settembre 2006, n. 2006/2101 (INI), il Parlamento europeo ha invitato la Commissione "a fornire una maggiore certezza giuridica" per il settore dei servizi di interesse generale sanitari e sociali, e a presentare quindi una proposta di direttiva settoriale in quei settori ove ritenuto opportuno.

[29] Per una riflessione sul concetto di "valorizzazione" (anche nelle normative antecedenti il Codice dei beni culturali) e sulle differenze sussistenti tra quest'ultima e la "tutela" del patrimonio culturale, si veda, di recente, C. Barbati, M. Cammelli e G. Sciullo, Il diritto dei beni culturali, cit., 35 ss.

[30] In tal senso sembra concordare G. Corso, Art. 152 La valorizzazione, in AA.VV., Lo Stato autonomista - Funzioni statali, regionali e locali nel decreto legislativo n. 112 del 1998 di attuazione della legge Bassanini n. 59 del 1997, a cura di G. Falcon, Bologna, 1998, 507 ss.

[31] Così si è espressa C. Barbati, Commento all'art. 111 in AA.VV., Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, cit., 434 ss.

[32] Sulla nozione "aperta" di valorizzazione si richiama L. Casini, voce "Beni culturali (Dir. amm.)", in Dizionario di Diritto Pubblico diretto da S. Cassese, Milano, 2006, 688 ss.

[33] In tale prospettiva e nel caso di specie i lavori potevano essere considerati di pertinenza del soggetto (la società interamente pubblica) deputato, legittimamente secondo il Collegio, ad effettuare la valorizzazione. In realtà, in tal caso ci sarebbe un altro problema da superare e cioè la possibilità o meno, per una società pubblica, di eseguire lavori pur non possedendo la qualificazione di cui al DPR 34/2000 (possesso del certificato rilasciato dalla SOA per categorie ed importi adeguati). Sull'argomento si richiama R. Mangani, Il Consiglio di Stato riapre il dibattito sulla classificazione dei servizi per la collettività, in Edilizia e territorio, 2007, 4, 8 ss.

[34] A tale proposito, cfr. R. Goso, L'affidamento in house dei servizi culturali, in Urb. e app., 2007, 1, 98 ss.

[35] Si veda N. Aicardi, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon, 1/2003.

[36] Sullo specifico argomento delle società miste, in generale, cfr. M. Cammelli, Le società a partecipazione pubblica. Regioni, province e comuni, Rimini, 1989; G. Rossi, Le società per azioni. Enti pubblici, in Studi in memoria di Franco Piga, 1992, II, 1813 ss., P.M. Vipiana In tema di società a partecipazione pubblica locale, in Dir. Economia, 1992, 367 ss.; F.A. Roversi Monaco, Società con partecipazione minoritaria degli enti pubblici e gestione dei pubblici servizi, in Studi in onore di V. Ottaviano, Milano, 1993, IV, 719 ss.; V. Cerulli Irelli, Ente pubblico: problemi di identificazione e disciplina applicabile, in V. Cerulli Irelli, G. Morbidelli (a cura di), Ente pubblico e enti pubblici, Torino, 1994, 84 ss; G. Veserini, Le società a partecipazione pubblica locale operanti nel settore dei servizi pubblici, in G. Sanviti (a cura di), I modelli di gestione dei servizi pubblici locali, Bologna 1995; A. Police, Dai concessionari di opere pubbliche alle società per azioni di "diritto speciale": problemi di giurisdizione, in Dir. proc. amm., 1996, 158 ss.; M. Renna, Le società per azioni in mano pubblica, Torino, 1997; G. Alpa - A. Carullo - A. Clarizia (a cura di), Le S.P.A. comunali e la gestione dei servizi pubblici (primo commento al regolamento emanato con D.P.R. 533/96), Milano, 1998; M. Cammelli - A. Ziroldi, Le società a partecipazione pubblica nel sistema locale, II edizione, Rimini, 1999; M. Dugato, Le società per la gestione dei servizi pubblici locali, in Quaderni - Giorn. Dir. amm., Milano, 2001, 130 ss.; G. Caia, La società a prevalente capitale pubblico locale come formula organizzativa di cooperazione fra i comuni, in Foro amm., 2002, 1232 ss.; G. Napolitano, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, 2003, 176 ss.; M.G. Della Scala, Le società legali pubbliche, in Dir. amm., 2005, 2, 391 ss.

Con riferimento, in particolare, alla costituzione delle società miste, alla scelta dei soci, all'affidamento dei servizi, si vedano G. Caia, Società per azioni a prevalente capitale pubblico locale: scelta dei soci e procedure di affidamento del servizio, in Nuova Rass., 1995, 1082 ss.; M. Dugato, Sul tema delle società a partecipazione pubblica per la gestione dei servizi locali. Costituzione della società, dismissioni affidamento del servizio, rapporto tra ente e società, in Riv. trim. app., 1996, 229 e ss.; F. Fracchia, La suprema corte impone il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica nella scelta del socio privato delle società a prevalente partecipazione pubblica degli enti locali: un ulteriore allontanamento dal modello privatistico?, in Foro it. 2000, I, 805 ss.; F. Fracchia, La costituzione delle società pubbliche e i modelli societari, in Il diritto dell'economia, ¾. 2004.

[37] Alla stregua di una delle declinazioni del principio di sussidiarietà, e precisamente di sussidiarietà orizzontale, l'intervento pubblico è concepito come residuale (limitato appunto ai pubblici servizi), mentre assume rilievo per il resto l'autonoma iniziativa dei privati, da intendersi, secondo quanto affermato in sede consultiva dal Consiglio di Stato (parere n. 1354/2002), come dovere di questi ultimi di "proteggere e realizzare" lo sviluppo della società civile. In tal senso si veda L. Melica, voce "Sussidiarietà", in Dizionario di Diritto Pubblico diretto da S. Cassese, cit., 5842, il quale illustra sinteticamente la "nascita" e l'evoluzione del principio di sussidiarietà, tanto a livello comunitario quanto nazionale.

Per un approfondimento sul principio di sussidiarietà si richiamano, in questa sede, S. Cassese, L'aquila e le mosche. Principio di sussidiarietà e diritti amministrativi, in Foro it., 1995, 374 ss.; M.P. Chiti, Principio di sussidiarietà, pubblica amministrazione e diritto amministrativo, in Dir. pubbl. 1995, 517 ss; A. Poggi, Le autonomie funzionali "tra" sussidiarietà verticale e orizzontale, Milano, 2001; M. Cammelli, Principio di sussidiarietà, e sistema delle amministrazioni pubbliche, in Quad. reg. 2002, 453 ss; P. Duret, Sussidiarietà ed autoamministrazione dei privati, Padova, 2004.

[38] Per un approfondimento in generale sulla materia dei pubblici servizi, si rimanda, per quanto concerne la dottrina recente, a A. Romano, Profili della concessione di pubblici servizi, in Dir. amm., 1994, 472 ss.; A. Sandulli, La responsabilità del concessionario di servizio pubblico, in Giorn. dir. amm., 1995, 553 ss.; M. Clarich, Servizio pubblico e servizio universale: evoluzione normativa e profili ricostruttivi, in Dir. pubb., 1998, 26 ss.; AA.VV., La responsabilità delle pubbliche amministrazioni per i servizi, in D. Sorace, Le responsabilità pubbliche (a cura di), Padova, 1998, 7 ss.; G. Caia, La disciplina dei servizi pubblici, in L. Mazzaroli, G. Pericu, A. Romano, F. Roversi Monaco, F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 1998, 181 ss.; N. Rangone, I servizi pubblici, Bologna, 1999; G. Rossi, Dove inizia il pubblico servizio: avvio di una riflessione, in Riv. quadr. pubbl. servizi, 2000, 2, 7 ss.; D. Sorace, I servizi pubblici, in Amministrare, 2001, 385 ss.; G. Della Cananea, La risoluzione delle controversie nel nuovo ordinamento dei servizi pubblici, in Riv. it. dir. pubb. com., 2001, 745 ss.; F. Merusi, La nuova disciplina dei servizi pubblici, in Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Annuario 2001, Milano, 2001, 60 ss.; L.R. Perfetti, Contributo di una teoria dei pubblici servizi, Padova, 2001; F. Merloni, La disciplina statale dei servizi pubblici locali dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in Riv. quadr. pubbl. serv., 2002, 1, 17 ss.; E. Ferrari, Servizi pubblici: impostazione e significato della ricerca di una nozione, in Foro it., 2002, I, 1850 ss.; R. Villata, Pubblici servizi, Milano, 2006.

Per un esame della materia dei pubblici servizi in ambito comunitario si vedano M. Cammelli, comunità europea e servizi pubblici, in L. Vandelli, C. Bottari, D. Donati (a cura di), Diritto amministrativo comunitario, Rimini, 1994, 181 ss.; G. Corso, I servizi pubblici nel diritto comunitario, in Riv. quad. pubb. serv., 1999, 12 ss.

Un'analisi dei pubblici servizi con particolare riferimento ai rapporti giuridici con l'utenza dei medesimi si rinviene in A.R. Tassone, Il contratto di servizio, in Dir. trasp., 1998, 613 ss.; S. Battini, La tutela dell'utente e la carta dei servizi pubblici, in Riv. trim. dir. pubb., 1998, 185 ss.; M. Ramajoli, La tutela degli utenti nei servizi pubblici a carattere imprenditoriale, in Dir. amm., 2000, 397 ss.; G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova, 2001.

Per quanto riguarda, invece, il carattere "imprenditoriale" che possono assumere i servizi pubblici si vedano F. Salvia, Il servizio pubblico: una particolare conformazione dell'impresa, in Dir. pubb., 2000, 550 ss; A. Pericu, Impresa e obblighi di servizio pubblico (L'impresa di gestione di servizi pubblici locali), Milano, 2001; A. Police - W. Giulietti, Servizi pubblici, servizi sociali e mercato: un difficile equilibrio, in Serv. pubbl. e app., 2004, 831 ss.

[39] In giurisprudenza, cfr. Tar Emilia-Romagna, Parma, 18 settembre 1995, n. 317 e, di recente, Cass. Civ., Sez. Un., 3 agosto 2006, n. 17573. In dottrina, si veda il commento a quest'ultima sentenza di R. Giovagnoli, E' servizio pubblico solo l'attività rivolta direttamente a soddisfare le esigenze dell'utenza, in Urb. e app., 2006, 12, 1393 ss.

[40] A questo proposito si vedano, oltre alla sentenza del Tar Emilia-Romagna citata in precedenza, Tar Campania, Napoli, sez. I, 29 novembre 2001, n. 5111 e Tar Lombardia, Brescia, 25 agosto 2003, n. 1189.

[41] In tal senso Cons. Stato, sez. IV, 23 gennaio 2002, n. 391 e, più di recente, Tar Emilia-Romagna, Parma, 6 aprile 2005, n. 192.

Per una pronuncia di illegittimità di società mista costituita da un comune per la pulizia e la custodia del patrimonio immobiliare dell'ente - in quanto trattasi di normale attività priva di interesse generale e, quindi, di valenza di servizio pubblico - si veda Tar Sicilia, sez. II, 10 giugno 1999, n. 1137 e le relative note di M. Dugato e di A. Ziroldi in Giorn. dir. amm., 1999, 11, 1067 ss.

Consente invece ad un comune di affidare in house ad una controllata le manutenzioni delle strade e del verde Cons. Stato, Sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369, in Edilizia e territorio, 2007, 4, 8 ss.

[42] Si richiama a tale proposito N. Aicardi, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, cit., capitolo 3, il quale rileva che, benché il concetto di "gestione" sia menzionato come "segmento separato dell'azione pubblica nel campo dei beni culturali dall'art. 148, lett. d) del d.lg. 112/1998", è tuttavia opportuno ricondurlo nell'ambito della "valorizzazione".

[43] Per alcuni spunti riflessivi in materia di "global service" si vedano A. Ziroldi, Il <global service> nella disciplina degli appalti misti, in Il nuovo ordinamento dei lavori pubblici, a cura di F. Mastragostino, Padova, 2001, 286 ss.

[44] A questo proposito, si ricorda come siano stati considerati dalla giurisprudenza servizi aventi rilevanza economica la gestione di comunità alloggio per minori, centri educativi e mense sociali (Tar Liguria, sez. II, 28 aprile 2005, n. 527), i servizi di assistenza domiciliare in favore di persone anziane e/o svantaggiate, di consegna di pasti caldi a domicilio, di lavanderia e stireria e la gestione del centro di aggregazione per anziani (Tar Cagliari, sez. I, 2 agosto 2005, n. 1729, confermata da Cons. Stato, 27 novembre 2006, n. 1597), il servizio di trasporto disabili (Tar Puglia, Bari, sez. I, 12 aprile 2006, n. 1318).

[45] E' ormai abituale, a seguito della scarsità delle risorse pubbliche, vedere delle iniziative ricollegabili alla finanza di progetto anche nel settore dei servizi sociali (per esempio nel settore delle case di riposo per anziani).

[46] Circa le esternalizzazioni e il concetto di "outsourcing" nel settore dei beni culturali si veda M. Cammelli, Decentramento e outsourcing nel settore della cultura: il doppio empasse, in Dir. pubbl., 2002, 287 ss., ove si evidenzia la difficoltà di stabilire ed attuare delle regole valevoli tanto per il quadro nazionale quanto per l'ambito locale.

Sull'argomento cfr., da ultimo, G. Piperata, Le esternalizzazioni nel settore pubblico, in Dir. amm., 2005, 4, 963 ss. (in particolare, per il settore della cultura, 991 ss.) secondo il quale l'espressione esternalizzazione riferita alla pubblica amministrazione può abbracciare quattro dinamiche differenti (pag. 970): affidamento a privati di un'attività per la quale la pubblica amministrazione mantiene comunque la titolarità, ingresso di privati quali "collaboratori" in seno alla pubblica amministrazione (mediante costituzione di società miste, ad esempio) per gestire un'attività propria di quest'ultima, finanziamento da parte della pubblica amministrazione di privati che svolgono attività aventi un interesse pubblico e, infine, sostituzione della pubblica amministrazione con soggetti privati nella gestione di alcune attività attraverso la dismissione di tali attività, prima rientranti nei compiti pubblici.

[47] Tale trattazione congiunta - contenuta nel citato Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni della Commissione CE - è criticata da M.P. Chiti, Verso la fine del modello di gestione dei servizi pubblici locali tramite società miste, cit., 1163, il quale ritiene essere una contraddizione di fondo quella di considerare (così come nel predetto Libro verde) quali forme di partenariato pubblico-privato tanto quelle in cui "il pubblico ed il privato divengono stabili partner in imprese congiuntamente detenute" (forme "istituzionalizzate"), quanto quelle in cui "gli interessi delle parti sono contrapposti, ancorché composti giuridicamente nel sinallagma contrattuale" (forme "contrattuali" che riguardano, in particolare, i contratti di appalto).

[48] M.P. Chiti, Verso la fine del modello di gestione dei servizi pubblici locali tramite società miste, cit., 1166 ss., evidenzia che il modello dell'outsourcing, ad oggi compiutamente realizzato in Gran Bretagna, ha presentato molti problemi inerenti alla qualità dei servizi offerti dai privati ed alle garanzie dei profili di pubblico servizio.

[49] L'evidenza pubblica, in origine, veniva considerata un mero strumento per "combattere la piaga delle collusioni tra gli uffici delle amministrazioni e i fornitori" (M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 463). Attualmente si può affermare che l'evidenza pubblica, nel momento in cui la concorrenza è divenuta un vero e proprio principio generale dell'agire amministrativo per contratti (cfr. art. 2 del d.lg. 163/2006), sia divenuta anche una sorta di fine. E' possibile insomma oggi parlare dell'esistenza di una sorta di mitologia della gara (G. Greco, Gli affidamenti in house di servizi e forniture, le concessioni di pubblico servizio e il principio della gara, cit., 1461 ss. e L.R. Perfetti, Miti e realtà nella disciplina dei servizi pubblici locali, in Dir. amm., 2006, 2, 387 ss.).

Si pensi altresì, a tal proposito, come l'evidenza pubblica sia ora prescritta da parte della giurisprudenza anche per le concessioni dei beni demaniali (Tar Liguria, sez. I, 16 marzo 2006, n. 225, in Foro amm. TAR, 2006, 3, 928).

[50] In una visione liberale (in senso tradizionale del termine) della società, si tende a restringere il "potere" dello stato al minimo necessario, fino ad arrivare alla figura dello stato minimo (N. Bobbio, voce "Lo Stato", in Enciclopedia Einaudi, vol. 13, Torino, 1981, 508). In tale prospettiva è pensabile che anche il contenuto del pubblico servizio, per fare spazio al mercato, debba essere sensibilmente circoscritto, ridotto.



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