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L'incidenza del regime dominicale
dei beni culturali sulle modalità di gestione
[1]

di Angela Serra


Sommario: 1. Premessa metodologica. - 2. Premessa di merito. - 3. Il bene culturale: proprietà e gestione. - 4. Lo "statuto" di tutela: limitazioni ed obblighi gravanti sulla gestione dei beni culturali. - 5. I soggetti proprietari: la gestione dei beni statali: 5.1. I beni culturali facenti capo allo Stato. - 5.2. Segue: l'individuazione dei soggetti deputati alla gestione: la sussidiarietà verticale. - 5.3. Segue: l'esternalizzazione della gestione tra sussidiarietà orizzontale e riorganizzazione. - 5.4. Segue: il rapporto Stato proprietario-gestore. - 6. I beni degli enti locali. - 7. I beni degli altri enti pubblici e delle persone giuridiche senza scopo di lucro. - 8. I beni dei privati. - 9. Considerazioni conclusive.



1. Premessa metodologica

C'era sicuramente più di una modalità per trattare il tema dell'incidenza del regime dominicale dei beni culturali sulle modalità di gestione.

Quella più immediata per chi studia il diritto amministrativo era porre al centro della riflessione gli sviluppi introdotti dalla legislazione degli ultimi cinque anni sulla concezione della gestione dei beni in questione, adottando un approccio strettamente amministrativistico. Intendere quindi per "regime" il regime di appartenenza, ponendo l'attenzione sui soggetti cui spetta la gestione; intendere per "gestione" la funzione pubblica di gestione dei beni culturali come positivamente definita dalla legislazione sulla devoluzione delle funzioni e competenze amministrative dal centro alle autonomie, ponendo dunque l'attenzione sulla spettanza della competenza legislativa in materia di gestione e sull'allocazione di tale funzione amministrativa, in particolare con riferimento ai nuovi articoli 117 e 118 Cost.; intendere, ancora, per "forme di gestione" i modelli tipici predisposti dal legislatore per la gestione dei beni culturali di proprietà degli enti territoriali.

Mi sono chiesta d'altro canto se non fosse invece più in linea con l'argomento del convegno (gli aspetti privatistici e pubblicistici della gestione dei beni culturali in una prospettiva evolutiva) adottare un metro più ampio, multidisciplinare, se vogliamo più atecnico da un punto di vista amministrativistico, e interpretare tali termini in senso lato, in misura più aderente al senso comune loro attribuito. Intendere allora per "regime" dei beni culturali la specialità della loro disciplina, di tipo pubblicistico, che li tiene distinti dai beni "comuni", ossia quello che viene definito il loro "statuto"; intendere, ancora, per "gestione" la generica attività di amministrazione dei beni da parte di coloro che ne hanno la disponibilità o sono deputati a svolgere tale compito; intendere, infine, per "incidenza sulle forme di gestione" la generalità degli obblighi e delle limitazioni che un gestore incontra quando si relaziona con un bene culturale piuttosto che con un bene che non possieda interesse storico-artistico.

Ho ritenuto alla fine preferibile tentare una crasi, adottare un approccio che rispecchiasse da un lato i miei studi, amministrativistici, e dall'altro che potesse risultare se non utile, almeno udibile per un interlocutore che forse si aspetta da questo intervento una griglia di lettura non solo teorica di come il diritto amministrativo entri, incidendovi in maniera significativa, nella relazione tra un bene culturale e i vari soggetti che a diverso titolo lo possono gestire. Consapevole del pericolo di confusione che l'utilizzo di un duplice criterio di analisi può comportare, spero di riuscire a ricostruire in ogni caso un quadro sensato, se non chiaro, di tale relazione.

Chiedo quindi anticipatamente scusa agli amministrativisti per la banalità con cui descriverò i contenuti di quelle che potremmo definire le potestà pubbliche incidenti sull'amministrazione concreta dei beni ed invece ai giusprivatisti per lo scarso appeal delle problematiche inerenti alla titolarità delle funzioni legislativa ed amministrativa di gestione dei beni in oggetto.

 

2. Premessa di merito

La domanda di fondo cui vorrei trovare risposta alla fine di questa breve analisi è se siano fondate o meno le preoccupazioni di chi vede nella separazione fra titolarità del bene e esercizio dell'attività di gestione proposta dalla legislazione degli ultimi anni un pericolo per il bene stesso o per la sua fruibilità. Il percorso scelto per tentare una risposta a questa domanda trae spunto dal quesito su quanto sia condizionante che un bene culturale di proprietà statale venga gestito da "altri" soggetti, per chiedersi, poi, se ci siano differenze significative tra la gestione di un bene privato o pubblico. Punto di arrivo sarà tentare di capire se nel triangolo relazionale bene-disciplina del bene-gestore il dato della proprietà possa essere in qualche modo reso "neutro" appoggiandosi all'aspetto regolativo-garantistico.

Non si darà conto, quindi, delle ricadute dei diversi regimi di appartenenza su altri aspetti della vita dei beni diversi dalla gestione, come i procedimenti di individuazione o la circolazione giuridica ecc., che presentano evidenti differenze a seconda del soggetto proprietario, differenze che rispondono a logiche e ragioni molto diverse rispetto a quelle che presiedono alle norme sulla gestione.

Ancora, occorre sottolineare come sia oggi impossibile trattare della gestione dei beni culturali senza tenere conto della recente riforma costituzionale. Necessariamente, infatti, parte della disciplina che sarà richiamata ha assunto carattere per così dire transeunte, è cioè destinata ad essere modificata in linea con le nuove disposizioni costituzionali; in parte, viceversa, quello che si tratteggerà è uno stato delle cose che ancora non esiste, un dover essere.

Si cercherà pertanto di soffermarsi, più che sulle disposizioni puntuali, su quegli aspetti che rispondono a principi, a idee che in parte risalgono già a quella stagione degli anni Trenta in cui il "moto delle idee" [2] fu di tale ampiezza da elaborare aspetti fondanti, ancora oggi validi e imprescindibili, della disciplina dei beni culturali, in parte stanno ridisegnando il sistema di relazioni tra livelli di governo e tra apparati pubblici e società civile. Principi e idee più o meno assimilati dall'ordinamento giuridico, che in ogni caso costituiscono il punto fermo, il riferimento per quanto possibile certo cui ancorarsi per tentare una ricostruzione d'insieme leggibile.

 

3. Il bene culturale: proprietà e gestione

Per quanto nota, la prima cosa cui anche solo accennare parlando di beni culturali non può che essere il richiamo all'elaborazione dottrinale che li ha riguardati, elaborazione che ne propone la concezione come "beni funzionali" [3], come beni comunque "di interesse pubblico" anche se appartenenti a privati [4], come "beni pubblici non in quanto beni di appartenenza, ma in quanto beni di fruizione" [5]. Questi fondamentali contributi ci hanno, come si sa, trasmesso di essi una concezione unitaria come oggetto di tutela giuridica differenziata in ragione della funzione cui l'essere dotati di un'intrinseca e originaria attitudine a soddisfare un pubblico interesse (la crescita culturale della collettività) li destina. Unitarie sono pertanto le potestà che l'amministrazione esercita su di essi per rendere effettivo l'assolvimento di detta funzione.

Ciò indipendentemente dal loro regime di appartenenza: la proprietà è infatti ripartita tra i vari soggetti dell'ordinamento, cui fanno capo classificazioni diverse. Se così in ordine ai beni appartenenti a persone fisiche private, enti pubblici e privati può risultare sufficiente il richiamo (che si riprenderà oltre) a quella che è stata definita "proprietà divisa" [6] o alla risalente teoria che l'appartenenza ai cosiddetti corpi morali fosse simile alla proprietà pubblica quanto alla vocazione a realizzare l'interesse pubblico cui i beni sono preordinati, per i beni dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali il discorso è più complesso. Mi limiterò a dire, tralasciando invece la trattazione dei diversi regimi (demaniale, patrimoniale indisponibile e disponibile) dei beni di proprietà pubblica [7], che l'appartenenza pubblica è stata storicamente intesa come sinonimo di garanzia dell'assolvimento della funzione connaturata ai beni.

E', in ogni caso, una proprietà funzionalizzata.

La gestione di tali beni, dunque, diventa un mezzo per assicurarne la finalità sociale di "fruibilità universale" [8]. Essi sono, prescindendo dalla loro titolarità, sottoposti comunque allo "statuto" dei beni culturali, ossia a quella disciplina unitaria speciale che deve la sua ragion d'essere alla funzione pubblica incorporata in essi.

Si procederà quindi tratteggiando sommariamente i contenuti di detta disciplina che incidono sull'attività dei gestori, passando poi al profilo soggettivo dell'esercizio della gestione, per giungere a tentare di comprendere se la relazione bene-gestore è influenzata in maniera rilevante dall'appartenenza a soggetti privati oppure pubblici e, per questi ultimi, dalla scissione fra titolarità e gestione.

 

4. Lo "statuto" di tutela: limitazioni ed obblighi gravanti sulla gestione dei beni culturali

Già nel dibattito culturale e politico che precedette l'adozione della legge 1 giugno 1939, n. 1089 era chiara l'esigenza di fornire di una legislazione adeguata beni e diritti connessi alla cultura: la funzione che lo Stato assegnava all'arte come strumento indispensabile di educazione della collettività era infatti ritenuta di primaria importanza dal regime fascista. Il fulcro della disciplina del 1939 fu così modellato sull'idea di garantire ai beni culturali la duplice priorità di conservazione delle caratteristiche storico-artistiche e di garanzia della fruizione pubblica. L'impostazione di fondo si incentrò sulla limitazione delle facoltà di godimento dei privati: una delle novità più significative fu proprio la generalizzazione per tutti i beni culturali - mobili e immobili, pubblici, privati, di enti morali - del divieto di apportare modificazioni senza l'autorizzazione ministeriale e la previsione di un potere di intervento diretto in ordine alla conservazione. Nella ricerca di un "punto di equilibrio tra interessi pubblici e interessi privati" fu elaborato uno "statuto" di tutela che rappresenta la dichiarazione di primazia dell'interesse pubblico alla funzionalizzazione della proprietà privata in vista dell'utilità sociale dei beni in questione [9]. In un regime politico certamente illiberale nacque dalla lungimiranza di Giuseppe Bottai, ministro dell'Educazione nazionale, una disciplina forte, poco attenta forse al sacrificio di diritti e facoltà dei cittadini, ma sicuramente ampiamente garantista per la salvaguardia del patrimonio culturale italiano.

La legislazione attuale (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490) rielabora, condividendone struttura e contenuti di massima, i principi concepiti negli anni Trenta. Le serie di obblighi e limitazioni connesse alla disponibilità dei beni in parola si possono così ancora ricondurre alle due finalità indicate dalla legge 1089, conservazione e fruibilità; finalità spesso in conflitto (un bene molto fruito può essere più in pericolo di un altro reso inaccessibile), ove la seconda cede di fronte alla prima, prioritaria.

Conservazione, innanzitutto. E dunque la legislazione prevede il divieto e il correlativo obbligo di chiedere l'autorizzazione ministeriale per qualsiasi attività che comporti la modificazione delle condizioni fisiche dei beni: l'esecuzione di opere di qualunque genere [10], la rimozione dalla collocazione abituale [11], gli interventi di restauro [12]; è previsto poi l'obbligo di denuncia della determinazione di disporre materialmente [13] degli immobili che si hanno in consegna e degli atti di disposizione giuridica [14] di tutte le tipologie di beni culturali. Vi è poi la previsione di una serie di poteri in capo al ministero in ordine alla conservazione, come il potere di intervento diretto [15] sui beni di proprietà di chiunque, oltre che ovviamente dello Stato stesso [16], il potere di imporre al proprietario, possessore o detentore l'esecuzione delle opere necessarie alla conservazione e la correlata vigilanza del ministero (e delle regioni) sui beni culturali in generale [17] e sulla conservazione dei beni di proprietà dello Stato "da chiunque tenuti in uso o in consegna" [18] (altre amministrazioni statali, autonomie territoriali, privati ecc.), oltre agli obblighi e controlli calibrati su singole tipologie di beni (beni librari, archivi...) A tali obblighi e limitazioni sono tenuti, in generale, tutti coloro che si rapportano giuridicamente col bene: proprietari, possessori e detentori.

Fruibilità, poi. E' così disciplinato il divieto di destinare i beni ad usi incompatibili con il loro carattere storico-artistico [19], l'apertura al pubblico degli immobili restaurati con il contributo finanziario dello Stato [20], l'obbligo di assicurare il godimento pubblico di beni di eccezionale interesse culturale anche se di privati [21], l'accesso agli archivi privati [22]. E', ancora, enunciato il principio secondo cui i beni culturali demaniali sono destinati al pubblico godimento [23].

Nel percorso sinteticamente richiamato si legge dunque con chiarezza la volontà di conformare la concreta gestione del bene culturale al fine di garantirne la funzione, pubblica. E proprio qui si nota l'indipendenza della disciplina dalla qualificazione del soggetto proprietario: come se dal gestore pubblico, vocato di per sé a dare effettività alla funzione del bene, si potesse passare senza strappi al gestore privato in quanto sottoposto al controllo pubblico.

 

5. I soggetti proprietari: la gestione dei beni statali

5.1. I beni culturali facenti capo allo Stato

Per trattare dei beni culturali facenti capo allo Stato (e agli altri enti territoriali) risulta difficile prescindere dal richiamo, anche solo schematico, alla ripartizione codicistica; ripartizione non necessariamente condivisa, ma di cui occorre prendere atto, stante la diversità della disciplina giuridica da applicare ai beni che essa genera:

- il demanio c.d. accidentale. Vi rientrano "gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche" (art. 822, comma 2, cod. civ.). La titolarità di tali beni fa capo allo Stato (come agli altri enti territoriali) come soggetto dotato di personalità giuridica, a prescindere da quale sia l'amministrazione statale consegnataria, che li gestisce. L'elaborazione dottrinale propone la configurazione di questa appartenenza non come titolarità di un vero e proprio diritto di proprietà privata: quello dello Stato assomiglierebbe piuttosto a un ruolo di "gestore" pubblico dei beni in oggetto, titolare di funzioni che ne assicurano la fruibilità pubblica [24]. La demanialità sarebbe leggibile come "proprietà collettiva demaniale", ossia un'appartenenza meramente funzionale al libero godimento da parte della collettività [25].

- il patrimonio indisponibile. Ne fanno parte le "cose di interesse storico, artistico, paletnologico, paleontologico e artistico da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo" (art. 826, comma 2). Si tratta di una sorta di qualificazione giuridica provvisoria [26], nell'attesa che venga compiuta una valutazione tecnica a seguito della quale il bene verrà qualificato come demaniale o patrimoniale indisponibile (se immobile o mobile [27]) oppure come bene che non presenta interesse storico-artistico. Ancora, rientrano nel patrimonio indisponibile gli "edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio" (art. 826, comma 3). E' noto come molti di questi siano beni che presentano un interesse storico-artistico. Essi si caratterizzano però anche per la destinazione loro impressa; in questo caso i beni mobili-arredi sarebbero disponibili, ma vi è una sovrapposizione del vincolo pubblicistico di destinazione che comporta una restrizione dell'autonomia del soggetto titolare.

- il patrimonio disponibile. Qui l'appartenenza allo Stato ha le caratteristiche di un vero e proprio diritto di proprietà privata.

5.2. Segue: l'individuazione dei soggetti deputati alla gestione: la sussidiarietà verticale

Per capire quali sono i principi che reggono l'individuazione dei soggetti deputati alla gestione dei beni culturali e, discorso non scindibile da questo, quali gli strumenti che l'ordinamento predispone per lo svolgimento di detta funzione, conviene partire dal dato fattuale.

Esiste innanzitutto una gestione diretta, che passa attraverso la struttura ministeriale, le soprintendenze, le gestioni autonome [28], le biblioteche statali come organi ministeriali, gli Archivi di Stato, i "musei e gli altri istituti di conservazione dotati di autonomia" [29]; vi sono poi l'agenzia del Demanio [30] e la Patrimonio dello Stato Spa [31].

Compito dell'agenzia è provvedere all'"amministrazione" dei beni immobili dello Stato, razionalizzarne e valorizzarne l'impiego utilizzando "criteri imprenditoriali", curarne la manutenzione ordinaria e straordinaria e la loro "gestione produttiva" [32]. Altrettanto, lo statuto della Patrimonio Spa indica nella "gestione" del "patrimonio dello Stato" l'oggetto sociale, con particolare riferimento alla gestione, "amministrazione, vigilanza e tutela", "manutenzione, ristrutturazione e utilizzazione" di "immobili, ad essa trasferiti o affidati in gestione" e ancora gestione "del patrimonio di altri soggetti pubblici".

Limitandoci in questa sede a prendere atto della nebulosità dei contorni che tratteggiano le competenze dei due enti, e rimandando per meditate proposte di lettura in tema ad altri saggi in questa Rivista [33], preme comunque sottolineare il tratto diversificante dei due ordini di amministrazioni statali - richiamate sopra - titolari di compiti di gestione. Alle amministrazioni "specializzate", di genere ministeriale - vocate in quanto tali a garantire una gestione improntata alla culturalità dei beni -, si contrappongono l'agenzia del Demanio e la Pspa, deputate a svolgere compiti di gestione - e altro - nei confronti della generalità dei beni di proprietà statale: quindi anche di categorie di beni assolutamente eterogenee, quanto ad esigenze di garanzia, rispetto ai beni culturali. Del tutto condivisibili suonano dunque le considerazioni di chi [34] critica l'amministrazione unitaria dei beni culturali e degli altri beni statali.

Tornando all'analisi del dato giuridico, si nota come l'esercizio della gestione a livello centrale sia stato in passato considerato scontato, quasi che essa non fosse una "funzione amministrativa", ma si trattasse di un compito che consegue semplicemente alla mera titolarità dei beni: gestione statale, dunque, per i beni statali e così via. Peraltro già nel decentramento degli anni '70 [35] si spezzò la corrispondenza proprietà-gestione a favore del criterio della dimensione dell'interesse [36]. Il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 [37] consacra poi il principio di sussidiarietà verticale nel trasferimento della funzione di gestione dei musei e altri beni culturali statali a regioni ed altri entri locali. Ma, come si sa, l'art. 150 [38] è ancora lontano dall'aver trovato attuazione: l'inerzia delle commissioni paritetiche ricade sulla mancata individuazione delle competenze delle regioni e degli enti minori, mentre a livello centrale resta tutto immutato [39]. L'unica previsione in ordine alla devoluzione della gestione che ha finora trovato applicazione è quella relativa alle biblioteche universitarie (art. 151), che ha visto concludere la prima delle convenzioni tra ministero e università nel giugno 2000 (università di Bologna [40]).

Poiché l'individuazione della rosa di soggetti cui può essere attribuita la gestione dei beni culturali è operata legislativamente, non si può procrastinare qualche cenno alla riforma costituzionale che sta ridisegnando i contorni del loro rapporto con i beni stessi e che porta a chiedersi se l'impianto esistente sia ancora legittimato ad essere. Cambiano infatti i connotati dei soggetti, degli attori sulla scena; attori pubblici, per lo più, i cui rapporti vengono rivoluzionati; attori privati, la cui identità deve essere riconsiderata in relazione ai mutamenti che interessano il "pubblico" ed il cui ruolo è stato costituzionalizzato nel principio di sussidiarietà orizzontale. Al centro restano però i beni, "contesi" tra Stato e autonomie, coinvolti nella riorganizzazione amministrativa di uno Stato che sta assumendo un volto federale e che sempre più utilizza strumenti di diritto privato per perseguire fini pubblici.

Il nuovo art. 117 Cost., come si sa, modifica la ripartizione della competenza legislativa in materia di beni culturali: esclusiva statale sulla tutela e concorrente sulla valorizzazione. Manca dunque un riferimento espresso alla gestione. Di qui il dubbio che il legislatore costituente volesse collocare tale materia tra quelle di competenza residuale, dunque piena, regionale ai sensi dell'art. 117, comma 4 [41]. Seguendo altra impostazione si è sostenuto che essa rientri di volta in volta nei concetti di tutela o di valorizzazione: la definizione che infatti l'art. 148 del d.lg. 112/1998 dà della gestione ("ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali, concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e valorizzazione") autorizza a sostenere che tale funzione "partecipi contestualmente di entrambi i profili (tutela e valorizzazione), risultando in concreto riferibile all'una o all'altra secondo la specifica finalità che, di volta in volta, si trovi a perseguire" [42]. Ancora, si è sottolineata la natura strumentale dell'attività di gestione rispetto alla materia della valorizzazione, giungendo a negarne la connotazione di vera e propria materia autonoma [43]; nulla di strano dunque la mancata previsione a livello costituzionale.

In proposito il Consiglio di Stato [44] osserva come sia comunque necessario inquadrare tale "materia" al fine di individuare il riparto della competenza normativa sulla gestione e ne statuisce la maggiore connessione con il concetto di valorizzazione piuttosto che con quello di tutela. Il Consiglio, quindi, considera la gestione dei beni culturali come materia attribuita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle regioni; spetterà così allo Stato l'individuazione dei principi fondamentali e alle regioni la normativa di dettaglio. Ancora, però, si attende la parola finale sul punto: pende infatti ricorso per l'illegittimità costituzionale dell'art. 33 della legge finanziaria 2002, legge 28 dicembre 2001, n. 448, norma in tema di gestione e valorizzazione che si inserisce in un sistema di competenze legislative e regolamentari che non corrisponde più al dettato costituzionale: la pronuncia della Corte, attesa per primavera 2003, dirimerà i dubbi in ordine alla spettanza di tali competenze.

Ma forse il nodo più importante per le ricadute pratiche cui la sua interpretazione può condurre è quello dell'allocazione della funzione amministrativa di gestione dei beni culturali. Che la gestione sia una funzione amministrativa ce lo dice l'art. 148 del d.lg. 112/1998. Secondo il nuovo art. 118, comma 1 Cost., spetterebbe dunque a titolo originario ai comuni, salvo l'attivarsi del principio di sussidiarietà in senso verticale. Tra le problematiche che tale norma pone, si evidenzia la necessità di una preventiva individuazione e attribuzione delle funzioni agli enti territoriali di base mediante intervento legislativo e la connessa fissazione del livello adeguato di svolgimento della funzioni, dunque l'attivarsi del livello superiore secondo i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione [45]. Quanto alla paternità di detta legislazione, se statale o regionale, essa dovrebbe seguire il riparto materiale operato dall'art. 117 [46], salvo poi chiedersi se l'attribuzione e il connesso scorporo delle funzioni amministrative in base al criterio di adeguatezza - seguendo l'interpretazione del Consiglio di Stato che ravvisa nella gestione una materia di potestà concorrente - siano principi fondamentali o normativa di dettaglio.

Il tassello mancante al quadro d'insieme dei rapporti tra soggetti istituzionali in questo ambito è rappresentato dal principio di leale collaborazione, cui manca qualsiasi riferimento espresso in materia di gestione [47], ma che la giurisprudenza costituzionale sull'art. 9 Cost. [48] indica come criterio necessario nei modelli relazionali tra amministrazioni e tra diversi livelli di governo [49]. Perfino ove trova applicazione una riserva statale di competenze, come quella operata in relazione alla tutela [50], il criterio di riparto delle funzioni (gestione, valorizzazione, promozione) deve avvenire secondo tale principio. Principio ancor più utile ora, essendo mancata nella normativa sulla devoluzione (d.lg. 112/1998) l'individuazione di un preciso criterio di ripartizione delle competenze di gestione, salvo il richiamo al principio di sussidiarietà. Ma anche tale principio andrebbe letto in senso collaborativo più che competitivo.

Collaborazione dunque nell'individuazione delle competenze da trasferire e nell'esercizio delle funzioni - e la previsione della commissione paritetica ex art. 150 d.lg. 112/1998, come delle "forme strutturali e funzionali di cooperazione" nell'ambito della valorizzazione di cui all'art. 152, comma 1, può senz'altro essere letta in questi termini -. Collaborazione per il raggiungimento del livello adeguato dello svolgimento dei compiti, ove l'esercizio in forma associata diviene il nodo centrale su cui si baserà l'allocazione delle funzioni amministrative, in una "logica di sistema" basata su "progetti comuni" coinvolgenti anche soggetti esterni ai soli enti territoriali [51]. Forme di raccordo al centro che assolvano all'imprescindibile compito di regolazione - così, da salutare con soddisfazione è la definizione degli standard minimi da osservare nella gestione dei musei [52], non solo perché si tratta di regole "codecise", "concertate" da Stato e autonomie [53], ma perché con l'adozione dell'Atto in parola si è andati al di là dell'occasione per cui esso era stato previsto [54]: sono regole che valgono per la generalità dei musei, privati, pubblici, statali, locali, da chiunque gestiti. Una sorta di "statuto di gestione", alla cui importanza si accennerà nella parte conclusiva di questo lavoro -. Collaborazione negoziale, ancora, tra livelli di governo: la programmazione negoziata è un duttile strumento capace di superare le rigidità di impostazione derivanti dall'applicazione della norma, già utilizzato e cui sempre più si farà ricorso [55]; forse addirittura il punto di approdo del sistema complessivo studiato per la gestione dei beni culturali pubblici.

I rapporti verticali e orizzontali tra soggetti pubblici non possono dunque d'ora in avanti prescindere da modalità di cooperazione negoziale [56], di cui manca peraltro una disciplina organica che vada al di là dei modelli proposti dalla legge 241/1990.

5.3. Segue: l'esternalizzazione della gestione tra sussidiarietà orizzontale e riorganizzazione

E' ormai un dato di fatto acquisito che la pubblica amministrazione stia rivedendo il proprio ruolo all'interno della società, ritirandosi dalla gestione diretta di una serie di attività che aveva in passato svolto per riservarsi un ruolo di regolazione e controllo, lasciando la gestione ad altri, mercato, società civile oppure utilizzando organizzazioni miste, con una commistione dei due ruoli.

Le formule che il legislatore-regolatore ha predisposto per l'esercizio delle attività inerenti la gestione dei beni culturali statali hanno ormai di molto superato il primo ingresso dei "privati" all'interno dei musei statali previsto dalla legge Ronchey (legge 14 gennaio 1993, n. 4). Gli strumenti oggi a disposizione dell'amministrazione statale si ritiene possano riguardare la gestione tutta del bene. Infatti la norma capostipite sull'esternalizzazione dei servizi relativi ai beni culturali a livello ministeriale (art. 10, decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 [57], come modificato dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289, art. 80, comma 52) dispone tale possibilità in capo al ministero "ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale...".

Si consenta qui una breve digressione sulla novella, piuttosto significativa, appena compiuta. La legge finanziaria 2003 reintroduce - sostituendo alla parola "valorizzazione" la locuzione "gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale" - la "dimensione dell'interesse" come criterio per l'allocazione delle competenze di gestione, criterio che era stato illuminatamente messo da parte già da quattro anni, con l'introduzione del criterio di sussidiarietà, nel frattempo addirittura costituzionalizzato [58]. Lo svolgimento di tale compito non dovrebbe dunque spettare ai livelli territoriali di base e al ministero solo ove i livelli inferiori non si dimostrino adeguati? Poiché non si tratta infatti di compiti connessi alla tutela - ove la riserva di funzioni amministrative all'apparato centrale (art. 7, l. 59/1997) è legittimata dalla potestà legislativa esclusiva statale in materia -, forse più in linea con il dettato costituzionale sarebbe stato prevedere la possibilità di esternalizzare i servizi "relativi ai beni culturali la cui gestione è attribuita al ministero in base al principio di sussidiarietà".

Ci si chiede poi la ragione dell'aver limitato l'applicabilità dell'art. 10 ai beni individuati dalle lettere b) e c) dell'art. 2, comma 1, d.p.r. 283/2000: perché poter esternalizzare i servizi relativi ai beni collegati a fattori storici, nonché i beni archeologici, e non invece gli altri beni, sempre "di interesse nazionale"? Tra questi ultimi, esclusi, rientrerebbe, per intenderci, anche il Colosseo. Soccorre per fortuna la prima parte dell'articolo 10 - "ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni" -, previsione di carattere generale, invocabile per ricomprendere fattispecie altrimenti ingiustificatamente tagliate fuori.

Tornando all'analisi del testo normativo, i moduli organizzativi previsti dalla normativa - di cui si è avuta la prima applicazione con la recentissima nascita della Fondazione museo della antichità egizie di Torino [59] - sono, come risaputo, di tre tipologie: a) la costituzione o partecipazione ad organismi misti (associazioni, fondazioni, società); b) la conclusione di accordi di diritto pubblico; c) la concessione della gestione dei servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico [60] o la concessione della gestione dei beni [61]. Moduli che vanno letti anche il relazione al processo di devoluzione della gestione alle autonomie territoriali: esse hanno infatti a disposizione, per assolvere a tale compito, "l'intera gamma delle soluzioni istituzionali" [62] prospettate sia per il livello ministeriale che per il livello regionale-locale.

I soggetti: altre amministrazioni, soggetti privati. Si è cioè dato voce alle istanze di pluralismo sentite ormai come ineliminabile carattere della società moderna. L'autonomia privata, con la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, comma 4, Cost.), vede ora mutare il proprio ruolo e addirittura i propri contorni giuridici potendo essere indirizzata al perseguimento di utilità generali, non più solo individuali. Ci si chiede, tra l'altro, quale sia il "privato" cui è rivolta la generalizzazione del principio di sussidiarietà: solo, cioè, il privato sociale - come desumibile dal collegamento anche terminologico tra la dizione "cittadini singoli e associati" (art. 118, comma 4) e le "formazioni sociali" di cui all'art. 2, comma 1, Cost. - oppure anche le formazioni lucrative? In ogni caso, il principio in parola sembra doversi intendere, nel campo della gestione e valorizzazione dei beni culturali, in senso collaborativo: non come legittimazione della presenza pubblica solo ove manchi l'iniziativa privata, ma come cooperazione, coinvolgimento da parte del "pubblico" delle diverse realtà sociali insistenti su un determinato territorio.

Si evidenziano così, ma non si può che richiamarli succintamente, alcuni aspetti che inducono a chiedersi quando realmente ci si trovi di fronte alla collocazione all'esterno dell'esercizio di attività e funzioni, o quando invece si tratti di operazioni che rispondono alla sola logica di riorganizzazione dell'amministrazione: la complessa problematica della scelta da parte della pubblica amministrazione se amministrare per organizzazione o per contratto [63]; la tendenza all'utilizzo di modelli pattizi, formalmente privatistici, per amministrare; la privatizzazione formale di istituti, culturali nella fattispecie, e l'affidamento della loro gestione a organizzazioni miste rispondente più che a una reale volontà di riduzione del pubblico a una mera esigenza di utilizzo di strumenti privatistici nello svolgimento dell'attività, che - mutuando la terminologia comunitaria - resta erogata da "organismi di diritto pubblico". Questi dubbi rilevano ai fini del nostro discorso poiché base di partenza per capire quanto la scissione fra titolarità e gestione del bene sia condizionante è la reale o invece solo formale alterità tra Stato proprietario e soggetto o organizzazione che gestisce.

5.4. Segue: il rapporto Stato proprietario - gestore

Sul piano teorico-dogmatico, per i beni culturali demaniali, salvo il caso che siano concessi in uso eccezionale [64] ad alcuno, la destinazione alla fruizione pubblica troverebbe realizzazione diretta: non avrebbero senso di essere dunque obblighi e limitazioni dettate per garantirne l'effettività. Quanto alle esigenze di conservazione, il ministero ha, ovviamente, potere di intervento diretto; potere molto spesso non usato per ragioni varie, prima fra tutte problemi di fondi.

Si ritiene che nel caso che consegnataria del bene, demaniale o patrimoniale, sia un'amministrazione statale esterna al ministero per i Beni e le Attività culturali, non vi sia un rapporto giuridico intercorrente tra soggetti diversi; pertanto il rapporto non può ricostruirsi in termini di autorizzazioni [65].

Diverso è il discorso quando consegnataria sia un'amministrazione di un diverso livello di governo: qui le relazioni tra gestore e ministero sono caratterizzate dall'alterità soggettiva, che implica l'instaurazione di un rapporto di vigilanza e controllo, con il connesso esercizio di poteri di tutela.

Peculiare poi è la commistione di ruolo gestore-controllore che il ministero acquisisce nel caso delle organizzazioni miste, ove l'alterità soggettiva formale implica l'instaurarsi di un rapporto di genere autorizzatorio pur in una situazione di sostanziale identità tra centro di imputazione decisionale e amministrazione vigilante.

Decisamente efficace, sul piano teorico, per assolvere alle esigenze di conservazione, fruizione e destinazione sembra risultare il tipo di garanzia predisposta dal decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2000, n. 283: in caso di mancata osservanza degli impegni assunti in ordine ai beni demaniali concessi in uso è prevista la revoca della concessione o la risoluzione della convenzione stipulata tra amministrazione e soggetto gestore-utilizzatore (art. 17). La sanzione della risoluzione del contratto, con la consequenziale restituzione del bene, sembra idonea a rendere gli obblighi connessi al valore culturale del bene realmente cogenti e a garantire l'effettività del loro assolvimento. Se ne attende, per poterne valutare la reale portata, la concreta attuazione.

 

6. I beni degli enti locali

Poiché la normativa statale indica come modelli connessi alla gestione dei beni culturali le formule della gestione dei servizi pubblici locali [66], viene in rilievo la ricostruzione teorica della coincidenza tra uso pubblico dei beni demaniali e l'erogazione di servizio pubblico [67]: l'offerta al pubblico del bene può infatti essere assunta come servizio pubblico da parte dell'ente titolare, in base ad un programma di gestione del servizio.

La legislazione prevede, accanto alle modalità già esistenti di gestione, la possibilità, per i soli servizi culturali, di affidamento diretto della gestione a fondazioni e associazioni costituite o partecipate dall'ente locale (art. 113-bis decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dalla l. 448/2002). Si delineano così tre tipologie di gestione: a) l'esternalizzazione, ossia l'affidamento a terzi, necessariamente tramite procedure ad evidenza pubblica; b) le figure miste, che prevedono la partecipazione di altri soggetti, pubblici o privati, ossia l'affidamento diretto ad associazioni, fondazioni e società costituite o partecipate; c) l'intervento diretto dell'ente locale o l'utilizzo di sue articolazioni strutturali, come l'istituzione o l'azienda speciale [68]. Non connessa allo svolgimento di un servizio pubblico è invece la fattispecie di concessione dei beni demaniali degli enti territoriali o la loro utilizzazione tramite convenzione prevista dal già citato regolamento d.p.r. 283/2000.

Il rapporto tra ente proprietario ed ente gestore è regolato da contratto di servizio o da convenzione, che presumibilmente stabiliranno anche come debbano ripartirsi gli oneri procedurali, organizzativi e finanziari relativi all'applicazione della normativa di tutela, quindi anche il rapporto tra amministrazione centrale deputata alla tutela, ente titolare del bene e gestore. Si ricorda, in ogni caso, che la maggior parte degli obblighi in parola è connessa alla disponibilità del bene, non solo alla sua proprietà.

 

7. I beni degli altri enti pubblici e delle persone giuridiche senza scopo di lucro

Se la costituzione dello status di bene culturale degli enti pubblici diversi dallo Stato e delle persone giuridiche senza scopo di lucro risente dell'impostazione che considera la loro soggettività giuridica come derivata da quella statale - con un "nesso genetico" [69] che implica la subordinazione del loro diritto di proprietà sui beni all'interesse pubblico, e giustifica quindi l'adozione del medesimo tipo di procedimento per l'individuazione (elenchi con valore dichiarativo) -, la loro gestione è sottoposta allo "statuto" dei beni e dunque impone agli enti di relazionarsi con l'amministrazione preposta alla tutela in condizione di alterità rispetto ad essa, quindi al pari dei soggetti "privati" (singoli e organizzazioni lucrative).

Discorso a parte bisogna fare per i beni culturali di proprietà degli enti ecclesiastici, ove la normativa recepisce i principi costituzionali di "bilateralità della regolamentazione dei fenomeni religiosi" [70]. Per essi (ma solo per quelli necessari al soddisfacimento delle esigenze di culto) la normativa [71] prevede che il ministero provveda d'accordo con le rispettive autorità, con valutazione concorrente degli aspetti procedurali e delle modalità di attuazione degli istituti di tutela [72]. Limitazioni ed obblighi sono quindi calibrati anche sulle esigenze connesse al culto: alla duplicità di interessi - storico-artistico e religioso - insistenti sui beni corrisponde una bilateralità di regolamentazione.

 

8. I beni dei privati

La generica amministrazione-gestione dei beni culturali appartenenti a privati - e in questa categoria rientrano i singoli e le organizzazioni lucrative - è connessa alla loro disponibilità materiale, che resta in genere in capo al proprietario. La legislazione interviene conformandone la proprietà per garantire la "funzione sociale" dei beni. Viene qui in rilievo il rapporto tra l'art. 9 e l'art. 42 Cost.: vi è cioè una compressione delle facoltà dominicali la cui ratio è una gestione orientata al rispetto del valore culturale del bene.

Gli obblighi di conservazione e soggezione agli interventi pubblici sono giustificati dall'ambito di "appartenenza" pubblica del bene, ove al privato spetta un diritto di proprietà "funzionalmente conformato", consistente in un'"utilizzazione controllata": una sorta di "trasposizione del contenuto della demanialità in termini di gestione orientata alla tutela" [73]. La condizione di appartenenza è stata ricostruita in termini di "proprietà divisa" [74]: al diritto di proprietà di diritto comune si affiancherebbe la disciplina speciale. Entrambe sono configurabili come forme di dominio sulla cosa, una di genere pubblicistico ed una privatistica, generanti due distinte tipologie di poteri e facoltà capaci di assicurare soddisfazione ad interessi di natura diversa e facenti capo a soggetti diversi. Anche il privato, cioè, come il proprietario pubblico, sarebbe visto come un custode-gestore del valore culturale connaturato al bene [75].

Dal punto di vista della qualificazione giuridica della relazione proprietario-amministrazione, non sembra potersi configurare un rapporto giuridico obbligatorio "generico", bensì obblighi e soggezioni specifiche in capo al privato ogni qualvolta l'amministrazione, titolare dell'interesse alla conservazione ecc. della cosa, eserciti le facoltà di intervento riconosciutele dalla legge [76].

Almeno un richiamo occorre poi fare alla categoria di beni appartenenti al demanio storico-artistico alienati ai privati ex d.p.r. 283/2000: il rispetto necessario del programma di tutela e valorizzazione - artt. 7, 10 e 11 -, che indica destinazione d'uso, misure di conservazione e impegno a garantire la pubblica fruizione del bene in rapporto alla precedente destinazione d'uso, e la connessa clausola risolutiva espressa in caso di violazione sembrano costituire uno strumento capace di dare effettività alla protezione dell'interesse pubblico al mantenimento al bene delle caratteristiche "demaniali" (conservazione, destinazione d'uso e fruizione). Il programma - la cui natura giuridica di onere reale o obbligazione propter rem sembra incerta [77] -, infatti, è soggetto a trascrizione nei registri immobiliari poiché contenuto nell'autorizzazione: viene quindi reso opponibile anche ai successivi acquirenti.

 

9. Considerazioni conclusive

Nell'impianto attuale della normativa sui beni culturali l'appartenenza occupa un posto rilevante: pubblico-privato, centro-autonomie, in una contrapposizione di ruoli e in un sistema di rapporti di genere competitivo.

Non si possono però non considerare i cambiamenti sostanziali, di principio, di metodo, di cultura che stanno interessando oggi in Italia questo settore. Cambiamenti che impongono un ripensamento dell'intera struttura istituzionale che ruota intorno ad essi e una diversa concezione del rapporto tra pubblico e privato.

L'area dei soggetti che si relazionano istituzionalmente col bene, infatti, si amplia e si ampliano i titoli in base ai quali tale relazione può declinarsi: privato non profit e lucrativo, pubblico di diversi livelli di governo, organizzazioni miste, proprietari, gestori, amministrazioni regolatrici, ruoli di controllo interno alle organizzazioni partecipate o ruolo di vigilanza esterna. In questa commistione di ruoli, in ogni caso al "pubblico" non possono non far capo i compiti di dettare le regole che gli "altri" devono seguire, gli standard qualitativi ... in breve l'attività di regolazione; un "pubblico" da intendere oggi non più come sinonimo di statale, stante la nuova ripartizione della competenza legislativa tra Stato e regioni in materia di valorizzazione.

Resta la domanda iniziale: è pensabile la configurazione di uno strumento idoneo a dare effettività alla vocazione del bene alla diffusione del valore culturale in esso incorporato, rendendo ininfluente la separazione fra titolarità del bene ed esercizio dell'attività di gestione, nonché la differenza tra la gestione di un bene privato o pubblico - la questione pare piuttosto rilevante, vista la recente normativa sull'alienabilità dei beni statali -?

Credo che la risposta si trovi nell'assoluta attualità delle considerazioni svolte da Giannini nel 1976 [78] sulla distinzione giuridica del bene culturale come bene immateriale, aperto alla fruibilità universale, e bene patrimoniale, su cui influisce sì l'appartenenza, pubblica o privata; appartenenza che però non incide a sua volta sulle potestà pubbliche preordinate a garantire la funzione del bene. La configurazione funzionale unitaria del bene culturale, che supera la dicotomia tra proprietà pubblica o privata, e giustifica l'adozione di uno "statuto" di tutela, dovrebbe indurre a considerare centrale l'aspetto della garanzia della fruibilità: ma "gestire" un bene culturale non significa proprio orientarlo alla fruibilità attuale e futura, intesa come fine ultimo, non scindibile dall'esigenza strumentale di conservazione degli aspetti caratterizzanti il bene come "culturale"?

Si potrebbe dunque arrivare a considerare l'opportunità di elaborare uno "statuto minimo di gestione" - o forse sarebbe meglio parlare di tanti "statuti di gestione" quante sono le regioni italiane, atteso che la materia dovrebbe seguire la ripartizione di competenze legislative indicate per la valorizzazione (secondo il Cons. Stato, parere cit.): così il Parlamento ne detterebbe i principi fondamentali lasciando ai consigli regionali le previsioni di dettaglio -, che renda la gestione del bene impermeabile non solo all‘appartenenza, ma anche alle scelte organizzative dell'amministrazione, come alla necessaria differenziazione dei contesti derivante dall'operare del principio di sussidiarietà. Uno "statuto di gestione" che ricucia strappi e cedevolezze del sistema intorno alla primaria esigenza di preservare quella destinazione alla fruibilità insita nel concetto stesso di bene culturale.

L'importanza della determinazione degli standard museali messa a punto un anno e mezzo fa, destinata com'è all'intera "platea" dei musei italiani [79], risiede proprio nel suo carattere di codice di regolamentazione della gestione, un organico "manuale di qualità" destinato ai gestori di musei [80]. La diversificazione fra le tipologie di beni culturali richiede però la ponderazione di regole simili anche per i beni diversi da quelli museali, regole calibrate sulle differenti esigenze poste da essi: gli obblighi, le limitazioni, le aspettative facenti capo al gestore, infatti, non possono che essere molto eterogenei, ove addirittura per date tipologie di beni risulta impossibile parlare di "gestione" [81].

La prevalenza del dato oggettivo - la centralità del bene con la sua disciplina finalizzata alla protezione (statuto di tutela, già esistente) e diffusione (statuto di gestione) del valore culturale - sul dato soggettivo può forse rappresentare una soluzione capace di mettere i beni al riparo da logiche di contrapposizione e, a volte, anche aziendalistiche o di profitto che in una società culturalmente matura non dovrebbero poter riguardare beni meritori [82] e fortemente identitari come quelli culturali.

Quanto alle problematiche connesse alla devoluzione, in ultimo, se il trasferimento della proprietà in capo alle autonomie è più che condivisibile sul piano della coerenza con le riforme istituzionali che intessano l'assetto amministrativo dello Stato, riportando la questione al diverso livello del microcosmo della realtà dei beni culturali può forse sembrare altrettanto opportuno concentrare l'attenzione sull'esigenza di renderne la gestione qualitativamente garantita, prescindendo dalla questione della titolarità. Se infatti crediamo nel principio contenuto nel I comma dell'art. 118 Cost. e nel perdurare della sua operatività, l'importanza del trasferimento della proprietà sfuma a favore della necessità di stabilire univocamente i criteri in base ai quali poter ritenere "adeguati" i livelli di amministrazione [83]. Vero è, d'altro canto, che le congiunture politiche, e quindi legislative, possono essere tali da non far ritenere intangibile il principio suddetto, specie in un settore come quello in esame, da sempre caratterizzato da forte centralismo, e certo in questo caso gli enti locali vedrebbero la loro posizione senz'altro più garantita qualora anche la titolarità dei beni facesse loro capo.

La contrapposizione tra proprietà pubblica e privata o, ancora, afferente al centro o alle autonomie, dunque, può svuotarsi di contenuto, sempreché nelle scelte di politica culturale l'utilità sociale del bene e la connessa conformazione delle modalità di gestione restino in ogni caso il valore più alto.

 

 

 



Note

[1] Relazione tenuta al Convegno Quale futuro per il patrimonio culturale?, Trento, 12 dicembre 2002.

[2] S. Cassese, Introduzione, in Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, a cura di V. Cazzato, vol. I, Roma, 2001, 22.

[3] M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Roma, 1952, 202.

[4] A.M. Sandulli, Spunti per lo studio dei beni privati di interesse pubblico, in Dir. econ., 1956.

[5] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1/1976, 31.

[6] M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, 81 ss.

[7] Per la quale si consenta il rimando a un mio scritto, Il regime dei beni culturali di proprietà pubblica, in Aedon 2/1999.

[8] M.S. Giannini, I beni culturali cit., 32.

[9] G. De Giorgi Cezzi, Lo statuto dei beni culturali, in Aedon 3/2001.

[10] Art. 23 Testo unico.

[11] Art. 22 Testo unico.

[12] Art. 35 Testo unico.

[13] Art. 51 regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363, regolamento d'esecuzione della l. 1089/1939, ancora vigente.

[14] Art. 58 e 55, comma 1, lett. c) e comma 3 per i beni di privati ed enti senza scopo di lucro; art. 55 per i beni appartenenti allo Stato e altri soggetti pubblici.

[15] Art. 37 Testo unico.

[16] Art. 46 Testo unico.

[17] Art. 15 Testo unico.

[18] Art. 29 Testo unico.

[19] Art. 21 Testo unico.

[20] Art. 45 Testo unico; la circolare 15 aprile 2002, n. 14124 della Direzione generale per i beni architettonici e il paesaggio, per dare effettività alla previsione, specifica che nel caso di inadempimento di tale obbligo le somme erogate verranno recuperate dall'amministrazione.

[21] Art. 106 Testo unico.

[22] Art. 109 Testo unico.

[23] Art. 98 Testo unico.

[24] A. Romano, Demanialità e patrimonialità: a proposito dei beni culturali, in V. Caputi Jambrenghi (a cura di), La cultura e i suoi beni giuridici, Milano, 1999, 410. Così anche l'art. 98 del Testo unico enuncia che "i beni culturali indicati nell'articolo 54 - cioè demaniali - sono destinati al godimento pubblico".

[25] M.S. Giannini, I beni pubblici cit., 89 ss.

[26] M.S. Giannini, I beni pubblici cit., 88 ss. e T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001, 495.

[27] Art. 88 Testo unico.

[28] D.lg. 368/1998, art. 8.

[29] Art. 12 d.p.r. 441/2000, regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali. Si è omesso il riferimento alle soprintendenze regionali in quanto organi di coordinamento, programmazione e vigilanza, sprovvisti di competenze in ordine alla gestione.

[30] D.lg. 300/1999, art. 65.

[31] Isitutita dell'art. 7 decreto legge 15 aprile 2002, n. 63, conv. con modificazioni con legge 15 giugno 2002, n. 112.

[32] Art. 4 dello statuto dell'Agenzia.

[33] S. Foà e P. Pizza in questo numero della Rivista; denunciava già la sovrapposizione di competenze tra l'agenzia e la Pspa A. Mari, La Patrimonio dello Stato Spa, in Gior. dir. amm., 8/2002, 820 ss.

[34] In questo senso anche F. Merusi, La grande occasione di Giuliano Urbani, in Il giorn. dell'arte, dicembre 2002, 12.

[35] Dpr 14 gennaio 1972, n. 3 e d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616.

[36] Le funzioni (anche di gestione) sui musei e biblioteche (anche statali) di interesse locale furono infatti attribuite alle regioni.

[37] La l. 127/1997, art. 17, comma 131, prevedeva che nella devoluzione di compiti e funzioni statali potesse essere ricompreso il trasferimento della gestione dei musei statali, previsione in ogni caso superflua stante la riserva all'amministrazione centrale della sola funzione di tutela operata dalla legge delega 59/1997, art. 7.

[38] L'art. 150 del d.lg. 112/1998 prevede che una commissione paritetica individui i musei e gli altri beni culturali statali la cui gestione debba essere trasferita a regioni, province e comuni secondo il principio di sussidiarietà. Peraltro il termine di due anni previsto per la conclusone dei lavori ha carattere ordinatorio, stante la mancanza di alcuna previsione in caso di non rispetto. Proprio questo è stato definito il punto debole dell'impianto: G. Pitruzzella, Commento all'art. 150, in G. Falcon, Lo Stato autonomista, Bologna, 1998, 502-503.

[39] M. Cammelli, Decentramento e outsourcing nel settore della cultura: il doppio impasse, in Dir. pubbl. 1/2002, 261 ss.

[40] Che, nella fattispecie, non trasferì la proprietà delle collezioni librarie ma solo la loro gestione. Per una lettura contestualizzata della convenzione si consenta il rinvio al mio scritto L'"altro" decentramento: il trasferimento della biblioteca universitaria di Bologna, in Aedon 3/2000.

[41] G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon 1/2001.

[42] Ricorso per illegittimità costituzionale contro l'art. 33 della legge 448/2001 della Regione Marche.

[43] D. Nardella, L'art. 33 della finanziaria 2002 davanti alla Corte costituzionale, in Aedon 1/2002.

[44] Parere definitivo reso il 26 agosto 2002 in merito al regolamento ministeriale sulle società per la gestione dei beni culturali di cui all'art. 10 del d.lg. 368/1998.

[45] Così, tra gli altri, S. Cassese, L'amministrazione nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Giorn. dir. amm. 12/2001, 1193; M. Cammelli, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione, in Le regioni 6/2001, 1278.

[46] A. Corpaci, Revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo, in Le regioni 6/2001, 1305 ss.

[47] Riferimento che invece era presente nel testo della Bicamerale D'Alema, art. 35, comma 4.

[48] Così nell'interpretazione dell'art. 9 Cost., Corte cost. 28 luglio 1988, n. 921, in Cons. Stato, 1988, II, 1436.

[49] M. Cammelli, Amministrazione (e interpreti) cit., 1300 ss.

[50] L. 59/1997, art. 7. Il nuovo art. 118, comma 3, Cost., però, contiene la previsione di forme di intesa e coordinamento in riferimento alla tutela, da predisporre con legge statale.

[51] D. Jalla, Gestione dei musei e degli altri beni statali: un trasferimento difficile, in Economia della cultura 2/2001, 221 ss.

[52] Come previsto dal d.lg. 112/1998, art. 150, comma 6, il 10 maggio 2001, con decreto ministeriale, ha preso vita l'Atto di indirizzo sul criteri tecnico-scientifici e gli standard di funzionamento e sviluppo dei musei.

[53] G. Sciullo, Musei e codecisione delle regole, in Aedon 2/2001.

[54] La determinazione di standard doveva infatti riguardare solo le attività trasferite ex art. 150 d.lg. 112/1998.

[55] Il primo accordo di programma quadro stipulato dal ministero è quello con la regione Lombardia nel 1998: l'attività gestionale è implicitamente ricompresa tra quelle oggetto dell'accordo; cfr. S. Foà, L'accordo di programma quadro tra il ministero per i Beni e le Attività culturali e la regione Piemonte, in Aedon 2/2001.

[56] M. Cammelli, Amministrazione (e interpreti) cit., 1297 ss.

[57] Questa è una di quelle norme che presenta un carattere "transeunte": il Consiglio di Stato ne ha infatti decretato la sopravvenuta inadeguatezza: la disciplina in esame dovrà, in ossequio al nuovo art. 117 Cost., essere ripartita tra Stato e regioni. In più l'art. 10 non pare idoneo a fissare i principi fondamentali della materia (parere del Consiglio di Stato del 26 agosto 2002 sul regolamento sulle società ex art. 10 d.lg. 368/1998).

[58] Come si diceva nel par. 5.2. e alle note 35-37.

[59] Lo statuto della Fondazione è stato approvato il 5 dicembre 2002.

[60] Art. 10 d.lg. 368/1998, lett. b-bis introdotta dall'art. 33 della l. 448/2001.

[61] Il d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, artt. 14-18 disciplina la concessione dei beni culturali immobili degli enti territoriali e la loro utilizzazione tramite convenzione.

[62] D. Jalla, Gestione dei musei cit., 228. E' evidente che gli enti locali, nel gestire i beni statali ex art. 150 d.lg. 112/1998, si avvarranno delle formule predisposte per tale livello di governo (art. 113-bis Tuel).

[63] F. Cafaggi, Modelli di governo, riforma dello Stato sociale e ruolo del terzo settore, Bologna, 2002, 75 ss.

[64] La letteratura distingue tra uso generale, particolare ed eccezionale dei beni culturali demaniali (T. Alibrandi - P. Ferri, I beni culturali cit., 422 ss.). L'ultimo caso ricorre quando il bene, dietro provvedimento concessorio, è temporaneamente destinato ad un uso che ne inficia la naturale destinazione pubblica.

[65] S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, 63.

[66] Art. 35 l. 448/2001, che introduce l'art. 113-bis d.lg. 267/2000.

[67] Ne offre una ricostruzione dettagliata S. Foà, La gestione cit., 130 ss.

[68] G. Piperata, I modelli di organizzazione dei servizi culturali: novità, false innovazione e conferme, in Aedon 1/2002.

[69] Così Cons. Stato 20 febbraio 1998, n. 176, in Guida al dir. 13/1998, 96.

[70] F. Margiotta Broglio, Commento all'art. 19, in M.Cammelli (a cura di), La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, Bologna, 2000, 81 ss.

[71] Art. 19 del Testo unico.

[72] Le intese sono stipulate tra ministero e Conferenza episcopale italiana, per la Chiesa cattolica, con le rispettive autorità per le altre confessioni.

[73] S. Foà, La gestione cit., 98 ss.

[74] M.S. Giannini, I beni pubblici cit., 89 ss.

[75] P. Calamandrei, Immobili per destinazione artistica, in Foro it., 1933, I, 1722.

[76] M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse artistico e storico, Padova, 1953, 270; T. Alibrandi - P. Ferri, I beni culturali cit., 356.

[77] E. Bellezza, Dalla tutela alla valorizzazione del bene: il "programma" del d.p.r. 283/2000, in Aedon 1/2001.

[78] In I beni culturali cit.

[79] G. Sciullo, Musei e codecisione cit.

[80] Come è stato brillantemente definito da D. Jalla, Gestione cit., 228. Anche per essa, in ogni caso, sembra valere il discorso accennato sulla necessità di verificarne la coerenza con le nuove disposizioni costituzionali.

[81] Se di gestione di può parlare con riferimento alle raccolte museali o alle biblioteche, o ancora agli archivi e ai siti archeologici, difficile diventa immaginare un'"organizzazione di risorse umane e materiali" dirette ad "assicurare la fruizione" di un monumento (art. 148, d.lg. 112/1998).

[82] R. Musgrave, On merit goods, trad. in Beni meritori, in Finanza pubblica, equità e democrazia, Bologna, 1995, 176-191.

[83] Posto che il "tasso di federalismo" non si misura in base alla titolarità ma in base al potere di disporre dei beni, L. Bobbio, Due scenari per il decentramento dei musei, in Aedon 1/1998.



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