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I modelli di organizzazione dei servizi culturali:
novità, false innovazioni e conferme

di Giuseppe Piperata


Sommario: 1. Premessa. - 2. La posizione comunitaria in materia di servizi di interesse generale e la nuova disciplina dei servizi pubblici locali di tipo culturale. - 3. L'individuazione dei servizi culturali e del tempo libero degli enti locali. - 4. I modelli di organizzazione dei servizi culturali e del tempo libero degli enti locali.



1. Premessa

Con l'art. 35 della l. 28 dicembre 2001, n. 448, il legislatore italiano è intervenuto al fine di riformare l'impianto generale della disciplina dei servizi pubblici degli enti locali. La riforma del settore dei servizi pubblici locali ha rappresentato una costante nei programmi d'azione degli ultimi governi, e ciò considerato che risultava oramai assolutamente necessario adeguare l'impianto normativo generale del settore in questione a tre differenti esigenze.

Innanzitutto, bisognava rendere l'ordinamento generale dei servizi pubblici locali compatibile con gli ordinamenti di settore dei singoli servizi, molti dei quali oramai trasformati ad opera del legislatore comunitario [1]. In secondo luogo, era necessario dare veste normativa ad alcuni moduli organizzativi dei servizi in questione creati di fatto dagli enti locali sfruttando al massimo la loro autonomia organizzativa. Infine, appariva oramai improcrastinabile un intervento di riforma del settore diretto a ricondurre anche i servizi pubblici locali ai principi comunitari in materia di mercati e concorrenza [2].

Tuttavia, chi si aspettava dalla tanto attesa riforma una massiccia liberalizzazione dei servizi pubblici locali è rimasto deluso. La novità contenuta nella riforma, infatti, è rappresentata dalla distinzione dei servizi pubblici degli enti locali tra quelli di rilevanza industriale e quelli che invece ne sono privi, predisponendo per ognuna delle due tipologie un diverso regime giuridico di riferimento.

Pertanto, mentre la nuova versione dell'art. 113, d.lg. 18 agosto 2000, n. 267, prevede solo la trasformazione dei servizi pubblici locali di rilevanza industriale in un settore a concorrenza amministrativa (o concorrenza per il mercato), viceversa, il nuovo art. 113-bis del medesimo decreto (così come introdotto dall'art. 35, l. n. 448/2001), ha confermato per i servizi pubblici locali privi del rilievo industriale il precedente assetto giuridico, il quale aveva consentito alle autonomie territoriali di provvedere all'individuazione e gestione dei servizi di loro spettanza quasi sempre in condizioni di monopolio [3].

Per espressa previsione legislativa i servizi culturali e del tempo libero degli enti locali risultano inquadrati nel genus dei servizi privi di rilevanza industriale e, come tali, appaiono sottoposti ad un regime giuridico le cui linee fondamentali sono sostanzialmente analoghe a quello valevole in precedenza per l'intera gamma degli interventi in economia degli enti locali.

Con riferimento a tale tipologia di servizi locali la riforma presenta numerosi profili di problematicità, il più importante dei quali è rappresentato dalla questione della coerenza del nuovo art. 113-bis rispetto all'altrettanto nuovo sistema di riparto delle competenze tra Stato e regioni delineato dalla l.cost. n. 3/2001, questione sulla quale si soffermano diversi contributi ospitati in questa Rivista ed ai quali si rinvia [4].

Gli altri profili di problematicità, invece, più che l'assetto istituzionale di riferimento, riguardano più precisamente le ricadute operative della riforma sul sistema locale di gestione dei servizi culturali. A tali profili, è evidente, sembra possibile dedicare nell'attuale fase di prima analisi della riforma solamente alcuni accenni, considerato che molti di essi potranno essere valutati nella loro reale portata a partire dal momento in cui la riforma stessa entrerà a regime.

Per queste ragioni, le pagine che seguono contengono delle osservazioni di massima, scaturite da una prima lettura dell'art. 35, l. n. 448/2001, con riferimento ai servizi locali di tipo culturale. In particolare, in esse si affrontano tre specifiche questioni che emergono dalla riforma: innanzitutto, la compatibilità della scelta compiuta dal legislatore del 2001 con la posizione assunta dall'Unione europea con riferimento all'intervento pubblico nella gestione dei servizi di interesse generale; in secondo luogo, la difficoltà di individuare nel dato normativo gli elementi qualificanti il servizio pubblico culturale degli enti locali; infine, il grado di innovatività e di diversità dei modelli di organizzazione dei servizi culturali che la riforma mette a disposizione delle autonomie locali.

 

2. La posizione comunitaria in materia di servizi di interesse generale e la nuova disciplina dei servizi pubblici locali di tipo culturale

Come già anticipato, i servizi culturali degli enti locali risultano sottratti a priori al regime di concorrenza per il mercato introdotto dal legislatore del 2001 con riferimento all'attività di erogazione dei servizi locali di rilevanza industriale. A prima vista, tale esclusione potrebbe essere considerata scarsamente rispettosa del principio di concorrenza di derivazione comunitaria, considerato che il nuovo art. 113-bis legittima con maggiore ampiezza l'intervento diretto ed esclusivo del settore pubblico nello svolgimento di attività economiche sia pure prive di rilevanza industriale.

A ben vedere, però, tale scelta legislativa appare in linea con la posizione assunta dall'Unione europea in riferimento all'istituto del servizio pubblico, soprattutto se si prende a riferimento la Relazione sui servizi di interesse generale, da ultimo presentata dalla Commissione al Consiglio europeo di Laeken.

In tale occasione - ancora una volta - la Commissione UE ha confermato che la politica di apertura dei settori economici alle regole di libera concorrenza se, da un lato, rappresenta il principale obiettivo degli interventi comunitari, dall'altro, viene perseguita dall'Unione europea nel rispetto delle particolari situazioni che giustificano l'esistenza di deroghe all'applicazione generalizzata del principio di concorrenza.

Infatti, nella citata Relazione - accanto al riconoscimento dei servizi di interesse generale come "elemento chiave del modello europeo di società", strumento per migliorare "la qualità di vita dei cittadini" e per "rafforzare la coesione sociale e territoriale dell'Unione europea", nonché "prerequisito al pieno godimento dei diritti fondamentali" (p. 1) - si afferma la libertà di organizzazione degli Stati membri con riferimento a tali servizi (p. 7) e la necessità di perseguire le politiche di liberalizzazione dei settori di riferimento con gradualità (p. 49) e con la previsione di apposite garanzie (p. 50).

Allo stesso tempo, tuttavia, la Commissione chiarisce che "il mercato, di per sé, svolge un buon lavoro nel fornire molti servizi d'interesse generale a numerose persone", traendo come conseguenza l'affermazione del principio secondo cui l'intervento del settore pubblico nella gestione diretta di tali servizi può giustificarsi solo nei casi in cui il mercato risulti insufficiente o inidoneo a conseguire obiettivi socialmente desiderabili (p. 3).

Ai nostri fini risulta, inoltre, rilevante il fatto che la Relazione nell'indicare le ipotesi di fallimento del mercato che giustificano l'intervento diretto dei poteri pubblici nello svolgimento di attività economiche, riporta il caso in cui "la società desidera incoraggiare la fornitura e l'uso di "beni meritori" e "beni di club", come ad esempio i musei" (p. 3). Da ciò, infatti, discende in generale la compatibilità con l'ordinamento comunitario della scelta del legislatore italiano di collocare i servizi culturali degli enti locali all'interno della categoria dei servizi privi di rilievo industriale per i quali si ammette l'intervento diretto dell'ente nella gestione ed erogazione del servizio stesso.

Tuttavia, la generica compatibilità della nuova disciplina con la posizione espressa al riguardo dall'Unione europea non può tradursi in concreto in un esonero totale del comune dall'obbligo di prendere in considerazione la possibilità di ricorrere al mercato per la erogazione di servizi di tipo culturale laddove non sussistano particolari ragioni idonee a giustificarne un intervento diretto.

In altri termini, il potere riconosciuto dal legislatore nazionale agli enti locali di intervenire direttamente nella gestione dei servizi culturali non può essere indiscriminatamente esercitato allo scopo di chiudere settori di attività (sempre più spesso di rilevanza economica) alle regole di concorrenzialità tra più operatori.

L'ente locale, quindi, dovrà tenere presente tale limite, sia nel momento in cui andrà ad individuare le attività qualificabili come servizi culturali, sia nel momento in cui procederà alla loro organizzazione concreta.

 

3. L'individuazione dei servizi culturali e del tempo libero degli enti locali

Il nuovo art. 113-bis, del d.lg. n. 267/2000, presenta l'indubbio merito di aver dato autonoma visibilità ai servizi culturali e del tempo libero degli enti locali. Tuttavia, a tale previsione non segue nel contenuto della norma l'indicazione degli elementi caratterizzanti i servizi in questione, lasciando così agli enti locali ampia autonomia nella scelta delle attività da gestire attraverso i modelli organizzativi previsti nel medesimo articolo. Il legislatore, infatti, prende in considerazione i servizi culturali e del tempo libero come specie dei servizi privi di rilevanza industriale e solo al fine di ammettere una loro gestione attraverso l'affidamento diretto a fondazioni o associazioni costituite o partecipate dall'ente locale, senza fornire altri elementi utili alla loro caratterizzazione.

Del resto, nel testo di riforma manca persino qualsiasi elemento di qualificazione dei servizi pubblici locali di rilevanza industriale, la cui individuazione risulta rimessa ad un regolamento governativo, senza neanche l'indicazione di un criterio definitorio di massima.

Di conseguenza, l'ente locale non ha da rispettare particolari vincoli definitori di tipo legislativo nella individuazione dei servizi culturali e del tempo libero, se non quello assolutamente generico derivante dall'art. 112, d.lg. n. 267/2000, in virtù del quale tali servizi debbono rientrare nell'ambito delle competenze dell'ente e consistere in attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.

La mancanza degli elementi legislativi di qualificazione dei servizi culturali e del tempo libero avrebbe potuto risultare del tutto irrilevante se non fosse che il comma 3 dell'art. 113-bis sembra limitare il ricorso all'affidamento diretto ad associazioni e fondazioni solamente per l'organizzazione dei servizi in questione. In altri termini, dal tenore della disposizione richiamata sembra emergere che il modello della gestione tramite fondazione o associazione sia stato introdotto solo per l'organizzazione dei servizi culturali e del tempo libero e che, quindi, non risulti legittimamente utilizzabile per la gestione degli altri servizi privi della rilevanza industriale.

Di conseguenza, l'ambito di applicazione del modello previsto dal comma 3 dell'art. 113-bis presuppone la definizione dei confini del concetto di servizio culturale e del tempo libero degli enti locali. Non si tratta di un'operazione semplice, e ciò per due ordini di ragioni.

Innanzitutto, non è possibile ricostruire la categoria di servizi in questione in chiave residuale rispetto ai servizi privi di rilevanza industriale, in quanto già tali attività sono indicate nella riforma come categoria residuale rispetto ai servizi ai quali il futuro regolamento riconoscerà la rilevanza industriale.

In secondo luogo, non è possibile neanche qualificare con esattezza e a priori le attività costituenti servizi culturali in termini positivi, considerato che manca nel nostro ordinamento una norma contenente un minimo di elementi definitori, sull'esempio di quanto dispone l'art. 128, d.lg. n. 112/1998 a proposito dei servizi sociali.

Pertanto, non rimane che affidare la definizione dei servizi in questione ad un approccio prettamente logico-descrittivo, in virtù del quale far rientrare nel concetto di servizio pubblico locale di tipo culturale gran parte delle attività svolte dall'ente locale al fine di adempiere ai compiti di gestione, valorizzazione e promozione di beni e attività culturali ad esso spettanti, mentre con riferimento ai servizi del tempo libero "l'organizzazione di corsi, la gestione di ludoteche, le manifestazioni folkloristiche, le previsioni di spazi musicali riservati ai giovani, le attività ricreative ed educative dedicate agli anziani costituiscono solo alcuni esempi delle iniziative proponibili dal Comune allo scopo di sviluppare e promuovere le attività del tempo libero dei cittadini" [5].

 

4. I modelli di organizzazione dei servizi culturali e del tempo libero degli enti locali

Sotto il profilo organizzativo il nuovo art. 113-bis, d.lg. n. 267/2000 sembra aver recepito tutti i cambiamenti imposti da tendenze e fenomeni che hanno caratterizzato la gestione dei servizi culturali nella vigenza degli artt. 22 e 23, l. 8 giugno 1990, n. 142. In particolare, nel decennio di applicazione di tale legge il settore dei servizi culturali e del tempo libero degli enti locali ha registrato tre diverse tendenze evolutive di particolare rilievo.

Innanzitutto, il fenomeno di portata più ampia è consistito nella costante tendenza, assecondata anche a livello legislativo, di coinvolgere i privati con una maggiore intensità nelle varie attività relative ai beni culturali di proprietà pubblica. In particolare, tale fenomeno ha favorito il ricorso dell'ente locale all'uso di un ventaglio molto ampio di strumenti idonei a realizzare una maggiore collaborazione tra pubblico e privato, coinvolgendo quest'ultimo a diverso titolo nello svolgimento delle attività riguardanti il settore in questione.

In secondo luogo, la gestione dei servizi culturali è stata caratterizzata dallo scarso successo avuto dall'istituzione come tipico modello voluto dal legislatore del 1990 per l'organizzazione di tali servizi (e sociali in generale), a causa principalmente della limitata autonomia gestionale ad essa spettante [6]. Infatti, i comuni italiani hanno ritenuto più opportuno organizzare la gestione dei servizi culturali di loro competenza attraverso le altre forme di gestione previste dal legislatore del 1990, pur con i limiti derivati dal fatto che si utilizzavano con riferimento ad attività rientranti nel novero dei servizi privi di carattere commerciale moduli gestori pensati per i servizi di tipo imprenditoriale.

Infine, l'organizzazione dei servizi culturali nel previgente regime giuridico ha visto l'affermazione di un modello innovativo di gestione del servizio pubblico locale, frutto di sperimentazione realizzata a livello comunale e caratterizzato da un forte grado di atipicità. Il riferimento, è evidente, è alle c.d. fondazioni in partecipazione, costituite dagli enti locali con l'obiettivo di gestire i servizi pubblici locali di tipo culturale loro spettanti [7].

Nel corso degli ultimi anni, quindi, si è realizzata con riferimento all'organizzazione dei servizi locali di tipo culturale una situazione alquanto paradossale: da un lato, il legislatore, in virtù della peculiare natura dei servizi sociali di carattere non imprenditoriale, ha espressamente previsto un apposito modello organizzativo, l'istituzione; dall'altro, i comuni hanno di fatto disatteso tale previsione, preferendo i modelli gestionali pensati per i servizi di carattere imprenditoriale ovvero sperimentando nuovi modelli di gestione al fine di garantire una più efficiente organizzazione dei servizi ed un maggiore coinvolgimento dei privati.

L'attuale regime normativo introdotto dalla riforma consente di superare tale situazione, in quanto il legislatore del 2001 ha previsto come possibili modelli di organizzazione dei servizi locali privi di rilevanza industriale (e quindi anche dei servizi culturali e del tempo libero) quasi tutte le formule gestorie contenute in precedenza nell'art. 22, l. n. 142/1990, senza però riproporre le numerose condizioni che nel previgente sistema normativo limitavano il potere di scelta dell'ente tra le possibili alternative. Inoltre, l'art. 113-bis contiene anche la tipizzazione del nuovo modello dell'affidamento diretto a fondazione o associazione partecipata, che come visto era stato introdotto dagli enti locali per la gestione dei servizi culturali al di fuori di qualsiasi previsione normativa.

La riforma del 2001, quindi, offre al comune ben sei diversi modelli di gestione dei servizi locali di tipo culturale, alcuni già sperimentati nel corso della vigenza del precedente regime normativo, altri invece assolutamente nuovi. A ben vedere, le diverse figure organizzative introdotte in materia dall'art. 113-bis possono essere ordinate in tre modelli di riferimento di carattere generale a seconda del maggiore o minore ruolo che il comune intende riservarsi nella gestione dei servizi culturali: il modello dell'esternalizzazione, il modello della collaborazione ed il modello dell'intervento diretto.

Il modello dell'esternalizzazione si caratterizza per la scelta dell'ente locale di provvedere all'erogazione di un servizio culturale attraverso un operatore esterno all'amministrazione dell'ente medesimo. Tale modello comprende l'ipotesi, prevista dal comma 4 dell'art. 113-bis, dell'affidamento a terzi del servizio locale di tipo culturale mediante procedure di evidenza pubblica. Si tratta di un modello analogo a quello previsto dal comma 5 del nuovo art. 113 per l'affidamento dell'erogazione dei servizi di rilevanza industriale. Tuttavia, rispetto a quest'ultimo tipo di affidamento quello preso in considerazione dalla riforma con riferimento ai servizi culturali e, in generale, ai servizi privi del rilievo industriale presenta due fondamentali differenze.

Innanzitutto, mentre nell'erogazione dei servizi di rilievo industriale l'affidamento all'esterno rappresenta un percorso obbligatorio per l'ente locale, invece nel caso dell'organizzazione dei servizi privi del rilievo industriale il ricorso ad un sistema di concorrenzialità per il mercato implica una mera facoltà per il comune, al quale spetta verificare se sussistano o meno le ragioni tecniche, economiche e di utilità sociale che il citato comma 4 pone come uniche condizioni legittimanti la perseguibilità di tale percorso.

In secondo luogo, mentre per l'erogazione dei servizi locali presi in considerazione dall'art. 113 i beneficiari dell'affidamento debbono necessariamente avere veste di società di capitali, viceversa per l'altra tipologia di servizi il legislatore indica i destinatari utilizzando il termine generico di terzi, con la conseguenza di ammettere alla procedura di evidenza pubblica per l'affidamento del servizio qualsiasi operatore indipendentemente dalla sua veste giuridica.

Il modello della collaborazione, invece, presuppone l'intenzione dell'ente locale di provvedere alla gestione del servizio culturale mediante figure organizzatorie in grado di assicurare una fattiva cooperazione tra pubblico e privato. Pertanto, tale modello risulta realizzabile attraverso l'affidamento diretto della gestione del servizio ad una società oppure ad una fondazione o anche ad una associazione costituita o semplicemente partecipata dall'ente locale insieme a soggetti privati o ad altri soggetti pubblici (art. 113-bis, comma 1, lett. c) e comma 3).

Come è evidente, il modello della collaborazione consente all'ente locale di intervenire direttamente nella gestione concreta del servizio senza per questo dover rinunciare alla possibilità di coinvolgere soggetti privati ora come meri finanziatori ora come portatori di capacità imprenditoriali e gestionali. Inoltre, attraverso tale modello l'ente locale è in grado di migliorare il livello di efficienza dell'organizzazione del servizio, considerato che l'affidamento ha come destinatari strutture di diritto privato, molto più flessibili e sicuramente più idonee a gestire attività culturali la cui natura è molto spesso anche di tipo economica.

Infine, il modello dell'intervento diretto racchiude le ipotesi in cui l'ente locale decida di gestire il servizio culturale in prima persona oppure attraverso una propria articolazione strutturale. Nel primo caso si avrà la gestione in economia, rimedio eccezionale che il legislatore confina all'ipotesi in cui per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non appaia opportuno ricorrere agli altri modelli di organizzazione (art. 113-bis, comma 2); nel secondo caso, invece, si avrà l'affidamento diretto della gestione del servizio all'istituzione ovvero all'azienda speciale dell'ente, ipotesi rispetto alla quale la nuova disposizione omette di indicare elementi o condizioni idonee a guidare la scelta dell'ente locale tra le due possibili alternative (art. 113-bis, comma 1, lett. a) e b).

Come emerge da quanto appena detto, l'impianto organizzativo generale tracciato dalla riforma con riferimento ai servizi privi di rilevanza industriale degli enti locali non è in grado di determinare ricadute rivoluzionarie sul settore dei servizi culturali. Tale impianto, più modestamente, ha solo il pregio di aver fatto emergere a livello normativo alcune vicende gestionali che da alcuni anni si erano affermate di fatto con riferimento ai servizi locali in questione. In altri termini, sembra corretto affermare che la parte della riforma riguardante la gestione dei servizi culturali degli enti locali accanto ad alcune vere novità presenti anche qualche falsa innovazione ed alcune conferme.

Tra le novità reali infatti, si possono annoverare solo la previsione della possibilità per l'ente locale di affidare direttamente il servizio a fondazioni o associazioni dallo stesso ente partecipate o costituite e l'eliminazione della maggior parte delle condizioni legittimanti la scelta del modello organizzativo, le quali nella vigenza dell'art. 22, l. n. 142/1990, sembravano imporre l'istituzione come unico possibile strumento di gestione dei servizi locali di tipo culturale.

Sembra, invece, una novità molto finta la facoltà riconosciuta dall'art. 113-bis all'ente locale di affidare con gara a terzi la gestione del servizio, in quanto si ha la netta impressione di trovarsi dinanzi al vecchio modello della concessione a terzi, non fosse altro per il fatto che le condizioni legittimanti il ricorso al nuovo modello di affidamento ("ragioni tecniche, economiche e di utilità sociale") sono sostanzialmente identiche a quelle che l'art. 22, l. n. 142/1990 poneva alla base della tradizionale figura concessoria ("ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale"). Rimangono, infine, la gestione in economia, l'istituzione e l'azienda speciale, modelli di gestione che passano dal vecchio al nuovo regime giuridico senza subire particolari aggiustamenti o ritocchi.



Note

[1] Si pensi, ad esempio, al d.lg. 23 maggio 2000, n. 164, con il quale è stata introdotta una parziale liberalizzazione del mercato interno del gas naturale.

[2] Per una analisi dei motivi che hanno aperto la strada alla riforma dei servizi pubblici locali sia consentito rinviare a G. Piperata, I servizi pubblici locali: ragioni e contenuti di una riforma "difficile", in Le istituzioni del federalismo, 2000, p. 397 e ss.

[3] Per una prima lettura della riforma in questione si rinvia a G. Armao, I servizi pubblici locali tra riforma statale e competenze regionali, in Primo rapporto sullo stato delle autonomie locali, Roma, 2002, p. 247 e ss., e M. Dugato, I servizi pubblici degli enti locali, in Giorn. dir. amm., 2002, p. 218 e ss. Con particolare riferimento ai servizi culturali, v. G. Sciullo, I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002, in questa Rivista.

[4] Cfr. G. Sciullo, op. ult. cit., M. Cammelli, Il nuovo titolo V della Costituzione e la finanziaria 2002: note, C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon 3/2001.

[5] Così B. Marchetti, Il tempo libero, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, t. I, Milano, 2000, p. 676.

[6] Sono concordi nel riconoscere la scarsa utilizzazione del modello A. Andreani, Spunti problematici, in L'istituzione per la gestione dei musei, in Aedon 2/1998; S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, p. 344 e ss.; G. Franchi Scarselli, Il modello dell'istituzione guarda al passato, in L'istituzione per la gestione dei musei, cit.; Id., Appunti sul modello dell'istituzione per l'esercizio dei diritti sociali, in Le regioni, 1999, p. 925 e ss.
R. Grossi, L'esperienza delle istituzioni per la gestione dei servizi culturali degli enti locali, in L'istituzione per la gestione dei musei, cit., sembra affermare il contrario, evidenziando, sulla base di dati elaborati da Federcultura una diffusione del modello nel corso degli ultimi anni, durante i quali le istituzioni costituite sono passate da poco più di 20 a 44 su tutto il territorio nazionale. I numeri, tuttavia, sono così modesti da non permetterci di scostarci dall'opinione prevalente in dottrina, la quale è oramai portata a vedere nell'istituzione un modello in via di estinzione (cfr. S. Foà, La gestione dei beni culturali, op. cit., p. 344).

[7] Sul fenomeno in questione si rinvia a E. Bellezza - F. Florian, Le fondazioni del Terzo Millennio, Firenze, 1998, G. Franchi Scarselli, Sul disegno di gestire i servizi culturali tramite associazioni e fondazioni, in Aedon 3/2000.



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