../1/98,%20Issn%200000-000../home../indice../risorse%20web

 

Giornata di studio su "L'istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali" nel quadro delle riforme amministrative

 

Relazione conclusiva [1]

di Guido Corso

 

Io credo che dobbiamo essere grati a Marco Cammelli per avere ordito una trama nella quale un po’ tutti i temi sono venuti alla luce e direi che sebbene abbia l’aria, il tema di oggi, di un tema circoscritto costituisce un sorta di caso studio per riflessioni più generali, non a caso quindi è stato collocato il tema all’inizio nel quadro generale della riforma.

Io direi che questo quadro probabilmente è ancora più generale di quello che emerge dalla l. 59/1997 o dalle altre leggi di riforma di questi ultimi anni, perché, per esempio, getta luce sul nuovo dominante processo di produzione normativa di oggi; caduto il meccanismo dei decreti legge convertiti a seguito di contrattazione tra governo e parlamento è subentrato un nuovo modello, quello della delega, che ha tutta l’aria di risolversi in un processo di, non di trasferimento della funzione normativa al governo, ma di ministerializzazione della funzione normativa, nel senso che nel transito dalla legge delega al decreto legislativo delegato, dal decreto legislativo delegato alla sua modifica, dal decreto legislativo delegato al regolamento, le istanze, gli interessi, le culture dei ministeri diventano sempre più forti, erodono sempre più spazi al disegno autonomista che viceversa si dice di voler perseguire a livello di delegazione.

Quella che ci è stata mostrata oggi è un sorta di lenta erosione da parte di tenaci roditori di spazi in un primo tempo sottratti, la l. 59/1997 riserva allo Stato soltanto la tutela dei beni culturali, il d.lg. 112/1998 estende la competenza all’attività culturale, figura inedita nella legge di delegazione, figura sotto certi profili inquietante, anche se non mi pare che siano stati colti tutti i risvolti di una pubblicizzazione della promozione dell’attività culturale, ma non è soltanto quello, il d.lg. 112/1998 tutto sommato mantiene la distinzione tra tutela, gestione e valorizzazione, riservando la tutela allo Stato, ma distribuendo la valorizzazione e la gestione in forma equanime tra Stato, regioni ed enti locali.

Il d.lg. 368/1998 ci dice brutalmente che il ministro è competente in materia di tutela, gestione, valorizzazione dei beni culturali, cioè come se nessun altro soggetto fosse ammesso a partecipare all’esercizio di queste che vengono qualificate significativamente funzioni amministrative, mentre, come vedremo, funzioni amministrative la gestione e la valorizzazione non sono.

Ci ha spiegato Forlenza che in realtà nel corso di questo processo ci si è resi conto che la tutela è un concetto variegato, all’interno del quale è possibile scomporre, enucleare delle sotto - funzioni che si chiamano gestione, si chiamano conservazione, si chiamano valorizzazione. Io credo che il discorso da fare sia un altro, ed è un discorso che non muove semplicemente dal vocabolario, ma muove da una tradizione, diciamo, giuridica italiana, che tutto sommato è rispettata nel d.lg. 112/1998 laddove nell’elencare le funzioni di tutela si fa riferimento alle sole funzioni autoritative che lo Stato esercita nei confronti dei beni culturali e ambientali, vincoli paesaggistici o di cosa d’arte, autorizzazioni, dinieghi di autorizzazione, sanzioni, sospensione dei lavori, esercizio del diritto di prelazione, divieti di esportazione. Questa è la tutela, e allora se andiamo a ben riflettere, la tutela è una funzione pubblica autoritativa che lo Stato esercita fondamentalmente su beni non propri, perché se di beni propri si tratta non c’è alcun bisogno di esercitare la tutela, di impartire comandi, ordini o divieti a se stessi, la tutela è una funzione rivolta a beni che non sono essenzialmente dello Stato.

Valorizzazione e gestione: la valorizzazione e la gestione hanno invece un qualificazione di segno opposto, io gestisco la cosa di cui dispongo, io valorizzo la cosa che mi appartiene o della quale sono abilitato a fare uso, in altre parole valorizzazione e gestione sono viceversa attributi della proprietà, attributi della titolarità, sotto questo profilo sono attività, compiti o funzioni in certa misura confliggenti con la tutela, checché ne pensi il mio amico Guido Clemente perché la tutela si pone proprio come una limitazione dei poteri di gestione e di valorizzazione; attraverso la tutela impedisco che l’attività di gestione si risolva nella distruzione della cosa che ti appartiene, attraverso la tutela pongo dei limiti alla tua possibilità di utilizzazione, di valorizzazione.

E poiché siamo in tema di proprietà, è questo un profilo che è rimasto un po’ sottofondo, ne ha fatto cenno Forlenza, ne ha parlato da ultimo Bruti Liberati, ma è un profilo non irrilevante, non indifferente. E cioè, Forlenza ci ha parlato dei beni culturali come se in Italia vigesse un regime di proprietà pubblica dei beni culturali puramente e semplicemente, in realtà in Italia esiste un regime bipartito che rimonta alla l. 1089/1939, ma anche alla legge del 1913, in cui c’è una disciplina della tutela di tipo uniforme, anche se, vi dicevo, prevalentemente orientata ai beni privati e vi è poi un particolare regime della proprietà pubblica che è il regime demaniale.

Dal punto di vista della tutela quindi irrilevanza o indifferenza del regime, dal punto di vista della valorizzazione e della gestione differenze rilevanti, perché di beni sottoposti al regime demaniale indubbiamente lo Stato incontra dei forti limiti alla capacità di gestione e di valorizzazione, per esempio ci ha spiegato Bruti Liberati che lo Stato possedendo il museo a titolo di demanio non lo può dare in affitto o in locazione, ma può al più costituire una concessione, perché è un bene pubblico, ma - ripeto - nella prospettiva della valorizzazione e della gestione quali sono le ragioni teoriche che continuano ad imporre un regime pubblicistico della proprietà se pubblica, quando nello stesso tempo si consente ai proprietari di essere proprietari a titolo privato, sempre che si sottopongano e soggiacciano ai poteri pubblicistici di tutela?

La ragione è di tipo fondamentalmente culturale, ce lo ha spiegato Forlenza, il bene pubblico è un bene per definizione non economico, ma poi ci si pone il problema del giubileo, il giubileo invece mette in luce la natura economica del bene pubblico, perché nel momento in cui si dice: "ci sarà una crescente domanda di fruizione dei beni pubblici", ecco è come se dicesse ci sarà una crescente domanda di consumo di quel determinato bene, cioè a dire il bene, del quale un minuto prima si è negata la natura di bene economico, torna prepotentemente alla ribalta come bene economico.

Qui - diciamo- questa antinomia è un po’ alla base della previsione dell’art. 10; una previsione che per un verso, per così dire, guarda con sospetto al soggetto privato, sicché lungi dal fissare una regola generale o generalizzata di tendenziale affidamento in gestione ai privati ci dice che il ministro lo può fare, se lo vuole lo fa, diciamo tra l’altro, formule che oggi sempre più difficilmente si trovano nella legislazione, cioè a dire un affidamento, una remissione totale al ministro della opportunità della gestione in proprio o dell’affidamento attraverso contratto o accordo o della costituzione di forme associative. Ricordiamoci che la norma della legge sulle autonomie locali l. 142/1990, all’art. 22, che prevede una serie di alternative per la gestione di servizi pubblici locali, fissa sia pure genericamente dei criteri di opzione tra l’una e l’altra forma, non lo rimette puramente e semplicemente alla discrezione dell’ente locale.

Ebbene chi sono questi privati? ma direi, nel momento in cui ci si pone la domanda: "ci sarà una crescente domanda di fruizione di beni pubblici?" - alla quale non si può dare risposta perché l’offerta è rigida - si potrebbe fare l’obiezione: "ma l’offerta è rigida perché uno solo è il portatore di questa offerta", cioè a dire siamo in presenza di un mercato che è oligopolistico, ed è proprio questo che determina o incrementa in maniera formidabile la rigidità dell’offerta. Pensiamo per esempio a che cosa succederebbe se la gestione non dico di tutti i musei, ma di molti musei, venisse affidata ai privati, con la possibilità di apertura 12, 14 ore al giorno: non sarebbe un modo per accrescere l’offerta, dal momento che è un offerta che è misurata anche in termini temporali, misurabile in termini temporali? oppure, non potremmo pensare allo scorporo di grossi musei in musei dislocati territorialmente e con effetto moltiplicativo dell’offerta, della domanda, ma non soltanto della domanda di beni culturali, ma della domanda di beni turistici, di servizi e via dicendo, la restituzione alle regioni d’origine di gran parte, di buona parte dei patrimoni archeologici o artistici che sono stati defraudati per essere collocati agli Uffizi o all’Accademia di Venezia o ai musei Vaticani.

Ecco, nel momento in cui ci poniamo questi problemi, e di coloro che sono in condizione di dare una risposta alla domanda, non possiamo non riflettere sul significato di valorizzazione. Valorizzazione, con buona pace del mio amico Guido Clemente, significa attribuzione ad una cosa di un valore economico o incremento del suo valore economico, cioè a dire incremento della capacità della cosa di produrre reddito e reddito sono i corrispettivi dei biglietti, reddito sono l’offerta turistica che viene a beneficiare della connessione con l’offerta di beni culturali, reddito è un po’ tutto questo, anche il diritto all’immagine che giustamente Forlenza rivendicava, cioè a dire perché mai dell’immagine del Colosseo debba esserne consentito l’uso gratuito e non riservarlo a chi del Colosseo è titolare. Giustissimo, in America qualche mese fa hanno cominciato a farlo non con riferimento al Colosseo, ma hanno cominciato a farlo con il grattacielo Chrysler, per cui la proprietà, la società che è proprietaria del Chrysler, d’ora in poi esigerà per così dire un pizzo per ogni fotografia o spot televisivo o scena cinematografica che abbia come ambientazione il Chrysler sullo sfondo.

Regioni, enti locali e soprintendenza, qui io mi rifaccio all’osservazione brillante sia di Giovanni Pitruzzella che di Luigi Bobbio, facendo una chiosa ulteriore, noi abbiamo qui nella sua forma proprio più classica un modello di organizzazione degli interessi che è tipicamente italiano. Il modello di organizzazione e di tutela degli interessi pubblici in Italia è costituito dal raddoppio dell’interesse con una struttura di tutela, per ogni interesse pubblico una struttura di protezione, è un fenomeno che ci ha descritto Giannini; è il fenomeno che ha portato alla crescita a dismisura dell’amministrazione italiana, è il fenomeno che sta alla base della lentezza del processo decisionale amministrativo, perché quando per ogni interesse abbiamo una struttura di protezione e queste strutture sono dotate di poteri reciproci di veto, l’esito decisionale più probabile è appunto la non decisione.

L’interesse culturale e ambientale deve essere sottratto agli enti locali e affidato alla struttura ministeriale periferica, l’interesse allo sviluppo urbanistico, territoriale e via dicendo deve essere affidato agli enti locali, che significa che il cittadino che si imbatte in questi due interessi deve fare i conti con l’uno e con l’altro, uno gli dirà sì, l’altro gli dirà no, uno gli dirà no e l’altro gli dirà sì: il risultato è una situazione di conflitto del cittadino con i pubblici poteri e una situazione di conflitto tendenziale dei pubblici poteri fra di loro.

Da questo punto di vista la soppressione o il ridimensionamento radicale del ruolo dell’amministrazione periferica dello Stato avrebbe anche questa funzione, cioè a dire di fluidificare i processi decisionali. Del resto una qualche spia di questo fenomeno e dell’esigenza di porvi rimedio c’è nella legge sul procedimento amministrativo, che cos’è la disciplina della semplificazione, che cos’è la conferenza di servizi se non un tentativo di rimediare a questo conflitto irresolubile di interessi, anche se poi uno va a leggere e troverà che questa norma sulla semplificazione non si applica alla amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali e ambientali, sempre sul presupposto dell’assoluta supremazia, intangibilità, inderogabilità, non scalfibilità dell’interesse culturale e dell’interesse ambientale.

La ministerializzazione della produzione normativa, la ministerializzazione, diciamo, ha due facce: una faccia degli interessi, una faccia della cultura.

La faccia degli interessi: quando Pastori ci spiega che viene posto un tetto di appena 10 direzioni generali per il ministero dei Beni culturali - io non so quante ne abbia oggi, ma certamente ne avrà molte di meno - è chiaro che quella norma è stata scritta per soddisfare gli appetiti dirigenziali di altrettanti, o molto di più, aspiranti dirigenti generali, norma che certamente non sarebbe stata scritta in una legge del parlamento.

La soprintendenza regionale, ci ha spiegato Leon stamane, era concepita come un’alternativa alle soprintendenze locali. Nel d.lg. 368/1998 abbiamo la soprintendenza regionale e le soprintendenze locali. I dipartimenti erano strutture alternative alle direzioni generali, abbiamo le direzioni generali e in prospettiva abbiamo anche i dipartimenti, e questo è il versante degli interessi.

Il versante della cultura: ce lo ha spiegato in maniera eloquentissima questa mattina Forlenza - in sostanza dopo averci spiegato "il carattere universale", diciamo, quasi un’idea a priori della ragione del regime pubblicistico dei beni culturali; ci ha spiegato le ragioni per cui noi dobbiamo profondamente diffidare dei soggetti privati. Prima ragione, se lo fanno per non pagare le tasse o per pagare meno tasse e allora, prima di tutto, sono dei potenziali evasori fiscali e comunque suscitano o possono suscitare il dubbio che il problema potrebbe essere risolto trasferendo una quota maggiore di tasse alla tutela dei beni culturali; se lo fanno come mecenati, graditissimi, cioè deve essere una contribuzione unilaterale fatta per scopi benefici, ma come al solito la cultura deve fare i conti con la realtà e allora non ci si può nascondere il fatto che l’art. 10 parli di accordi, cosa sono questi accordi?

Io ho una vecchia idea che, siccome si ha il pudore di qualificare l’amministrazione come soggetto contraente, quando il contratto lo deve fare l’amministrazione si parla di accordo, sono stati scritti un sacco di libri tra cui uno bellissimo del prof. Bruti Liberati sugli accordi, in sostanza sono contratti che fa l’amministrazione. Ma il contratto è per definizione uno scambio di consensi fatto per la tutela di interessi patrimoniali, quindi si presuppone che il soggetto privato il quale addivenga ad un contratto con l’amministrazione, a meno che non voglia stipulare un contratto di donazione per atto pubblico davanti al notaio, avrà un suo corrispettivo o si aspira o si ripromette un suo corrispettivo e qui il problema è allora quello dell’oggetto.

Effettivamente l’art. 10 contiene delle censure in termine psicanalitico o delle rimozioni, ma in ultima analisi, non può non porsi il problema di un contratto che abbia per oggetto il bene culturale e allora questo problema, per così dire, lo rinvia, lo risolve al modello associativo, laddove ti dice puramente e semplicemente che nella costituzione di un’associazione, di una fondazione o di una società con soggetti anche privati, lo Stato può conferire in uso il bene pubblico, ma come si concilia questo con la natura demaniale, quindi con l’indisponibilità del bene? Probabilmente qualcuno troverà che questa norma è illegittima perché contraddice il principio della demanialità del bene, però nello stesso tempo è una spia di un’esigenza. Ma se il bene pubblico può essere conferito in uso all’associazione o alla fondazione o alla società di cui lo Stato è partner, perché mai non potrebbe formare oggetto di un accordo? Il problema è semmai quello dei controlli e allora ritorniamo al problema della tutela, cioè a dire nell’esercizio dei poteri di tutela dei quali ovviamente non si spoglia, nel momento in cui diventa contraente e soggetto cedente l’uso del bene pubblico al soggetto privato, lo Stato si garantisce in forma analoga a quella con la quale si garantisce quando diventa partner di un organismo associativo.

Del resto sono problemi che ben conosciamo, Marco Cammelli ben conosce e ci ha fatto conoscere studiando la problematica delle società per azioni in mano pubblica, nelle società per azioni in mano pubblica per la gestione di servizi locali, l’ente locale sembra spogliarsi della qualità di soggetto controllore del servizio, ma in realtà ritorna la funzione di controllo attraverso la qualità dell’ente locale azionista, attraverso la qualità dell’ente locale componente del consiglio di amministrazione. In altre parole, le possibilità di garantire la conservazione del bene pubblico vengono mantenute attraverso uno strumento che non è autoritativo o all’esterno di uno strumento consensuale attraverso l’esercizio di poteri autoritativi che vengono comunque conservati.

Se torniamo un minuto al problema degli interessi dobbiamo essere equanimi cioè a dire gli interessi che vengono tutelati in questo processo di normatizzazione ministeriale non sono quelli soltanto dei burocrati, sono anche quelli dei ministri, diciamolo pure, il segretario generale che diventa l’alter ego del ministro e il capo dell’amministrazione, revocabile ad ogni successione di ministro. Leon ci ricordava giustamente come il modello fosse legato ad un’ipotesi di governo di legislatura, un governo dura sei mesi ma il meccanismo sarà sempre quello, e ora ci è stato spiegato brillantemente - ma io ne avevo avuto la percezione leggendo la normativa - come la ristrutturazione degli organi scientifici, degli organi di consulenza scientifica, ispirata ad apparenti intenti di efficienza e di razionalizzazione in fondo rifletta una logica di appartenenza politica, cioè a dire gli esperti sono i miei esperti, cioè a dire coloro che io nomino esperti come tali e noi troviamo la replica di questo atteggiamento nella recente riforma del Cnr, in tanti altri tentativi di riappropriazione massiccia e brutale di poteri alla politica nonostante l’esordio sia sempre quello che si distingue la politica dalla amministrazione.

Direi, io posso avere qualche riserva sulla formuletta politica - amministrazione, ma certamente la riserva non ce l’ho quando si tratta di amministrazione tecnica la quale deve essere preposta a esigenze di salvaguardia e di garanzia che non possono certamente essere contaminate dalla politica e direi che questo è uno dei settori in cui il problema si presenta con maggior forza.

Che cosa ci possiamo ripromettere, possiamo sperare, ci suggerisce Cammelli, che in sede di regolamento o di regolamenti le cose migliorino, ma potremmo anche aggiungere, possiamo temere che in sede di regolamento le cose peggiorino, anzi diciamo la dinamica istituzionale ci porta piuttosto, ci orienta in questa direzione piuttosto che nell’altra.

In realtà e qua torno e concludo, la questione dei beni culturali è un caso studio, è un caso studio di questo mix di interessi alla conservazione e di cultura della conservazione che costituiscono una miscela micidiale e che oggi in Italia trova pieni consensi e non trova sostanzialmente voci dissenzienti, quali le ragioni? Non lo so, ma certamente per esempio questa idea di uno Stato promotore delle attività culturali, che incentiva la rappresentazione teatrale a lui gradita e quindi disincentivando attraverso la concorrenza sleale le altre forme teatrali, che incentiva il design industriale, non capisco perché si disincentiva il design non industriale, che finanzia certe manifestazioni e non ne finanzia certe altre, ha tutta l’aria, a mio avviso, di un ministero che si costituisce un’area di consenso. Perché, poi. è questo il cosiddetto intellettualismo contro cui tuonava Forlenza e proprio questo cioè a dire gli intellettuali sovvenzionati, gli appartenenti alla cultura ufficiale che, diciamo, nei tempi lunghi finiscono con l’inaridire le voci di dissenso.

Ecco perché io sono profondamente, diciamo, turbato da tutto quello che si è detto oggi, perché tutto quello che si è detto oggi ha messo in luce un disegno che per me era oscuro anche se lo percepivo, perché in realtà ha messo in luce un itinerario che, ripeto, è circoscritto alla materia del bene culturale, ma è un itinerario che io considero puramente e semplicemente preoccupante, preoccupante non semplicemente per le sorti delle autonomie alle quali sono sensibile, ma delle quali non sono poi un totale entusiasta, ma preoccupante proprio per le sorti del soggetto individuo.

 

Note

[1] Testo non rivisto dall'autore.


copyright 1999 by Società editrice il Mulino


inizio pagina