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Beni culturali: valorizzazione e fruizione

L’interesse culturale nella relazione fra bene e contesto sociale: la vicenda della ricollocazione della Madonna del Parto

di Guglielmo Perini [*]

Sommario: 1. La controversia giudiziaria che ha riguardato la Madonna del Parto. - 2. Alcuni interrogativi sulla natura dell’interesse culturale e i caratteri del suo accertamento. - 3. La motivazione della sentenza. - 4. Conclusioni.

Cultural interest in the relationship between property and social context: the story of the relocation of the Madonna del Part)
The article comments on Council of State ruling no. 1510/2022, which recognised the legitimacy of the measures aimed at relocating the fresco depicting the Madonna del Parto inside the chapel of Santa Maria a Momentana, where it was painted by painter Piero della Francesca. The analysis of the decision allows us to reflect on the relevance of the relationship between the artistic work and the environmental and social context for the purposes of the declaration of cultural interest and the choice between different methods of protection and valorization.

Keywords: Madonna del Parto; cultural interest; social context; valorization.

1. La controversia giudiziaria che ha riguardato la Madonna del Parto

Il vivace dibattito, che, per oltre un ventennio, ha interessato la scelta di una stabile sede espositiva per l’affresco di Piero della Francesca raffigurante la Madonna del Parto, ha recentemente trovato il suo epilogo giurisprudenziale nella sentenza del Consiglio di Stato (sez. VI) n. 1510 del 3 marzo 2022. La sentenza pone fine a una complessa vicenda giudiziaria, che ha visto il Tar per la Toscana pronunciarsi, in due distinte occasioni [1], su provvedimenti inerenti alla collocazione dell’affresco [2].

La fattispecie, che vede l’intreccio di considerazioni storico-artistiche, devozionali e turistico-finanziarie, appare caratterizzata dalla tensione fra tutela e valorizzazione, quali compiti primari, ma frequentemente confliggenti, che l’amministrazione deve assolvere nei confronti del patrimonio culturale. In particolare, l’interesse alla valorizzazione ha spinto nel 1992 il comune di Monterchi a trasferire l’affresco dalla cappella di Santa Maria a Momentana, isolata e difficilmente raggiungibile per i visitatori, nel centro storico del borgo, investendo nell’allestimento di una nuova sede espositiva [3]. Ciò ha innescato un conflitto con il ministero per i Beni e le Attività culturali, il quale ha incaricato la soprintendenza di curare un progetto per riportare l’opera nella sua precedente destinazione [4], al fine di assicurarne la conservazione nel luogo in cui fu realizzata da Piero della Francesca durante la seconda metà del XV secolo. È seguita la dichiarazione di interesse culturale nei confronti della Madonna del Parto e della cappella [5], in quanto legata all’affresco da un’antica tradizione devozionale, che la rende sede scientificamente idonea alla sua valorizzazione [6]. Entrambi gli atti risultavano motivati da esigenze di tutela e riconducibili alla relativa funzione; tuttavia l’allontanamento dell’affresco dal centro storico di Monterchi, dove è attualmente conservato, ne avrebbe limitato la fruibilità e il conseguente indotto turistico. Di qui l’impugnazione da parte del comune dei provvedimenti riguardanti lo spostamento dell’opera, che costituiscono complessivamente l’oggetto della sentenza in esame [7].

2. Alcuni interrogativi sulla natura dell’interesse culturale e i caratteri del suo accertamento

Poiché la collocazione dell’affresco chiama in causa il delicato equilibrio fra (diverse forme di) tutela e valorizzazione, il ragionamento richiede di essere sviluppato a partire dai concetti di bene e interesse culturale, per comprendere in che modo essi debbano integrarsi con la circostante realtà ambientale e sociale [8]. Le relazioni fra arte e contesto, lette alla luce della Costituzione e delle norme di legge, delineano la cornice giuridica entro la quale valutare criticamente le scelte attinenti allo spostamento dell’opera.

Il discorso trova un’inevitabile premessa nel superamento della concezione “estetizzante” del bene culturale, già compiuto nell’art. 9 Cost., che pone la protezione del patrimonio culturale come necessario complemento del dovere di promozione della cultura [9]. Nel quadro tracciato dalla Costituzione, il patrimonio culturale non è più una sommatoria di beni di interesse storico e artistico, ma un complesso di risorse provenienti dal passato, selezionate e preservate in quanto idonee a tramandare la memoria e l’identità culturale della comunità di cui sono espressione [10]. La menzione di un patrimonio storico e artistico della Nazione, contenuta nel secondo comma dell’art. 9 Cost., deve essere interpretata come espressione tesa a sottolineare il legame che intercorre fra comunità e interesse culturale, inteso come valore riconosciuto da una collettività unita da un comune sentire [11]. Tale legame si ritrova nel diritto internazionale che offre una definizione di patrimonio culturale come “insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione” [12].

Si comprende, in questa prospettiva, il percorso costituzionale del bene culturale e, in particolare, il passaggio dalla sua definizione come oggetto raro o di pregio, rilevante per il suo particolare valore estetico, al suo riconoscimento come manifestazione espressiva di un ambiente storico e sociale, che ne fa luogo dell’identità del popolo [13]. Una tappa decisiva di questo percorso è rappresentata dall’adozione della nozione unitaria di bene culturale da parte del Codice [14], nel quale hanno trovato recepimento le conclusioni della Commissione Franceschini, che ascrivevano al patrimonio culturale “tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà” [15]. L’introduzione del concetto di bene culturale ha comportato lo spostamento dell’attenzione dalle caratteristiche di pregio e rarità della cosa al suo valore culturale [16] di “testimonianza materiale avente valore di civiltà”, ovvero, di manifestazione “dei modi di pensare sentire e vivere dei gruppi sociali nel tempo e nello spazio” [17]. L’emersione del bene culturale, entità materiale portatrice di significati storici e documentali, deriva dal riconoscimento della sua funzione sociale come strumento di sviluppo intellettuale per l’individuo ed elemento di integrazione intorno al quale si definiscono specifiche forme di coesione sociale.

Questa concezione del patrimonio culturale si fonda sull’idea che esso sia il risultato di un processo dinamico di costruzione dell’immagine identitaria di una comunità, che tramanda specifiche testimonianze dei propri modi di vita, al fine di farne luogo di un’identità condivisa [18]. In questo nuovo contesto, la protezione del bene culturale si lega alla promozione di un patrimonio sempre in fieri di tradizioni ed attività, che il bene ha saputo riassumere, assumendo un’intrinseca valenza culturale. Questa interpretazione dell’interesse culturale, tesa ad esaltare la relazione biunivoca fra l’opera d’arte e il contesto sociale che in essa si esprime, risulta difficilmente compatibile con modalità di valorizzazione, che, implicando l’allontanamento del bene dai luoghi in cui esso è stato prodotto e conservato, precludono al fruitore la percezione di tale legame. In altre parole, una forma di esposizione dell’opera che la privi della sua originaria funzione sociale (nella misura in cui ciò non sia indispensabile a fini conservativi) sembra costituire una lesione dell’interesse culturale, che di tale funzione è il riflesso.

Questi temi devono essere affrontati nella consapevolezza che estendere la tutela dei beni culturali in funzione del rispetto della loro originale ubicazione vuol dire irrigidire l’intera disciplina [19], con significative conseguenze tanto sul piano dei costi, quanto su quello della valorizzazione. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si incentrano le ragioni profonde del contenzioso fra comune e amministrazione ministeriale, radicate nel conflitto fra tutelare e valorizzare, che nelle scelte in materia di accessibilità si manifesta con particolare frequenza [20]. L’accessibilità, d’altra parte, rappresenta il fine ultimo della valorizzazione e assicura che i beni culturali, che sono beni pubblici “per fruizione” [21], siano destinati al pubblico godimento [22]; essa, tuttavia, può entrare in conflitto con l’originale destinazione in vista della quale il bene è stato prodotto e conservato all’interno di una data comunità. È quindi possibile domandarsi se la necessità di agevolare ed estendere l’accesso ai valori di cui il bene protetto è testimonianza possa giustificare l’interruzione del suo legame con il contesto ambientale e sociale nel quale esso esplica la sua funzione identitaria o se, al contrario, le iniziative di valorizzazione debbano tendere a facilitare la conoscenza di tale relazione, in quanto componente essenziale dell’interesse culturale. La soluzione adottata è rilevante anche per le sue implicazioni economiche, poiché l’ampliamento delle possibilità di fruizione del bene culturale ha l’effetto di migliorarne la redditività (e dunque le possibilità di conservazione), generando ricchezza a beneficio del contesto in cui esso è collocato.

Da tali premesse, risulta evidente che le amministrazioni pubbliche sono chiamate a compiere scelte complesse, che tengano conto della pluralità di interessi connessi al bene culturale. L’art. 9 Cost. esclude che la cosa d’arte, una volta che ne sia dichiarato l’interesse culturale, possa perdere la sua originale funzione sociale e richiede, al contrario, che essa sia valorizzata e protetta in quanto testimonianza ancora vitale delle tradizioni e dei bisogni della comunità. Tuttavia, a fronte di un quadro di interessi tanto diversificati, la questione non può essere risolta attraverso il solo richiamo alla preminenza delle esigenze di conservazione, estese anche al rapporto fra bene culturale e contesto ambientale. Infatti, il pluralismo dei valori, che la Costituzione ricollega al patrimonio culturale e alla sua tutela, pone la necessità di un delicato bilanciamento e presuppone estesi obblighi di valutazione e ponderazione, piuttosto che una intangibile gerarchia degli interessi [23]. Il semplice riferimento all’importanza di preservare immutato il patrimonio storico-artistico, accompagnato a una lettura eccessivamente semplificata delle norme costituzionali e legislative, che non tenga in adeguata considerazione l’interesse alla fruizione e valorizzazione, così come l’esigenza di assicurare la sostenibilità economica, rischia di privare l’azione amministrativa della capacità di ponderare gli interessi emergenti dalla fattispecie concreta. Le tecniche di bilanciamento fra interessi devono, invece, trovare spazio anche in ambito culturale: la funzione di tutela contiene un nucleo [24] di prestazioni imprescindibili per la sopravvivenza del patrimonio culturale, la cui attuazione è rimessa alle competenze e alle scelte tecniche dell’amministrazione, ma, al di fuori di esso, le sue ricadute sugli altri interessi primari devono essere valutate in accordo ai principi di proporzionalità e ragionevolezza, che caratterizzano tanto la scelta tecnica che quella discrezionale [25].

Tali considerazioni portano a riconoscere, in capo all’amministrazione, una situazione di discrezionalità mista, all’interno della quale la valutazione tecnica è richiesta nell’accertamento dell’interesse culturale, al fine di valutarne la sussistenza e reale portata, mentre la discrezionalità amministrativa consente di trarre da tale valutazione le opportune conseguenze sul piano dell’apposizione e dell’intensità del vincolo [26]. Questa soluzione, se accolta, avrebbe il pregio di superare l’idea di una tutela assoluta dell’interesse culturale in tutte le sue manifestazioni, a favore di una valutazione complessa dell’interesse pubblico concreto nella quale la necessaria conservazione del bene culturale si colleghi all’esigenza di preservare, attraverso forme di adeguata valorizzazione economica, l’esistenza e la vitalità del contesto nel quale esso è inserito, pena la perdita del suo messaggio culturale e, con essa, la messa in pericolo della stessa integrità fisica della cosa [27].

3. La motivazione della sentenza

La sentenza in esame offre molteplici elementi in risposta agli interrogativi precedentemente sollevati e consente di avvalorare una rappresentazione dell’interesse culturale incentrata sulla capacità del bene che ne è portatore di testimoniare tradizioni, valori e modi di vita della comunità in cui si è prodotto. Infatti, il Consiglio di Stato non si è limitato a respingere il ricorso sulla base dell’argomento della insindacabilità della valutazione tecnica, ma ha ritenuto necessario fornire una serie di argomentazioni che dimostrano nel merito la correttezza della scelta di vincolare il complesso di Santa Maria a Momentana. Le posizioni espresse ricalcano le tesi “contestualiste” [28], secondo cui il patrimonio culturale non rappresenta un fenomeno puntiforme, ma è piuttosto simile a una trama o un ordito, all’interno del quale il singolo bene acquista rilevanza e significato in virtù dell’insieme di relazioni storiche e sociali con la civiltà in cui è inserito. I relativi interventi di tutela presuppongono, pertanto, un approccio integrato, che non si rivolga al bene culturale isolatamente considerato, ma investa i luoghi e le comunità in cui esso si colloca, al fine di preservare per la fruizione attuale e futura non solo l’opera nella sua dimensione fisica, ma anche il suo valore testimoniale di una cultura localizzata [29].

Si comprendono allora con chiarezza le ragioni del giudizio positivo sulla legittimità del vincolo apposto sulla cappella di Santa Maria a Momentana, preliminare alla ricollocazione al suo interno del dipinto di Piero della Francesca: “la funzione identitaria del contesto e la memoria storica ad esso legata giustificano la contestata dichiarazione di interesse storico/artistico, benché le intercorse modifiche dello stato dei luoghi abbiano soppresso il legame materiale dell’affresco con l’originaria chiesa”. La Madonna del Parto è manifestazione e testimonianza di un patrimonio di tradizioni radicate nella devozione locale alla Vergine (cui era dedicato anche un precedente affresco, rinvenuto, in frammenti, al di sotto dell’opera di Piero della Francesca) e, ancor prima, al culto pagano delle acque. Come rilevato dal giudice amministrativo, questo insieme di caratteri identitari ha conservato la propria vitalità anche dopo la demolizione dell’antica chiesa di Santa Maria a Momentana, avvenuta nel 1785. In tale occasione il popolo di Monterchi assicurò la sopravvivenza dell’affresco all’interno della nuova struttura [30], inaugurando una lunga serie di spontanei sforzi conservativi motivati dal carattere identitario che la collocazione dell’opera nel contesto di Momentana aveva assunto per la popolazione locale. Questo legame mantenne la propria rilevanza fino alla fine del Novecento e solo il “temporaneo” [31] trasferimento dell’affresco in occasione dei lavori di restauro del 1992 ne ha determinato l’interruzione. Nel giudizio del Consiglio di Stato, la scelta di vincolare il complesso di Santa Maria a Momentana trova la sua giustificazione nell’esigenza di recuperare questo tessuto di tradizioni (e non l’assetto espositivo voluto da Piero della Francesca e ormai del tutto perduto).

Alla dettagliata ricostruzione delle esigenze di tutela, che emergono dalla fattispecie, non ha fatto seguito un’analoga trattazione dei profili attinenti alla valorizzazione. Da un lato, il giudice ha ricostruito il fondamento dell’interesse culturale che caratterizza la cappella di Santa Maria a Momentana, sebbene la sua individuazione sia riservata alla valutazione esclusiva dell’amministrazione, dall’altra, la decisione di designare tale luogo come sede più idonea alla valorizzazione della Madonna del Parto non è stata presa in considerazione dal giudice, né sono state valutate le sue ricadute sull’accessibilità al bene culturale e la sua valorizzazione economica. Quindi, il riferimento alla discrezionalità tecnica, come canone dell’azione amministrativa e limite al sindacato giurisdizionale, non ha impedito al giudice di riesaminare la valutazione specialistica compiuta dall’amministrazione, ma preclude a una ponderazione effettiva dei vari profili di interesse pubblico legati al bene culturale. Tale ponderazione sarebbe, invece, fondamentale in un contesto caratterizzato dal conflitto tra amministrazioni portatrici di interessi pubblici divergenti.

4. Conclusioni

In conclusione, è possibile osservare come il Consiglio di Stato valorizzi la scelta di vincolare il complesso di Santa Maria a Momentana sulla base di argomentazioni che, esaltando il valore del bene culturale come eredità di una cultura localizzata, traducono sul piano della tutela i principi costituzionali e codicistici sull’interesse culturale. Se il rapporto di compenetrazione fra l’opera e il valore culturale immateriale, che le è stato riconosciuto nel corso della storia, costituisce il presupposto della sua tutela, essa dovrà estendersi tanto alla dimensione fisica del bene, quanto alla sua funzione identitaria di memoria collettiva per una data comunità, dalla quale il bene culturale non potrà essere arbitrariamente distaccato. Ne è ulteriore riprova l’art 7-bis del Codice, rubricato “Espressioni di identità culturale collettiva”, che, introducendo la possibilità di sottoporre alle ordinarie forme di tutela i fenomeni culturali immateriali e identitari che si accompagnano a un supporto materiale, consente di conservare non solo il valore culturale incorporato nella cosa, ma anche la continuità della espressione culturale di cui essa è testimonianza [32].

Un’ultima riflessione deve essere dedicata al tema delle strategie di valorizzazione, che, pur se estranee all’oggetto della sentenza, determineranno l’esito delle scelte compiute. L’efficacia e la coerenza dell’approccio “contestualista” alla tutela si misurano, infatti, nella sua capacità di tradursi in un’azione di valorizzazione integrata, in grado di coinvolgere l’intero territorio e produrre sviluppo diffuso attraverso il rafforzamento del messaggio formativo insito nel bene culturale. Una volta che questo cessa di essere considerato come un’entità singolare, per divenire la manifestazione di un più vasto tessuto di pratiche e tradizioni, che costituiscono complessivamente l’eredità culturale di un territorio, la valorizzazione ne diventa la principale forma di tutela. Se infatti i provvedimenti puntuali di vincolo possono proteggere l’integrità fisica della cosa, solo la consapevolezza diffusa del suo significato, promossa attraverso strategie educative e di miglioramento delle condizioni di fruibilità, consente di preservarne la funzione identitaria da cui deriva il valore culturale. In questa prospettiva si può leggere anche il riferimento, contenuto nell’art. 10 della Convenzione di Faro, alla necessità di “accrescere la consapevolezza del potenziale economico del patrimonio culturale e a utilizzarlo”. Nel quadro della Convenzione, la valorizzazione economica si presenta non come l’antitesi della tutela, ma come un processo virtuoso, che, dalla consapevolezza diffusa del valore che il patrimonio culturale riveste per il territorio, riesce a trarre risorse da destinare al suo godimento condiviso, con ricadute positive sullo sviluppo locale, dal punto di vista tanto economico, quanto umano e culturale [33]. Ne consegue che, prima di sviluppare le potenzialità economiche del bene, occorra promuoverne il valore culturale e rafforzare la percezione del suo legame identitario con il territorio, che solo in tal modo potrà da esso ricavare un’utilità accessoria di tipo economico [34].

 

Note

[*] Guglielmo Perini, dottorando di ricerca presso l’Università degli studi di Firenze, Via delle Pandette 32, 50127 Firenze, guglielmo.perini@unifi.it.

[1] Tar Toscana, sez. I, 7 maggio 2015, n. 733 e Tar Toscana, sez. III, 18 maggio 2021, n. 729.

[2] Gli appelli proposti nei due distinti procedimenti dal comune di Monterchi e dall’allora ministero per i Beni e le Attività Culturali sono stati riuniti d’ufficio ex art. 70 del Codice del Processo Amministrativo (d.lg. 2 luglio 2010, n. 104) e decisi con un’unica sentenza dal Consiglio di Stato.

[3] Sulla storia dell’affresco e le vicissitudini che hanno portato alla sua attuale collocazione presso i Musei civici Madonna del Parto di Monterchi vedasi G. Botticelli, G. Centauro, A.M. Maetzke, Il restauro della Madonna del parto di Piero della Francesca, Poggibonsi, 1994, P. Benigni, Su alcuni documenti “perduti” relativi alla Madonna del Parto, in Rivista della Fondazione Piero della Francesca, 2009, n. 2 (in particolare pag. 12) e S. Altmann, Piero’s Madonna del Parto: Facts and Conjectures, European Review, 2019, n. 4, pagg. 455 ss. A. Gualdani, La Madonna del Parto di Piero della Francesca: tra l’enigma sulla proprietà e le plurime vicende sul luogo della sua fruizione, in Aedon, 2015, 3.

[4] Incarico conferito con atto della Direzione Generale per il Patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico del ministero per i Beni e le Attività culturali del 24 ottobre 2003, prot. n. 21083. Il Tar per la Toscana, con la sentenza n. 733 del 7 maggio 2015, ha qualificato l’atto in questione come provvedimento implicito. Infatti, secondo le motivazioni espresse dal Tar, “l’ordine di elaborare un progetto di ricollocazione dell’affresco nel complesso di Sa. Ma. Mo. non appare un atto istruttorio o procedimentale suscettibile di confluire in una decisione finale a contenuto incerto. Esso non può presupporre altro che la decisione ministeriale di collocare in tale sito l’affresco di cui si discute. In altri termini, ciò a cui è stata chiamata la soprintendenza dal Ministero non è effettuare uno studio circa la fattibilità o l’opportunità di dare tale collocazione all’affresco, ma elaborare un progetto di collocazione dello stesso nel complesso di Sa. Ma. Mo., e ciò non può presupporre altro che una decisione assunta in tal senso dal Ministero”.

[5] Mediante due distinti provvedimenti del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo del 26 giugno 2015.

[6] Come illustrato dal Consiglio di Stato, “il Ministero ha vincolato la chiesa di Santa Maria in Momentana quale sede ‘scientificamente’ idonea - nel contesto storico, artistico e culturale suo proprio, identitario dell’affresco - alla valorizzazione del dipinto anch’esso vincolato” (Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 2022, n. 1510).

[7] In un primo momento, il trasferimento del bene culturale è stato precluso dal rispetto del vincolo cimiteriale (ex art. 338 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265), il quale, nella interpretazione del Tar Toscana, “impedirebbe di realizzare alcunché di nuovo nell'ambito dei luoghi individuati per la collocazione dell’affresco” (Tar Toscana, sez. I, 07 maggio 2015, n. 733, paragrafo 4 della motivazione). In senso diametralmente opposto si è espressa la successiva pronuncia del Tar n. 729 del 2021. Come evidenziato dal giudice amministrativo, la dichiarazione di interesse culturale impugnata dal comune di Monterchi non comporta interventi edilizi incompatibili con il vincolo cimiteriale. Inoltre, questi risulterebbero comunque realizzabili ai sensi dell’art. 338, comma 7, r.d. n. 1265/1934. Tale norma, infatti, prevede che gli edifici situati all’interno della zona di rispetto cimiteriale possano essere soggetti a interventi di recupero o comunque funzionali al loro utilizzo. In questa categoria rientrano tutte le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e consolidamento conservativo, potenzialmente necessarie all’esposizione dell’affresco. Tali conclusioni sono confermate dal Consiglio di Stato, il quale sottolinea che “gli interventi strumentali alla valorizzazione del dipinto paiono riconducibili a quelli di manutenzione e di risanamento conservativo, e dunque sono ammessi” (Cons. Stato, 3 marzo 2022, n. 1510, paragrafo 10.3 della motivazione).

[8] S. Cassese, già nel 1988, sottolineava come la mutata consapevolezza circa la natura e funzione dei beni culturali consentisse di superare l’antinomia fra tutela e valorizzazione, poiché il secondo componente di questo binomio implicava al proprio interno il primo, e anzi rappresentava per esso un elemento costitutivo. S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998. È particolarmente significativa, ai fini della vicenda in esame, l’affermazione per cui “tutela vuol dire conservazione nel cotesto” (pag. 673).

[9] M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Padova, 1991, pagg. 9-14, in particolare pagg. 11-12: “anche l’obbligo di preservare il patrimonio storico ed artistico della nazione va agganciato al fine generale prescritto dal primo comma dell’art. 9: la promozione della cultura. [...] è evidente infatti che la crescita culturale della collettività non si misura solo in base all’evoluzione delle conoscenze tecniche e scientifiche, né sulla mera produzione di nuove opere d’arte; essa passa invece anche attraverso il confronto con il passato, le cui tracce servono ad alimentare la memoria storica degli uomini”; G. Rolla, Beni culturali e funzione sociale, in Scritti in onore di M.S. Giannini, vol. I, Milano, 1988, pagg. 573-574.

[10] A. Lupo, La nozione positiva di patrimonio culturale alla prova del diritto globale, in Aedon, 2019, 2.

[11] M. Timo, L’intangibilità dei beni culturali, Torino, 2022, in particolare pagg. 72 e 108.

[12] Art. 2 della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005 .

[13] F. Rimoli, La dimensione costituzionale del patrimonio culturale: spunti per una rilettura, in Riv. giur. edil., 2005, 5, pag. 505 ss., in particolare pag. 507.

[14] Art. 2, comma 2, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio.

[15] Su tale dichiarazione, B. Cavallo, La nozione di bene culturale tra mito e realtà: rilettura critica della prima dichiarazione della Commissione Franceschini, in Scritti in onore di M.S. Giannini, vol. II, Milano, 1988, pagg. 113-115.

[16] P. Forte, Full Jurisdiction, arte, cultura. Un discusso confine in movimento, in P.A. Persona e Amministrazione, 2018, 2, pag. 174.

[17] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1, pag. 7. Come è noto, l’Autore identifica il bene culturale non nel bene materiale oggetto di diritti reali, ma nel valore immateriale inerente alla cosa, che esercita una funzione di arricchimento della cultura e sviluppo della personalità.

[18] A. Lupo, op. cit.

[19] F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, pag. 237.

[20] In questa materia si evidenzia con maggiore frequenza e intensità la divergenza nei fini fra tutela e valorizzazione. C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2020, pag. 200. Riprendendo la classificazione degli interessi pubblici connessi al patrimonio culturale proposta da John Henry Merryman, è possibile individuare, alla base della controversia, un conflitto fra autenticità (cultural truth) e accessibilità del bene culturale. J.H. Merryman, The Public Interest in Cultural Property, in California Law Review, 1989, 2, pag. 339 ss.

[21] M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pag. 31.

[22] G. Clemente di San Luca, R. Savoia, Manuale di diritto dei beni culturali, Napoli, 2008, pag. 266.

[23] P. Forte, op. cit., pagg. 183-184.

[24] Tale descrizione è tratta da P. Forte, op. cit., pagg. 184-185.

[25] G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in Aedon, 2016, 3. P. Carpentieri, Semplificazione e tutela e G. Sciullo, Presentazione, in Aedon, 2016, 3.

[26] A. Catelani, Definizione e disciplina dei beni culturali, sez. V L’accertamento della qualifica di bene culturale, in I beni e le attività culturali, (a cura di) S. Cattaneo, A. Catelani, vol. XXXIII, Trattato di diritto amministrativo diretto da Giuseppe Santaniello, Padova, Cedam, 1999, pagg. 125-126. Sebbene in giurisprudenza risulti fortemente prevalente la tesi che riconduce il giudizio sull’interesse culturale alla valutazione tecnica dell’amministrazione, alcune sentenze fanno riferimento alla necessità di un bilanciamento fra gli interessi coinvolti, delineando una valutazione caratterizzata anche da momenti di discrezionalità amministrativa. Fra queste è nota la pronuncia del Consiglio di Stato sull’illegittimità del vincolo gravante sulla “Casa-Studio Dalla” (Cons. Stato, sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5986). La natura mista della discrezionalità esercitata dalla pubblica amministrazione deputata alla tutela dei beni culturali è stata invece affermata in modo espresso dal TAR, secondo il quale “Nel caso di tutela dei beni culturali, la valutazione dell’interesse culturale è caratterizzata da una discrezionalità mista, nella quale si compenetrano elementi di discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa. Tale particolare configurazione è dovuta alla peculiarità del potere attribuito all’Amministrazione nella materia in questione, nel cui esercizio occorre tener conto non soltanto dei vari interessi, pubblici e privati, che possono venire in rilievo nella valutazione, ma altresì di una serie di profili tecnici - c.d. fatti complessi - relativi agli aspetti storici ed architettonici del bene” (Tar Lazio, Roma, sez. II, 5 ottobre 2015, n. 11477).

[27] Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003: “La valutazione dell’Amministrazione deve necessariamente tener conto di un complesso e integrato sistema attinente all’interesse pubblico in concreto, nel quale la concreta sopravvivenza della testimonianza culturale deve inevitabilmente collegarsi alla necessità di preservare, con il valore culturale, la stessa esistenza materiale e la vitalità del contesto del quale il bene stesso è parte integrante”.

[28] L’espressione è mutuata da L. Bobbio, Il decentramento della politica dei beni culturali, in Ist. fed., 1997, 2, pagg. 300-303. Essa è impiegata anche in G. Pitruzzella, Art. 148, in Lo stato autonomista. Funzioni statali, regionali e locali nel decreto legislativo n. 112 del 1998 di attuazione della legge Bassanini n. 59 del 1997, (a cura di) G. Falcon, Il Mulino, Bologna, 1998, pag. 492. Vedasi anche F.S. Marini, op. cit. pagg. 237-239 e A. Crosetti, Governo del territorio e tutela del patrimonio culturale: un difficile percorso di integrazione, in Riv. giur. edil., 2018, 2, pagg. 81-83.

Queste tesi, la cui emersione si legava alla richiesta di nuove competenze regionali in materia di promozione della cultura, trovano riscontro e legittimazione nell’art. 2 della Convenzione di Faro, il quale stabilisce che “il patrimonio culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che alcune persone considerano, a prescindere dal regime di proprietà dei beni, come un riflesso e un’espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in continua evoluzione. Esso comprende tutti gli aspetti dell’ambiente derivati dall’interazione nel tempo fra le persone e i luoghi”. L’accordo, formalmente denominato Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, è stato ratificato dall’Italia con la legge 1° ottobre 2020, n. 133, con la quale l’espressione “eredità culturale” (cultural heritage) compare per la prima volta nel nostro ordinamento.

Sui legami fra le tesi precedentemente enunciate e la vicenda regionalista si veda anche M. Fiorillo M. Ainis, L’ordinamento della cultura: manuale di legislazione dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2015, pagg. 88-90.

[29] Questa tesi implica che qualsiasi opera di decontestualizzazione del bene produca una lesione dell’interesse culturale a danno tanto della comunità di provenienza del bene, che perde un elemento attraverso cui riconoscere la propria identità, quanto dei fruitori attuali e futuri, impossibilitati a comprendere l’autentica dimensione culturale e il messaggio formativo dell’oggetto. Su quest’ultimo aspetto si veda T. Dominici, Comunicare senza parole. Lo spazio fisico dell’opera, in Nuova Museologia, n. 40, giugno 2019, pag. 26: “La musealizzazione determina una duplice alienazione: quella dell’oggetto percepito decontestualizzato, posto in un luogo altro rispetto al quale era stato concepito, e quella del soggetto percepiente, stranito di fronte a un’opera che non può comprendere proprio perché strappata dalla sede originaria, privato dunque di quel paratesto, l’ambiente, che conferisce il giusto senso interpretativo al testo, l’opera”.

La posizione in esame esalta il carattere relazionale del bene culturale, tuttavia la dicitura presenta un’ambivalenza evidente e problematica: essa può riferirsi tanto alle relazioni esistenti fra il bene e il suo contesto sociale e ambientale, quanto alle relazioni che vengono a formarsi attraverso la fruizione e valorizzazione del bene. Come la vicenda della Madonna del Parto dimostra, i due insiemi non sono sovrapponibili e valorizzarne uno può andare a detrimento dell’altro.

[30] P. Benigni, Su alcuni documenti “perduti” relativi alla Madonna del Parto, in Rivista della Fondazione Piero della Francesca, 2009, 2, pag. 12.

[31] L’opera infatti avrebbe dovuto far ritorno nella sua sede al termine del restauro, ma fu trattenuta dal comune di Monterchi. Ne nacque una lunga disputa con la Diocesi di Arezzo sulla proprietà dell’affresco, risolta con un accordo transattivo, che prevedeva il riconoscimento della proprietà pubblica dell’opera e la sua collocazione presso la chiesa di San Benedetto, nel centro storico di Monterchi. L’accordo era condizionato sospensivamente all’assenso delle competenti autorità ecclesiastiche e ministeriali e non è stato attuato per la volontà dell’amministrazione statale di spostare nuovamente la Madonna del Parto nel complesso di Santa Maria a Momentana. Tuttavia, l’accordo era stato oggetto di un parere favorevole da parte della Soprintendenza. Nel corso del giudizio di primo grado il Comune di Monterchi ha tentato di fondare su tale parere il riconoscimento del proprio diritto di proprietà sul dipinto. Il motivo di ricorso è stato respinto in quanto, da una parte, la soprintendenza non è competente a esprimersi sulla proprietà dei beni culturali e, dall’altra, la dichiarazione di interesse cultuale impugnata dal comune non incide su eventuali diritti di proprietà.

[32] Come illustrato dal Consiglio di Stato (Adunanza plenaria, 13 febbraio 2023, n. 5, in particolare paragrafo 5.4 della motivazione) i beni protetti dalla norma non coincidono pienamente con il patrimonio immateriale previsto dalla Convenzione Unesco. Le “espressioni di identità collettiva” costituiscono, al contrario, un autonomo oggetto di tutela. L’art. 7-bis mira, infatti, a proteggere espressioni di identità condivise (aventi, per lo natura, carattere immateriale) purché di esse esista una testimonianza materiale, già di per sé tutelabile ai sensi dell’art. 10 del Codice dei beni culturali. Al contrario, il patrimonio culturale descritto dalla Convenzione Unesco deve essere tutelato anche se privo di un supporto fisico, il cui rilievo è quindi meramente eventuale.

La recente pronuncia dell’Adunanza plenaria fornisce, inoltre, indicazioni importanti per una ricostruzione del rapporto fra bene culturale e contesto sociale: “Il bene culturale, oltre a essere oggetto diretto della tutela apprestata dalle norme, rileva anche come ‘testimonianza vivente’, vale a dire come mezzo di prova dell’esistenza della manifestazione culturale, immateriale e collettiva, che, per mezzo di esso, si alimenta e si ricrea, perpetuandosi nel tempo. Infatti, il bene culturale non si esaurisce soltanto nelle testimonianze materiali che lo rappresentano, attribuendogli il valore estetico o storico che gli è proprio, ma presenta anche una particolare forza ‘evocativa’ in virtù del valore in esso insito, che assume significato per l’intera collettività di riferimento, la quale da esso trae un senso di identità e di continuità” (paragrafi 5 e 5.1 della motivazione).

[33] V. Di Capua, La Convenzione di Faro. Verso la valorizzazione del patrimonio culturale come bene comune, in Aedon, 2021, 2.

[34] M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, in Aedon, 2018, 3.

 

 

 



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