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I confini del patrimonio culturale

Cibo e patrimonio culturale: alcune annotazioni [*]

di Antonello Denuzzo

Sommario: 1. Cenni alla disciplina costituzionale del fenomeno culturale. - 2. Tipicità agroalimentari e identità costituzionali. - 3. La protezione multilivello delle tipicità agroalimentari. - 4. Il patrimonio culturale enogastronomico dopo la Convenzione Unesco del 2003 (e l'effetto di eterointegrazione della portata precettiva delle disposizioni costituzionali). - 5. Esperienze di tutela e di valorizzazione. - 6. Conclusioni ("forma della persona" e "forma del Paese").

Food and Cultural Heritage: some notes
Reconstructing the main regulations, these reflections intend to bring food to the constitutional concept of culture and in particular to the field of historical heritage of the Nation. The international community has finally recognized the identity value which certain foods are to the territorial community of reference and now, addressing the food issue in a constitutional perspective, it is possible to look towards wider horizons than those allowed by an essentially economistic theoretical conception.

Keywords: Culture; Constitutional identity; Rural economy; Gastronomy.

1. Cenni alla disciplina costituzionale del fenomeno culturale

L'ipotesi ricostruttiva sottesa a queste riflessioni è che sia possibile ricondurre l'alimentazione al concetto costituzionale di cultura e in particolare all'alveo del patrimonio storico della Nazione.

La disposizione che si presta a fare da cornice entro la quale iscrivere la dimensione culturale del tema è l'art. 9 Cost., il "cuneo attraverso il quale irrompe nel dettato costituzionale l'esigenza di assicurare il progresso culturale della comunità civile" [1].

In questa prospettiva "l'art. 9 Cost. è intimamente connesso con l'art. 3, comma 2 Cost., ossia con la necessità di attuare condizioni di eguaglianza di fatto tra i cittadini attraverso la diffusione di adeguate conoscenze culturali a tutti i livelli della società civile, grazie all'intervento promozionale di tutte le articolazioni territoriali che compongono la Repubblica" [2].

D'altra parte la collocazione della disposizione in discorso tra i principi fondamentali della Carta depone nel senso che la cultura rappresenti un valore primario, che informa il sistema nella sua globalità [3].

Entrando in medias res, gli antropologi utilizzano l'espressione "cultura materiale" per indicare "l'insieme delle conoscenze e delle pratiche relative ai bisogni e ai comportamenti materiali dell'uomo" [4], ma anche taluni aspetti visibili di una cultura quali i manufatti urbani, gli utensili della vita quotidiana e delle attività produttive. Non sembra difficile includere il cibo all'interno di una tale definizione, in quanto "tutti i cibi sono il risultato della selezione e della manipolazione creativa operata sulla natura da parte di una comunità insediata in un territorio" [5].

Per l'uomo di ogni epoca storica e contesto geografico gli alimenti non sono mai stati, però, soltanto la materia prima volta a soddisfare la necessità fisiologica della sopravvivenza, bensì hanno rivestito un ruolo essenziale nella formazione delle identità collettive e oggi costituiscono forme oggettive di memoria storica, testimonianze di stili di vita, di sistemi di autorità, di riti e credenze e di tecnologie [6]. Ogni cibo è inoltre espressione della varietà della natura e del paesaggio (il riferimento è alla biodiversità e alle varietà autoctone) [7].

Questa evidente complessità della dimensione culturale del cibo implica la necessità di definire politiche che tengano conto delle sue caratteristiche peculiari e del contesto in cui è stato creato e continua ad esistere, trasmesso di generazione in generazione, come parte di quel continuum che lega strade, edifici, tradizioni culturali e storia dell'Italia intera [8].

2. Tipicità agroalimentari e identità costituzionali

Come ha rilevato Andrea Morrone, non si può negare che esista una relazione strettissima tra il cibo e la storia. Per ripercorrere soltanto alcuni passaggi essenziali della storia alimentare dell'umanità, si pensi alla rivoluzione industriale, che ha consentito di piegare la tecnica alle esigenze della sicurezza alimentare e dell'accessibilità al cibo, o alla rivoluzione ambientale, che ha posto il tema della protezione dell'ambiente tra i fini fondamentali della politica (come ha dimostrato la Conferenza dell'Onu di Parigi del 2015 sui cambiamenti climatici) e ha incluso tra i propri obiettivi una produzione agricola ecosostenibile e un'alimentazione ecocompatibile [9].

In virtù di queste connessioni con la cultura e con la storia, il cibo può essere considerato come un bene culturale, ma anche come la metafora di una complessiva identità culturale [10].

Nella prima accezione il cibo può essere oggetto di regolazione giuridica alla stregua di qualsiasi altro bene culturale e quindi oggetto di una disciplina che intenda tutelare e valorizzare alimenti tradizionali [11]. In questa direzione si muovono le norme interne e comunitarie sulle denominazioni di origine, pur rivolgendosi a determinate produzioni nella loro dimensione commerciale piuttosto che in quanto beni culturali intesi in senso stretto [12].

Le Risoluzioni del Parlamento europeo 2013/2098(INI) del 14 gennaio 2014 ("sul marchio regionale: verso migliori prassi nelle economie rurali") e 2015/2574(RSP) del 30 aprile 2015 ("su Expo Milano 2015: nutrire il pianeta, energia per la vita") si propongono di implementare la competitività delle regioni più vulnerabili e periferiche e di ridurre "l'asimmetria del rapporto tra politiche di liberalizzazione e politiche di regolamentazione dei mercati" [13]; la legge n. 141/2015 in materia di "agricoltura sociale" persegue la soddisfazione di interessi di utilità sociale coordinando realtà lucrativa e universo no profit [14]; un recente decreto interministeriale, notificato alla Commissione Europea il 18 novembre 2016, sperimenta l'introduzione dell'obbligo in etichetta dell'indicazione dell'origine della materia prima per la filiera del grano e della pasta italiani [15].

Ma - come affermato dallo stesso Andrea Morrone - è la prospettiva che lega cibo e identità culturale quella più significativa dal punto di vista costituzionale [16]. Il cibo è il riflesso di un'esperienza sociale, nel senso che attraverso l'osservazione di usi e prodotti alimentari è possibile identificare un insieme di individui e le sue consuetudini. Persino alcune culture religiose si caratterizzano proprio per le regole che si riferiscono all'alimentazione, come nel caso dell'Ebraismo con la cucina kasher [17].

Seguendo quest'ultimo indirizzo, l'alimentazione diventa uno dei parametri intorno ai quali può essere discusso il tema di diritto costituzionale della "società multiculturale" [18].

I fenomeni migratori trasformano società culturalmente omogenee aprendole a soggetti che si ispirano a valori diversi, di cui larga parte coincidono con abitudini alimentari sui generis. Dalla domanda di riconoscimento delle comunità che rivendicano un'identità culturale propria e corrispondenti diritti culturali possono scaturire nuovi conflitti sociali, che spetta alla politica e al diritto dirimere in maniera adeguata, senza cedere alla "tentazione del protezionismo di una male invocata identità italiana, espressione invece di un paternalismo alimentare campanilista" [19].

D'altra parte intorno al cibo nascono e si consolidano poteri; non solo poteri privati, come quello dei produttori e dei consumatori, che generalmente caratterizzano l'economia alimentare e tutto il diritto dell'alimentazione [20].

Il cibo può essere oggetto di potere politico e strumento della politica pubblica. Per esempio alcune regioni hanno di recente adottato misure volte a preservare l'economia rurale e quelle tipicità agroalimentari le cui modalità di reperimento, di trasformazione e di conservazione consentono di distaccarsi da forme economiche esasperate, che declinano tutto ciò che attiene alla produzione alimentare in termini di massima resa [21].

La relazione del cibo con il potere politico non è sfuggita a quelle "correnti di pensiero che propugnano, nell'ambito di una più ampia concezione del rapporto tra uomo e ambiente, un nuovo contratto sociale tra tutte le forme di vita, nell'ambito del quale i cibi rivestono un significato politico, come valore costituzionale del quale una comunità politica riconosce la fondamentalità e predispone strumenti idonei per realizzarlo" [22].

La principale manifestazione della relazione tra cibo e potere politico si ritrova nella formula della "sovranità alimentare" [23], i cui sostenitori - contestando la logica privatistica e commerciale propria della "sicurezza alimentare" [24] - reclamano per le comunità territoriali il potere di compiere scelte autonome nelle questioni legate all'alimentazione.

Accade spesso che decisioni di impatto politico strategico, già assunte altrove in modo riservato, transitino nelle assemblee elettive in forma obbligata e sostanzialmente integrale, lasciando alle istituzioni locali e alle comunità interessate il ruolo di spettatrici passive del medesimo accordo [25]. Al contrario, come ha affermato Amartya Sen, "i modi di vivere possono essere preservati se è la società che decide di farlo... I diversi settori della società devono essere in grado di partecipare attivamente alla scelta delle cose da conservare (o da abbandonare)... C'è - per giustizia sociale - una reale necessità di mettere la gente in grado di partecipare, se lo vuole, a simili decisioni, che hanno carattere collettivo" [26].

La crisi globale dell'agricoltura, l'aumento dei costi del cibo, la riduzione delle superfici agricole dei Paesi avanzati hanno generato quel che si definisce land grabbing, ossia l'acquisto a prezzi bassissimi da parte di imprese e fondi immobiliari di enormi estensioni di suoli fertili nei Paesi più poveri, allontanando le popolazioni residenti e destinandoli all'agricoltura industrializzata. Sarà forse questo nuovo trionfo del mercato "la sanguinosa mano invisibile" della "notte che tutto acceca, che benda l'occhio pietoso del giorno" [27].

Ma in un contesto costituzionale volto a consentire il fondamentale diritto di ciascuno alla libera costruzione della propria personalità, quella della "sovranità alimentare" diventa la formula per sostenere l'economia rurale e per contrastare l'"alienazione alimentare" [28], ossia per fare in modo che il cibo sia direttamente accessibile da parte di ogni comunità organizzata politicamente, in questo modo salvaguardando le esigenze legate all'appartenenza a determinati gruppi culturali [29].

3. La protezione multilivello delle tipicità agroalimentari

Nell'epoca dei mercati globalizzati il tema della tutela e della valorizzazione dei prodotti tipici agroalimentari ha un rilievo non trascurabile anche per qualche ragione ulteriore.

Si pensi al fenomeno dell'italian sounding, che consiste nell'accostamento fraudolento di immagini, espressioni e alimenti evocativi dell'Italia con altri alimenti appartenenti ad altre realtà gastronomiche. Secondo recenti stime di Coldiretti, il fatturato annuo realizzato attraverso l'utilizzo improprio dell'etichetta Made in Italy nel settore agroalimentare - anche in conseguenza della delocalizzazione delle imprese italiane all'estero - ha superato i 60 miliardi di euro, quasi il doppio del fatturato delle esportazioni nazionali degli stessi prodotti originali [30].

La questione coinvolge i rapporti con l'Unione Europea e con alcune sue linee direttive omologanti e pone "problemi delicatissimi per Paesi come l'Italia, con una tradizione in materia che rappresenta uno degli snodi fondamentali del patrimonio culturale materiale e immateriale e al contempo un'espressione dell'identità costituzionale in senso proprio" [31].

Come anticipato, tutte le normative riguardo alle tipicità agroalimentari mirano a preservare un prodotto di un determinato posto, le cui caratteristiche peculiari siano il risultato della combinazione di fattori materiali e umani locali.

Di conseguenza nessuno che non abbia una "legittimazione geografica" [32] dovrebbe utilizzare il nome identificativo di un prodotto tipico, la cui riproduzione con tecniche e materiali differenti da quelli originari: da un lato, determina una contraffazione che lede il nome di quel prodotto e inganna chi ne acquisti un'imitazione confidando di riscontrare le qualità generalmente associate a quel nome; dall'altro lato, agevola il produttore che riscuote i vantaggi offerti dal nome del prodotto imitato senza averne sostenuto gli oneri del processo tipico di produzione.

È indubbio che la tutela della concorrenza rappresenti un interesse di rango costituzionale per l'ordinamento italiano e per quello europeo, nonché per la maggior parte degli ordinamenti costituzionali liberaldemocratici [33]. Allora, anche su questo versante, la prospettiva costituzionale pare quella corretta da seguire per dare alla problematica una collocazione adeguata all'oggetto, ossia per orientare le politiche alimentari verso orizzonti più ampi di quanto non consentano una concezione teorica e un diritto di ispirazione economicistica.

La protezione delle tipicità agroalimentari mostra una connessione anche con la proprietà ex art. 42 Cost. e in particolare con la proprietà agraria ex art. 44 Cost. [34].

La Costituzione si caratterizza per una protezione della proprietà, nonché dell'impresa e del lavoro [35], non più intesi come espressioni del diritto naturale, ma come assi portanti dell'intero sistema economico disegnato dalla stessa Carta, con ciò manifestando "non solo l'ampliarsi degli interessi dello Stato in ordine alle attività produttive, ma anche l'inserirsi, accanto alle finalità produttivistiche, di scopi più specificamente sociali" [36]. Tutelando la proprietà, anche terriera (artt. 42 e 44), promuovendo e proteggendo il lavoro, considerandoli tutti fattori produttivi da favorire (art. 47), la Costituzione appresta una particolare garanzia altresì per il frutto del lavoro della terra.

La prima, essenziale protezione della veridicità della provenienza geografica come elemento distintivo del prodotto si rinviene nella Convenzione di Parigi del 1883 sulla proprietà industriale [37]. L'art. 1, comma 2, della Convenzione apprestava la garanzia della "proprietà industriale" attraverso strumenti quali i "brevetti", i "disegni" e i "marchi", il "nome commerciale" e le "indicazioni di provenienza o denominazioni d'origine nonché la repressione della concorrenza sleale".

L'accordo fu riveduto nella Conferenza di Lisbona del 1958, che introdusse regole assai innovative per l'epoca, delineando un meccanismo di registrazione internazionale delle denominazioni di origine di prodotti le cui caratteristiche fossero collegate all'ambiente geografico di provenienza e prescrivendo la loro protezione "contro qualsiasi usurpazione o imitazione" (art. 3).

I Paesi americani e asiatici restarono del tutto estranei rispetto agli accordi di Lisbona, mentre un riscontro più ampio hanno ricevuto gli accordi firmati a Marrakech nel 1994, con i quali è stata istituita la World Trade Organization (WTO) e adottata la disciplina specifica, anche in materia di proprietà industriale e intellettuale, contenuta nell'Agreement on Trade-Related aspect of intellectual property rights (Trips).

Per quel che rileva in questa sede, l'intera terza sezione del Trips è dedicata alle "indicazioni geografiche", in particolare alle tipicità agroalimentari, e l'art. 22 dello stesso documento prevede l'utilizzo di un'indicazione geografica finalizzata a identificare un prodotto come originario del territorio di uno degli Stati firmatari "quando una determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica" [38].

È stato sostenuto che "la globalizzazione dell'economia non si traduce soltanto in globalizzazione dei mercati, ma anche in globalizzazione dei fattori produttivi e quindi in una deterritorializzazione - oltre che in una dematerializzazione - dell'economia, mentre i prodotti tipici si fondano su un elemento di localizzazione forte, sul quale le denominazioni che denotano l'origine di questi prodotti pongono l'accento. Questo elemento fortemente local ha sempre più bisogno di una tutela global, cioè di una tutela che operi non soltanto nei Paesi di origine dei prodotti tipici (e delle relative denominazioni), ma anche sugli altri mercati nei quali questi prodotti vengono esportati" [39]. Il Trips - ratificato dall'Italia con legge n. 747/1994 - appare conforme a questa teoria della "glocalizzazione" [40], secondo cui i prodotti e i servizi che partecipano al mercato globale al tempo stesso supportano le economie e le culture locali in termini di agricoltura sostenibile e sviluppo del territorio.

4. Il patrimonio culturale enogastronomico dopo la Convenzione Unesco del 2003 (e l'effetto di eterointegrazione della portata precettiva delle disposizioni costituzionali)

L'opzione interpretativa volta a ricondurre il cibo all'art. 9 Cost. trova conforto nella chiara ammissione dei profili propriamente culturali dell'alimentazione da parte della Convenzione Unesco di Parigi del 2003 per la salvaguardia dell'intangible cultural heritage, che ha ricompreso nell'ambito del patrimonio culturale immateriale "le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how, come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi, che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale" (art. 2). Da questo punto vista la Convenzione del 2003 completa il contenuto normativo dell'art. 9 Cost., secondo le indicazioni della Corte costituzionale circa l'eterointegrazione della portata precettiva delle disposizioni costituzionali da parte delle Convenzioni universali o regionali sottoscritte dall'Italia [41].

La scelta del 2003 dell'Unesco, se da un lato distingue i beni immateriali da quelli materiali quanto all'oggetto e alle modalità di preservazione, dall'altro lato ne dimostra l'"unità ontologica" [42], poiché entrambe le tipologie di beni possono ritrovarsi nel più ampio concetto di bene culturale richiamato nel primo riconoscendo della Convenzione, secondo cui "gli accordi, le raccomandazioni e le risoluzioni esistenti relative ai beni culturali e naturali necessitano di essere arricchiti per mezzo di nuove disposizioni relative al patrimonio culturale immateriale".

D'altro canto le attività di tutela e valorizzazione dei beni culturali immateriali dovrebbero "garantirne la vitalità", la "trasmissione", la circolazione e il loro continuo ricrearsi (art. 2, comma 3, Convenzione), con la conseguente necessità di ricorrere a strumenti diversi rispetto a quelli ordinari per i beni materiali.

Nel 2010 il Comitato Intergovernativo istituito dall'art. 5 della stessa Convenzione del 2003 ha stabilito all'unanimità di iscrivere nella speciale Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità la Dieta mediterranea, insieme alla Cucina tradizionale messicana dello Stato del Michoacán e al Repas gastronomique francese, così riconoscendo per la prima volta ufficialmente il valore culturale di una pratica alimentare. Peraltro questi patrimoni enogastronomici comprendono anche alcuni strumenti tangibili come gli utensili utilizzati per la preparazione e il consumo del cibo, nella consapevolezza di quanto sia necessario tutelare i mestieri tradizionali e il lavoro degli artigiani al fine di sostenere l'economia di un territorio [43].

Nella suo significato moderno, l'espressione "Dieta mediterranea" è stata coniata intorno al 1950 dal nutrizionista statunitense Ancel Keys pensando a un "insieme di competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni che si estendono dal paesaggio alla tavola, nell'ambito dei Paesi del bacino del Mediterraneo, passando per la coltura, la raccolta, la conservazione, la trasformazione, la preparazione e il consumo del cibo" [44]. Questo modello nutrizionale è in realtà un patrimonio etno-antropologico unico, la pietra angolare di un intero sistema culturale improntato alla salubrità e alla qualità degli alimenti, ma anche al riconoscimento reciproco e al dialogo interculturale che si praticano durante i pasti comuni. Del resto le parole cultura e coltura hanno la stessa radice, comune alla voce verbale cōlere; nell'una - la coltura - l'ambiente è la terra; nell'altra - la cultura - quel terreno di vita comune che è la società [45].

In questo orizzonte la questione della salvaguardia dei beni culturali immateriali è connessa al tema della "diversità culturale" - che si compone di molteplici espressioni linguistiche, artistiche, rituali (c.d. traditional knowledge) -, al punto che non si può prescindere da una corrispondente tutela delle comunità sociali che danno forma a quei beni in quanto propria manifestazione culturale [46]. In tal senso depone ancora il primo riconoscendo della Convenzione Unesco del 2003 nel suo riferimento alla "distruzione del patrimonio culturale immateriale qualora si manifesti intolleranza verso le diversità" [47].

Non è un caso che l'art. 15 della stessa Convenzione del 2003 prescriva ai Paesi membri ogni sforzo possibile per favorire la più ampia partecipazione finanche degli individui che creano, custodiscono e trasmettono il patrimonio culturale immateriale (pur non prevedendo, la Convenzione, sanzioni qualora uno Stato non tenga fede agli impegni assunti di fronte alla comunità internazionale) [48]. Questo approccio pienamente partecipativo può rappresentare la base di un sistema di governance [49] che coinvolga sia tutti i livelli di governo abilitati ad avere un interesse nei confronti dei beni culturali [50], sia la società civile, in attuazione del modello di solidarietà ispirato dall'art. 2 Cost. e del principio di sussidiarietà orizzontale [51] di cui all'art. 118, comma 2, Cost.

In altre parole il pluralismo culturale all'interno degli Stati a struttura regionale postula il rafforzamento delle culture interne senza smarrire il fondamentale senso di unità dello Stato [52] (pur sempre nella misura in cui una comunità manifesti l'esigenza di valorizzare le diverse identità locali che la compongono).

Quello di "diversità" è un concetto che soltanto di recente, e indirettamente - per esempio con l'adesione alla Convenzione Unesco del 2005 sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali -, ha trovato accoglienza nei principali documenti giuridici degli Stati di democrazia liberale. Secondo Giovanni Poggeschi la ragione di questo ritardo risiede nella (presunta) insidia che la diversità pone nei confronti del principio di eguaglianza, applicazione irrinunciabile di un moderno Stato di diritto e condizione essenziale per il godimento dei diritti di libertà. Inoltre l'enfasi attribuita sin dal dopoguerra ai diritti individuali a scapito di quelli collettivi, nell'esaltazione dei quali si scorgeva il "potenziale pericolo che aveva portato alle aberrazioni dei nazionalismi e delle teorie della razza", rendeva poco adoperabile un concetto come quello di "diversità", più facilmente riferibile ai gruppi che agli individui [53].

Ma nella Convenzione di Parigi del 2005 l'Unesco si occupa proprio di popoli autoctoni, ossia di minoranze che vivono da secoli nel territorio di un dato Stato e che si distinguono dalla maggioranza dei cittadini per elementi oggettivi quali una diversa storia, cultura e lingua, e per elementi soggettivi come il desiderio di preservare tali aspetti (quello che Alessandro Pizzorusso definisce l'animus comunitario [54]).

Il comma 5 dell'art. 2 della Convenzione del 2005 chiarisce che "gli aspetti culturali dello sviluppo sono altrettanto importanti degli aspetti economici, e gli individui e i popoli hanno il diritto fondamentale di parteciparvi e di goderne". La consapevolezza ambientalista è alla base del seguente comma 6, intitolato "Principio dello sviluppo sostenibile", secondo cui "la diversità culturale è una grande ricchezza per i singoli e le società. La protezione, la promozione e la conservazione della diversità culturale sono una condizione essenziale per uno sviluppo sostenibile a beneficio delle generazioni presenti e future" [55].

Si tratta di disposizioni che manifestano la premura della Convenzione per le culture "deboli", sia perché provenienti da Stati economicamente arretrati sia perché espresse dagli immigrati di questi Stati stabilitisi nelle regioni ricche del mondo. Una particolare attenzione che si svela anche nell'art. 14, secondo cui "le Parti si adoperano per sostenere la cooperazione per lo sviluppo sostenibile e la riduzione della povertà, in particolare per quanto riguarda le esigenze specifiche dei Paesi in via di sviluppo, nell'ottica di favorire l'emergere di un settore culturale dinamico"; inoltre si intende perseguire il "rafforzamento delle industrie culturali dei Paesi in via di sviluppo" (punto a), "creando e rafforzando le capacità di produzione e di distribuzione culturali nei Paesi in via di sviluppo", e "permettendo l'emergere di mercati locali e regionali capaci di durare" (punto a iii) [56].

La novità introdotta dalla Convenzione del 2005 è allora il "riferimento non più soltanto agli individui - che dovrebbero essere già tutelati dagli strumenti di protezione dei diritti dell'uomo -, ma anche ai gruppi sociali, specialmente quelli che provengono da contesti poco favorevoli alla diffusione dei frutti, anche industrializzabili, della loro creatività" [57].

Questo progressivo riconoscimento istituzionale del patrimonio culturale immateriale - oltre a porsi in sintonia con quel "processo di costituzionalizzazione della persona che costituisce uno degli sviluppi più significativi dei diversi sistemi giuridici" [58] - può certamente contribuire a rendere più sostenibile un processo di globalizzazione che sino ad oggi è apparso distonico.

5. Esperienze di tutela e di valorizzazione

Carla Barbati ha osservato come quella della valorizzazione ex art. 117, comma 3, Cost. sia stata la "storia di un ambito funzionale aperto all'intervento di una pluralità di soggetti pubblici, comprensivi di tutti i livelli di governo, e privati, sia for profit sia no profit; connotato da finalità differenti, spinte, talvolta, sino al punto dell'antitesi; chiamato a declinarsi in modalità differenti, secondo i beni culturali interessati e dei contesti, anche istituzionali oltre che territoriali, di riferimento" [59]. Così anche quella occupata dalla valorizzazione del patrimonio culturale immateriale si è andata componendo come una scena affollata, per l'eterogeneità delle misure e dei soggetti legittimati a porle in essere [60].

Tra i casi esemplari - per l'applicazione della sussidiarietà verticale (dei poteri regionali-locali rispetto allo Stato) in concorso con la sussidiarietà orizzontale (dei privati rispetto ai poteri amministrativi) - si può annoverare l'attività di Libera Terra, l'organizzazione dedita al riutilizzo sociale delle terre confiscate alla criminalità organizzata ai sensi della legge n. 109/1996, per la produzione di tipicità agroalimentari da introdurre nel circuito economico legale [61].

È volto specificamente alla sensibilizzazione verso il patrimonio culturale immateriale il Registro delle Eredità immateriali istituito dalla Regione Lombardia, uno strumento che rappresenta uno degli esiti della legge regionale n. 27/2008, che ha fatto propria la ratio della Convenzione Unesco del 2003.

Il Registro (coordinato dall'Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Direzione Generale Cultura) documenta la maestria di saperi tecnici, artigianali e naturalistici connessi anche al cibo, un patrimonio disperso in conseguenza dell'esodo dalle aree rurali. In particolare nell'invito pubblico finalizzato alla realizzazione del Registro - rivolto a enti locali, organismi non lucrativi, enti culturali, ma anche a detentori pubblici o privati di fondi e raccolte - sono stati richiesti progetti che proponessero forme inedite di comunicazione e che prevedessero il coinvolgimento della popolazione.

Anche l'Assessorato Regionale dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Sicilia ha voluto, con il d.a. n. 77/2005, un Registro delle Eredità Immateriali, comprendente il Libro dei Saperi, dedicato ai processi e alle materie prime che identificano una produzione enogastronomica legata alla storia e alle tradizioni identitarie.

Più di recente il d.a. n. 571/2014 ha istituito il nuovo Registro delle Eredità Immateriali della Regione Sicilia, composto anche dal Libro dei Mestieri, dei Saperi e delle Tecniche, nel quale vengono iscritte le pratiche ergologiche e le conoscenze riferite alla gestione del territorio e alla rappresentazione dei cicli naturali.

È significativa anche la best practice del distretto agricolo-culturale del Parco dei Paduli - selezionato dal Mibact per rappresentare l'Italia al Premio del Paesaggio Europeo del Consiglio d'Europa 2014-2015 [62] - che si trova nel punto in cui lo Jonio e l'Adriatico si congiungono e "due porti, Gallipoli e Otranto, dialogano attraverso l'antica via istmica che già duemila anni fa collegava Taranto a Brindisi" [63].

Il parco consiste in cinquemila ettari distribuiti su dieci territori comunali [64], dunque vecchi centri di paesi e una fitta rete di strade poderali, frantoi, masserie isolate e chiese rupestri.

Ma il parco è fatto anche di prodotti agroalimentari come l'olio di oliva [65] e soprattutto è il risultato del continuo confronto delle istituzioni con i soggetti organizzati della società civile e poi della partecipazione dei laboratori di gastronomia e di mobilità lenta che da oltre un decennio accompagnano la crescita di questo programma di rigenerazione urbana e di restituzione ai cittadini del patrimonio culturale immateriale della zona.

Questo modello neorurale salentino invera l'intreccio più originale dell'art. 9 Cost., tra "sviluppo della cultura" da una parte e "patrimonio storico e artistico" dall'altra [66], e irrobustisce progressivamente un'economia alternativa, che rompe stereotipi e abitudini aprendosi ad attività, competenze e realizzazioni che cambiano il volto di questi luoghi senza negarne le radici.

In estate i percorsi culturali che si snodano intorno al parco e ne raccontano la biografia spirituale attingono ai flussi massicci di turisti insediati sulle coste riuscendo a condurli qui, a sperimentare un contatto con la realtà locale basato sul rispetto della natura e dell'essenzialità [67].

In questa prospettiva anche gli itinerari enogastronomici sono riconducibili a una nozione amplissima di cultura in quanto testimonianze di civiltà [68], per riprendere la tesi di Massimo Severo Giannini secondo cui l'essere testimonianza costituisce un valore immateriale di sicuro inerente a una res, ma da questa distinta [69].

Per esempio nelle strade del vino istituite in alcuni comprensori - come la Via Appia dei Vini, che corre lungo quel versante della provincia brindisina che già i greci chiamavano "Enotria", ossia "terra del vino" - il territorio diventa un canone giuridico di garanzia del vino e la produzione viticola si eleva a fattore di identità culturale di una certa regione, quindi a fil rouge di un intero itinerario turistico-culturale [70]. Questa è l'idea sottesa alla legge regionale lucana n. 27/2015, il cui art. 2, comma 4, lett. g) recita: "la Regione Basilicata, in concorso con le istituzioni, enti territoriali ed altri soggetti pubblici e privati titolari dei beni culturali, promuove e favorisce il recupero, la conservazione, la valorizzazione, la gestione e la pubblica fruizione del patrimonio culturale materiale e immateriale presente sul proprio territorio con l'obiettivo di conservare e valorizzare il territorio attraverso la promozione di itinerari culturali, percorsi storici, archeologici, enogastronomici e di valorizzazione del paesaggio e attraverso la rievocazione degli eventi rilevanti della storia, del folklore e della religiosità regionale".

Più controversa è la vicenda di alcune leggi regionali emanate con l'obiettivo di sostenere prodotti agroalimentari tipici attraverso l'istituzione di marchi pubblici collettivi di qualità [71].

La legge regionale laziale n. 1/2012, recante "Disposizioni per il sostegno dei sistemi di qualità e tracciabilità dei prodotti agricoli e agroalimentari", si è imbattuta nella sentenza di illegittimità n. 66/2013 della Corte costituzionale, che ha accolto la questione sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri con riferimento alle disposizioni che disciplinavano un "marchio regionale collettivo di qualità per garantire l'origine, la natura e la qualità nonché la valorizzazione dei prodotti agricoli ed agroalimentari".

Secondo il ricorrente queste disposizioni confliggevano con il parametro dell'articolo 117, comma 1, Cost. (i vincoli all'esercizio della potestà legislativa di Stato e regioni derivanti dall'ordinamento comunitario) in relazione alle norme interposte rappresentate dagli articoli 34, 35 e 36 TFUE, che stabiliscono rispettivamente il divieto di restrizioni quantitative all'importazione e di qualsiasi misura di effetto equivalente, il divieto di restrizioni quantitative all'esportazione e di qualsiasi misura di effetto equivalente e le deroghe a tali divieti.

La conclusione cui è pervenuta la Corte costituzionale è che la legge laziale impugnata fosse idonea a indirizzare la preferenza del consumatore verso prodotti assistiti dal marchio a scapito di altri omogenei, ma di diversa provenienza, e che lo sviamento dell'utenza avrebbe prodotto, sulla libera circolazione delle merci, quegli effetti restrittivi che anche al legislatore regionale è inibito perseguire per vincolo comunitario.

La stessa sorte è toccata alla legge regionale delle Marche n. 7/2011, dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza n. 86/2012, anch'essa emanata all'esito di un giudizio in via principale in tema di marchi territoriali pubblici di qualità.

Non si può negare che interventi come quelli contemplati dalle leggi regionali in questione abbiano finalità di promozione e quindi di induzione del consumatore verso la scelta di prodotti locali.

Si deve però riconoscere che se il consumatore, anche per l'effetto di tali interventi, compie una scelta consapevole, fondata su un'informazione corretta, il risultato deve valutarsi come conforme all'efficienza allocativa del mercato e ai principi di tutela della concorrenza (quali che siano le motivazioni personali del consumatore e anche nel caso in cui queste siano legate ad una particolare predilezione per un certo luogo di origine del prodotto).

D'altra parte la legittimazione degli enti pubblici a registrare marchi collettivi è espressamente prevista dagli artt. 5 e 66 del Reg. 207/2009/CE sul marchio comunitario nonché dall'art. 19, comma 2, del Codice della proprietà industriale, che ammette che le regioni possano registrare in proprio dei marchi (e, dal momento che le regioni non esercitano direttamente attività imprenditoriale, può trattarsi soltanto di marchi collettivi di qualità e di provenienza).

6. Conclusioni ("forma della persona" e "forma del Paese")

L'osservazione delle dinamiche connesse all'alimentazione - sollecitata anche dall'Expo 2015 e dall'approvazione della Carta di Milano - dimostra come la stessa sia legata a "processi storici che hanno creato assetti culturali-comportamentali riconducibili a un vero e proprio costume alimentare che qualifica l'identità culturale di un Paese" [72]. In questa prospettiva il cibo diventa un altro modo di rendere il concetto costituzionale di "forma della persona", come il paesaggio e l'ambiente sono considerati la "forma del Paese" [73].

È evidente che per costruire un diritto costituzionale dell'alimentazione che tenga conto del valore giuridico composito del cibo occorra predisporre uno strumentario idoneo a inquadrare il tema nella sua corretta dimensione (che non coincide, come detto più volte, con la sola dimensione economicistica [74]).

È necessario porre l'alimentazione come un valore fondamentale dell'ordinamento, essere disposti a considerare il cibo non semplicemente come un oggetto di regolazione giuridica funzionale alle ragioni del mercato globalizzato, ma come un bene primario per l'esistenza umana che ha valore politico e culturale, come il contenuto sia di diritti soggettivi, sia di doveri e di responsabilità individuali e collettive, sia di politiche pubbliche coerenti con questi valori (sul punto si rinvia alla sentenza n. 10/2010 della Corte costituzionale [75]).

In questo scenario assumono rilievo alcune novità registrate nelle Carte fondamentali di quei Paesi che prima di tutti hanno codificato norme sull'alimentazione e in particolare nel costituzionalismo andino, che permette di guardare alle Costituzioni in chiave di patto tra le persone - come individui e come componenti di una comunità - e la natura, attraverso un "affrancamento dalla visione di superiorità dello Stato tipica della civiltà europea" [76].

Questo modello sociale, che propone una diversa direzione per la crescita economica (ossia nel rispetto della biodiversità), sottende un concetto la cui costruzione è ancora in progress. Si tratta del "buen vivir" [77], che recupera sensibilità e conoscenze proprie di alcune popolazioni indigene e sembra offrire un contributo alle riflessioni svolte in questa sede intorno alla tutela e alla valorizzazione delle diversità culturali, esprimendo la necessità di una rilettura del rapporto dell'uomo con la "Madre Terra" (art. 14 Cost. Ecuador) che presupponga un sistema economico di sviluppo sostenibile [78].

In definitiva l'approccio culturale al tema dell'alimentazione mutuato dalle scienze sociali [79] consente di arricchire, proprio tramite il riferimento al cibo, il concetto di cultura e di patrimonio storico di cui all'art. 9 Cost., nonché di ricondurre il cibo all'ambito di quei beni che, secondo le parole della Corte costituzionale, lo Stato deve tutelare "sia per il loro valore culturale intrinseco sia perché rappresentano una testimonianza materiale della storia della civiltà anche locale" [80].

 

Note

[*] Intervento cofinanziato dal Fondo di Sviluppo e Coesione 2007-2013 - APQ Ricerca Regione Puglia "Programma regionale a sostegno della specializzazione intelligente e della sostenibilità sociale ed ambientale - FutureInResearch".

[1] M. Ainis, M. Fiorillo, L'ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, Giuffrè, Milano, 2015, pag. 184.

[2] F. Polacchini, Il diritto al cibo come diritto (anche) culturale, in Ambiente, Energia, Alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo sostenibile, a cura di G. Cerrina Feroni, T.E. Frosini, L. Mezzetti, P.L. Petrillo, Fondazione CESIFIN Alberto Predieri, 2016, tomo II, pag. 170. Si vedano anche P. Häberle, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura, (1982), Carocci, Roma, 2001, pag. 21; E. Spagna Musso, Lo Stato di cultura nella Costituzione italiana, Morano, Napoli, 1961, pag. 74 ss.

[3] P. Perlingieri, R. Messinetti, Art. 9, in Commento alla Costituzione italiana, a cura di P. Perlingieri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001, pag. 44.

[4] A. Cicerchia, Cultura, cibo e paesaggio: lo sguardo economico, in Economia della Cultura, 2010, 1, pag. 5, citato da F. Polacchini, Il diritto al cibo come diritto (anche) culturale, cit., pag. 172.

[5] F. Polacchini, Il diritto al cibo come diritto (anche) culturale, cit., pag. 172.

[6] E. Di Rienzo, Oltre l'edibile: su alcune valenze antropologico-culturali del cibo, in Economia della cultura, 2010, 1, pag. 64, citato da F. Polacchini, Il diritto al cibo come diritto (anche) culturale, cit., pag. 172.

[7] C. Barbati, Il paesaggio come realtà etico-culturale, in Aedon, 2007, 2.

[8] Si veda A. Papa, Il turismo culturale in Italia: multilevel governance e promozione dell'identità culturale locale, in Federalismi, 2007, 4.

[9] Per questa ricostruzione e per le riflessioni che seguono nel testo si veda, diffusamente, A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, in Ambiente, Energia, Alimentazione, cit., pag. 32 ss.

[10] Ivi, 33.

[11] Ibidem.

[12] A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, cit., pag. 33.

[13] C. Drigo, Il ruolo degli enti locali nell'implementazione del "diritto al cibo adeguato", in Ambiente, Energia, Alimentazione, cit., pag. 113; sul punto si veda J. Luther, Le scienze e le norme dell'alimentazione di un'umanità in crescita, in La persona e l'alimentazione. Profili clinici, giuridici, culturali ed etico-religiosi. Atti del Convegno di Asti, 30 novembre 2012, a cura di P. Macchia, Aracne, Roma, 2014, pag. 379 ss.

[14] F. Leonardi, Impresa agricola e fundraising, in Ambiente, Energia, Alimentazione, cit., pag. 472.

[15] Si veda www.corriere.it, 18.11.2016; il testo del decreto è frutto dell'intesa raggiunta tra il ministro delle Politiche agricole e quello dello Sviluppo economico.

[16] Si veda A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, cit., pag. 33; in proposito si rinvia anche alle considerazioni di N. Grasso, I centri storici, in Diritto dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M.A. Cabiddu, N. Grasso, Giappichelli, Torino, 2004, pag. 271 ss.

[17] Anche questo rilievo è di A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, cit., pag. 33.

[18] Sul punto si veda J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello Stato democratico di diritto, (1996), in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 1998, pag. 73 ss., citato da A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, cit., pag. 33.

[19] A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, cit., pag. 34.

[20] Ivi, 36.

[21] Per esempio il progetto di agricoltura conservativa denominato Helpsoil, che interessa le regioni della pianura padana (http://www.lifehelpsoil.eu), approvato ufficialmente dalla Commissione Europea il 4 luglio 2013, cui si riferisce C. Drigo, Il ruolo degli enti locali nell'implementazione del "diritto al cibo adeguato", cit., pag. 118.

[22] Ivi, 37.

[23] Ibidem.

[24] Si allude alla c.d. food security, su cui si veda A. Jannarelli, Profili giuridici del sistema agro-alimentare tra ascesa e crisi della globalizzazione, Cacucci, Bari, 2011, pag. 273 ss.

[25] Per un approfondimento si rinvia a S. Mangiameli, Il diritto alla "giusta imposizione": la prospettiva del "costituzionalista", in Diritto e pratica tributaria, vol. LXXXVII, 2016, 4, pag. 1399 ss.; V. Tondi della Mura, Il paradosso del "Patto del Nazareno": se il revisore costituzionale resta imbrigliato nella persistenza di un mito, in Rivista AIC, 2016, 2, pag. 8.

[26] A. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c'è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000, pag. 242.

[27] W. Shakespeare, Macbeth, III, 2, ma per questo riferimento e per le osservazioni che precedono relative al land grabbing si veda S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino, pag. 122.

[28] A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, cit., pag. 37.

[29] Si veda il discorso tenuto da Papa Francesco durante l'incontro del 16 febbraio 2017 con alcune delegazioni indigene - in particolare quella dei Sioux del Nord Dakota - nell'ambito della quarantesima sessione del Consiglio dei Governatori del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad): il Pontefice ha esortato i governi a "conciliare il diritto allo sviluppo, compreso quello sociale e culturale, con la tutela delle caratteristiche proprie degli indigeni e dei loro territori".

[30] G. Cerrina Feroni, Presentazione del Tomo II, in Ambiente, Energia, Alimentazione, cit., pag. 22; si veda anche http://www.coldiretti.it/News/Pagine/174---20-Marzo-2015.aspx.

[31] G. Cerrina Feroni, Presentazione del Tomo II, cit., pag. 23.

[32] Per questa espressione e per le riflessioni seguenti si veda E.C. Raffiotta, La protezione multilivello delle tipicità agroalimentari tra diritto globale e legislazione nazionale, in Ambiente, Energia, Alimentazione, tomo II, pag. 512.

[33] Ivi, pag. 514.

[34] Il rilievo è di E.C. Raffiotta, ivi, pag. 512 ss.; quanto alla proprietà agraria si vedano C. Esposito, Note esegetiche sull'art. 44 della Costituzione, in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, Padova, 1954, pag. 181, e C. Mortati, La Costituzione e la proprietà terriera, in Riv. dir. agr., 1952, pag. 482 ss.

[35] Con riferimento allo statuto costituzionale del lavoro si vedano G. Ferrara, I diritti del lavoro e la costituzione economica italiana ed in Europa, in Costituzionalismo.it, 2015, 3, pag. 3 ss.; M. Luciani, Radici e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la repubblica democratica sul lavoro, in Argomenti di diritto del lavoro, 2010, 3, pag. 628 ss.; G. Azzariti, Brevi notazioni sulle trasformazioni del diritto costituzionale e sulle sorti del diritto del lavoro in Europa, in L'attualità dei principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro, a cura di E. Ghera, A. Pace, Jovene, Napoli, 2009, pag. 152; C. Mortati, Il diritto al lavoro secondo la Costituzione della Repubblica, (1953), in Id., Raccolta di scritti, III, Giuffrè, Milano, 1972, pag. 147.

[36] L. Costato, Proprietà agraria, in Enc. dir., vol. 27, 1998, pag. 278 ss. (citato daE.C. Raffiotta, La protezione multilivello delle tipicità agroalimentari tra diritto globale e legislazione nazionale, cit., pag. 513).

[37] Anche per questa ricostruzione (e per tutti i riferimenti successivi al diritto internazionale) si veda E.C. Raffiotta, La protezione multilivello delle tipicità agroalimentari tra diritto globale e legislazione nazionale, cit., pag. 515 ss.

[38] Ivi, pag. 517.

[39] C. Galli, Globalizzazione dell'economia e tutela delle denominazioni di origine dei prodotti agro-alimentari, in Dir. ind., 2004, pag. 61, citato da E.C. Raffiotta, La protezione multilivello delle tipicità agroalimentari tra diritto globale e legislazione nazionale, cit., pag. 523.

[40] Tra i primi a teorizzarla R. Robertson, Globalizzazione: teoria sociale e cultura globale, tr. it. a cura di A. De Leonibus, Asterios, Trieste, 1999 (citato ancora da E.C. Raffiotta, La protezione multilivello delle tipicità agroalimentari tra diritto globale e legislazione nazionale, cit., pag. 523).

[41] Il rilievo è di F. Polacchini, Il diritto al cibo come diritto (anche) culturale, cit., pag. 177; sul punto si veda la sentenza n. 388 del 1999 della Corte costituzionale.

[42] Si veda C. Gazzetta, La tutela giuridica della biodiversità in quanto bene culturale, in Ambiente, Energia, Alimentazione, cit., tomo I, pag. 88 ss.

[43] C. Mazzuoli, Le tradizioni enogastronomiche: un patrimonio da tutelare e da valorizzare, in Ambiente, Energia, Alimentazione, cit., pag. 106.

[44] A. Keys, A Multivariate Analysis of Death and Coronary Heart Disease, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts), 1980, 7, citato da A. Zagarella, Il patrimonio culturale immateriale e le tradizioni alimentari, in Ambiente, Energia, Alimentazione, cit., tomo I, pag. 123.

[45] Per questo rilievo si veda G. Zagrebelsky, Fondata sulla cultura. Arte, scienza e Costituzione, Einaudi, Torino, 2014, pag. 4.

[46] Per queste riflessioni si veda C. Gazzetta, La tutela giuridica della biodiversità in quanto bene culturale, cit., pag. 89.

[47] In alcune regioni sono in vigore normative (di carattere prevalentemente regolamentare, ma non solo) relative ai piani alimentari da erogarsi nelle mense scolastiche, negli ospedali o nelle carceri, che contemperano le esigenze di tutela della salute con le esigenze alimentari specifiche riconducibili alla matrice culturale o religiosa degli utenti (per esempio le Linee Guida della Regione Friuli-Venezia Giulia per la ristorazione scolastica del 2012); sul punto si veda C. Drigo, Il ruolo degli enti locali nell'implementazione del "diritto al cibo adeguato", cit., pag. 118.

[48] Per questi profili si veda C. Mazzuoli, Le tradizioni enogastronomiche: un patrimonio da tutelare e da valorizzare, cit., pag. 98.

[49] A. Zagarella, Il patrimonio culturale immateriale e le tradizioni alimentari, cit., pag. 128.

[50] A. Papa, Il turismo culturale in Italia, cit., pag. 6; G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon, 2001, 1.

[51] Sul punto si vedano V. Tondi della Mura, Le ragioni della sussidiarietà orizzontale (e il compito degli enti costituenti la "Repubblica"), in Temi di diritto costituzionale, a cura di M. Esposito, A. Loiodice, I. Loiodice, V. Tondi della Mura, Giappichelli, Torino, 2008, e-book, pag. 219 ss.; A. Morrone, Solidarietà e autonomie territoriali nello Stato regionale, in Il dovere di solidarietà, a cura di B. Pezzini, C. Sacchetto, Giuffrè, Milano, 2005, pag. 28. C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon, 2001, 3.

[52] In proposito si veda A. Papa, Il turismo culturale in Italia, cit., pag. 7, secondo cui la tradizione in materia di beni culturali affermatasi dopo l'Unità d'Italia ha enfatizzato il più possibile la visione "nazionale" (spesso artificiosamente costruita) del patrimonio culturale del Paese, per la necessità di affermare anche nei fatti la realtà di uno Stato unitario.

[53] Per queste riflessioni e, più in generale, per una disamina del documento si veda G. Poggeschi, La "Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità e delle espressioni culturali" dell'Unesco entra a far parte del corpus legislativo italiano. Una novità nel panorama degli strumenti giuridici internazionali?, in Aedon, 2007, 2.

[54] A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Einaudi, Torino, 1993, passim.

[55] G. Poggeschi, La "Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità e delle espressioni culturali", cit.

[56] Ivi.

[57] Ivi.

[58] S. Rodotà. Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari-Roma, 2013, pagg. 128-129.

[59] C. Barbati, Governo del territorio, beni culturali e autonomie: luci e ombre di un rapporto, Aedon, 2009, 3.

[60] Ibidem.

[61] Come è noto, Libera non gestisce direttamente i beni confiscati, ma promuove percorsi di riutilizzo dei beni, in collaborazione con l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, le prefetture e i comuni; si vedano gli indirizzi (http://liberaterra.it/it/prodotti-biologici-solidali/).

[62] http://www.sinanet.isprambiente.it/gelso/banca-dati/associazione/associazione-lua-laboratorio-urbano-aperto-1/parco-agricolo-dei-paduli.

[63] La vicenda del Parco dei Paduli è ripercorsa da G. Boatti, Portami oltre il buio. Viaggio nell'Italia che non ha paura, Laterza, Roma-Bari, 2016, pag. 227 ss.

[64] San Cassiano, Supersano, Nociglia, Scorrano, Surano, Sanarica, Botrugno, Maglie, Muro Leccese, Giuggianello (nomi di località, con l'eccezione di Maglie, luogo natale di Aldo Moro, poco conosciute).

[65] http://www.abitareipaduli.com/il-modello-di-produzione.html.

[66] Il rilievo è di T. Montanari, Istruzioni per l'uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, Minimum fax, Roma, 2014, pag. 58 ss.

[67] G. Boatti, Portami oltre il buio, cit., pag. 229.

[68] Per queste considerazioni si veda S. Amorosino, Gli itinerari turistico-culturali nell'esperienza amministrativa italiana, in Aedon, 2000, 3.

[69] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., I, 1976, pag. 3 ss.

[70] S. Amorosino, Gli itinerari turistico-culturali, cit.

[71] In proposito sia consentito il rinvio a A. Denuzzo, La Corte costituzionale e il rinvio pregiudiziale nella vicenda dei marchi territoriali pubblici di qualità per la valorizzazione dell'economia rurale, in www.giurcost.org, 21.10.2014, 12 ss.

[72] F. Polacchini, Il diritto al cibo come diritto (anche) culturale, cit., pag. 177.

[73] A. Predieri, Paesaggio, in Enc. Dir., 31, Milano, 1981, pag. 506 ss. (citato da A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, cit., pag. 39).

[74] A. Morrone, Ipotesi per un diritto costituzionale dell'alimentazione, cit., pag. 39.

[75] Muovendo dalla normativa che ha introdotto la "social card" (art. 81, d.l. n. 112/2008), la Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto all'alimentazione sia come "diritto fondamentale" sia come "diritto sociale", ciò in base agli artt. 2, 3, comma 2, e 38 Cost. Sul punto A. Ruggeri, Livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti e ridefinizione delle sfere di competenza di Stato e Regioni in situazioni di emergenza economica (a prima lettura di Corte cost. n. 10 del 2010), in Forumcostituzionale.it, 2010, 10, 4; F. Pizzolato, La "social card" all'esame della Corte costituzionale, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, 2010, 2, pag. 349 ss.

[76] Il riferimento al costituzionalismo andino è di C. Gazzetta, La tutela giuridica della biodiversità in quanto bene culturale, cit., pag. 96.

[77] Si veda M. Carducci, La Costituzione come "ecosistema" nel nuevo constitucionalismo delle Ande, Le sfide della sostenibilità. Il "buen vivir" andino dalla prospettiva europea, a cura di S. Baldin, M. Zago, Filodiritto, Bologna, 2014, pag. 11 ss. (citato da C. Gazzetta, La tutela giuridica della biodiversità in quanto bene culturale, cit., pag. 96).

[78] C. Gazzetta, La tutela giuridica della biodiversità in quanto bene culturale, cit., pag. 96.

[79] In proposito si veda M. Monteduro, From Agroecology and Law to Agroecological Law? Exploring Integration Between Scientia Ruris and Scientia Iuris, in Law and Agroecology. A Transdisciplinary Dialogue, Springer Verlag, Berlino-Heidelberg, a cura di M. Monteduro, P. Buongiorno, S. Di Benedetto, A. Isoni, 2015, pag. 60 ss.

[80] Corte cost., sentenza n. 118/1990, indicata da F. Polacchini, Il diritto al cibo come diritto (anche) culturale, cit., pag. 177.



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