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Territorio e beni culturali

Governo del territorio, beni culturali e autonomie: luci e ombre di un rapporto [*]

di Carla Barbati

Sommario: 1. Considerazioni generali. - 2. La tutela: necessità e soggetti. - 2.1. I limiti dei territori. - 2.2. Segue: e i loro spazi: le "altre" tutele. - 3. Le valorizzazioni dei beni culturali: incertezze funzionali e organizzative. - 3.1. La valorizzazione economica: vincoli e limiti dei territori. - 3.2. Segue: la valorizzazione codicistica: le opportunità. - 4. Le esperienze: occasioni e occasionalità di un rapporto.

Land Use Planning, Cultural Heritage and Local Governments: An Uncertain Relationship
Although proved by experience, the relationship between land use planning and cultural heritage is not easy to specify. Its scrutiny meets with even more difficulties when local governments are involved. Lacking appropriate rules on it and given the wide range of interests that land use planning encompasses, this essay analyses the relationship by looking at the two cultural heritage fundamental needs, so recognized by the Italian Constitution too: preservation and enhancement. Each of them results in a different relationship between cultural heritage and land use planning. While cultural heritage preservation always prevails in all the relationships and gives Central Government a leading role, cultural heritage enhancement allows different scenarios, although all the possibile relationships with land use planning can turn out to be difficult because of the uncertainties that surround what enhancement is, how it has to be fulfilled and by which level of government.

1. Considerazioni generali

Che esistano importanti connessioni fra il governo del territorio e i beni culturali è dato di esperienza, prima ancora che di conoscenza.

Tuttavia, di là dalle evidenze, anche solo percepite o intuibili, la rappresentazione di questi nessi, la verifica di ciò in cui essi consistono e, in particolare, di come si atteggiano, del che cosa comportino e del che cosa richiedano non è semplice.

Non tutti i collegamenti fra governo del territorio e beni culturali possono, d'altro canto, dirsi egualmente presenti alla consapevolezza del legislatore, così da trovare idonea disciplina e composizione nelle complesse normative di riferimento.

Se esistono alcuni "punti fermi", capaci di connotare i termini di questo rapporto, numerose sono le "zone d'ombra", molte delle quali dipendenti dalle difficoltà che, sia pure per ragioni ed in relazione ad aspetti differenti, ancora, si oppongono all'identificazione dei contenuti, e con essi delle politiche e degli interventi, che qualificano sia il settore dei beni culturali sia la materia-funzione governo del territorio. Difficoltà che reagiscono sulla stessa individuazione delle linee di confine e, insieme, di contatto che, da un lato, separano, dall'altro, avvicinano, sin quasi a sovrapporli, i due ambiti.

Un rapporto che, quando lo si consideri poi sotto il profilo dei soggetti istituzionali coinvolti, si misura con le ulteriori incertezze che continuano a circondare il riconoscimento del ruolo che i diversi livelli di governo, a partire da quelli substatali, sono legittimati o, ancor più, chiamati ad assolvere in entrambe le aree.

La mancata sistemazione normativa dei rapporti fra queste materie, fra le corrispondenti funzioni e i loro soggetti suggerisce, perciò, di affidare la ricostruzione e la valutazione delle interferenze fra governo del territorio e beni culturali, specie di quelle che più rilevano agli effetti delle scelte e delle iniziative rimesse o, comunque, disponibili alle autonomie territoriali, a criteri ordinatori tratti dalle stesse materie ovvero capaci di esprimerne le necessità che determinano e orientano tali incontri.

L'eterogeneità delle politiche, degli interessi e delle misure riconducibili a ciò che si può ritenere vada a comporre il governo del territorio [1] induce a ritenere che, quando il punto di osservazione è quello offerto dai beni culturali, un possibile criterio di lettura e di sistemazione sia quello correlato alle esigenze da essi espresse.

Quando ci si confronta con i beni culturali, infatti, ci si misura con una tipologia di beni, mobili o immobili, di appartenenza pubblica o privata, sottoposti a una disciplina differenziata, generatrice di uno statuto speciale, motivato dalle particolari necessità ad essi proprie.

Sono, queste, le necessità che il più recente legislatore costituzionale, anche per le ragioni di sintesi che, sempre, si impongono ad ogni su intervento, riconduce alle funzioni di "tutela" e di "valorizzazione" [2], variamente connesse, sino all'interdipendenza, l'una all'altra, ma anche, a taluni effetti, potenzialmente antitetiche o, meglio, come tali percepite e considerate, in alcune impostazioni e visioni.

Necessità, la cui soddisfazione, quale che sia il rapporto tra esse intercorrente o riconosciuto, richiede competenze ed esperienze differenti, impegna soggetti, pubblici e privati, diversi e, soprattutto, per quanto interessa ai fini di questa analisi, attiva distinti legami o connessioni con il governo del territorio, oltre che diversamente presenti alla consapevolezza del legislatore.

A questa stregua, un primo ordine di contatti o di interferenze è quello che intercorre tra il governo del territorio e il bene culturale, come bene da tutelare.

Motivi di un incontro che, in via di sintesi nonché di prima anticipazione, può dirsi connotato dalla prevalenza dell'interesse alla tutela del bene culturale, il quale si impone alle misure (politiche) di governo del territorio, vincolando le scelte sia del legislatore statale sia, a maggior ragione, del legislatore regionale, in ciò, usufruendo delle maggiori certezze che assistono il "sistema della tutela".

Un secondo ordine di contatti è, invece, quello intercorrente tra governo del territorio e bene culturale come bene da valorizzare.

Occasioni di un rapporto che, pur continuando ad essere governato da quanto, anche rispetto alla valorizzazione, si afferma come il superiore interesse alla tutela [3], conosce spazi potenziali di più elevata integrazione fra ambiti, interessi, politiche e soggetti, ancorché esposti alle incertezze che circondano l'identificazione dell'attività-funzione di valorizzazione e che si esprimono, fra l'altro, nell'assenza di un "sistema della valorizzazione".

Trame di incontri e di rapporti obbedienti a logiche nonché aperti a sviluppi differenti, ma non perciò privi di interazioni, come, peraltro, vuole lo stesso collegamento funzionale tra tutela e valorizzazione. Sebbene, sia proprio, ma non soltanto, nell'incontro con il governo del territorio, che queste due necessità dei beni culturali palesano le distanze che possono giungere a interessarle, alimentando normative e politiche che, ancora, vivono di contrapposizioni, a loro interne, oltre che estese ai soggetti istituzionali chiamati a garantirle.

2. La tutela: necessità e soggetti

Quanto ai contatti tra governo del territorio e beni culturali, come beni da tutelare, alla loro analisi, quando attenta anche ai soggetti istituzionali coinvolti, vi è un ulteriore dato di contesto che si impone.

La ricordata prevalenza dell'interesse alla tutela del bene culturale non si manifesta, infatti, solo sul piano funzionale. Al contrario, è una prevalenza in cui si esprime la rilevanza che, quando ci si confronta con i beni culturali o, più ampiamente, con il patrimonio culturale, possiede il livello organizzativo-ordinamentale, il quale investe i soggetti e reagisce sul ruolo che essi, a partire dalle autonomie territoriali, possono assolvere.

La tutela dei beni culturali, da intendersi, secondo la definizione che ne dà l'art. 3 cod. nasce, infatti, come attività-funzione il cui esercizio richiede saperi e competenze tecniche.

Senza aver qui l'intento, né la possibilità, di ricordare la storia dei provvedimenti di tutela, può essere opportuno rammentare che, di là da quelle che furono le prime misure di salvaguardia, adottate dagli Stati italiani nel XVII e nel XVIII secolo, risale a un editto emanato, sotto il pontificato di Pio VII, il 7 aprile 1820 la soluzione di assegnarli alla competenza di apposite commissioni [4].

Imputate, nei primi anni dell'Italia post-unitaria, a strutture dedicate e variamente configurate come soprintendenze, enti, uffici, tutti dipendenti dal ministero della Pubblica Istruzione, solo con legge 27 giugno 1907, n. 386, di riforma degli uffici centrali e periferici delle Antichità e Belle Arti, le attività-funzioni di tutela trovarono la loro collocazione in capo ad apposite soprintendenze, delle quali erano dettagliatamente distinte e definite le competenze [5]. Un impianto organizzativo che, sospeso nel 1923, fu ripreso dalla legge 22 maggio 1939, n. 823 [6].

Si affermò, in tal modo, l'idea della tutela come funzione esercitabile solo da corpi o apparati tecnici, specializzati, allocati presso il centro statale e, in particolare, dal 1975, in capo all'ora istituito ministero per i Beni culturali e ambientali, e, poi, con il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 al ministero per i Beni e le Attività culturali.

Un ministero che vede nel territorio, sul quale sono insediati i beni culturali, solo la ragione di un decentramento burocratico, ad esso interno, e che, perciò, si dota di articolazioni periferiche, quali sono le Soprintendenze, costituite, a propria volta, come apparati distinti in relazione alla tipologia dei beni culturali: archeologico, storico-artistico, architettonico-paesaggistico, archivistico [7].

Un'organizzazione settoriale che rendeva (e rende) difficile un'azione statale organica di tutela [8] e che, soprattutto, per quanto qui interessa, ostacola una considerazione complessiva del territorio sul quale sono insediati i beni.

La scelta organizzativa che ha accompagnato la genesi e le successive (ri)configurazioni della tutela ha, d'altro canto, preceduto, quasi a condizionarla, la scelta funzionale, sino a offrire la chiave di lettura delle disposizioni che la stessa Costituzione del 1948 dedica al patrimonio culturale, a partire dal principio fondamentale enunciato nell'art. 9, per il quale "La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione", procurando le ragioni perché si superasse questa connessione che, in linea con le tesi proprie di critici e storici dell'arte, il Costituente aveva stabilito tra "paesaggio" e "patrimonio storico-artistico" [9].

Espressioni, queste, e testimonianze del territorio che, anche nella disciplina codicistica recente, vivono, infatti, di separazioni e differenti soluzioni.

Ed è sempre il dato organizzativo ad avere legittimato, quanto alla funzione di tutela, un'interpretazione riduttiva del riferimento alla Repubblica, quale soggetto chiamato a garantirla, ai sensi dell'art. 9 Cost.

L'espressione, di per sé comprensiva di tutti i livelli di governo nei quali si articola lo Stato-ordinamento, non ha impedito che le autonomie territoriali, proprio perché prive delle competenze e dei saperi tecnici allocati altrove, presso lo Stato centrale, fossero escluse dall'esercizio delle funzioni di tutela, legittimate, al più, ad espletare un ruolo solo collaborativo.

La tutela dei beni culturali è così giunta a identificare non soltanto un interesse funzionalmente prevalente su altri interessi pubblici, compresi quelli riconducibili al governo del territorio, ma è diventata un'esigenza la cui soddisfazione ha condotto ad una difficile convivenza, talvolta diventata contrapposizione, fra soggetti: Stato e autonomie, complicando, perciò, anche i possibili rapporti con il governo del territorio e con le funzioni che, al suo interno, sono chiamati ad esercitare i livelli di governo substatali.

Il rapporto fra beni culturali, come beni da tutelare, e governo del territorio, retto dal primato dell'interesse alla tutela, è così diventato un rapporto che, quanto ai soggetti istituzionali coinvolti, riconosce la prevalenza del ruolo spettante allo Stato, ossia tanto al legislatore statale, alla cui competenza esclusiva il "nuovo" art. 117 Cost. assegna la disciplina della funzione di tutela, quanto al ministero di settore.

La rilevanza della scelta organizzativa, con la quale le funzioni di tutela sono state riservate agli apparati tecnici, articolazioni del centro statale, diventa, infatti, anche il motivo che induce il legislatore del Codice a reintrodurre quel parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative che il Titolo V, riscritto con la l.cost. 18 ottobre 2001, n. 3, ha inteso, altrimenti, superare, quale criterio generale di allocazione delle competenze.

Un disegno enunciato nell'art. 4 cod., laddove si prevede che: "al fine di garantire l'esercizio unitario delle funzioni di tutela, ai sensi dell'art. 118 della Costituzione, le funzioni stesse sono attribuite al ministero per i Beni e le Attività culturali".

Scelta che rende, comunque, possibile l'apertura di scenari differenti: per il medesimo primo comma dell'art. 4 cod., infatti, le funzioni amministrative possono essere esercitate, direttamente, dal ministero oppure, da esso, conferite alle regioni, tramite forme d'intesa e di coordinamento.

Una possibilità, questa, inizialmente discussa nella sua legittimità, in quanto volta a consentire che sia il ministero, tramite propri atti, necessariamente sub legislativi, a conferire quelle funzioni che la lettera dell'art. 118 Cost. vorrebbe fossero allocate solo con legge [10], che, comunque, non esaurisce la rappresentazione degli interventi possibili alle autonomie territoriali, le quali si trovano, infatti, a disporre di ulteriori "spazi", alcuni eventuali altri certi, grazie a talune flessibilità del disegno, anche costituzionale, e alle aperture, in relazione a determinati beni, di quello codicistico.

2.1. I limiti dei territori

I ruoli, possibili o effettivi, delle autonomie non hanno, però, la forza di superare le limitazioni che le necessità della tutela e l'organizzazione preposta al loro soddisfacimento riescono, comunque, a imporre agli interventi dei livelli substatali.

Limiti che, proprio quando i beni culturali incontrano il governo del territorio, conoscono il rafforzamento che, ad essi, deriva dall'ampiezza della nozione, comprensiva di una vasta congerie di beni, fra i quali, anche, "le ville, i parchi, i giardini che abbiano interesse artistico o storico", "le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi urbani di interesse artistico o storico", "le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell'economia rurale tradizionale". (art. 10, comma 4, lett. f), g), l) cod.).

Ogni intervento urbanistico nonché di edilizia pubblica (e privata) che interessi questi beni necessita, pertanto, di una preventiva autorizzazione degli apparati tecnici statali, in quanto subordinato al soddisfacimento delle prioritarie esigenze di tutela che, come tali, si impongono alle autonomie territoriali.

Le limitazioni e i vincoli ai loro interventi, anche funzionali al governo del territorio, diventano, dunque, l'oggetto di prescrizioni di carattere generale e particolare, tanto numerose che richiamarle, qui, equivarrebbe a ripercorrere i contenuti dell'intera disciplina codicistica, in materia di tutela.

Nell'evidente impossibilità di procedervi, possono ricordarsi alcuni dei vincoli, maggiormente rilevanti, anche per l'applicazione, peraltro non sempre pacifica, che ne documenta l'esperienza.

Basti, così, pensare alle limitazioni derivanti dalle cosiddette "prescrizioni di tutela indiretta", a proposito delle quali l'art. 45 cod. riconosce al ministero la facoltà di fissare "le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro".

Prescrizioni, queste, immediatamente precettive e che gli enti pubblici sono, perciò, chiamati a recepire nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici, in ragione di una prevalenza dell'interesse alla tutela del bene su ogni altro interesse pubblico e sullo stesso jus aedificandi.

A queste misure di portata generale, se ne aggiungono, poi, altre, rivolte a fattispecie connotate da un maggior grado di specificità e, fra le quali, si può ricordare quanto prevede l'art. 51 cod., in merito al divieto di modificare la destinazione d'uso degli studi d'artista dichiarati, nel loro insieme o in relazione al contesto nel quale sono inseriti, di "interesse particolarmente importante" per il loro valore storico.

2.2. Segue: e i loro spazi: le "altre" tutele

Quanto ricordato non toglie che proprio dal contatto fra tutela dei beni culturali e governo del territorio si definiscano anche "spazi" per le autonomie, ulteriori e diversi da quelli resi possibili dalla normativa statale di tutela.

Così, è lo stesso giudice costituzionale che, con sent. 26-28 marzo 2003, n. 94, riconosce la legittimazione delle regioni a soddisfare "altre" necessità di tutela dei beni culturali. Il che avviene, consentendo loro di identificare "altri" beni culturali, differenti da quelli riconosciuti come tali ai sensi della normativa codicistica e secondo le competenze da essa fissate.

Di qui, e con riferimento al caso portato al suo esame, la legittimità costituzionale di leggi regionali che riconoscono, come meritevoli di salvaguardia, sia pure ai soli fini della loro valorizzazione, e perciò senza incidere sul loro regime giuridico, "esercizi commerciali ed artigianali [...] aperti al pubblico che hanno valore storico, artistico, ambientale e la cui attività costituisce testimonianza storica, culturale, tradizionale, anche con riferimento agli antichi mestieri".

Principi ribaditi quando, con sent. 8-16 giugno 2005, n. 352, il giudice costituzionale riconosce la rilevanza non secondaria dei valori artistici e storici, e comunque attinenti alla cultura, tra quelli che gli strumenti urbanistici devono tutelare. Di conseguenza, consente che, nel governo del territorio, ed anche da parte del legislatore regionale, si tenga conto dei beni culturali identificati, secondo la normativa statale, ma anche di "altri" beni culturali, "purché si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione e una propria storia", ai quali si accorda, in tal modo, una tutela aggiuntiva e diversa, non già sostitutiva di quella statale.

Interpretazioni, queste, del giudice costituzionale che, peraltro, confermano e portano ad ulteriori sviluppi orientamenti presenti nella legislazione statale, anteriore all'avvio dell'ordinamento regionale, la quale già prevedeva che la pianificazione urbanistica comunale dovesse assicurare tutela ai beni culturali, anche indipendentemente dal loro assoggettamento alla specifica normativa statale [11].

Non solo a questo, tuttavia, si riducono i punti di contatto. Altri ve ne sono, disciplinati anche dal Codice.

Fra questi, merita di essere ricordato quanto previsto dall'art. 52 cod., il quale, ribadendo le prescrizioni dell'art. 28, comma 16, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 conferisce ai comuni, sentito il soprintendente, il potere di individuare, "le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l'esercizio del commercio".

Un potere che si esplica non soltanto negando, ma anche imponendo determinati contenuti all'esercizio delle attività commerciali e che, pertanto, si atteggia come potere conformativo, tramite il quale il comune "controlla" le tipologie delle attività commerciali esercitabili in queste aree, al fine di tutelarne l'integrità [12].

Una previsione la cui disapplicazione ha condotto il Mibac ad emanare, il 9 novembre 2007, una direttiva finalizzata ad arginare l'abusivismo commerciale e il commercio ambulante, in quanto impeditivi della corretta fruizione del patrimonio culturale.

A questo scopo, è stata così promossa l'adozione, da parte delle direzioni regionali e delle soprintendenze, di "ogni occorrente iniziativa di competenza per garantire la puntuale attuazione delle disposizioni di cui agli articoli 10 e 52" cod., e si è richiesto, alle articolazioni del Mibac, di attivarsi "in termini di massima condivisione con le stesse amministrazioni comunali" per riqualificare le aree urbane, anche attraverso quanto la direttiva indica come "complessiva rivisitazione [...] del contesto autorizzativo" riguardante le attività commerciali, specialmente ambulanti, delle quali si auspica un ricollocamento in zone maggiormente decentrate [13].

3. Le valorizzazioni dei beni culturali: incertezze funzionali e organizzative

Quanto ai contatti tra governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali, pochi sono i "punti fermi" che ne governano l'incontro ed il successivo, eventuale, rapporto e molte sono, per converso, le "zone d'ombra" che si delineano, soprattutto, quando lo sguardo vada ad includere il ruolo che, in proposito, può essere assolto dalle autonomie territoriali.

Poche sono, d'altro canto, le certezze delle quali si giova la stessa funzione-attività di valorizzazione, non potendosi annoverare pienamente tra queste neppure il già ricordato principio, anche codicistico, che la vuole subordinata alle prioritarie esigenze della tutela.

Un principio e, insieme, un criterio che ne offrono, infatti, un'identificazione essenzialmente "in negativo", nel momento in cui rimettono l'individuazione degli spazi della valorizzazione al rispetto dei confini e dei contenuti che definiscono la funzione di tutela.

Alle incertezze derivanti da questo rapporto di "necessaria" dipendenza funzionale, non predeterminabile in astratto, si aggiungono quelle originate dagli interrogativi cui siffatto principio non è, per sua stessa ratio, ordinato a procurare risposta e che, d'altro canto, neppure trovano risoluzione in altre indicazioni legislative.

Sono, questi, gli interrogativi che riguardano il "che cosa", il "come" e, appunto, anche il "chi" della valorizzazione.

In questa sede non è possibile ripercorrere quella che si è andata costituendo come la "storia della valorizzazione", tale dovendosi, e potendosi, ormai considerare il percorso di "riforme di riforme" che ha interessato l'identificazione di tale attività, oggetto di reiterati interventi normativi con i quali ne sono stati ridefiniti gli ambiti, le finalità, i soggetti e le modalità d'esercizio.

Un percorso di modifiche che è valso ad esprimere, quasi essendone tanto causa quanto effetto, le difficoltà di una funzione e, prima ancora, di un'esigenza alla ricerca di una propria identità e, perciò, anche di un proprio statuto.

Per quanto è consentito rappresentare, in via di sintesi, di ciò che si è definita la "storia della valorizzazione", si può dire che essa sia stata la storia di un ambito funzionale aperto all'intervento di una pluralità di soggetti pubblici, comprensivi di tutti i livelli di governo, e privati, sia for profit sia no profit; connotato da finalità differenti, spinte, talvolta, sino al punto dell'antitesi, poi corretta o superata, in forza di successivi ripensamenti; chiamato a declinarsi in modalità differenti, secondo i beni culturali interessati e dei contesti, anche istituzionali oltre che territoriali, di riferimento.

Quella occupata dalla valorizzazione si è così andata definendo come scena affollata, nella quale all'eterogeneità delle azioni e delle misure, in cui si esprime, si aggiungono le interferenze tra i diversi soggetti, legittimati a porle in essere, con conseguenze anche agli effetti dei contatti-rapporti con le politiche e con i soggetti di governo del territorio.

Quanto alle incertezze che riguardano "il che cosa", ossia la stessa individuazione degli interventi e, prima ancora, delle finalità che la qualificano, molte di esse derivano dall'assenza di una concezione unica o, comunque, univoca dell'attività-funzione di valorizzazione.

Anche le disposizioni che il Codice dedica alla valorizzazione non esauriscono, infatti, le connotazioni e la disciplina di questa che, più di altri istituti, prova quanto il "diritto" e ciò che, proprio con riferimento ad essa, può qualificarsi anche come il "governo" dei beni culturali non trovino sistemazione compiuta nel corpus normativo, perciò stesso, solo nominalmente codicistico.

Da una parte, vi è la valorizzazione orientata alle finalità essenzialmente culturali che anche l'attuale art. 6 del Codice. Accanto, ma "altra" da essa, vi è una valorizzazione a più diretta rilevanza economica già indirettamente presupposta dal decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, ed in particolare dal suo art. 10 [14], benché compiutamente riconosciuta, come tale, da provvedimenti legislativi statali, successivi, adottati al di fuori di un coordinamento cercato o, comunque, consapevole con la normativa speciale, accolta nel d.lg. 42/2004.

Una valorizzazione che interessa, principalmente, i beni culturali pubblici al pari dei restanti beni pubblici e che, originariamente pensata quale mezzo per contribuire al sostegno della finanza pubblica è stata, poi, oggetto di ridefinizioni, confluite in una riscrittura anche di parte della normativa codicistica [15], volte a garantirne un maggior raccordo con il sistema della tutela oltre che con il più generale statuto del patrimonio culturale.

L'avvicinamento delle "due valorizzazioni", che ne è conseguito, non è, tuttavia, valso a unificarne le fattispecie né la disciplina, tanto che anche i rapporti con il governo del territorio continuano a recare traccia di queste differenze.

Se i punti di contatto tra governo del territorio e valorizzazione economica dei beni culturali appaiono di relativamente facile identificazione, rimessi, come sono, a previsioni normative pressoché dedicate, oltre che accomunate, e perciò anche definite, dal riconoscimento delle prioritarie ragioni della tutela, quando a venire in considerazione è la valorizzazione nel significato (culturale) più ampio, ma anche più indeterminato, ad essa assegnato dal Codice, la rappresentazione del rapporto con il governo del territorio non si presta ad altrettanto agevoli rappresentazioni dei punti di contatto e della loro disciplina, ma richiede un'operazione interpretativa di possibilità, potenzialità e, infine, di scenari, per gran parte, inespressi quanto indefiniti.

3.1. La valorizzazione economica: vincoli e limiti dei territori

Il rapporto fra governo del territorio e valorizzazione economica, o a più diretta rilevanza economica, dei beni culturali appare, dunque, come un rapporto destinato a svilupparsi secondo linee riconosciute o riconoscibili.

Guardando, qui, alle disposizioni che interessano tutti i livelli istituzionali, con esclusione di quelle riferite alla sola valorizzazione (economica) dei beni culturali statali, basti ricordare i vincoli e i limiti che, ai sensi degli artt. 53-55 cod., come modificati dal d.lg. 26 marzo 2008, n. 62, circondano la fattispecie, a questi effetti, maggiormente rilevante, ossia l'alienazione dei beni culturali immobili appartenenti al demanio culturale [16].

Un'alienabilità sottoposta alla speciale disciplina prevista nell'art. 55 cod. e qualificata dalla necessità di un'autorizzazione ministeriale, la cui richiesta e il cui rilascio seguono condizioni e procedure, da ultimo, riformulate con il d.lg. 62/2008, per effetto delle quali l'autorizzazione può assumere un contenuto conformativo dell'utilizzo del bene, sia pure solo in relazione a quella che ne è la conservazione e la fruizione pubblica.

Soggetta ad autorizzazione da parte del ministero è, altresì, l'alienazione degli altri beni culturali pubblici, non demaniali, appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, sottoposta alla differente, e meno stringente, disciplina prevista dall'art. 56 cod., per il quale, in ogni caso, "l'autorizzazione può essere rilasciata a condizione che i beni medesimi non abbiano interesse per le raccolte pubbliche e dall'alienazione non derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomata la pubblica fruizione" [17].

Questa disciplina autorizzatoria viene poi estesa, dal nuovo art. 57-bis, comma 1, "ad ogni procedura di dismissione o di valorizzazione e utilizzazione, anche a fini economici, di beni immobili pubblici di interesse culturale, prevista dalla normativa vigente e attuata, rispettivamente, mediante l'alienazione ovvero la concessione in uso o la locazione degli immobili medesimi".

Una previsione che, mentre appare, in via immediata, riferibile alle fattispecie di valorizzazione e utilizzazione a fini economici di immobili tramite concessione o locazione previste dall'art. 1, comma 259 e 262 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007) [18], si pone in rapporti più complessi con un'altra ipotesi, prevista dallo stesso Codice, ed altrettanto rilevante, agli effetti dei rapporti che per suo tramite possono attivarsi con le politiche di governo del territorio [19].

E' questa l'ipotesi prevista nell'art. 106, comma 2-bis cod., della concessione in uso, a singoli richiedenti, dei beni culturali che siano in consegna dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, possibile, "per finalità compatibili con la loro destinazione culturale", previa autorizzazione del ministero, rilasciata "a condizione che il conferimento garantisca la conservazione e la fruizione pubblica del bene e sia assicurata la compatibilità della destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del bene".

Disposizione, da leggersi in connessione con quanto enunciato nell'art. 20 cod., il quale considera "interventi vietati", tutti quelli che si risolvano anche in un utilizzo non compatibile con il loro carattere storico o artistico oppure tale da pregiudicarne la conservazione.

3.2. Segue: la valorizzazione codicistica: le opportunità

Più complessa, per quanto si anticipava, è, invece, la rappresentazione dei punti di contatto, e perciò del rapporto intercorrente, tra la valorizzazione codicistica e il governo del territorio, sebbene sia questo il terreno sul quale l'incontro fra i due settori potrebbe manifestare le maggiori potenzialità.

Terreno, infatti, connotato non solo dalle limitazioni e dai vincoli indotti dal rapporto con la tutela. Anzi, foriero di opportunità reciproche, al cui pieno sviluppo servirebbe, peraltro, quella concezione allargata dei beni culturali, capace di avvicinarli al paesaggio e ai beni paesaggistici nonché alle stesse attività culturali che non trova ancora basi adeguate nelle normative e nelle politiche di settore, per le quali anche la più estesa figura del "patrimonio culturale" [20] trova corrispondenze solo parziali nell'unicità del referente istituzionale centrale, non disponendone sul piano funzionale.

Ed è questo, altresì, il terreno sul quale più potrebbero esprimersi le azioni e le iniziative locali e che, pertanto, maggiormente risente delle incertezze che circondano l'altro profilo, ossia quello del "chi".

Quanto ai soggetti istituzionali coinvolti, basti ricordare che la valorizzazione dei beni culturali, a differenza della tutela, non è attività né, ancor prima, esigenza, di per sé, assegnata alle competenze necessarie o, per meglio dire, esclusive di alcuno di essi.

Ciò che ne definisce l'imputazione è il cosiddetto criterio dominicale, riferito ai beni culturali che ne sono oggetto. Il principio che presiede all'assetto delle competenze, innanzi tutto, legislative è quello enunciato negli artt. 7 e 112 cod. che, in proposito, raccolgono e accolgono le indicazioni già fornite dal giudice costituzionale, in merito all'interpretazione da dare alla scelta, espressa nell'art. 117 Cost., di assegnarla alla competenza legislativa concorrente di Stato e regioni [21].

Le norme che il Codice detta, in materia di valorizzazione, devono, dunque, intendersi, ai sensi dell'art. 117, comma 3, Cost, quali "principi fondamentali", nel cui rispetto le regioni eserciteranno la propria potestà legislativa (art. 7, comma 1, cod.), in particolare, disciplinando, "le funzioni le attività di valorizzazione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente" (art. 112, comma 2, cod.).

Al legislatore statale, di conseguenza, viene riconosciuta la competenza a disciplinare, oltre che la tutela, anche, e sia per i principi sia per gli aspetti di dettaglio, la valorizzazione dei beni culturali che si trovino nella sua disponibilità-titolarità.

Un criterio di imputazione delle competenze che si estende alle funzioni amministrative, in relazione alle quali le indicazioni, fornite dal legislatore del Codice, si esprimono anche in "altro".

Salvo il principio, residuale, già enunciato dall'art. 152 del d.lg. 112/1998 e ribadito dall'art. 112 laddove si precisa, nel comma 6, che "ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la valorizzazione dei beni di cui ha la disponibilità", il Codice, al pari dei precedenti provvedimenti per il cosiddetto "federalismo amministrativo", si astiene dal fissare veri e propri criteri di riparto delle competenze, preoccupandosi di definire soprattutto il "come", anziché il "chi", della valorizzazione.

Al principio generale, stabilito nell'art. 7, comma 2, cod., per il quale "il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali perseguono il coordinamento, l'armonizzazione e l'integrazione delle attività di valorizzazione dei beni", si aggiungono le ulteriori precisazioni dell'art. 112 cod., dove si opera quella che si è ritenuto di considerare una codificazione del principio consensuale  [22], stabilendosi che "Lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi [...]". (art. 112, comma 4, cod.)

Soprattutto, con lo stabilire che "gli accordi possono essere conclusi su base regionale o subregionale, in rapporto ad ambiti territoriali definiti, e promuovono altresì l'integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei servizi produttivi collegati", palesa l'intento di creare un sistema integrato di valorizzazione dei beni culturali, capace, perciò stesso, e per quanto, soprattutto, qui, interessa, di coinvolgere politiche di governo del territorio.

Viene, in tal modo, a delinearsi una valorizzazione come motore di un'azione più ampia, occasione, grazie a quelle che sembrano definirsi come le esternalità positive del patrimonio culturale, per uno sviluppo, anche economico, del territori.

Scenario di potenzialità che restano, però, in gran parte indefinite, per quelle incertezze che continuano a circondare, insieme al "come" il "chi", ed alle quali non dà risposta, ma, al contrario, quasi aggiunge ulteriori motivi, la previsione, sempre dell'art. 112, in base alla quale: "Lo stato, le regioni e gli altri enti pubblici possono costituire, nel rispetto delle vigenti disposizioni, appositi soggetti giuridici cui affidare l'elaborazione e lo sviluppo dei piani" strategici di sviluppo culturale.

Questa indicazione per un coordinamento non soltanto procedimentale-funzionale, ma anche strutturale, mentre amplia la mappa dei soggetti, degli strumenti e, perciò, degli interventi ai quali affidare la valorizzazione dei beni culturali, apre altri interrogativi, ancora in attesa di risposte e che riguardano, fra gi altri, lo stesso ruolo delle autonomie territoriali.

Quando si cerchi di immaginare quali spazi si aprano, per esse, anche all'interno di questi organismi, vi è, d'altro canto, un'altra prescrizione che si impone e si frappone: nell'art. 112 cod., al comma 7, si stabilisce che qualora i soggetti giuridici, da essa immaginati, per l'elaborazione e lo sviluppo dei piani strategici di sviluppo culturale, siano costituti o partecipati dal ministero, spetti ad un decreto ministeriale definire le modalità e i criteri di questa costituzione-partecipazione da parte del ministero.

La misura effettiva dell'intervento statale e dei condizionamenti che ne deriveranno sull'azione dei diversi partecipanti, compresi gli enti territoriali, dipenderà, perciò, dalle scelte ministeriali, in merito alle quali la disposizione non chiarisce se ad esse debba intendersi rimessa la definizione del solo momento istitutivo o, più estensivamente, la loro organizzazione ed il loro funzionamento.

Uno scenario indefinito che è ora chiamato a confrontarsi anche con la "nuova" Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale, prevista nel contesto dell'ultima, più recente, riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali e chiamata, fra l'altro, "ad individuare gli strumenti giuridici adeguati ai singoli progetti di valorizzazione ed alle realtà territoriali in essi coinvolte", a curare "il coordinamento con le regioni e gli altri enti pubblici e privati interessati" offrendo, anche, "il necessario sostegno tecnico-amministrativo per l'elaborazione dei criteri di gestione, anche integrata, delle attività di valorizzazione" nonché a curare "la predisposizione delle intese istituzionali di programma Stato-regioni [..] degli accordi per la valorizzazione integrata dei beni culturali previsti all'art. 112, comma 4, del Codice [...]  [23].

Previsioni che, quali ne siano le applicazioni e gli effetti che soltanto l'esperienza potrà documentare, appaiono, comunque, idonee ad arricchire la scena, occupata dalla valorizzazione, di nuovi soggetti o, meglio, di loro nuovi, possibili, ruoli, la cui "aggiunzione" se non riesce a far immaginare una semplificazione del contesto, sembra, invece, capace di ampliare gli interventi e le misure che possono occuparla, accrescendo, perciò stesso, anche, i punti di contatto tra valorizzazione dei beni culturali e governo del territorio, senza che, però, ne risultino meglio definite le potenzialità effettive delle autonomie territoriali.

4. Le esperienze: occasioni e occasionalità di un rapporto

Non sono, però, solo le incognite di questi più recenti scenari annunciati, ma non ancora sperimentati, a impedire una compiuta rappresentazione di quali siano i ruoli che le autonomie territoriali possono assolvere, nel settore dei beni culturali, rendendo difficile anche valutare quale sia la loro capacità di raccordarne le misure con le politiche per il governo del territorio.

Trascorsi, infatti, undici anni dal riconoscimento alle autonomie territoriali di ruoli rafforzati, coerenti con il disegno del cosiddetto federalismo amministrativo; otto anni dalla revisione del Titolo V e dalla conseguente costituzionalizzazione delle competenze regionali e locali in materia di beni culturali e di governo del territorio; cinque anni dalla prima approvazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dei due piani di analisi, ai quali riferirsi, quando si abbia riguardo, come in queste ipotesi, ad istituti che non siano di "nuovo" riconoscimento, ossia, da un lato, quello offerto dalle previsioni normative, dall'altro, quello dell'attuazione che se n'è data, è ancora il primo a guidare e orientare le riflessioni.

Le ricorrenti modifiche che hanno interessato il "diritto dei beni culturali" e, insieme, il contesto amministrativo e istituzionale fanno sì che ogni analisi, attenta al ruolo e alle potenzialità delle autonomie, si risolva, ancora, e necessariamente, in un'indagine di potenzialità che si aprono e di potenzialità che si chiudono o che, comunque, vanno a ridefinirsi nei loro oggetti e nelle loro modalità di esplicazione.

Un'analisi che, perciò stesso, si affida, come è avvenuto sin qui, al dato normativo, soprattutto statale, il quale, proprio in ragione di questo suo costante mutamento, conserva una centralità superiore a quella che dovrebbe possedere, specie quando ci si confronti con soluzioni e con ambiti nei quali ben maggior peso assumono le scelte amministrative e di organizzazione.

Alle indeterminatezze della normativa funzionale-sostanziale si aggiungono, poi, quelle derivanti dalle riforme che hanno, reiteratamente, interessato l'apparato ministeriale di settore e che, per converso, non hanno toccato gli apparati amministrativi dei governi territoriali, ancora distanti da significativi adeguamenti, strutturali e organizzativi, alle nuove attribuzioni che venivano loro, di volta in volta, delineandosi.

Anche da queste situazioni del contesto e di contesto, deriva, dunque, la marginalità dei dati di esperienza, spesso privi di un rapporto diretto con le diverse previsioni che si sono succedute nel tempo.

Non mancano, tuttavia, alcune scelte effettuate e che risultano meritevoli di attenzione, in quanto raccontano le potenzialità e le difficoltà dei diversi scenari, offrendo, a questa stregua, elementi utili a valutare quali possano essere le prospettive ("di forza" e "di debolezza") dei provvedimenti legislativi che si vanno, tuttora, succedendo e degli altri che dovessero aggiungersi.

Innanzi tutto, vi sono le indicazioni offerte dal ricorso che si è fatto agli strumenti degli accordi e, più ampiamente, della cooperazione interistituzionale.

Molte sono state, infatti, le esperienze di cooperazione poste in essere, nell'ambito della disciplina che, della programmazione negoziata, ha dettato la legge 23 dicembre 1996, n. 662 e, come tali, incentrate sugli strumenti dell'intesa istituzionale di programma, volta a definire le linee fondamentali degli interventi pubblici, e dell'accordo di programma quadro, chiamato a portare ad attuazione gli obiettivi indicati nell'intesa e destinato a trovare esecuzione tramite altri strumenti, come gli accordi di programma semplici.

Di qui, l'avvio di esperienze, anche nel settore dei beni culturali, che hanno condotto alla stipula di numerosi accordi di programma quadro, peraltro attenti più alle misure di tutela che a quelle di valorizzazione e, comunque, immaginati quali strumenti di spesa anziché di elaborazione di veri e propri progetti di sviluppo

Accordi che, benché attenti, nella loro lettera, a riconoscere nelle azioni in materia di beni culturali occasioni per lo sviluppo, anche economico, e non solo culturale, del territorio, hanno coinvolto, essenzialmente, il livello statale e quello regionale, escludendo gli enti locali, le altre amministrazioni e i privati, dei quali s'immagina l'intervento in una fase successiva, riferita a singole iniziative, dedotte ad oggetto di futuri accordi quadro semplici.

Una caratteristica che appare, anche, come un limite di queste esperienze, le quali sembrano negare quella che appariva la vocazione della programmazione negoziata a coinvolgere, quali attori dello sviluppo locale, anche i minori livelli di governo oltre che i privati.

Espressione, invece, del nuovo percorso delineato dall'art. 112 cod. sono altri accordi, peraltro molto simili a quelli stipulati in precedenza. E' il caso dell'accordo 24 settembre 2008 tra Mibac e regione Veneto, riferito anche ai beni paesaggistici nonché di quello siglato il 19 febbraio 2009 tra Mibac e regione Campania per la valorizzazione e la conservazione del patrimonio culturale, presentato, con enfasi, in tutta probabilità eccessiva, come primo esempio di federalismo nei beni culturali.

Quanto alle leggi regionali, pur nei limiti che le connotano, esse valgono a confermare il limitato ruolo riconosciuto ai livelli di governo infraregionali. Ed è questo, infatti, del rapporto con gli enti locali, uno dei profili più densi di zone d'ombra, quasi ad essere prodromo e conferma del medesimo limite che ha contrassegnato le esperienze della cooperazione interistituzionale.

Rapporto delle regioni con gli enti locali, peraltro, esposto non soltanto alle incertezze del "settore beni culturali", ma anche a difficoltà risalenti, che attengono al "come" le regioni declinino il proprio ruolo di enti di governo del e nel sistema delle autonomie.

Pochi, frammentari e, comunque, consegnati a disposizioni di principio sono, dunque, i conferimenti che le regioni hanno disposto a favore degli enti locali, anche in attuazione del disegno voluto dal d.lg. 112/1998.

Guardando, in via esemplificativa, ad alcune di queste leggi, è tuttavia rintracciabile il riconoscimento del ruolo riconosciuto, soprattutto, alle province. Ad esse è, generalmente, attribuito il compito di provvedere alla gestione e alla valorizzazione dei beni culturali che rientrano nella loro disponibilità, talvolta anche dei beni culturali degli enti locali, compresi nel loro territorio. Frequente è, inoltre, l'assegnazione alle province del compito di promuovere la cooperazione tra gli enti locali nonché di prestare a questi ultimi assistenza tecnica, per l'esercizio delle loro funzioni.

E' quanto, fra le altre, prevede la l.r. Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, legge generale, quest'ultima, per il "riordino del sistema delle autonomie", in attuazione del d.lg. 112/1998 e che, pur rinviando ad una legge futura la disciplina organica della materia, ha delegato alle province le funzioni amministrative concernenti le attività e lo sviluppo dei sistemi museali locali, la promozione di servizi ed attività di rilevanza locale e, fra le altre, la formulazione di progetti di sistemi integrati di beni e attività culturali.

Eguale attenzione alle province è stata prestata dalla l.r. Veneto 13 aprile 2001, anch'essa ordinata a disciplinare il "conferimento di funzioni e compiti amministrativi alle autonomie locali, in attuazione del d.lg. 112/1998". Alle province, la legge in questione, nell'art. 114, assegna la promozione e lo sviluppo, sul territorio, dei sistemi museali, bibliotecari e degli altri servizi culturali, chiamandole ad agire secondo gli indirizzi della regione e d'intesa con gli enti locali.

Dopo la riforma del Titolo V Cost., la maggior parte delle regioni è intervenuta con provvedimenti di settore, in prevalenza, dedicati ai sistemi museali, pur non essendo mancate anche iniziative di portata più ampia.

E' questo il caso della regione Toscana, alla quale si è dovuta l'approvazione della legge 31 gennaio 2005, n. 19, recante "Norme sul sistema regionale dei beni culturali": legge generale ed, insieme, programmatica.

In essa, dopo essersi affermato che, tra le finalità della regione, vi è la promozione dell'integrazione di compiti e funzioni concernenti la tutela, la fruizione, la valorizzazione e la gestione del bene culturale (art. 1, comma 2), si prevede che la giunta regionale, in applicazione del principio di leale collaborazione, elabori, definisca e proponga atti di coordinamento, di intesa e di accordo con lo Stato, allo scopo di conferire ulteriori funzioni di tutela del patrimonio culturale al sistema regionale e locale.

Quanto ai rapporti con gli enti locali, l'art. 4 della l.r. Toscana stabilisce che "La regione riconosce negli enti locali territoriali i soggetti essenziali per il sistema regionale, ai quali compete la responsabilità di integrare, coordinare e gestire, nel quadro dei principi indicati dalla regione, le relazioni fra il bene culturale ed il contesto paesaggistico e territoriale".

Si presenta come legge generale e programmatica anche quella approvata, dopo l'entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dalla regione Liguria (l.r. 31 ottobre 2006, n. 33), recante il "Testo unico in materia di cultura".

In essa si assegna alla regione il compito precipuo di esercitare, "[...] nel rispetto dell'autonomia degli enti locali, le funzioni di indirizzo e di programmazione in materia di beni e istituti culturali degli enti locali" (art. 2). In particolare, la si chiama a predisporre, sentiti le province ed i comuni, gli atti programmatori; ad attuare interventi diretti per progetti di valorizzazione di beni e di istituti culturali di particolare rilevanza; promuovere programmi di collaborazione con altre regioni; individuare, in concorso con tutti gli organismi competenti, i livelli minimi uniformi di qualità della valorizzazione di beni e istituti culturali ai sensi dell'art. 114 del d.lg. 42/2004; coordinare, in armonia con le politiche turistiche, le diverse competenze in materia di fruizione, valorizzazione, gestione e promozione dei beni culturali; assicurare la valorizzazione dei beni culturali attraverso un'organizzazione stabile di risorse e strutture al fine di promuoverne la conoscenza; concorrere alla valorizzazione dei beni di proprietà privata.

Alle province si assegnano, invece, funzioni di programmazione e valorizzazione di beni, istituti e attività culturali, oltre che il coordinamento del sistema, anche in collaborazione con i comuni e gli altri soggetti pubblici e privati. (art. 3)

Ai comuni spetta gestire i beni culturali esistenti sul proprio territorio secondo la programmazione e le direttive regionali, oltre che realizzare una gestione integrata degli stessi (art. 4)

Se queste, sin qui ricordate, sono alcune, fra le più significative, indicazioni che, per il settore dei beni culturali, si traggono dalle leggi regionali, resta semmai da rilevare che, di recente, anche, il governo del territorio si candida a offrire una prospettiva utile a verificare "se" e "come" le autonomie ne garantiscano il raccordo con le necessità di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale.

Il riferimento è ai nuovi scenari aperti dal Piano nazionale per l'edilizia abilitativa, meglio noto come "Piano casa". Sulla base di un'intesa con la Conferenza unificata, del 31 marzo - 1 aprile 2009, il piano prevede la possibilità per le regioni di intervenire, con proprie leggi, in materia urbanistica, per regolare eventuali aumenti di volumetrie, ricostruzioni e/o demolizioni di edifici.

La capacità di queste misure, quando adottate, di reagire sul patrimonio culturale è implicita, prima ancora di dover essere dichiarata. Benché le interferenze più significative siano destinate a riguardare la tutela e la valorizzazione del paesaggio e dei beni paesaggistici, non mancano contatti anche con i beni culturali e, perciò, con le necessità da essi espresse.

Poche sono, tuttavia, nel momento in cui si scrive [24], le leggi regionali, approvate, che si occupino di esplicitarli, facendoli oggetto di apposite disposizioni. Quelle che lo fanno, scelgono di individuare nella tutela, prima ancora che nella valorizzazione, dei beni culturali, e non soltanto di quelli che risultino tali ai sensi della normativa codicistica, la ragione di limiti agli interventi che si renderanno possibili.

Così, richiedendo il rispetto della "disciplina relativa agli edifici di valore storico-architettonico, culturale e testimoniale" [25], vietando ogni intervento su edifici "definiti di valore storico, culturale ed architettonico dagli atti di governo del territorio o dagli strumenti urbanistici generali", nonché su quelli "vincolati quali immobili di interesse storico ai sensi della parte seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42" [26], impedendo siano realizzati "su edifici o ambiti, individuati dai piani regolatori come centri storici, comunque denominati, aree esterne d'interesse storico e paesaggistico ad essi pertinenti, nuclei minori, monumenti isolati, singoli edifici, civili o di architettura rurale, di valore storico-artistico o ambientale o documentario [...] [27].

Parzialmente difforme la posizione della regione Lombardia che, con l.r. 16 luglio 2009, n. 13 sembra farsi portatrice di una considerazione propria del rapporto fra queste misure di "governo del territorio" ed il patrimonio culturale, autorizzando interventi edilizi di ampliamento e demolizione anche "all'interno dei centri storici e delle zone individuate dagli strumenti urbanistici [...] quali nuclei abitati di antica formazione", quando a tali interventi si accompagni una riduzione certificata del fabbisogno energetico annuo o quando l'edificio, da sostituire, non sia coerente con le caratteristiche storiche, architettoniche, paesaggistiche e ambientali dei centri storici e dei nuclei [28].

Primi segnali, soltanto, di politiche occasionate dalle misure per il governo del territorio e capaci di aprire a nuove dinamiche e a nuove relazioni con le esigenze di un patrimonio culturale, che va a ridefinirsi anche nella sua estensione e che, qui, si sono richiamate come ulteriori esempi di quanto i rapporti fra i due settori considerati obbediscano, ancora, ad una casualità di contatti e di composizioni, ben lungi dal riflettere l'esistenza o anche e solo la costruzione di un sistema di rapporti.

 

 

 

Note

[*] Lo scritto trae origine dalla relazione tenuta il 6 marzo 2009 nell'ambito del Corso monografico della Scuola di specializzazione in studi sull'amministrazione pubblica, dell'Università di Bologna, su "Governo del territorio e beni culturali", la cui versione, completa, è destinata a pubblicazione negli Atti dello stesso.

[1] Salvo quanto si avrà modo di dire, più diffusamente, nel testo, in merito al settore beni culturali o, meglio, in merito alle funzioni-attività che ne qualificano la regolazione pubblica, con riguardo al governo del territorio, riconosciuto, appunto, come materia-funzione più che materia, in senso tradizionale (in questo senso, cfr. G. Pastori, Governo del territorio e nuovo assetto delle competenze statali e regionali, in B. Pozzo e M. Renna (a cura di), L'ambiente nel nuovo Titolo V della Costituzione, Milano, 2004, pp. 29 ss.), molti sono stati i dubbi circa il significato della locuzione, diffusa in ambito scientifico, giurisprudenziale ed anche legislativo prima di essere costituzionalizzata, in occasione della revisione del Titolo V, Parte II, operata nel 2001, quando è stata annoverata tra le materie assegnate alla competenza legislativa concorrente di Stato e regioni (art. 117, comma 3, Cost.). Discussa è stata, in particolare, la possibilità di ricondurvi tanto la disciplina urbanistica quanto quella edilizia, prive di espresse menzioni nel testo costituzionale. Una possibilità, ammessa dalla Corte costituzionale, già con sent. 25 settembre-1 ottobre 2003, n. 303, senza che, con ciò, siano state eliminate tutte le difficoltà di circoscriverne l'ambito.

[2] In questo senso, l'art. 117 Cost, dopo la revisione che del Titolo V, Parte II, Cost., ha disposto la l.cost. 18 ottobre 2001, n. 3, per effetto della quale, pertanto, i beni culturali non rilevano come materia a sé stante, agli effetti del riparto delle competenze, fondato, come è, sulle funzioni (attività) delle quali essi possono essere oggetto.

[3] In proposito, si ricordi, infatti, il principio, enunciato nell'art. 6, comma 2, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 e succ. modifiche, recante il "Codice dei beni culturali e del paesaggio", per il quale "la valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze".

[4] Sul punto, non può che rinviarsi ad A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1996.

[5] E' questa la legge "Sul Consiglio superiore, uffici e personale delle antichità e belle arti", del governo Giolitti, voluta da Corrado Ricci, chiamato da Luigi Rava alla Direzione generale delle Belle Arti. Con essa si consacrava, appunto, la struttura delle Soprintendenze, ma si disciplinavano anche altri Uffici e Commissioni. In proposito, cfr. G. Melis, G. Tosatti, I tecnici delle Belle Arti nell'amministrazione italiana (1861-1915), in A. Varni, G. Melis (a cura di), Burocrazie non burocratiche. Il lavoro dei tecnici nelle amministrazioni tra Otto e Novecento, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, pp. 183-205.

[6] Su questi temi, cfr. anche V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, ministero per i Beni e le Attività culturali - Ufficio Studi, Roma 2001.

[7] E' questa la ripartizione, per competenze, che delle Soprintendenze, quali organi periferici del ministero, effettua anche, nel suo art. 16, il più recente regolamento di organizzazione Mibac, approvato con d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233, come modificato con d.p.r. 2 luglio 2009, n. 91.

[8] In proposito, cfr. P. Petraroia, Il governo, in C. Barbati - M. Cammelli - G. Sciullo (a cura di), Il diritto dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2° ed., 2006, p. 166.

[9] Ci si consente, qui, di rinviare a quanto già si ebbe modo di ricordare, in merito alle tesi di Roberto Longhi, il quale, già nel 1938, sottolineava come la tutela del patrimonio artistico non potesse essere separata da quella dei contesti territoriali e ambientali, oltre che di Giuliano Urbani, Direttore, dal 1973, dell'Ufficio centrale per il restauro, anch'egli difensore della "indissolubilità tra patrimonio artistico e territorio", in C. Barbati, Il paesaggio come realtà etico-culturale, in Aedon 2/2007, ove ci si riferiva alle più estese disamine che, di queste analisi, ha effettuato C. Tosco, Il paesaggio come storia, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 94-95.

[10] Sul punto, cfr. le riserve espresse da G. Pastori, Art. 4, in M. Cammelli (a cura di), con il coordinamento di C. Barbati e G. Sciullo, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2° ed., 2007, pp. 67 s.

[11] Per queste considerazioni, si rinvia alle analisi, più estese, che ne effettua A. Roccella, Governo del territorio: rapporti con la tutela dei beni culturali e l'ordinamento civile, commento a Corte cost., sentenza 8 giugno 2005, n. 352, in Le regioni, 2005, pp. 1259 ss., ove, appunto, rileva come la legge ponte del 1967 avesse "riconosciuto che i beni paesaggistici e quelli storico-artistici meritavano di essere tutelati non soltanto nelle forme previste dalla specifica disciplina che li concerneva, ma altresì, e indipendentemente, in sede di pianificazione urbanistica comunale, anzi mediante modifiche apportate d'ufficio allo strumento urbanistico in sede di approvazione, con conseguente limitazione dell'autonomia pianificatoria comunale".

[12] In questo senso, si era già espressa la Corte costituzionale, con sent. 6-9 marzo 1990, n. 118, sia pur riconducendo gli interventi, consentiti, alla tutela dei "centri storici", come assicurata anche dall'art. 4 del d.l. 9 dicembre 1986, n. 832 conv. in legge 6 febbraio 1987, n. 15. Fattispecie, queste dei "centri storici", differenti da quelle che compongono la categoria dei "beni culturali", in senso proprio, tanto da essere sottoposti, sebbene solo a seguito della novella al Codice, apportata con d.lg. 63/2008, alla tutela dei beni paesaggistici, quando dichiarati, attraverso il procedimento previsto dagli artt. 138-141-bis, di "notevole interesse pubblico". (sul punto cfr. art. 136, comma 1, lett. c) cod., come mod.).

[13] Sugli ampi poteri spettanti in proposito ai Comuni, cfr., da ultimo, TAR Veneto, sez. III, 18 giugno 2009, n. 1842, per il quale: "le funzioni che l'amministrazione è chiamata ad esercitare in questa materia involgono l'esercizio di un' ampia ed estesa (quanto ad interessi coinvolti) discrezionalità, posto che i compiti dell'amministrazione non consistono e non si risolvono nella mera scelta delle aree nelle quali l'esercizio del commercio può essere praticato ma anche nella scelta della dimensione, dei tempi e dei modi di tale attività, e di tutte le eventuali restrizioni e forme di contemperamento ritenute, di volta in volta, opportune dal punto di vista viabilistico, urbanistico e architettonico, tenendo conto della pluralità di interessi pubblici e privati coinvolti (cfr. TAR Lombardia, Brescia, 6 gennaio 2007, n. 6; TAR Emilia-Romagna, Parma, 13 maggio 2004, n. 222) così come avviene, in generale, per altre attività soggette a concessione (cfr. ex pluribus, Consiglio di Stato, sez. VI, 22 marzo 2002, n. 1662) e nello svolgimento delle funzioni pianificatorie (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. I, 9 novembre 2006, n. 5204)".

[14] Basti, qui, ricordare la prima formulazione dell'art. 10, più volte riscritto, per poi essere abrogato dall'art. 6, comma 1, lett. b) del d.lg. 24 marzo 2006, n. 156, ove già si consentiva al ministero di ricorrere, "per il più efficace esercizio delle proprie funzioni" e, in particolare, per quelle di "valorizzazione dei beni culturali [...]" ad esternalizzazioni, utilizzando, allo scopo, i tipici strumenti degli accordi, con amministrazioni pubbliche e con privati, della costituzione o partecipazione ad associazioni, fondazioni o società, oltre che i provvedimenti unilaterali delle concessioni.

[15] In questo senso, cfr. le modifiche apportate alla disciplina codicistica della loro circolazione prima per opera del d.lg. 24 marzo 2006, n. 156 e, da ultimo, tramite il d.lg. 26 marzo 2008, n. 62, su cui cfr. A. Serra, L'alienazione e l'utilizzazione dei beni culturali pubblici: gli artt. 53-64, in Aedon 3/2008.

[16] Si ricorda che accanto ad alcune categorie di beni culturali, demaniali e non demaniali, assolutamente inalienabili, ai sensi dell'art. 54, comma 1, cod., come modificato nel 2008, quali: "immobili e aree di interesse archeologico", "immobili dichiarati monumenti nazionali a termini della normativa all'epoca vigente", vi sono beni culturali temporaneamente inalienabili, quali sono, fra gli altri, a norma dell'art. 54, comma 2, cod., "le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali", sino a che non si concluda, con esito negativo, il procedimento di verifica del loro interesse culturale. In una posizione a sé si trovano, invece, i beni culturali alienabili, nel senso e alle condizioni, di cui al testo.

[17] In questo senso, art. 56, comma 4, cod., come modificato dal d.lg. 62/2008.

[18] Tra i diversi strumenti previsti dalla legge finanziaria per il 2007, ai fini di una valorizzazione, economica, degli "immobili pubblici di interesse culturale", rientrano la concessione o la locazione in valorizzazione c.d. lunga, ossia portata a cinquant'anni, dai diciannove, in precedenza, previsti, disposta a titolo oneroso, a favore di privati, "ai fini della riqualificazione e conversione dei medesimi beni tramite interventi di recupero, restauro, ristrutturazione anche con l'introduzione di nuove destinazioni d'uso finalizzate allo svolgimento di attività economiche o di attività di servizio per i cittadini". Soluzioni alle quali si affianca, poi, anche il programma unitario di valorizzazione, ossia il Puv.

[19] In merito alle perplessità generate da queste recenti riformulazioni delle disposizioni, in oggetto, cfr. A. Serra, L'alienazione e utilizzazione ecc., cit.

[20] Cfr. la definizione che di "patrimonio culturale" offre l'art. 2 cod.

[21] Cfr. Corte cost., sentenza 20 gennaio 2004, n. 26. Da ricordare, inoltre, che il medesimo assetto delle competenze riguarda l'attività di fruizione, su cui cfr., soprattutto, art. 102 cod.

[22] In questo senso, cfr. L. Zanetti, Commento all'art. 112, in M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali cit., 2° ed., p. 441.

[23] In questo senso, cfr. art. 8, comma 2, lett. f) e h) del d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233, come modificato con d.p.r. 2 luglio 2009, n. 91, recante regolamento di riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali. Per una prima analisi di questa scelta, cfr. G. Sciullo, Mibac e valorizzazione, in Aedon 1/2009.

[24] All'agosto 2009, come riferisce il sito del Governo, le regioni che hanno approvato proprie leggi in attuazione dell'accordo sottoscritto il 31 marzo 2009 sono nove: Piemonte, Lombardia, Umbria, Toscana, Emilia-Romagna, Puglia, Lazio, Valle d'Aosta. Altre leggi risultano, poi, in fase di approvazione.

[25] Così, l.r. Emilia Romagna, 6 luglio 2009, n. 6, art. 7-ter, comma 1.

[26] Così, l.r. Toscana, 8 maggio 2009, n. 24, art. 5, comma 2, lett. c) e d) e, in termini equivalenti, anche a quanto a formulazione, l.r. Veneto, 8 luglio 2009, n. 14, art. 9, comma 1, lett. b) e c).

[27] In questo senso, l.r. Piemonte 14 luglio 2009, n. 20, art. 5, comma 2. Disposizione, al cui comma 4, peraltro, si prevede che taluni interventi, di solo ampliamento, siano possibili "negli edifici ricadenti all'interno di aree dichiarate di notevole interesse pubblico ai sensi degli articoli 136 e 157 cod. [...] fatto salvo l'ottenimento dell'autorizzazione paesaggistica.

[28] Cfr. art. 3, commi 3 e 4.

 



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