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Il Mibact: dalle origini ad oggi

La riforma del Mibact tra mito e realtà

di Lorenzo Casini

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il contesto. - 3. Miti e leggende sulla riforma dei musei statali. - 3.1. Lo "smantellamento" del legame tra tutela del patrimonio culturale, musei e territorio? - 3.2. Una valorizzazione solo economica? - 3.3. Una riforma senza risorse? - 4. I problemi veri (e antichi). - 5. I prossimi passi.

The Reform of Mibact between myth and reality
The article deals with the 2014 Reform of the Italian Ministry for Culture and Tourism, which has triggered controversial responses from scholars, media and public opinion. Moving from the actual legal and institutional context, the author aims at demonstrating the weaknesses of the main critiques formulated against the reform. This will allow him to address the main problems that still affect the Ministry and to illustrate the next steps that must be taken in order to help and improve the reformation process.

Keywords: Cultural Heritage; Ministry for Culture and Tourism; Administrative Reforms.

1. Premessa

Dal 2014 ad oggi, molte cose sono state scritte e dette sulla riforma del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo (Mibact). E ancora molte altre se ne scriveranno e diranno, perché la riforma ha innescato mutamenti istituzionali di lunga durata, specialmente nel settore dei musei, i cui effetti sono auspicabilmente destinati a durare e rafforzarsi nel tempo.

A fronte di osservazioni colorite e aspri commenti, però, sembrano mancare purtroppo analisi rigorose che tengano conto del contesto storico-giuridico in cui la riforma si inserisce [1]. In sostanza, hanno fin qui prevalso letture di tipo evenemenziale, sradicate da una accurata considerazione del contorno, dei tentativi precedenti, dei dati e delle informazioni a disposizione. Soprattutto, non vi sono stati tentativi di spiegare per quali motivi la politica e l'amministrazione del patrimonio culturale in Italia, sino alla riforma, avessero sostanzialmente fornito, troppo spesso, una modestissima prova di sé. Basti citare il ritratto del ministero che, negli ultimi anni, è stato frequentemente dipinto dalla Ragioneria generale dello Stato e dalla Corte dei Conti: una macchina organizzativa priva di pianta organica, senza contezza delle risorse umane a disposizione e del loro impiego, incapace di programmare investimenti e, soprattutto, spendere risorse [2].

In questo scritto sono innanzitutto ricostruiti i tratti essenziali del contesto storico-giuridico che ha condotto alla riforma, così da mostrare che quest'ultima non è stata un atto improvviso, né rivoluzionario, ma rappresenta il semplice precipitato di decenni di istanze, fatte proprie da diversi governi e commissioni di studio ma mai sinora realizzate, tutte dirette a riconoscere maggiore autonomia ai musei statali.

Successivamente, sono sfatati alcuni miti e leggende in circolazione circa la riforma, almeno quelli più diffusi. L'intento è di portare la discussione delle scelte compiute sul merito e all'interno di un contesto più verosimile, così da poter favorire i prossimi interventi di correzione o miglioramento della riforma stessa. È infatti necessario evidenziare la bizzarra singolarità di talune posizioni assunte da alcuni studiosi nei confronti della riforma dei musei statali: se uno Stato sceglie finalmente di riconoscere dignità giuridica ai propri musei, dotandoli di un direttore, di uno statuto, di un comitato scientifico e di un consiglio di amministrazione, e chiedendo a queste istituzioni di promuovere lo sviluppo della cultura, come si può seriamente sostenere che si stia mettendo a rischio il patrimonio storico-artistico della Nazione?

È quindi utile fare chiarezza sulla reale situazione, sgombrando il campo da dicerie e fantasie che, purtroppo, non tengono conto né della situazione di partenza, né delle difficoltà che vive oggi l'amministrazione pubblica italiana di cui il ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo è parte integrante. In questo modo, diviene possibile concentrare l'attenzione sui problemi reali e sulle linee di azione che ancora bisogna intraprendere.

2. Il contesto

"Due cose bisogna tenere presenti nel mediare, attraverso il museo, il contatto del pubblico con l'opera d'arte: che l'arte antica non è una cara, polverosa memoria, ma una forza perennemente viva della nostra anima; e che lo studioso d'arte non è il sacerdote di un oscuro culto dei morti, ma l'interprete qualificato di un interesse artistico collettivo. Non è, dunque, soltanto agli studiosi ed ai loro interessi scientifici, ma al gran pubblico e alle sue esigenze culturali, che deve rivolgersi il museo" [3]. Così Giuseppe Bottai, nel 1938, trattava le "sistemazioni museografiche" nelle sue Direttive per la tutela dell'arte antica e moderna, documento posto alla base delle riforme del 1939.

Questa parte del programma di Bottai, come è noto, è rimasta sostanzialmente inattuata. Già alla fine degli anni Cinquanta, Giulio Carlo Argan poteva notare come i musei italiani fossero incapaci di svolgere un ruolo attivo nella educazione e nella formazione, avessero uno "sviluppo lentissimo", una funzione con "un raggio limitatissimo" e una "presa" minima sulla società contemporanea, senza alcun legame con l'insegnamento nelle scuole e nelle università [4]. Negli anni Novanta, Antonio Paolucci notava che "nell'ordinamento statale delle Soprintendenze il museo praticamente non esiste" [5].

Più volte perciò, negli ultimi decenni, lo Stato italiano ha tentato di invertire questa inesorabile tendenza alla trascuratezza e alla dimenticanza verso le sue istituzioni museali. Il progetto di legge Ragghianti presentato nel 1965 in seno alla Commissione Franceschini, ad esempio, prevedeva la creazione di 30 istituti dotati di autonomia [6]. Lo stesso Paolucci, da ministro nel 1995, aveva presentato un disegno di legge per dare autonomia a quattro musei statali, con annessi altri istituti (Uffizi, Brera, Capodimonte e Galleria Borghese) [7]. E, tra le tante proposte di riforma che si sono susseguite in questi decenni, meritano di essere citati i progetti di legge Chiarante e Covatta, entrambi volti a riconoscere autonomia ai musei [8], così come il noto atto di indirizzo sugli standard nei musei del 2001 [9].

Tommaso Alibrandi e Piergiorgio Ferri, a metà degli anni Novanta, hanno ben sintetizzato le conclusioni di un pluriennale "intenso dibattito culturale e politico" sui musei: a) "affermata esigenza che i musei statali (o, almeno, i più importanti) vengano eretti ad organi dello Stato, con piena autonomia finanziaria e amministrativa compresa la facoltà di disporre di un proprio bilancio e di ricevere entrate finanziarie"; b) "affermata esigenza che tutti i musei italiani, ivi compresi i musei scientifici e demoetnoantropologici [...], indipendentemente dalla loro appartenenza giuridica, vadano a costituire il Sistema museale nazionale"; c) "esigenza di restituire all'amministrazione dei beni culturali la piena potestà sulle sue risorse" [10].

Non sorprende, allora, che anche la Commissione di studio presieduta nell'autunno 2013 da Marco D'Alberti - ultima, in ordine di tempo, di numerose iniziative simili - e in cui vi erano, oltre ad esperti come Tomaso Montanari e Paolo Baratta, anche dirigenti e funzionari del ministero [11], sia giunta alle stesse conclusioni. Si legge nella Relazione finale che, "[c]on riferimento agli Istituti culturali operanti sul territorio, è emersa con forza l'idea di conferire ad essi un'ampia autonomia tecnico-scientifica e gestionale, prendendo spunto anche dall'assetto delle strutture periferiche dell'amministrazione francese che si occupano di beni culturali: ciò nella convinzione che le strutture operanti sul territorio siano i migliori presidi della tutela e della conservazione del patrimonio culturale e che vadano salvaguardate al massimo le capacità dei corpi tecnici, spesso sacrificate nelle amministrazioni pubbliche italiane. Con particolare riferimento ai Musei, è auspicabile che la loro autonomia si estenda, quanto più possibile, anche alla definizione degli orari di apertura e dei prezzi dei biglietti. Ovviamente, la maggiore autonomia deve essere affiancata da una maggiore trasparenza: ad esempio, tutti i Musei dovrebbero realizzare un report annuale che dia una panoramica delle attività svolte e mostri come le risorse siano state impiegate, rendendo anche disponibili gli elenchi delle acquisizioni, l'illustrazione delle mostre, delle attività educative, didattiche e di ricerca".

È per far fronte a tutte queste pluriennali "affermate esigenze", dunque, che è stata disegnata e attuata la riforma del 2014. Essa rappresenta l'ultimo tassello di un processo lentissimo, ritardato da numerose ragioni di natura storica, politica, istituzionale, socio-economica e culturale.

Va ricordato, infine, che la riforma è intervenuta - e, in periodo di spending review, non avrebbe potuto essere altrimenti - tramite un regolamento di riorganizzazione di un ministero. Essa si è quindi mossa nell'ambito di tutte le regole previste per la pubblica amministrazione, e in particolare per l'amministrazione centrale dello Stato. È questo un dato fondamentale, spesso dimenticato da chi lamenta alcune scelte compiute, per un verso o per l'altro. Non a caso, quando si è scelto di svolgere una selezione pubblica internazionale per individuare i direttori dei "nuovi" musei statali, è stata necessaria una apposita disposizione legislativa. In altri termini, troppo frequentemente viene tralasciato che il ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo non è un'isola, ma un organo dello Stato e, dunque, sottoposto a tutte le regole previste per le pubbliche amministrazioni (regole che, negli ultimi anni, non hanno certo favorito l'investimento sulle strutture: basti menzionare i ripetuti blocchi delle assunzioni).

3. Miti e leggende sulla riforma dei musei statali

La esigenza di riconoscere autonomia ai musei dello Stato, quindi, è il prodotto di una lunga serie di studi sviluppatisi nel corso di molti decenni. Se la riforma del 2014 ha almeno un merito, è quello di aver tradotto in realtà quanto chiesto da diverso tempo. La sua messa in atto, ovviamente, è tutt'altro che semplice e i fattori di resistenza sono innumerevoli.

Alla base della riorganizzazione, innanzitutto, vi è un preciso progetto culturale, quello di recuperare la missione di educazione e di ricerca che dovrebbe competere all'amministrazione dei beni culturali in Italia. Ciò riguarda l'intero ministero, non solo la nuova Direzione generale Educazione e ricerca - che non a caso è la prima ad essere elencata e regolata nel d.p.c.m. n. 171 del 2014, a conferma del suo ruolo chiave - ma anche tutti gli uffici periferici. Inoltre, sono già stati siglati appositi protocolli di intesa tra Mibact e ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, così come è oggetto di riforma l'intero sistema di formazione del ministero, mediante l'attivazione di un'apposita Scuola.

Si è voluto quindi rispondere, pur con qualche decennio di ritardo, ai rilievi che erano mossi all'amministrazione dei beni culturali, tra gli altri, da Ranuccio Bianchi Bandinelli già negli anni Sessanta del XX secolo. Bianchi Bandinelli osservava come le "preoccupazioni" gestionali e amministrative assorbissero completamente l'attività dei soprintendenti, impossibilitati perciò a "seguitare" a essere studiosi [12].

La riforma del ministero va perciò letta innanzitutto come tentativo di migliorare questo assetto, collegando l'amministrazione per i beni culturali alla scuola, all'università e alla ricerca, come richiesto dall'art. 9 della Costituzione, in cui la promozione dello sviluppo della cultura e quella della ricerca scientifica e tecnica sono giustamente affiancate; così come lo sono l'arte e la scienza nell'art. 33. Del resto, basta considerare che i maggiori musei del mondo possono tutti contare su un proprio dipartimento o una propria sezione dedicati alla ricerca (e, in Italia, il Museo d'Arte contemporanea Donna Regina (MADRE) di Napoli o il Museo egizio di Torino ne sono esempio). Non a caso, la Raccomandazione UNESCO 2015 riguardante la protezione e la promozione di musei e collezioni prevede la ricerca e la educazione, insieme con la tutela e la comunicazione, tra le funzioni principali del museo [13]. Anche il ripristino nel ministero di una Direzione generale dedicata all'arte e all'architettura contemporanee (ora competente anche per le periferie urbane) può essere letto in questa ottica.

La riforma dei musei statali ha puntato, perciò, su azioni semplici e invocate da decenni, quali il riconoscimento di maggiore autonomia agli istituti, la creazione di un sistema museale nazionale, la restituzione alla sfera pubblica della progettazione culturale. Queste scelte hanno però acceso numerose polemiche, che a loro volta hanno prodotto svariati miti e leggende sulla riforma.

Se si lasciano da parte i commenti più fantasiosi - come quelli che collegano l'aver conferito dignità giuridica ai musei statali con un presunto disegno di mercificazione del nostro patrimonio o quelli che evocano documenti di imprese multinazionali quali carte ispiratrici della riorganizzazione - in questa sede possono sfatarsi tre miti e leggende: 1) l'asserito "smantellamento" del legame tra tutela del patrimonio culturale, musei e territorio; 2) il presunto trionfo della valorizzazione economica; 3) la tesi - controvertibile, come si mostrerà - per cui la riforma avrebbe operato a costo zero, non preoccupandosi invece di reperire risorse aggiuntive.

Vi sono, poi, altre leggende oltre a queste tre, che, però, nulla hanno a che vedere con la riforma dei musei, anche se spesso sono evocate a sostegno delle critiche a quest'ultima. Si va dal mito dei prefetti-Lestrigoni che "trangugeranno" i soprintendenti, alla leggenda del c.d. sblocca-Italia che avrebbe cancellato l'archeologia preventiva solo per aver previsto un termine all'adozione delle linee guida in materia [14]. Niente di questo è vero, naturalmente, ma tutto è utile ad allontanare l'attenzione dell'opinione pubblica dal "cuore" della riforma del 2014, ossia aver dato finalmente dignità ai musei dello Stato non solo come collezioni, ma anche come istituzioni.

Si è di fronte, sembrerebbe, a una vera e propria "emergenza culturale", in cui gli studiosi che più di tutti dovrebbero possedere strumenti e metodi adatti alla lettura dei contesti, come archeologi e storici dell'arte, interpretano norme e provvedimenti isolatamente, senza leggerne né la lettera, né il contesto storico-istituzionale. Non vi è dubbio che la riforma possa e debba essere migliorata, correggendone i difetti che via via possono emergere in fase di attuazione. Va tuttavia sempre ricordato - soprattutto a chi sembra non voler vedere questo aspetto - che gli interventi sul ministero operati a partire dal 2014 non solo trovano fondamento in decenni di studi e ricerche condotte da decine di Commissioni, ma hanno il proprio senso più profondo nell'enucleare e dotare finalmente di strumenti adeguati le funzioni che il ministero è chiamato a svolgere, con particolare attenzione alle attività di tutela del patrimonio culturale, di gestione dei musei, di ricerca e di formazione.

3.1. Lo "smantellamento" del legame tra tutela del patrimonio culturale, musei e territorio?

La prima leggenda è quella che vede nella riforma una operazione distruttiva del nesso inscindibile che in Italia unisce musei e territorio. L'Italia e il suo patrimonio si caratterizzano per essere un museo diffuso, "a cielo aperto", in cui la funzione di tutela non può essere dissociata dalla gestione dei musei. Il legame con il territorio è così forte che, inevitabilmente, l'amministrazione dei beni culturali italiana si è sviluppata con uffici, le soprintendenze, competenti a tutelare e gestire quel patrimonio in modo unitario, assicurando un "sistema territoriale" di tutela.

La riforma del 2014 è stata perciò tacciata di avere "smantellato" questa perfetta simbiosi tra museo e territorio o, meglio, tra soprintendenze e musei - una simbiosi invero che, già negli anni Settanta del XX secolo, Andrea Emiliani rilevava essere "nata solo da carenze di strutture e di personale" [15].

Come sfatare questa leggenda? Andrebbe innanzitutto rilevato che la asserita rottura della simbiosi tra museo e territorio, o meglio tra funzione di tutela e gestione museale, in Italia si è verificata da molto tempo. Fu la Costituzione del 1948 ad attribuire la materia "Musei e biblioteche di enti locali" alla potestà legislativa regionale [16]. E i musei non statali, sui quali lo Stato è comunque chiamato a svolgere la funzione di tutela, sono la maggior parte: basti pensare alle eccellenze rappresentate da diversi musei civici, anche nel settore della archeologia. Se su migliaia di musei e siti in Italia solo poche centinaia rientrano nella piena competenza dello Stato, mentre per gli altri la titolarità e/o la gestione sono affidate ad altri soggetti, come si può davvero dire e credere che sia stata la riforma del 2014 a "smantellare" la simbiosi delle soprintendenze tra museo e territorio?

Al contrario, come emerge chiaramente dai compiti affidati ai musei, ai poli museali regionali e alla Direzione generale Musei, l'intento della riforma è proprio quello di assicurare che l'immenso patrimonio culturale italiano possa realmente essere fruito, mettendo in rete i diversi istituti e luoghi della cultura operanti nella medesima regione. In aggiunta, la gestione della maggior parte dei musei statali è affidata ai poli museali regionali, strutture oggi dirette dagli stessi dirigenti che, sino al 2014, sono stati soprintendenti. Infine, nei musei dotati di autonomia, le modalità di composizione di consigli di amministrazione e comitati scientifici - formati da esperti esterni o professori universitari, designati anche da regioni e comuni - dovrebbero rafforzare - se le istituzioni collaborano tutte - il collegamento degli istituti con la società civile e con il territorio.

Quella che viene interpretata come frattura o scissione, dunque, altro non è che il semplice sforzo di meglio identificare le funzioni all'interno del ministero. Da questo punto di vista, è davvero stupefacente l'atteggiamento di chi vede il passaggio di consegne di un museo statale dalla soprintendenza a un altro ufficio dello Stato, sempre dentro il ministero e diretto da un ex soprintendente, come la rottura della ricordata simbiosi. Come mai, allora, prima nessuno aveva sollecitato l'espropriazione da parte dello Stato di tutti i musei civici o provinciali per cancellare, in quei casi, la separazione della titolarità di tutela e gestione?

Nessuno nega che la riforma imponga cautela nell'attivare le nuove strutture museali dello Stato, soprattutto nel settore dell'archeologia (basti pensare al rapporto tra le attività di ricerca, scavo, inventariazione, catalogazione ed esposizione dei reperti): ma perché - lasciando da parte personalismi e posizioni fideistiche - quel che spesso ha funzionato senza particolari problemi tra Stato e altre amministrazioni (come nel caso di molti musei civici) non dovrebbe funzionare tra uffici dello stesso ministero?

La riforma, dunque, ha agito lungo due direttrici volte, per un verso, a recuperare il ritardo dell'Italia, rispetto ad altri Paesi, ad avere istituzioni museali statali giuridicamente riconoscibili; per l'altro verso, a garantire - e anzi rafforzare, sia con i poli museali, sia con la recente istituzione di importanti parchi archeologici - la tutela dell'eccezionale legame tra patrimonio culturale e territorio che caratterizza il nostro Paese.

3.2. Una valorizzazione solo economica?

La seconda leggenda è quella che vede la riforma dei musei statali come un piano per "fare cassa", puntando sull'aumento dei visitatori e sulla ricerca di sponsor al fine di incrementare le entrate e usando così il patrimonio culturale per soli fini economici. Tale leggenda ha origini lontane ed è alimentata dal travisamento del significato della funzione di valorizzazione. Quest'ultima, lungi dall'essere riferita (esclusivamente) a una gestione imprenditoriale dei beni culturali, va invece ricondotta direttamente alle finalità di educazione e promozione dello sviluppo della cultura di cui all'articolo 9 Cost.

La riforma dei musei statali, come si è cercato di evidenziare, mira innanzitutto a creare istituzioni in grado di svolgere attività educative, didattiche e di ricerca, di migliorare la conoscenza e la diffusione dei valori culturali trasmessi dal nostro patrimonio e dalle nostre collezioni. Anche i musei dotati di autonomia sono e restano uffici del ministero e l'autonomia è strumentale alla costruzione di una istituzione riconoscibile come tale, anche in termini di accountability.

Il riconoscimento istituzionale dei musei statali è diretto per prima cosa a valorizzarne la missione culturale, come definita dall'Icom, non a potenziare le politiche di marketing e merchandising, su cui il ritardo italiano rispetto agli altri Paesi è, comunque, cronico. Allo stesso tempo, è evidente che l'aver finalmente dotato i musei di autonomia - di pari passo con la riattivazione, mantenendo in capo allo Stato le scelte strategiche di progettazione culturale, delle procedure di gara per l'affidamento dei servizi aggiuntivi - assicurerà anche maggiori entrate. Così come l'agevolazione fiscale per il mecenatismo culturale - il c.d. artbonus - trova più facilmente applicazione quando si tratta di sostenere musei ben individuabili come istituzioni, con un direttore responsabile.

Chi, poi, vede nella riforma una operazione diretta solo a premiare 20-30 istituti a detrimento delle soprintendenze e dei piccoli siti, tralascia dati importanti che rendono arbitraria e parziale questa lettura. In primo luogo, l'attivazione dei 20 e ora 30 istituti autonomi ha generato un significativo incremento di entrate che, tramite un apposito di Fondo di riequilibrio (creato subito dopo la Riforma per mettere insieme una quota, pari al 20 per cento, delle risorse complessive provenienti da bigliettazione), andrà a beneficio di tutti i musei e luoghi della cultura dello Stato. In secondo luogo, la riforma, come si dirà a breve, ha permesso di incrementare le risorse di tutto il ministero. In terzo luogo, gli investimenti sul personale, sul mecenatismo culturale e sulla realizzazione di progetti e interventi di tutela hanno riguardato tutti gli istituti e i luoghi della cultura, nonché le soprintendenze. In quarto luogo, proprio le soprintendenze sono chiamate più di ogni altra struttura a cooperare con Università e scuole in materia di educazione al patrimonio culturale.

3.3. Una riforma senza risorse?

La terza leggenda è quella relativa alle risorse, per cui la riforma - in contraddizione con la critica sopra esposta, quella della ricerca di "fare cassa" - avrebbe preteso di agire a costo zero, anzi riducendo le spese, senza considerare né le condizioni difficili in cui il ministero versava, né lo sforzo organizzativo richiesto per attuare la riforma stessa.

Anche in questo caso la leggenda è il frutto di equivoci e fraintendimenti.

In primo luogo, le condizioni di partenza erano purtroppo note e messe in luce da numerosi studi e rapporti, non ultimo quello della Commissione D'Alberti. Proprio la riorganizzazione avviata nel 2014, tra l'altro, ha finalmente reso possibile, nell'agosto 2015, la distribuzione tra i diversi uffici le dotazioni organiche del ministero, stabilite nel numero nel 2013, con apposito d.p.c.m. attuativo delle misure di spending review (la ridistribuzione, che non avveniva dal 1997, è stata poi nuovamente aggiornata nel settembre 2016).

In secondo luogo, è in realtà vero l'esatto contrario di quanto sostiene il mito della riforma "a costo zero". La riorganizzazione del ministero, introducendo una più chiara distinzione delle funzioni e creando nuove strutture museali, ha consentito al Governo di investire nuove e mirate risorse finanziarie e umane. Per la prima volta, il ministero ha reso evidente, anche sotto il profilo organizzativo, la distribuzione delle funzioni che è chiamato a svolgere. E ciò ha reso possibile ottenere stanziamenti, sia pubblici, sia privati (tramite l'artbonus).

Fino a prima della riforma, si registravano una organizzazione opaca, una duplicazione delle linee di comando e una scarsa o nulla visibilità delle istituzioni museali, il che certo non favoriva finanziamenti.

Vanno invece rammentati i gravi danni prodotti in passato dall'adozione di misure normative di tutela del patrimonio non accompagnata da attente valutazioni circa l'impatto delle funzioni sull'organizzazione: nel 2006-2008, ad esempio, la cospicua ri-attribuzione allo Stato dei compiti di tutela paesaggistica andò di pari passo con tagli al personale e al bilancio del ministero, con il risultato di ingessare le procedure di pianificazione e autorizzazione paesaggistica, rallentando oltremodo l'azione amministrativa e alimentando in misura incontrollata le proteste di cittadini ed enti locali nei confronti delle soprintendenze.

4. I problemi veri (e antichi)

La riforma dei musei statali ha cambiato in modo profondo il ministero, cercando di meglio esplicitare i compiti da svolgere, soprattutto con riguardo alla tutela e alla valorizzazione. In particolare, si è scelto di applicare "una delle regole fondamentali di scienza dell'amministrazione", vale a dire che "i singoli centri organizzativi di cui si compone un apparato abbiano ciascuno una funzione propria, ossia, dal punto di vista delle funzioni, che queste siano assegnate secondo unità di materia ciascuna ad un suo centro di imputazione" [17].

Il tentativo è stato perciò quello di individuare prima le funzioni e poi affidarle a strutture dedicate: si è così deciso di correggere il vizio di origine del ministero per i beni culturali e ambientali, quando nel 1974 all'organo appena istituito furono sì affidate la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, ma senza di fatto modificare la struttura della Direzione per le antichità e belle arti, costruita pressoché esclusivamente per esercitare compiti di conservazione e protezione.

Nel "nuovo" Mibact, se la tutela del patrimonio culturale resta principalmente assegnata alle soprintendenze e alle rispettive Direzioni generali, spetterà ai poli museali, ai musei e alla rispettiva Direzione generale gestire gli istituti e i luoghi della cultura dello Stato e migliorarne la qualità della fruizione.

Mettere in pratica tutto ciò ha richiesto e richiederà ancora nei prossimi anni una complessa operazione di riassegnazione di istituti, edifici, uffici, personale, aree tra le strutture periferiche, operazione che, nel caso dell'archeologia, raggiunge un tasso di complessità elevatissimo (basti citare le aree archeologiche in cui siano in corso scavi).

Ma la cronica inefficienza degli istituti e dei luoghi della cultura italiani ha reso ormai non più procrastinabile un intervento di riforma teso a identificare chiaramente nell'ambito del ministero non solo i compiti e le responsabilità in materia di tutela, ma anche quelli in materia di valorizzazione (quest'ultima nella sua accezione "costituzionale" di promozione dello sviluppo della cultura). Si è sostanzialmente posto rimedio a una delle principali carenze della funzione di valorizzazione, ossia l'essere priva di adeguati "mezzi, istituti e procedure" [18].

Le difficoltà restano quindi numerose. Quella principale è la fatica nel reperire e tenere aggiornati dati sugli uffici, sul personale, sulle risorse. La "inesistenza" giuridica del museo ha reso molto complicato ricostruire per i singoli istituti tutte le informazioni - ed è rimasto sostanzialmente lettera morta il tentativo, avviato nel 2005, di avere meccanismi di censimento e autovalutazione. Il ministero, inoltre, paga almeno un decennio di "maltrattamento" politico, visibile in termini di bilancio (fino alla "ripresa" del 2014), di rapporto tra dirigenti e funzionari e di budget per pagare gli straordinari.

La strada è ancora lunga e la distanza da colmare rispetto alle esperienze internazionali non è poca. La riforma almeno consentirà di avere strutture dedicate al settore museale, con responsabili ben individuati e con la possibilità di avere adeguati meccanismi di valutazione. Mancano però ancora le diverse professioni museali, come già segnalato nell'atto di indirizzo del 2001. Soprattutto, è indispensabile formare e valorizzare lo stanco personale esistente nel ministero (con una età media di 55 anni) e procedere quanto prima anche a nuove assunzioni: altrimenti nessuna riforma potrà andare a buon fine. Proprio la riorganizzazione, del resto, ha permesso di ottenere, in deroga ai rigidi limiti ancora vigenti in materia di assunzione, un piano straordinario per il reclutamento di 500 funzionari, che entreranno in servizio nel gennaio 2017.

Molti dei problemi organizzativi e gestionali che la riforma è chiamata a risolvere, tuttavia, furono affrontati, quasi negli stessi termini, già nel 1940. Stanco dei ritardi incontrati nella riorganizzazione delle soprintendenze avviata del 1939, Giuseppe Bottai emanò una apposita circolare, dettata dalla circostanza che il riordinamento aveva "dato luogo a talune difficoltà di applicazione e a qualche incertezza da seguire circa i criteri da seguire nella ripartizione tra gli Uffici delle competenze [...]; e in special modo sul come considerare quegli interessi e quelle cose che per i loro aspetti molteplici, per la connessione tra loro, per vicende storiche subite incidono sulla competenza di più uffici". In quella occasione, Bottai richiamò "l'attenzione di tutti i capi degli Istituti dipendenti sulla necessità che tra essi [...] sia attuata in ogni caso la più stretta, cordiale e continua collaborazione, specialmente allorché trattasi di questioni che interessino comunque la competenza di più uffici. Questo principio di collaborazione" - visto da Bottai come uno degli elementi caratteristici della legge del 1939 - "va inteso, più come un dovere giuridico, come un impegno morale dei Soprintendenti di affinare, in un convergere di mezzi di competenze e di possibilità, quel primato della conservazione e dell'avvaloramento del patrimonio artistico, che è gloria della nostra Amministrazione" [19].

5. I prossimi passi

Nonostante le non poche difficoltà, dunque, la riforma del 2014 ha segnato un netto cambiamento, ossia quello di dare per la prima volta vita, in Italia, alla istituzione-museo, dotata di un proprio specifico statuto giuridico. Così facendo, il nostro Paese si è allineato, seppur con decenni di ritardo, a quanto avviene nel resto del mondo. Le lamentele provenienti dal contesto internazionale, del resto, erano divenute ormai insostenibili: non vi era alcun coordinamento tra le diverse istituzioni; le richieste di prestito per le stesse opere d'arte provenivano da diversi soggetti; le decisioni sulle relative autorizzazioni subivano molti ritardi e incertezze; nessuno tra i nostri principali musei davvero rappresentato in ambito internazionale.

Quali sono le azioni ancora da intraprendere allora? Sicuramente sono molte. Ve ne sono però forse tre più urgenti delle altre, tutte con obiettivi di medio-lungo periodo, perché solo così sarà possibile davvero cambiare finalmente, in meglio, le cose.

La prima linea di intervento è quella di avviare un'azione sistematica di conservazione programmata del patrimonio culturale, secondo gli insegnamenti di Giovanni Urbani, ricordati prima e più di ogni altro da Bruno Zanardi. Il tragico sisma di agosto e di ottobre 2016 ha, ancora una volta, richiamato l'attenzione sulla necessità e sull'urgenza di agire. Se non ora, quando?

La seconda azione attiene al personale. La situazione è critica, sotto ogni profilo: il dato anagrafico è impietoso, soprattutto per quanto riguarda le cessazioni e il ritardo nel turn-over. Occorrono forze nuove nell'amministrazione, non solo tra i dirigenti - dove la selezione pubblica internazionale ha certamente portato un contributo importante - ma soprattutto tra i funzionari. Non basteranno i 500. Ne occorreranno presto altri, così come servono amministrativi e altri professionisti per aiutare il ministero a tenere il passo con i tempi e rinvigorire le soprintendenze. Bisogna poi dotare gli istituti autonomi di apposite segreterie di staff, dotate di esperti del settore, come già avvenuto con successo a Pompei.

La terza azione, infine, riguarda l'educazione, la formazione e la ricerca. Il ministero ora ha una apposita Direzione generale e una propria Scuola. I musei statali ora esistono come istituzioni, impegnate anche nella didattica e nella ricerca. Qualcosa si è mosso, ma non basta. Bisogna partire dalla scuola primaria, dai bambini, per investire sul futuro del nostro passato.

Come si può notare, queste urgenze vanno ben al di là di una riforma organizzativa, che comunque, osteggiata da miti e leggende, ha compiuto i primi passi nella giusta direzione: ha previsto sin dal 2014 che le Direzioni generali di tutela dovessero dettare indirizzi alle strutture periferiche per la predisposizione di piani di conservazione programmata del patrimonio culturale (funzione espressamente attribuita dal d.m. 27 novembre 2014 e ora assegnata, con il d.m. 23 gennaio 2016, alla Direzione generale Archeologia, belle arti e a paesaggio); ha consentito il reclutamento di personale con numeri che non si vedevano dagli anni Ottanta del XX secolo; ha investito molto sulla formazione e sulla ricerca.

Non rimane allora che proseguire con impegno a lavorare tutti intensamente, favorendo la più ampia "dilatazione di un ceto interessato ai beni culturali" [20]: questo è stato e continua ad essere, in attuazione dell'articolo 9 della Costituzione, il principale obiettivo della riforma del ministero e dei musei statali.

 

Note

[1] Fanno eccezione l'editoriale di M. Cammelli, Problemi, soluzioni, riforme, in Aedon, 2016, 2, così come i numerosi contributi, anche critici, pubblicati nelle medesima Rivista a partire dal 2014: da segnalare inoltre l'iniziativa del Fai, che ha pubblicato on line un Forum sulla Riforma dei Beni culturali.

[2] Si pensi alla annosa questione dei c.d. residui passivi, che ha interessato sia la Corte dei Conti (Relazione sul rendiconto generale dello Stato sull'anno finanziario 2010, pag. 399 ss., Relazione sul rendiconto generale dello Stato sull'anno finanziario 2009, pag. 695 ss., e Relazione sul rendiconto generale dello Stato sull'anno finanziario 2008, pag. 819 ss.), sia la Ragioneria generale dello Stato (Rapporto sulla spesa delle amministrazioni pubbliche 2009, pag. 480 ss.).

[3] G. Bottai, Direttive per la tutela dell'arte antica e moderna (1938), in Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, (a cura di) V. Cazzato, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001, I, pag. 226 ss., qui pag. 234.

[4] G.C. Argan, La crisi dei musei italiani (1957), in Per la salvezza dei beni culturali in Italia, Roma, Colombo, III, pag. 466 ss.

[5] A. Paolucci, Italia, paese del museo diffuso. Pubblico e privato, in La gestione dei musei civici, (a cura di) C. Morigi Govi e A. Mottola Molfino, Torino, Allemandi, 1996, pag. 36.

[6] Proposta di istituzione e di ordinamento dell'amministrazione statale autonoma del patrimonio artistico e storico, presentata il 4 ottobre 1965 alla Commissione Franceschini da Carlo Ludovico Ragghianti (in Per la salvezza dei beni culturali in Italia, cit., II, pag. 881 ss.). All'articolo 26 venivano previsti 30 istituti autonomi: a Torino, il Museo Egizio e la Galleria Sabauda; a Milano, la Pinacoteca di Brera; a Venezia, la Galleria dell'Accademia e il Museo Orientale; ad Aquileia, il Museo e gli scavi; a Bologna, la Pinacoteca Nazionale; a Modena, la Galleria e le collezioni estensi; a Ferrara, il Museo e gli scavi di Spina; a Firenze, il Museo Archeologico, la Galleria degli Uffizi, il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, la Galleria Palatina, il Museo del Bargello e il Museo degli argenti, la Galleria d'arte moderna; a Perugia, la Pinacoteca e il Museo nazionale; a Roma, il Museo preistorico ed etnografico, il Museo Arti e tradizioni popolari, il Foro e il Palatino, il Museo nazionale romano, il Museo d'arte orientale, il Gabinetto nazionale delle stampe, la Galleria Borghese, la Galleria nazionale d'arte antica, la Galleria nazionale d'arte moderna, il Medagliere nazionale; a Ostia, il Museo e gli scavi; a Napoli, il Museo nazionale d'arte antica, il Museo nazionale di Capodimonte e Floridiana; a Pompei, Ercolano e Stabia, gli Scavi e i musei.

[7] Si tratta del d.d.l. A.S. n. 1649 del 2 maggio 1995, recante "Attribuzione dell'autonomia ad alcuni istituti del ministero per i beni culturali e ambientali". Sul punto, si legga anche R. Cecchi, Abecedario. Come proteggere e valorizzare il patrimonio culturale italiano, Milano, Skira, 2015, pagg. 33-34, il quale ricorda anche che in origine le soprintendenze per i poli museali non avrebbero dovuto avere competenze sul territorio, ma solamente sui musei a queste affidati.

[8] Per una comparazione tra le due proposte, presentate tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, si v. D. Jalla, Il museo contemporaneo. Introduzione al nuovo sistema museale italiano, Torino, Utet, 2000, pag. 85 ss. In argomento, si v. anche Amorosino, Il nuovo ordinamento dei musei statali, cit. Sul progetto di legge Chiarante e più in generale sulla sua figura, G. Melis, Un progetto di riforma per il ministero dei beni culturali e ambientali: le idee di Beppe Chiarante, pubblicato sul sito dell'Irpa (www.irpa.eu).

[9] Decreto ministeriale 10 maggio 2001, Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei.

[10] T. Alibrandi e P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, III ed., Milano, Giuffrè, 1995, pag. 177.

[11] Commissione per il rilancio dei beni culturali e del turismo e per la riforma del ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa, la cui relazione finale, del 31 ottobre 2013, è pubblicata in Riv. trim. dir. pubbl., 2014, pag. 161 ss., e in Aedon (la citazione qui riportata è a pagg. 21-22).

[12] "Il Soprintendente fa il travet, con responsabilità di direzione del personale (custodi, ecc.), esposto alle pressioni del pubblico e delle autorità perché egli non applichi le disposizioni che limitano il possesso delle opere d'arte, o la disponibilità di un'area fabbricativa, o non interferisca in un progetto di piano regolatore o di strada turistico-alberghiera, ecc. Accanto a queste preoccupazioni, egli dovrebbe seguitare ad essere uno studioso: redigere cataloghi scientifici delle opere conservate nei musei a lui sottoposti; pubblicare nuove scoperte; disporre e dirigere restauri che presuppongono (o dovrebbero presupporre) una profonda immedesimazione nell'opera d'arte o nel monumento da restaurare; dar vita al museo, alla galleria, con mostre periodiche, conferenze, ecc.": Tavola Rotonda durante i lavori della Commissione parlamentare mista (1957), in Per la salvezza dei beni culturali in Italia, cit., II, pag. 157 ss., qui 163.

[13] Si v. Recommendation on the Protection and Promotion of Museums, approvata il 17 novembre 2015.

[14] Archeologia preventiva poi giustamente difesa dal ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo e la cui disciplina è stata puntualmente riprodotta nel nuovo Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016.

[15] A. Emiliani, Musei e Museologia, in Storia d'Italia, V.2, Torino, Einaudi, 1973, pag. 1617 ss., qui pag. 1632, per il quale tale simbiosi "nasconde qualche dato abbastanza pregevole di officinalità, di contatto con quel tanto di laboratorio e di opera quotidiana che il museo indubbiamente consente ed esprime. Forse, proprio attraverso questa appendice officinale il soprintendente ha saputo, più di altri burocrati, conservare il senso del progetto, dell'opera e del metodo connesso. Risulta sempre difficile, comunque, spiegare agli studiosi stranieri quale sia il legame che consente a un amministratore preoccupato delle cure del territorio, e per di più di un territorio complesso qual è quello italiano, di assumere anche la gestione di un organismo altrettanto difficile e specifico qual è appunto quella del museo pubblico".

[16] Sul punto, M. Ainis, Lo statuto giuridico dei musei, in Riv. trim. dir.pubbl., 1998, pag. 393 ss.

[17] M.S. Giannini, In principio sono le funzioni (1959), ora in Id., Scritti. IV. 1955-1962, Milano, Giuffrè, 2004, pag. 721 ss., qui pag. 723.

[18] S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, pag. 674 ss., qui pag. 675.

[19] Circolare 28 marzo 1940, n. 20/Direzione generale delle arti prot. n. 4904, Applicazione della legge 22 maggio 1939, n. 823, in Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., II, pag. 657 ss.

[20] M.S. Giannini, Uomini, leggi e beni culturali (1971), ora in Id., Scritti, VI, Milano, Giuffrè, 2005, pag. 281 ss, qui pag. 285.

 

 



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