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Un nuovo indirizzo giurisprudenziale per superare le difficoltà
nell'attuazione del Titolo V in materia di beni culturali?
(Nota a sentenza 26/2004)

di Dario Nardella



La sentenza 19 dicembre-20 gennaio 2004, n. 26, affronta alcune questioni nodali relative alla difficile attuazione del Titolo V della Costituzione nel campo dei beni culturali. Quella in commento fa seguito ad altre importanti pronunce (sent. n. 94 del 2003 e sent. n. 9 del 2004) con le quali la Consulta ha solo cominciato l'opera di interpretazione del nuovo riparto di competenze normative tra Stato e regioni individuato dall'art. 117 Cost., nel tentativo di dipanare l'intreccio di quesiti quali la definizione dei confini delle materie "tutela" e "valorizzazione", l'evoluzione del concetto di "bene culturale", il rapporto tra il nuovo assetto costituzionale di competenze e la legislazione ordinaria previgente. Accanto a tali problemi, con l'ultima decisione, essa si trova a fronteggiare l'ulteriore duplice questione dell'incidenza del regime proprietario del bene culturale sul riparto di funzioni normative e del rapporto tra queste ultime e le funzioni amministrative tenuto conto del contesto rinnovato in cui, come noto, è stato cancellato il criterio del cd. "parallelismo".

La dottrina è pressoché unanime nel considerare che la riforma costituzionale, per quel che concerne i beni culturali, risenta del vizio di fondo derivante dalla dicotomia tra "tutela" e "valorizzazione", al punto da farne oggetto di due diversi assetti di competenze legislative - rispettivamente, potestà esclusiva statale e potestà concorrente - con ciò rompendo quella filiera tipica delle politiche culturali, fondata su un continuum che non ammette confini netti tra il momento della conservazione del bene e il momento del suo godimento. In effetti l'art. 117 Cost. trae ispirazione dalla legislazione previgente e segnatamente dal d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, che ha declinato i diversi tipi di intervento sul patrimonio culturale mediante la distinzione delle funzioni di "tutela", "valorizzazione" e "gestione", accompagnate dalle rispettive definizioni (art. 148) [1]. Così facendo il legislatore costituzionale del 2001 ha però trascurato il portato di ambiguità che scaturiva dalla stessa disciplina del citato decreto, il quale non solo non è riuscito a chiarire sufficientemente i confini delle materie, ma al contrario ha dato vita, come noto, a sovrapposizioni semantiche e a talune terminologie indefinite [2]. Inoltre, pare, a risultati non del tutto risolutivi ha portato lo stesso codice dei beni culturali e del paesaggio (emanato successivamente alla sentenza in esame), nonostante taluni suoi articoli, nel definire le varie funzioni, abbiano segnato una certa discontinuità con il d.lg. n. 112/1998 (i cui artt. 148, 150, 152 e 153 sono stati abrogati dal codice).

Quanto alla nuova interazione tra competenze normative e competenze amministrative derivante dal rapporto tra art. 117 e art. 118 Cost., fin dall'inizio si è palesata la difficoltà di un'applicazione pedissequa della rottura del cd. "parallelismo": ci si è chiesti, infatti, se, in tema di valorizzazione dei beni culturali o promozione e organizzazione di attività culturali, lo Stato avrebbe mai potuto rinunciare ad emanare norme legislative di dettaglio o atti di natura regolamentare in settori in cui già esercitasse le corrispondenti funzioni amministrative [3]. Così come, a fronte della totale attribuzione della disciplina normativa della tutela allo Stato, è parso difficilmente realistico anche agli assertori del decentramento, che quest'ultimo avrebbe trasferito con legge alle regioni e agli enti locali le corrispondenti funzioni amministrative. Come a dire che, per la tutela dei più importanti musei statali del paese, lo Stato si sarebbe limitato ad emanare leggi e regolamenti lasciando a Comuni, Province e Regioni la parte esecutivo-amministrativa.

L'ultimo nodo, lasciato irrisolto dal nuovo titolo V della Costituzione, riguarda, come anticipato, la dialettica tra il regime dominicale del bene culturale e il riparto costituzionale delle competenze e, più in generale, il rapporto tra l'oggetto "bene culturale" e le funzioni "tutela" e "valorizzazione". Su questo e sui precedenti profili problematici la recente giurisprudenza costituzionale è riuscita nell'intento di tracciare un percorso interpretativo univoco e articolato su quattro tesi generali: a) l'assunzione del della disciplina legislativa ordinaria emanata a costituzione invariata, ossia d.lg. n. 112/1998, per l'interpretazione della nuova distribuzione costituzionale delle competenze; b) il tentativo di superare la radicalità dell'astratta dicotomia tra "tutela" e "valorizzazione" allo scopo di ridurre l'altrimenti inevitabile conflittualità tra Stato e regioni; c) la tendenza a contenere i margini di manovra della potestà legislativa degli enti territoriali, con ciò sovvertendo l'indirizzo in materia del Consiglio di Stato [4]; d) lo spostamento dell'attenzione dal tipo di intervento al bene oggetto dello stesso [5]. Tutto ciò ha innescato un forte sviluppo degli indirizzi interpretativi della Corte, la quale, soprattutto con la sent. n. 26 del 2004, è approdata ad un'evoluzione, o se vogliamo integrazione, del criterio di riparto di competenze tra Stato e regioni, fondato sulla titolarità del bene culturale pubblico, più che sulla distinzione tra tutela e valorizzazione.

La decisione del giudice costituzionale prende le mosse dalla riunione di più ricorsi, avanzati dalle regioni Toscana, Emilia Romagna, Marche e Umbria, con i quali le ricorrenti hanno sostenuto l'illegittimità costituzionale dell'art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per il 2002) in materia di privatizzazione della gestione dei servizi nel settore dei beni culturali, a integrazione del previgente art. 10 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368. La norma censurata consente infatti al Ministero la facoltà di "dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e alla valorizzazione del patrimonio artistico", secondo modalità e criteri da definirsi mediante regolamento ministeriale il cui contenuto è, nel testo, ampiamente e dettagliamene indicato [6]. I ricorsi in oggetto si concentrano su due profili di illegittimità costituzionale: il primo concerne la materia indicata nella norma impugnata, la cui formulazione, ricavata dall'art. 152 del d.lg. n. 112/1998, a detta delle regioni, farebbe riferimento alla "valorizzazione dei beni culturali", oggetto di competenza legislativa concorrente ex art. 117, comma 3, Cost., in base alla quale lo Stato avrebbe dovuto limitarsi alla disciplina dei principi generali senza spingersi a disciplinare nel dettaglio le modalità e i criteri della citata concessione; il secondo, conseguente al precedente, riguarda l'attribuzione al Ministro del potere di emanare regolamenti nella materia considerata, ai sensi dell'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in violazione di quanto stabilito dall'art. 117, comma 6, Cost., che affida in via esclusiva alle regioni la potestà regolamentare nelle materie cd. "concorrenti".

Il giudice delle leggi affronta a titolo di premessa il problema dell'ambiguità dei "lemmi" impiegati dal legislatore costituzionale del 2001, riferendosi in particolare alla "gestione" e al suo raccordo con la "tutela" e la "valorizzazione". Ambiguità che dal testo costituzionale si riflette nella disposizione impugnata, di talché "non risulta affatto chiaro in che cosa consista l'oggetto della concessione e quali beni culturali riguardi". Il vizio originario che ha evidentemente indotto a tali conclusioni nasce dalla sequenza di formule definitorie contenuta nell'art. 148 del d.lg. n. 112/1998, in cui, come già osservato, il gioco semantico di rimandi e sovrapposizioni ha finito per rendere difficile non solo l'individuazione dei confini tra le singole materie, ma anche la comprensione della loro natura e dei rapporti che tra esse intercorrono. La "gestione" in particolare, è stata più volte oggetto di discussione nella dottrina e nella giurisprudenza, concordi sulla diversa natura che la contraddistingue dalla "tutela" e dalla "valorizzazione" (la prima in rapporto strumentale rispetto alle altre) e, in generale, sulla difficoltà di definirne il contenuto; valutazioni alle quali, invero, non ha giovato la sua omissione dallo stesso testo dell'art. 117 Cost. Così, in certi casi si è considerata la gestione in un collegamento privilegiato, se non esclusivo, con la valorizzazione (sul punto, cfr. il citato parere n. 1794/2002 del Consiglio di Stato), in altri si è voluta sottolineare la condizione di funzione strumentale tanto alla valorizzazione quanto alla tutela (come riportato nello stesso ricorso della regione Marche). Il codice dei beni culturali ne chiarisce definitivamente il concetto, non già fornendone una nuova definizione, bensì riconoscendola quale attività servente alla valorizzazione, come dimostrato dalla collocazione e dal contenuto dell'art. 115 [7].

La Corte costituzionale ha preferito non partire dal tentativo di risolvere il problema della corretta definizione della "gestione", come al contrario era stato fatto dai ricorrenti e in particolare dalle argomentazioni del ricorso della regione Marche, non ritenendolo verosimilmente decisivo ai fini della risoluzione del conflitto sorto sull'art. 33 della legge finanziaria 2002. Essa ha deciso piuttosto di collocare il problema nel quadro della disamina del rapporto tra la riforma costituzionale e il d.lg. n. 112/1998, al cui art. 152 faceva rinvio la stessa norma impugnata ai fini della definizione delle funzioni e dei compiti della valorizzazione dei beni culturali. In particolare il giudice costituzionale riconosce alla "titolarità del bene culturale" il ruolo di criterio-guida nella ripartizione di competenze in materia di valorizzazione, direttamente ricavabile dal cpv. dell'art. 152, laddove attribuisce a Stato, regioni ed enti locali il compito di valorizzare "ciascuno nel proprio ambito" il patrimonio culturale. Suddetta formula, riportata tal quale anche nell'art. 153 relativo alla promozione delle attività culturali è quindi, a giudizio della Corte, oggetto di una "comune interpretazione" che segue un canone di ragionevolezza secondo cui ogni ente si preoccupa di valorizzare il "proprio" bene culturale e non già quello altrui ("nel senso che ciascuno dei predetti enti è competente ad espletare quelle funzioni e quei compiti riguardo ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità"). In tal modo si ricorre ad una fonte normativa previgente di rango ordinario per risolvere un problema interpretativo circa una successiva fonte di rango costituzionale: l'operazione, si afferma, è ascrivibile ad una motivazione di carattere generale ("perché è individuabile una linea di continuità tra la legislazione degli anni 1997-1998, sul conferimento di funzioni alle autonomie locali, e la legge costituzionale n. 3 del 2001") e ad una di natura più pregnante e particolare, fondata sulla valutazione della perdurante validità delle definizioni delle tre "materie-attività" elencate nell'art. 148 del d.lg. 112/1998, tale da implementare anche la cornice semantica dell'art. 117 Cost. D'altro canto, come anticipato, già nella sentenza n. 9 del 2004, il giudice aveva assunto a base normativa di riferimento il predetto decreto, partendo dalle note incertezze riscontrabili in quel testo proprio per affinarne le definizioni (in particolare quelle di "tutela" e "valorizzazione") e argomentare la scelta di aver collocato l'attività di restauro nel solo alveo della tutela ("[...] utili elementi per la distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali possono essere desunti dagli artt. 148, 149, 150 e 152 di tale decreto").

In buona sostanza, se è vero, da un lato, che le attività oggetto di concessione contemplate nel censurato art. 33, siano riferibili (attraverso la gestione) alla materia della "valorizzazione" e, dall'altro, che predetta materia trovi il suo fondamento normativo negli artt. 148 e 152 del d.lg. n. 112/1998, è altresì incontestabile che il criterio da applicare per decidere a chi attribuire i diversi compiti relativi a tale settore non può che essere quello del "ciascuno nel proprio ambito", ossia della titolarità giuridica del bene culturale. E poiché, conclude il giudice costituzionale, le funzioni di valorizzazione contenute nella norma impugnata hanno inequivocabilmente ad oggetto beni di cui lo Stato ha titolarità e gestione, è a quest'ultimo che spetta, in tal caso, la potestà di emanare le leggi, anche di dettaglio, e i regolamenti corrispondenti.

La portata innovativa di siffatta sentenza interpretativa di rigetto pone le basi per il consolidamento di un nuovo indirizzo giurisprudenziale (già in parte rinvenibile nelle altre due pronunce di poco precedenti) che mira ad una sorta di "correzione" del riparto costituzionale di competenze del titolo V, ben distante da una rigorosa interpretazione teoretica dell'art. 117 Cost. e più rispondente al canone della ragionevolezza e della funzionalità, al prezzo di una forte riduzione delle attribuzioni delle regioni nel campo della valorizzazione del patrimonio culturale.

A ben vedere il criterio oggettivo del regime giuridico di proprietà del bene culturale non è nuovo né al legislatore costituzionale, né al dibattito dottrinario. E' infatti utile ricordare che l'attribuzione delle competenze sulla base della titolarità giuridica era già stata all'attenzione della "Commissione Bicamerale D'Alema" istituita nella XIII legislatura, il cui progetto di riforma costituzionale, all'art. 58, ricalcava totalmente il d.lg. n. 112/1998, trattenendo allo Stato tutte le attività inerenti la "tutela dei beni culturali e ambientali" e distribuendo tra Stato e regioni, "ciascuno nel proprio ambito", le potestà legislative in materia di valorizzazione dei beni culturali e promozione e organizzazione di attività.

Più in generale, il criterio del regime dominicale del bene è antecedente anche al principio dell'"interesse locale o nazionale" utilizzato nel previgente art. 117 Cost., tanto che, oggi come allora, si potrebbero muovere alcuni dubbi sulla sua efficacia. In primo luogo, con il principio della titolarità del bene si riproporrebbe uno schema classico basato sullo status proprietario del bene, privo di una visione dinamica o valoriale, ampiamente superato dalle tesi del Giannini (e, prima, di Franceschini), il quale privilegiò il più efficace e innovativo concetto di bene culturale come valore (quella "testimonianza materiale di civiltà") passando dal "bene-oggetto", al "bene-soggetto" [8]. Inoltre, lo spostamento dell'attenzione sulla proprietà pubblica del bene potrebbe riattizzare il dibattito sul concetto del patrimonio nazionale derivante dalla formula del "patrimonio storico artistico della Nazione" di cui all'art. 9 Cost., ponendo in secondo piano le funzioni e quindi le finalità di conservazione e fruizione dello stesso.

Ad ogni modo, al di fuori di osservazioni di carattere teorico, residuano dubbi più puntuali e legati ad una valutazione di fattibilità concreta. In primo luogo, la sostituzione (se di sostituzione si tratta) del criterio delle materie con il criterio della titolarità giuridica induce a chiedersi perché questa non debba valere anche nel campo della tutela dei beni culturali, di talché alle regioni sia ipoteticamente riconosciuta una potestà legislativa concorrente in tale settore per quei beni di cui abbiano la titolarità giuridica. Se così non fosse, avremmo infatti un modello per il quale il criterio della titolarità del bene varrebbe solo in caso di valorizzazione, mentre nella sfera della tutela si continuerebbe ad applicare il principio della ripartizione per materie mantenendo la competenza esclusiva statale. Tuttavia la riflessione dei "considerati in diritto" lascia pensare che la Corte ritenga valida questa seconda lettura, determinando così un saldo negativo per le regioni, tenute fuori dall'esercizio di potestà legislativa nel campo della tutela di beni a loro appartenenti e titolari di una potestà concorrente in materia di valorizzazione di fatto dimezzata. In secondo luogo, non è da dimenticare che la norma impugnata concerne i soli beni culturali pubblici ed è su questo piano che la sentenza si muove: il giudice non si addentra infatti nella problematica del confronto tra la natura pubblica o privata del soggetto che assume l'iniziativa della valorizzazione, né tra la natura pubblica o privata del bene culturale, oggetto dell'intervento. La sentenza non chiarisce, cioè, se debba essere lo Stato o la regione (o entrambe) ad esercitare la competenza normativa nel campo della valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata, oggi espressamente disciplinata all'art. 113 del nuovo codice dei beni culturali [9].

D'altro canto, al netto dei dubbi dianzi manifestati, i possibili scenari alternativi alla lettura proposta nella sentenza - e in ciò si coglie il crisma della ragionevolezza negli argomenti della Corte - non paiono essere più favorevoli alle regioni. In un primo caso, infatti, occorre prendere atto che l'applicazione pedissequa del binomio "tutela versus valorizzazione" costringerebbe legislatore e giudice ad affrontare una faticosa opera di interpretazione e disamina di ogni singola attività, per ricondurla talvolta nell'alveo della tutela, talaltra in quello della valorizzazione, con ciò esasperando le forti conflittualità già in essere tra i diversi livelli istituzionali e contrapponendosi a quell'assunto logico che vede tutela e valorizzazione come funzioni compenetrate e difficilmente separabili, come si afferma altresì nell'art. 6 del nuovo codice dei beni culturali [10]. Un differente scenario potrebbe perfino configurarsi con la riedizione del criterio dell'"interesse nazionale" e "interesse locale" (cfr. in proposito sent. n. 278 del 1991 e sent. n. 339 del 1994), al quale l'interprete tornerebbe comodamente, nascondendosi dietro il concetto dell'"esercizio unitario" delle funzioni o del "patrimonio nazionale", con il risultato di aggirare sì la complicata suddivisione per materie dell'art. 117 Cost., ma in cambio di un modello ancor più scivoloso e certamente più favorevole alle prerogative "centraliste" [11].

Ancora, le conclusioni cui giunge la Consulta paiono forse più efficaci se viste nella prospettiva del rapporto tra esercizio delle funzioni amministrative ed esercizio delle funzioni normative. La sentenza, pur non analizzando quest'ultimo aspetto, è improntata su una valutazione decisamente non "euclidea" della norma costituzionale relativa al riparto di attribuzioni, il che, da un punto di vista più generale, mette in discussione la regola del rigido ribaltamento del cd. "parallelismo", aprendo ad opzioni più graduate e legate alla realtà del modello organizzativo ministeriale ancora fortemente accentrato. Infatti, è forse da escludere in radice che lo Stato non possa emanare norme legislative di dettaglio o atti regolamentari in materia di valorizzazione con riferimento a beni culturali di cui abbia la titolarità giuridica e sui quali già eserciti, in forza del principio di sussidiarietà, le relative funzioni amministrative? E, al contrario, è ipotizzabile che le regioni possano disciplinare con proprie leggi o con regolamenti la valorizzazione di beni statali imponendo alle strutture ministeriali come le soprintendenze le modalità e i criteri di intervento sugli stessi? Non è un caso che già in altre pronunce la Corte si sia posto il problema di recuperare il collegamento tra la sfera amministrativa e quella normativa partendo da osservazioni di carattere pratico e non per questo meno corrette [12]. Come abbiamo visto, in risposta a tali implicite problematiche il giudice delle leggi ha assunto come parametro di riferimento il d.lg. n. 112/1998 dal quale ha tratto il principio del "ciascuno nel proprio ambito" come chiave di lettura dell'assetto di competenze del titolo V Cost. Ad essa, inoltre, pare essersi conformato lo stesso codice dei beni culturali, il quale, non a caso, stabilisce, all'art. 112 ("Valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica"), che "la legislazione regionale disciplina la valorizzazione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente" [13].

In conclusione, se dunque il quadro di riferimento per la distribuzione delle competenze legislative tra Stato e regioni in materia di valorizzazione dei beni culturali si completa con le norme del nuovo codice, diviene allora chiara la portata innovativa della sentenza in commento, tale da segnare un nuovo criterio di riparto a integrazione di quello letteralmente individuato nell'art. 117 Cost. Sullo sfondo, residua però la preoccupazione che siano solo le regioni a sopportare il costo di una siffatta scelta. Ciò soprattutto in virtù del fatto che un approccio "funzionalistico", che parta dalle competenze amministrative per procedere a ritroso nell'individuazione di quelle normative, rischia di emarginare ancor più il ruolo degli enti territoriali in un quadro di forte centralizzazione della pubblica amministrazione quale quello che ci è consegnato dalla recente riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3) [14]. In tal caso, infatti, al di là dei numerosi e ampi rinvii a successivi atti di riorganizzazione, il citato decreto disegna nuovamente un apparato ministeriale accentrato e appesantito, anche nell'articolazione territoriale (si pensi al ruolo rafforzato delle soprintendenze regionali, ora direzioni regionali). Dunque, affinché il nuovo indirizzo interpretativo del riparto entri in armonia con la densa dialettica tra Stato e regioni, senza dare adito ad ulteriori scontri, occorre, ad avviso di chi commenta, concentrare gli sforzi su due aspetti. Da un lato sarebbe utile procedere nel conferimento di ulteriori funzioni amministrative alle regioni e agli enti locali avviato con le leggi Bassanini, a cominciare dalla valorizzazione e dalla gestione dei beni culturali, nel rispetto dei principi fissati dall'art. 118 Cost. così da bilanciare i rapporti di forza tra Stato, regioni ed enti locali sotto il profilo amministrativo. Se consideriamo che le soprintendenze di settore ancora oggi svolgono numerose funzioni del tutto svincolate dall'aspetto conservativo, come la promozione di attività connesse alla valorizzazione dei beni culturali (mostre, eventi, iniziative di comunicazione e marketing, ecc.), ci rendiamo conto di quali e quanti siano ancora i margini di recupero su questo piano. Dall'altro, il superamento della dicotomia tra tutela e valorizzazione e della rigida rottura del parallelismo tra funzioni ha come punto di caduta il rafforzamento degli strumenti di cooperazione tra i diversi livelli istituzionali. E' questo il principio che si ricava sia dall'art. 118, comma 3, Cost. in cui si prevede espressamente che la legge statale disciplini "forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali", in piena sintonia con la logica del "compito comune" di cui all'art. 9 Cost. e in risposta all'esigenza che le funzioni di "tutela" e "valorizzazione" siano esercitate armonicamente attraverso il coordinamento dei soggetti che ne siano rispettivamente titolari, ammettendo fisiologici e reciproci sconfinamenti; sia alla luce del nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio, il cui art. 5 prevede la cooperazione tra regioni, enti locali e Ministero, nell'esercizio delle funzioni di tutela dei beni culturali, con l'ausilio di specifici accordi o intese previamente decisi in sede di "Conferenza Stato-regioni" [15]. D'altro canto lo stesso art. 154 del d.lg. n. 112/1998, non abrogato dal codice, individua nelle ormai tristemente note commissioni paritetiche degli strumenti tuttora efficaci per l'implementazione degli indirizzi di cooperazione fissati dal legislatore sia ordinario che costituzionale, ancorché trascurati proprio da coloro che hanno il compito di attivarli. Sta dunque alle rispettive sedi istituzionali fare tesoro dei nuovi indirizzi giurisprudenziali e dare spazio alla concretizzazione di un modello cooperativo in cui il rispetto delle prerogative di ciascuno non sia vissuto come strumento di rivendicazione e scontro. Nel caso dei beni culturali, che costituiscono un unicum, nel quadro dei settori di interesse pubblico toccati dal titolo V, si tratta, come è nelle intenzioni della Corte costituzionale, di passare attraverso quello stretto sentiero che conferisce alla riforma costituzionale un assetto più flessibile, dinamico e cooperativo. Un modello basato su criteri più chiari, come quello del regime proprietario del bene, e su un'attuazione graduale dei principi contenuti negli artt. 117 e 118 Cost. piuttosto che su strappi interpretativi che colliderebbero con la realtà dei rapporti attuali di forza nella pubblica amministrazione, senza con ciò rinunciare a volerli modificare come è nello spirito della riforma costituzionale del 2001.

 



Note

[1] Così ha osservato la Corte già nelle sentenze n. 94 del 2003 e n. 9 del 2004.

[2] Per una sintesi delle posizioni dottrinarie sulle definizioni delle materie contenute nel d.lg. 112/1998, cfr. Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2003, 57-58.

[3] Sul punto sia concesso rinviare a D. Nardella, I beni e le attività culturali tra Stato e Regioni e la riforma del Titolo V della Costituzione, in Diritto pubblico, 2002, 690-691.

[4] Ad. gen., 26 agosto 2002, n. 1794, Parere sullo schema di regolamento recante disposizioni concernenti la costituzione e la partecipazione a società da parte del Ministero per i beni e le attività culturali a norma dell'art. 10 del d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368 e succ. mod.

[5] Su quest'ultimo punto, in particolare, cfr. A. Poggi, Verso una definizione aperta di "bene culturale"? (a proposito della sentenza n. 94/2003 della Corte costituzionale), in Aedon, n. 1/2003.

[6] Per una disamina dei contenuti dei ricorsi delle quattro regioni, sia concesso rinviare a D. Nardella, L'art. 33 della finanziaria 2002 davanti alla Corte costituzionale, in Aedon, n. 1/2002.

[7] Sul punto, v. S. Foà, Forme di gestione (art. 115), in Aedon, n. 1/2004.

[8] In proposito cfr. M.S. Giannini, I beni culturali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1976, 3 ss.

[9] Cfr. G. Piperata, La valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata (art. 113), in Aedon, n. 1/2004.

[10] L'art. 6, infatti, oltre a specificare che nella valorizzazione è compresa la promozione e il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio, aggiunge che "la valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela". Sul punto cfr. C. Barbati, La valorizzazione del patrimonio culturale (art. 6), in Aedon, n. 1/2004.

[11] Su tale criterio, cfr. A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Padova, 1998, 228 ss.

[12] Si veda infatti la sentenza Corte cost. n. 303 del 2003, laddove si propone una sorta di "parallelismo a rovescio" tra funzioni amministrative e potestà legislativa di spettanza statale.

[13] Sul punto cfr. L. Zanetti, La valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica (art. 112), in Aedon, n. 1/2004.

[14] Per un commento della nuova riorganizzazione del Ministero, cfr. M. Cammelli, La riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3), in Aedon, n. 3/2003.

[15] Cfr. G. Pastori, La cooperazione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale (art. 5), in Aedon, n. 1/2004.



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