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Sul disegno di gestire i servizi culturali tramite associazioni e fondazioni

di Guido Franchi Scarselli


Sommario: 1. La riforma dei modelli di gestione dei servizi sociali: premessa. - 2. L’ingannevole portata della nozione di servizio economico "senza rilevanza imprenditoriale". - 3. La perdurante tendenza a privilegiare soluzioni di tipo strutturale. - 4. Le implicazioni connesse all’introduzione dei modelli della associazione e della fondazione nell’impianto dei servizi pubblici locali. - 5. Il modello della fondazione di partecipazione. - 6. Sulla compatibilità dell’ordinamento delle persone collettive del Libro primo all’ordinamento delle autonomie locali.



1. La riforma dei modelli di gestione dei servizi sociali: premessa

In tema di servizi pubblici locali l’assetto di quelli sociali soffre, più di quelli industriali, della corrente fase di transizione dal modello di stato sociale a quello del mercato unico. La progressiva e pur discontinua affermazione dei principi di privatizzazione e concorrenza ha infatti eroso lo spazio offerto alla disciplina interna dei servizi economici che viceversa lascia tuttora apparentemente intatti nel versante di quelli sociali.

Malgrado si riveli tuttora poco nitido, l’orizzonte sulla riserva di amministrazione interna nel campo dei servizi sociali non si mostra peraltro privo di limiti, sia pure più di principio e programmatici che non derivanti da regole produttive di vincoli giuridicamente diretti: va dunque colta sapendola limitata nel tempo in quanto finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo di realizzare il superamento del modello dello Stato interventista; e tenendo conto che la protezione dalle regole sulla concorrenza si giustifica per la ragione di colmare il "ritardo" che, segnando il divario oggi esistente nello sviluppo di regioni o società locali, ancora impedisce l’integrale coesione economico-sociale di domani. Più radicalmente, essa muove dalla complessiva esigenza di fornire agli individui più deboli "le risorse necessarie" per saperli inclusi nel grande mercato nel più breve tempo possibile [1].

Del resto, anche i servizi sociali rientrano nel novero dei servizi di interesse generale; e dunque, per godere della franchigia all’applicazione dell’art. 86 Tratt., devono possedere un carattere non economico [2]. Ma qui, ad eccezione dei sistemi della scuola dell’obbligo e della previdenza sociale, che vengono espressamente considerati tali (non economici) in un elenco evidentemente solo esemplificativo, il vigente diritto comunitario si astiene dal tracciare una linea che consenta di riconoscere nettamente quanto ricade nell’uno o nell’altro versante, al di là di quanto abbia qualificato il legislatore nazionale. E se una ormai cospicua letteratura ha già elaborato i criteri per valutare ciò che consente ad una attività, pur economica, di sfuggire all’art. 86 cit. [3], rimane viceversa in chiaroscuro la determinazione dei caratteri che deve possedere una attività di servizio di interesse generale per potere essere, più a monte, giuridicamente qualificata economica o meno [4].

Senza avventurarsi in tentativi interpretativi che esulano dalle presenti note (salvo accennare che quei caratteri muovono attorno al dato sostanziale di saperla o meno sottoponibile al mercato in relazione tanto all’interesse o utilità dei suoi percettori quanto alla missione politica dello Stato), interessa qui piuttosto osservare che è rischioso stabilire, anche in carenza di un apparato normativo autoapplicativo, una perfetta simmetria fra la nozione (comunitaria) di servizio economico e quella (interna) di servizio sociale; e per tal via così assumere la generalizzata sottrazione di questi ultimi alle regole comunitarie: essendo di interesse generale, stanno anch’essi nel cono d’ombra della loro influenza [5]. Rimanendo misurabile sotto il duplice profilo della ragionevolezza e della proporzionalità dalla Corte di giustizia, dal potere di intervento della Commissione e della Autorità garante, quel confine è peraltro forse meno elastico di quanto non sembri (come dimostra una recente vicenda proprio in uno di quei due esemplificativi campi materiali che già l’Unione appariva "salvare" [6]) [7].

Ciò nonostante, come dimostra la discussione sul d.d.l. servizi rispetto ai servizi industriali [8], la sistemazione di quelli sociali appare muoversi prescindendo dalla ricerca di qualche parametro più o meno rispettosamente vicino a quei principi, programmi e forse più rigidi vincoli discendenti dal diritto comunitario che si richiamavano. Con l’effetto di marcare in termini difficilmente sostenibili, a fronte di un’osservazione attenta al dato sostanziale, la difforme disciplina che li regola rispetto a quelli industriali o a rete.

 

2. L’ingannevole portata della nozione di servizio economico "senza rilevanza imprenditoriale"

Le ragioni che consentono alla disciplina dei servizi pubblici sociali, e dunque anche culturali, di titolarità locale di rimanere all’estremo margine delle regole di concorrenza derivano, in sintesi, più da ragioni politiche e di fatto che di diritto: in effetti - pur non potendo negare ai caratteri organizzativi tipici ai soggetti gestori dei c.d. servizi alla persona una storia funzionale che da un lato ne rende più lontana la prospettiva di una produzione in termini industriali e dall’altro, conseguentemente, meno vicino un interesse apprensivo del mercato fondato sulla concorrenza - è però vero che anche questa teoria, cara al mondo cooperativo e in genere al terzo settore, mostra i primi segnali di cedimento [9]: nel prendere atto delle recenti, cospicue acquisizioni di farmacie comunali da parte di società estere non è nemmeno possibile negare che ad es. la gestione di strutture pubbliche per anziani, evidentemente svolta con criteri imprenditoriali, possa a breve sollecitare l’interesse del mercato comunitario e dunque la doverosa opportunità di saperla affidata alle sue regole.

Del resto, anche in materia di servizi sociali non è difficile distinguere fra situazioni le quali, avendo tutte carattere economico (secondo la teoria economica), implicano gestioni di carattere imprenditoriale da quelle che invece ne prescindono per loro natura; la portata giuridica di quell’attitudine imprenditoriale implica dunque letture differenziate rispetto alla interpretazione corrente negli anni ‘90. La sintesi lampante di questa latente contraddizione è offerta nel d.d.l. servizi, ove si prevede per un lato che il modello dell’istituzione "è limitato ai spl ... senza rilevanza imprenditoriale" e per l’altro che la riforma della sua disciplina consiste nell’attribuirgli il medesimo statuto giuridico proprio del recessivo modello dell’azienda speciale, notoriamente applicabile ai soli servizi aventi carattere imprenditoriale (v. art. 114, commi 3 e 4). Né del resto mancano diverse esperienze ove la gestione di servizi formalmente sociali è già stata attribuita, sia per lo più quale ramo secondario [10], all’azione di aziende speciali e consorzi (aziendali).

I segni di resistenza all’ingresso della concorrenza in questo settore percorrono la più recente legislazione di riforma dei servizi sociali e, come noto, sono per lo più affidati al discutibile istituto del convenzionamento diretto fra l’ente titolare e il soggetto gestore.

Non essendo peraltro questo il versante su cui interessa ora soffermarsi, sembra utile riconoscere quale punto di avvio alla presente riflessione l’insufficienza della comune nozione di servizi sociali nella prospettiva recata dagli artt. 22 e 23, l. 142/1990 e dai progetti per la loro riforma, a cui corrisponde specularmente la diffusa percezione sulla inidoneità dei vigenti modelli per gestirli. E’ infatti noto che in questi primi dieci anni i servizi sociali sono stati in larghissima maggioranza gestiti in economia (anche se di rilevante dimensione) ovvero direttamente appaltati a terzi (quand’anche ammettevano gestioni pubbliche ai sensi della legge 142).

Per analoghe ragioni ma, come vedremo subito, nella prospettiva di risolverle con soluzioni tecnico-gestionali parzialmente difformi, la tensione alla fuga dalla disciplina dei spl coinvolge certo anche il campo dei servizi culturali. L’intimo legame che unisce la nozione di spl al dato organizzativo deputato a gestirlo peraltro richiede, prima di passare ad analizzare distintamente quelle soluzioni, un’ulteriore annotazione, ancora riferita al più ampio e indistinto settore dei servizi sociali (cui essi sono finora aggregati in toto e rimarranno comunque aggregati per molti aspetti anche laddove quelle innovazioni fossero poi accolte).

E cioè prendere atto, in sintesi, che la sensazione di inadeguatezza dei vigenti modelli gestionali deriva dallo scarto fra la strutturazione che implica la loro costituzione e la natura (politicamente) sociale e dunque finanziariamente condizionata delle prestazioni loro attribuite. L’ipotesi da risolvere consiste allora nella ricerca di modelli, sufficientemente flessibili, che attenuino il timore della prima in ragione della seconda, senza per questo - diremmo ancora - sacrificare del tutto la proiezione finalistica del 1990 sul rapporto distintivo fra un spl ed una mera attività economica di interesse pubblico (a maggior ragione, come si comprende, proprio nel campo dei servizi materialmente sociali).

Di tale ipotesi, come si diceva, non sembra peraltro tenere conto l’annoso disegno di legge di riforma. Anzi, se per un verso sono piuttosto evidenti le ragioni nel cui nome il parlamento fatica a trovare consenso circa la riforma della regolazione dei servizi industriali per l’altro riluce la pressoché totale assenza di ogni fermento e dibattito circa quelli sociali (dentro e fuori dall’aula). E ciò malgrado sia chiaro, a tacer d’altro, che la spesa per la loro erogazione costituisce una componente rilevante del bilancio locale e che questa, anche in attuazione della recente riforma dell’assistenza, non solo tenderà a crescere ma che dal suo uso, più che in passato, risalirà una buona parte della stessa legittimazione politica degli enti locali [11].

La sensazione di una diffusa irrilevanza rispetto alla riforma della configurazione dei modelli dedicati a quei servizi non può dunque veramente non discendere se non dall’aspettativa di saperli, fin d’ora, in larga misura disapplicabili: e cioè dalla sostanziale garanzia confidata dalla l. 8 novembre 2000, n. 328 di vedere gli attori specie del non profit direttamente compartecipati agli enti titolari del servizio nella loro erogazione (entro un quadro giuridico di interdipendenza funzionale sulla cui formalizzazione sono invece certamente puntati molti occhi e pressioni). La minore incidenza del terzo settore in campo culturale spiega invece perché, al suo esclusivo riguardo, si stiano rincorrendo soluzioni idonee alla sua sistemazione già all’interno di questo disegno di legge (sia pure utilizzando l’istituto cardine di quel medesimo quadro, e cioè il convenzionamento diretto).

Nella sua più recente stesura si nota infatti una significativa novità: oltre ai modelli per così dire tradizionali si propone di disporre che "limitatamente ai servizi a carattere culturale (essi siano esercitati) con affidamento diretto ad associazioni o fondazioni che, per la loro disciplina statutaria, garantiscono partecipazione, imparzialità e trasparenza nella gestione del servizio" (art. 113, comma 1, lett. d)).

Si tratta allora di verificare se tale disegno corrisponde a quell’ipotesi di lavoro in termini, ex se e in relationem all’ordinamento delle autonomie, validi e coerenti alla prospettiva di risultato che propone di soddisfare.

 

3. La perdurante tendenza a privilegiare soluzioni di tipo strutturale

Se più sopra si accennava di ritenere opportuno distinguere meglio l’oggetto della gestione dei servizi sociali, non si pensava alla loro tipologia materiale (del resto per lo più individuata dal d.lg. 112/1998 e altre discipline di settore) bensì al diverso carattere economico che taluni di loro ammettono rispetto agli altri. Per meglio dire, in coerenza all’evoluzione tanto del diritto comunitario che ad es. del diritto sanitario interno, e sia pure rispettando l’autonoma prospettiva funzionale ricercata dal singolo ente, è sicuramente errato, rispetto alla l. 142, scambiare una soggettiva qualificazione di natura politico-organizzatoria (la prestazione di un servizio tramite un’organizzazione non imprenditoriale) con una esclusivamente descrittiva (i servizi sociali in quanto servizi alla persona). Nella prassi si tende invece a stabilire questa equazione, accogliendo per lo più sospinti dalla consuetudine soluzioni gestionali poco efficienti: d’altra parte, la gran parte dei soggetti del terzo settore che si candidano, anche quali Onlus, alla loro gestione operano in forma imprenditoriale.

In questo senso la distinzione eseguita dal d.d.l. in esame fra servizi sociali e culturali solleva il dubbio di vedere svolto un passo indietro rispetto all’impostazione del 1990: sembra infatti chiaro che così disponendo si recupera quel più rigido criterio oggettivo (o materiale) che la legge 142 aveva inteso superare nel rispetto delle autonomie: per il Legislatore del 2000 sono sociali o culturali i servizi di competenza locale definiti tali direttamente dalla legge.

La derivazione sociologica e positivista della nozione di servizio sociale, in effetti ampiamente affermatasi negli ultimi anni, non riesce peraltro a spiegare con sufficiente chiarezza le ragioni sulla cui base si prevede di limitare l’utilizzo di quei modelli privatistici ai soli servizi culturali [12]. Se certo non è l’intento di richiamare la classificazione del d.lg. 112 che muove il Legislatore (non venendo considerate le sue ulteriori classificazioni), è lecito concludere che tale previsione vada colta in una esclusiva connessione a ciò che si reputa possano esprimere, "in più", quei particolari modelli (rispetto, sembra chiaro, ad un coinvolgimento del privato ritenuto viceversa improponibile nel campo dei servizi materialmente sociali). L’interpretazione critica della presente novella va dunque concentrata su quei modelli e sulla loro applicabilità all’ordinamento delle autonomie locali.

Sullo sfondo, si consenta peraltro di nutrire qualche perplessità intorno alla perdurante credenza di riuscire a risolvere ogni nodo organizzativo (per lo più) connesso a risalenti assetti burocratici dividendo se non proprio "scaricando" l’unitarietà del governo locale in una pluralità di strutture esterne (personificate), solitamente care, di arduo controllo e alla lunga tendenzialmente vocate alla autoreferenzialità. Né può infine evitarsi di chiedere a quale risultato abbia condotto la riforma del d.lg. 29/1993 se gli enti locali, pur alla base dell’ordinamento, più che ragionare in termini di funzioni si fanno essi stessi attori di un loro particolare plurimorfismo (come del resto dimostra bene anche la vicenda delle unioni di comuni, che da enti appropriatamente provvisori sono stati immancabilmente stabilizzati, con l’effetto di moltiplicare anziché auspicabilmente ridurre i livelli del governo locale).

Se questi sono i percorsi di soluzione ad una realtà locale soffocata dalla spesa vincolata (solo due anni si accennava che quella disponibile faticava a raggiungere il dieci per cento del bilancio; oggi invece diremmo, soprattutto per effetto dell’applicazione del nuovo contratto di lavoro e del nuovo regime delle indennità agli amministratori, che essa si è azzerata), non crediamo di azzardare se li vediamo diretti al risultato di incrinare l’ammontare dei beni e dunque il patrimonio degli enti locali; ma anche di pregiudicare la futura capacità di selezione fra gli interessi in gioco. In questi ultimi anni si stanno alienando le farmacie e gli immobili disponibili. In futuro le collezioni e le raccolte museali?

Ma ciò è abbastanza noto, e ne abbiamo comunque già riferito [13], volendosi qui solo esprimere il dubbio che l’opzione di ricorrere ai modelli delle associazioni e delle fondazioni per la gestione di spl risulti, al di là delle loro proprie intrinseche caratteristiche, funzionale alla risoluzione dell’insieme degli attuali problemi, giuridici e non, dell’ente locale.

 

4. Le implicazioni connesse all’introduzione dei modelli della associazione e della fondazione nell’impianto dei servizi pubblici locali

Rimane peraltro vero che fra i diversi percorsi rivolti a promuovere la cultura si osservano già da qualche tempo utilizzati dagli enti locali proprio quei modelli e, in particolare, quello della fondazione. Ma non tanto nella configurazione tipica di cui agli artt. 12 ss. c.c., bensì in quella, innovativa e atipica, della fondazione di partecipazione. Se la sua rapida diffusione ne attesta l’aspettativa di efficacia, o comunque la preferenza rispetto ad altri modelli tipici, pubblici e privati, al punto di trovare un esplicito richiamo nel d.d.l. servizi (laddove si afferma che "garantiscono partecipazione"), diviene allora interessante cercare di cogliere le ragioni che la sostengono e che ne stanno decretando il suo attuale, crescente successo [14].

La ragione per cui vale la pena concentrare l’attenzione su questo specifico strumento e non piuttosto, come sembrerebbe evocare la lettera dell’emendamento al d.d.l. servizi, sui due distinti istituti della associazione e della fondazione [15], si comprenderà meglio più sotto (al par. n. 5). I modelli gestionali evocati da quel disegno sono cioè in realtà (almeno) tre: due tipici ed uno atipico. Con questo non neghiamo che occorra dedicare anche ai primi due, benché tipici, una analisi dedicata [16], ma il carattere sintetico di queste note lo impedisce restando comunque a nostro avviso valide anche al loro riguardo talune osservazioni che si riferiranno in specifico alla figura della fondazione di partecipazione. Di cui, per cogliere la portata che spiega nel sistema gestionale dei spl, è utile innanzitutto mettere in luce i caratteri distintivi rispetto ai modelli pubblici.

4.1. Segue: in rapporto al modello della istituzione

Accanto al residuale modello della gestione in economia, l’effetto dell’innovazione proposta consiste nell’ammettere al caso dei servizi pubblici socio-locali "di carattere culturale" la scelta fra il modello pubblico della istituzione e quelli privati testé accennati. Risultando palese che è una finalità della riforma marcare la negazione di ogni residua neutralità fra le forme giuridiche tipizzate, occorre innanzitutto capire quali sono le caratterizzazioni causali che connotano quelle due diverse fattispecie gestionali (sempre alla luce del d.d.l. servizi).

Una prima differenza, invero meno sottile di quanto non possa sembrare, è legata al fatto che l’istituzione presuppone di gestire dei servizi "senza rilevanza imprenditoriale" mentre il ricorso agli enti collettivi del Libro primo del codice implica il rispetto della configurazione loro distintamente propria; la quale consiste unitariamente nello scopo non economico o ideale ovvero non di lucro o non patrimoniale o ancora, meglio, di utilità sociale che sono chiamati a perseguire.

Si tratta, però, di due caratteri difformi l’uno dall’altro posto che il primo si riferisce alla attività quando il secondo riguarda invece il fine. E nella soddisfazione di quest’ultimo deriva, per opinione del tutto maggioritaria [17], che gli enti collettivi di cui si tratta risultano ammessi a esercitare non solo un’attività economica ma anche di impresa in senso tecnico [18] (pur nel limite di saperla finalizzata al perseguimento dello scopo fondazionale).

Riservandoci di tornare più oltre sulla portata di tale implicazione (sulla quale poggia, come si diceva, la costruzione dommatica del non profit), interessa ora osservare che nella scelta fra la via dell’istituzione e quella degli enti morali si viene così ad insinuare una caratterizzazione di non poco conto, tanto per il diritto pubblico che per quello privato, con riguardo alla natura dell’attività gestionale che un ente locale intenda attribuire ai propri servizi culturali: se per il diritto privato la nozione di attività economica è connessa a quella di impresa, per quello pubblico (tratto dalla legge 142) tale medesima connessione implica la rinuncia all’adozione del modello dell’istituzione [19].

Oltre a confermare la mancata neutralità dei modelli giuridici e la conseguente offerta all’operatore pubblico locale di percorsi gestionali fortemente differenziati, a ciò seguono dei corollari altrettanto marcati. Forse troppo.

Mediante quei modelli privati, anche lasciando da parte le compatibilità con il diritto comunitario nel vedere un ente pubblico esercitare quei propri servizi che ammettono un’attività economica o d’impresa al di fuori delle regole sulla concorrenza (tramite il convenzionamento diretto), per il diritto delle autonomie locali quei corollari consistono infatti nel vederle subire una radicale sottoesposizione dei meccanismi di disciplina della loro propria potestà regolativa.

Anche questo dato si chiarisce meglio ove lo si confronti con lo statuto della istituzione. Se ora si dispone che essa debba godere di autonomia gestionale (art. 23, comma 2) nel quadro di un rapporto di stretta strumentalità all’interesse dell’ente da cui deriva la sua (mera) soggettività giuridica, nel d.d.l. servizi si afferma che all’acquisizione della autonoma personalità corrisponde, fra l’altro, l’uso "per quanto compatibili, delle disposizioni del Libro quinto del codice civile". Non di meno, ed è questo il punto, il rinvio alla disciplina delle imprese accanto a quella generica compatibilità deve in ogni caso soddisfare - oltre ai generici principi e regole generali comuni a tutti i gestori di cui all’art. 113-bis, comma 1, sulla potestà tariffaria, la continuità e l’universalità del servizio ecc.) - una serie penetrante di puntuali condizionamenti atti a marcare la pretesa che l’istituzione-persona rimanga ente strumentale dell’ente locale: all’art. 114 d.d.l. servizi, si dispone infatti che l’Ente ne "approva i programmi, i bilanci e il conto consuntivo, verifica i risultati della gestione".

In breve, il rinvio al Libro quinto riguarda (talune) modalità di esecuzione dell’attività esterna dell’istituzione rimanendo strettamente e tipicamente ancorate agli strumenti del diritto pubblico le fondamentali leve di quella per così dire interna, di relazione con l’ente titolare, ad incominciare dal consenso sulle sue ipotesi di programma di attività. E ciò si spiega facilmente considerando che l’istituzione vivrà, in una parte solitamente ed ammissibilmente preponderante, di risorse derivate da quell’ente (cui dunque residua, anno dopo anno, la responsabilità istituzionale alla determinazione del loro ammontare e quindi all’impostazione delle linee di loro impiego ecc. entro un quadro di rapporti ispirato al principio della riserva di regolazione in capo al soggetto titolare del servizio).

Orbene, tutto ciò risulta completamente eliminato, essendone istituzionalmente incompatibile, laddove ci si sposti ai modelli associativi del Libro primo: quelle prerogative vengono infatti risolte nella pretesa che i loro statuti garantiscano "partecipazione, imparzialità e trasparenza nella gestione del servizio". Molto di più non si poteva in effetti aggiungere senza correre il preciso limite di invadere l’autonomia, tutelata dal codice civile, di quelle persone private (o, meglio, senza configurarle in fondazioni di diritto speciale [20]). E si noti che qui non è nemmeno richiesto di stipulare quel contratto di servizio invece obbligatorio per gli altri modelli ad eccezione di quello in economia (art. 113-bis, comma 1) [21].

Da ciò, e con l’approccio della cultura pubblicista, troviamo conferma che quei due modelli muovono secondo logiche opposte (non solo in ragione di una più o meno ampia fruizione del diritto privato, ma soprattutto) perché lo scopo o fine di utilità sociale delle persone collettive non implica, ma anzi respinge, il fine di interesse pubblico che integra la nozione di spl e dunque giustifica la penetrante potestà regolativa richiesta nell’agire delle istituzioni (come del resto, pur in difforme intensità, anche degli altri modelli della legge 142).

4.2. Segue: in rapporto alla teoria c.d. soggettiva

Se lo scarto istituzionale fra i due modelli in comparazione è dunque molto ampio, non può non sollevare perplessità la loro fungibilità, e cioè la libertà di scelta che il disegno riserva in capo all’ente locale. Per meglio dire, posto che il ricorso alle persone collettive conduce alla sostanziale depubblicizzazione della disciplina di regolazione del servizio (qui resa tramite amministratori di nomina sindacale o presidenziale, sulla base di private scelte statutarie), a noi sembra che ciò ne determini una implicita, ma sostanziale dequalificazione dal rango di pubblico locale, ora sanzionabile in via giurisdizionale (e cioè fino a quando non fosse emanato il d.d.l. servizi); nonché una situazione incompatibile al loro finanziamento pubblico in via corrente da parte dell’ente locale (se non ricorrendo al rispetto del proprio regolamento sulle sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari ex art. 12, legge 241/1990; il quale, come noto, svolge altre funzioni e comunque, anche per la sua capienza, non risolve il tema all’oggetto). Come si riprenderà più sotto, l’introduzione di questi modelli conduce a ribaltare l’assetto che ispirava la legge del 1990 e in parte ancora presiede la sua riforma: nel senso che la legge sulle autonomie connette la scelta fra i modelli gestionali al presupposto di avere qualificato una sua data attività spl (in quanto rivolta a realizzare fini sociali ecc. ex art. 22, comma 1) e viceversa in un processo di osmosi; mentre ora, al di là del dato formale (la qualificazione legislativa di considerarli egualmente spl), questa scelta viene innanzitutto spostata dall’asse amministrativo locale direttamente a quello legale (e, si noti, nel solo settore dei servizi culturali); e quindi risolta nello schiacciare l’impronta del fine pubblico-locale alle guarentigie organizzative di soggetti abilitati a perseguire (meri) fini di utilità sociale. Per tal via risulta in effetti arduo continuare a sostenere che l’interesse pubblico connesso ad una data attività la renda spl in quanto gestita tramite uno dei modelli tipici all’ordinamento delle autonomie.

Ora, se è vero che nell’analizzare l’assetto della l. 142/1990 la dottrina ha decisamente rifiutato la tesi che sosteneva (in altri contesti) la natura oggettiva del servizio pubblico e quindi prevalentemente affermato che i suddetti modelli per la loro gestione sono tassativi [22], sembra conseguente riconoscere che il consentire all’ente locale la facoltà di poterli abbandonare mediante lo strumento delle associazioni e delle fondazioni comporti il recupero di quella tesi abbandonata ed il superamento di quella meditata affermazione (in quanto come già detto produce, rispetto alle loro attività che pur sempre rimangono servizi locali, l’effetto di rendere irrilevante la natura del soggetto chiamato a gestirle). Il profilo debole di questa impostazione risiede dunque non tanto o comunque non solo, nello sforzo di i individuare all’interno del codice civile una particolare figura di persona giuridica che mescola i caratteri di associazioni e fondazioni, quanto piuttosto in una poco coerente e troppo radicale sottoesposizione della disciplina di diritto pubblico sulla regolazione positiva dei spl e delle ragioni che tuttora la sostengono. Il passaggio dal pubblico al privato, che nemmeno integra quello fra Stato e mercato, sembra qui veramente troppo brusco!

Alla frattura di un assetto altrimenti unitario (valevole per tutti gli altri servizi e tutti gli altri modelli gestionali), verrebbe cioè a prodursi un sistema misto fra concezioni soggettive (mobili e locali) e oggettive (rigide e centralistiche) produttivo dell’effetto di allontanare l’obiettivo di un governo locale unitario e coerente alla tutela dei propri interessi.

4.3. Segue: un passo verso la frantumazione dell’ordinamento e del governo locale

Con altre parole, la soluzione del d.d.l. servizi porta fuori dalla teoria della disciplina dei spl (determinando, ad esserle coerenti, il carattere spurio dell’emendamento all’interno dal d.d.l. servizi). A questo punto si potrebbe obiettare che nella capacità giuridica dell’ente locale già rientra il potere di ricorrere ai modelli privati per la gestione di attività di interesse pubblico (su cui però, v. infra al par. 6). Che, cioè, un’amministrazione in fondo già poteva ricorrere ai presenti modelli privatistici se solo avesse usato qualche avvertenza per lo più formale nella predisposizione degli atti. L’innovazione legislativa, a questo punto, si risolverebbe in una sorta di semplificazione di quelle avvertenze contestualmente invitando (o dirigendo) le autonomie locali ad adottare quel modello. Ma questa ipotesi non regge di fronte al fatto di vederla limitata ai soli servizi culturali, i quali rimangono pur sempre nel caso di specie, per espressa indicazione legale, spl (anzi, per un certo verso lo sono più di prima in quanto la perfetta identità fra i modelli di associazione e fondazione del disegno servizi da un lato e civilistici dall’altro ne impedisce, in nome di quella teoria, la qualificazione di attività di pubblico interesse organizzata loro tramite: la loro qualificazione soggettiva, da questo punto di vista, diviene irrilevante).

Perché allora introdurre questa novità? A ben vedere, non è evidentemente in gioco una sola questione classificatoria di matrice dottrinale (spl o altra attività di prestazione), ma - si consenta - il rischio di disarticolare l’insieme dei delicati rapporti politici e amministrativi che presiedono la gestione di interessi e risorse pubblici generando un circuito privilegiato, anche rispetto all’evidenza pubblica nella selezione dei programmi e relativi attori, per le attività culturali rispetto al genus di quelle sociali in cui comunque rientrano (al di là del nomen, per lo stringente dato che il loro esercizio rimane in larga parte finanziariamente condizionato dall’impiego di risorse pubbliche). Qui occorre forse eseguire una precisazione: la natura "sociale" di un’attività di servizio, culturale e non, deriva da una precisa scelta, anche se spesso implicata da una situazione di fatto, e cioè dalla volontà di erogare una prestazione economica in termini sociali o antieconomici [23]. Ebbene, già ora nulla vieta all’ente locale che ritenga di volerne o poterne effettuare un’altra (in ragione dell’autonomo andamento finanziario di un suo dato teatro ovvero anche dell’impegno a sostenerlo da parte di altri soggetti privati), di ricorrere allo strumento idoneo a consentirne la gestione imprenditoriale (con un’azienda o un consorzio nel primo caso e con una società nel secondo). E quindi, in breve, di tuffarsi in un diritto essenzialmente privato senza per questo dismettere la propria, irrinunciabile potestà regolativa.

Ma così non accade o è comunque a tal punto raro da risultare - si dirà - non significativo rispetto al compito assunto dalla Repubblica nell’art. 9 Cost. evidentemente fatto proprio dal legislatore della riforma. E ciò è senz’altro vero, se non fosse che la ponderazione di quell’interesse con tutti gli altri in gioco fatica assai, e proprio per istanze costituzionali, a rivelarsi prevalente al punto di attribuire ai servizi culturali la qualità di essere da un lato considerati pur sempre sociali (antieconomici, e dunque a finanza pubblica derivata) e dall’altro gestiti in forma privatistica.

Anche considerando che l’autonomia locale possa in fondo dirsi salva in quanto aperta alla scelta fra l’istituzione e quegli altri modelli (cosa di cui, nei fatti, può dubitarsi), rimane da capire per quale considerazione di merito dovrebbero privilegiarsi questi ultimi. Alla sottrazione dal circuito della regolazione, della trasparenza e dell’evidenza pubblica si giustappongono, sembra evidente, due risultati (che si reputano dunque prevalenti): una gestione più efficace e il coinvolgimento dei privati. Il prezzo da pagare sembra alto, ma è poi sufficientemente affidato da risultati credibili? Se del primo risultato continuiamo a non credere (il diritto pubblico consente amministrazioni più efficaci di quanto non ritenga la cultura privata), del secondo non possiamo invece dire in termini astratti salvo ricordare, se non andiamo errati, che nella gestione del teatro La Scala e in genere delle fondazioni del decreto Veltroni l’apporto privato non si stia dimostrando pari alle aspettative.

Ora, riducendo il campo a situazioni meno impegnative ma anche prestigiose e quindi meno appetibili al privato mecenate, sembra naturale chiedersi quanto concretamente valga l’abdicazione del sistema pubblico: difficile a dirsi e noi comunque non lo sappiamo così come non sappiamo se all’introduzione di questo modello formale si accompagni un qualche documento che ne dimostri le aspettative di successo. Non sembra però casuale che qui, a differenza delle fondazioni di diritto speciale del decreto Veltroni, nemmeno si disponga una soglia di impegno patrimoniale minimo da parte dei privati quale condizione pregiudiziale, rispetto al modello della istituzione, per il ricorso a quelli codicistici (i quali possono dunque risultare costituiti anche da soli soggetti pubblici).

Alla più recente delle esperienze applicative del modello della fondazione di partecipazione, per la gestione delle Civiche scuole di Milano [24], hanno infatti aderito solo la provincia e la regione (rimanendo il comune impegnato a ricorrenti trasferimenti annuali per più di venti miliardi). A quella di Ancona per la gestione del locale teatro e relativa produzione hanno sì aderito quattro soggetti privati, ma per un apporto complessivo rispetto al patrimonio (ed agli impegni collaterali assunti dal comune, che si colgono nella distinzione fra il fondo di dotazione e quello di gestione) relativamente marginali [25]. A quella di Crema, ove pure "partecipano" quattro privati e quasi trecento sostenitori (ma per cento mila lire ciascuno), il loro apporto e quindi il complessivo patrimonio fondazionale sembra altrettanto sottocapitalizzato rispetto agli scopi di rilancio delle attività teatrali da perseguire, cui infatti soccorre l’impegno comunale di trasferimenti annuali di grandezza due volte e mezzo maggiore rispetto al complessivo fondo di dotazione [26]. A Ferrara, dove invece opera una spa (cui peraltro possono qui riferirsi le medesime considerazioni), partecipa un solo privato, ma la passività della gestione pare abbia richiesto al comune di intervenire con rilevanti "trasferimenti" al di fuori di ogni operazione sul capitale. E solamente a Crema, ma sinora per non più di due anni, i soci privati si sono impegnati anche sul fondo di gestione. Né risulta, viceversa, che l’esperienza delle istituzioni museali torinesi, nel cui cda pure siedono esponenti di soggetti privati finanziatori, soffra del proprio regime pubblico [27].

Per questi stessi motivi può considerarsi con qualche timore l’avvento della deducibilità fiscale delle erogazioni liberali per i progetti culturali disposta nel collegato fiscale alle legge finanziaria del 2000 (altrimenti benvenuto): in quanto espone gli enti locali alla possibile tentazione del privato di destinargli dette erogazioni in cambio della trasformazione della vigente gestione pubblica per l’appunto in quella privata della fondazione e di concorrere ad amministrarla (così ottenendo un plus probabilmente ingiustificato rispetto a quello tributario, e non di meno generando qualche timore sulla esclusività delle politiche locali e corrispondente assenza di condizionamenti alla libertà dell’offerta artistica e culturale di una data realtà locale. Detto con altre parole, ancora una volta il timore che la sua attività non integri più, in sostanza, un spl così come, in effetti, le fondazioni e le associazioni di diritto privato non integrano se non in una prospettiva molto allentata lo Stato-ordinamento considerato dall’art. 9 Cost. [28]).

In conclusione, il profilo non convincente appare legato alla errata considerazione di potere collocare sullo stesso piano i concetti di utilità sociale e di spl di carattere sociale o culturale, onde poi stabilire delle relazioni reciprocamente trasversali; quando invero il primo assolve un dato strutturale e teleologico (spec. di distinzione con le società) mentre il secondo spiega un dato funzionale connesso ad una determinata tipologia di attività (spec. di distinzione con quella amministrativa).

 

5. Il modello della fondazione di partecipazione

Esaminati i rapporti che quelle due categorie di modelli organizzativi richiamano, in termini generali, rispetto agli ordinamenti loro propri, arriviamo infine alle caratteristiche per così dire interne alla propria natura, in quanto tale, dello specifico strumento fondazione di partecipazione. Modello, come si notava, non solo già ora nei fatti alternativo (in quanto privatistico) a quelli elencati dalla l. 142/1990, ma altresì atipico in quanto non espressamente considerato dal codice civile [29]. A questo fine occorre soprattutto capire quali elementi lo caratterizzano rispetto alla figura tipica al punto di aspirare ad assumere una sua propria, specifica fisionomia. Lo facciamo in sintesi e per mera descrizione, lasciando alla cultura del diritto privato eseguire migliori approfondimenti.

Il dibattito parlamentare non spiega le ragioni fondanti l’inserzione della sua proposta: nella relazione introduttiva all’esame del d.d.l. A.C. 7040 si trova solo che il nuovo regime "non preclude l’utilizzazione, ad esempio nel campo dei servizi culturali, di altri strumenti forniti dal diritto comune. Al riguardo si pensi alle associazioni, alle fondazioni, ivi compresa quella forma di ‘fondazione in compartecipazione’ di cui si discute negli ultimi tempi". Dopodiché, dagli atti di Commissione non risulta che di ciò si sia più discusso né dunque che alcuno abbia chiesto chiarimenti sulla natura di quella particolare forma. Occorre allora risalire ad altre fonti, in parte dottrinali ed in altra più esigua parte amministrative. Va da sé che il vaglio della presente lettura lo considera in tanto in quanto applicato (ora) e applicabile (in futuro, nell’ottica del d.d.l. servizi) alla gestione di servizi pubblici locali.

Ebbene, la sua caratteristica principale risiede, oltre che nel canalizzare la complessiva gestione delle sue attività nel raggio del diritto privato, nella idoneità di realizzare "un’equilibrata sintesi dell’elemento personale, proprio delle associazioni, e dell’elemento patrimoniale, tipicamente presente nelle fondazioni" [30]. In altri termini - muovendo dall’osservazione che l’art. 12 c.c. contempla la possibilità di riconoscere la personalità giuridica (oltre che alle associazioni ed alle fondazioni) "a le altre istituzioni di carattere privato" e che queste, secondo quanto illustra la Relazione di presentazione al Re, possono riferire la loro disciplina ora all’uno ora all’altro di quei due modelli tipici - la sua teoria si fonda sul convincimento che ciò renda ammissibile individuarne un altro; e cioè non tanto un ulteriore tipo di fondazione accanto alle ormai numerose che la prassi e la dottrina hanno via via finito per riconoscere evolutivamente coerenti all’impianto codicistico, bensì un vero e proprio terzo modello che non possiede carattere associativo in quanto costituito per la destinazione di un patrimonio ad un dato scopo; ma che neppure implica la separazione fra la volontà del soggetto fondante (espressa nel negozio che esegue la destinazione patrimoniale) e la sua diretta capacità di concorrere ad amministrarlo in quanto membro dell’organo deputato a tal fine (il cda), che caratterizza la fondazione. Anzi, si sostiene sul punto che un’altra sua peculiare caratteristica risieda proprio nella capacità di ammettere, ove previsto dallo statuto, la progressiva espansione del novero dei fondatori originari laddove nuovi soggetti manifestino, pur in un secondo momento, la volontà di "partecipare" alle sue attività (quest’ultimo carattere, tipico al caso delle associazioni, è invero comunemente ritenuto ammissibile dalla dottrina anche rispetto al modello della fondazione).

In breve, se l’elemento che caratterizza l’associazione è dato dall’aggregazione di più persone per la soddisfazione di uno scopo comune interno ai loro interessi mentre quello che caratterizza la fondazione consiste viceversa nella destinazione di un patrimonio alla soddisfazione della volontà esterna del fondatore, ecco che la fondazione di partecipazione ammetterebbe di associare più fondatori per la gestione di un patrimonio che rimane loro collettivamente proprio (nella loro disponibilità) e, suo tramite, altresì soddisfare uno scopo di pubblica utilità che non è più ad essi esterno, in quanto cristallizzato nella volontà del fondatore, bensì continuamente aggiornabile in relazione a ciò che concretamente richiede la valorizzazione del patrimonio secondo la volontà dell’organo che lo amministra; rimane invece ferma la finalità non lucrativa e dunque la sua incapacità di distribuire utili (che fa salvo, in dottrina, l’eventuale lucro oggettivo).

Notiamo qui per inciso che la suddetta combinazione fra gli istituti della fondazione e della associazione forse spiega, in assenza di altri elementi, la ragione per cui il d.d.l. servizi esegua riferimento ad entrambe quelle due figure di enti collettivi e non invece, come si dichiara possibile nella relazione di suo accompagnamento, direttamente a quella di partecipazione (o compartecipazione): la sua positivizzazione legale, fra le righe di siffatto contesto, deve cioè essere apparsa soluzione troppo audace. Mentre, all’opposto, la menzione espressa sia di fondazioni che di associazioni forse si spiega nella prospettiva di agevolare l’interpretazione dottrinale e giudiziale di una branca codicistica per così dire abituata a dovere prendere atto di modelli atipici affermatisi nelle vie di fatto (stante la sostanziale pochezza dei controlli governativi e regionali ai fini del riconoscimento).

Malgrado non possa che rendersi atto alla brillante costruzione sostenuta dalla tesi degli Autori che l’hanno isolata fra le maglie del codice e forse anche convenire sulle motivazioni sostanziali che la sostengono, essa lascia peraltro aperto qualche dubbio. Tale figura risulta in effetti alterare la, sino ad ora, invincibile peculiarità del modello fondazionale sull’esigenza di saperlo perseguire fini sì generali o particolari, ma sempre nell’interesse di una categoria di soggetti diversi dal fondatore; intende cioè superare il requisito del distacco fra la volontà del fondatore e quella degli amministratori chiamati a realizzarla, tipica al modello. Ed è per questo motivo che non può dirsi costituire un "tipo" evolutivo di fondazione o di associazione, ma - come del resto propone la sua teoria - un "tertium genus" (di cui peraltro la dottrina ci sembra abbia sinora negato vuoi la astratta configurazione vuoi la concreta operatività [31], riferendo la effettivamente oscura locuzione dell’art. 12 c.c. ora espressamente ai comitati e alle multiformi istituzioni di assistenza e beneficenza ora complessivamente, nella prospettiva di aggregare ogni altro soggetto distinto dagli enti pubblici e dalle società ai caratteri di quei due soli modelli, all’insieme delle altre "istituzioni" che la teoria romaniana aveva da poco tempo elaborato e dunque ammesso sussistere: la prospettiva che anima quella formula nell’intenzione del Legislatore del 1939, sempre secondo quella prevalente dottrina, sarebbe cioè stata quella di chiudere il sistema delle persone giuridiche e non di lasciarlo aperto). Sulla sua compatibilità al lato pubblicistico, si è invece già accennato che se tale percorso implica oggi l’abbandono dei modelli di gestione dei servizi pubblici locali comunque determina domani, al di là della semantica legale, la sostanziale dequalificazione dell’erogazione del servizio dal rango di pubblico locale in quanto esso risulterebbe carente dei suoi elementi costitutivi. Per meglio comprovare questa affermazione è utile eseguire riferimento alle esperienze concrete (fra quelle che ci sono note) e quindi, per ultimo, confrontarne la compatibilità all’ordinamento delle autonomie locali.

5.1. Segue: nell’esperienza applicativa

Riconoscere impressa alle fondazioni di partecipazione già costituite una lettura della nozione soggettiva di servizio pubblico recata dalla legge 142 per così dire estrema, e cioè idonea ad acconsentire all’amministrazione locale di superare la tipicità dei suoi modelli grazie alla sua sola, pretesa potestà qualificatoria (e capacità giuridica), trova conferma nel dato (rilevabile nelle delibere degli enti locali che autorizzano i loro sindaci ad aderire alle fondazioni di partecipazione sin qui già costituite a Milano, Ancona, e Crema) di vedergli impresso lo scopo di garantire l’esercizio delle attività sino a quel momento gestite, sia pure non soddisfacentemente, tramite uno dei modelli tipici (in economia, anche tramite appalto a cooperative). In sostanza, si ricava proprio dalla valutazione soggettiva maturata da quegli enti la volontà di esercitare un spl, e quindi la condizione che secondo comune dottrina avrebbe viceversa imposto il ricorso ad uno dei modelli di gestione tipici; per sostenere la scelta della fondazione sorta per trasformazione di anteriori gestioni pubbliche, si doveva semmai seguire un ragionamento opposto, teso a mostrare la secondarietà degli interessi in gioco (come nel caso della fondazione Pier Lombardo, che pure è di partecipazione). Soluzione peraltro resa difficile dal fatto, stringente, che queste strutture vedono impegnati quegli enti a trasferirgli in via corrente grosso modo i medesimi compiti, ed entità finanziarie, sino a quel momento attribuiti alle gestioni pubblicistiche. Per il resto, scorrendone gli statuti, si vedrà che si tratta di prestazioni se non secondarie e talora di stile in analoghi atti negoziali privati, comunque accessorie [32].

Quegli scopi non sono infatti meramente strumentali o accessori all’attività istituzionale degli enti pubblici che ne possiedono la titolarità, ma direttamente rivolti a soddisfare l’interesse delle rispettive collettività, rientrando a pieno titolo fra quelli che hanno "per oggetto la produzione di ... attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo ... civile delle comunità locali" (art. 22, comma 1, legge 142). D’altra parte e qui si rischia di entrare in un circolo paradossale, rimane fermo che una fondazione per essere tale deve dimostrare di perseguire uno scopo di pubblica utilità, privo di lucro, ma anche (e sta qui il profilo che quella di partecipazione intende superare rispetto alla fattispecie tipica) distinto dall’interesse primario o particolare del fondatore. Ebbene, il paradosso consiste nell’osservare che quanto meglio i suoi atti costitutivi riusciranno a cogliere il primo requisito, quanto più tenderanno ad implicare il necessario ricorso ai modelli del spl, posto che la loro erogazione costituisce l’interesse primario dell’ente pubblico territoriale (per lo più) locale che ne possiede la titolarità e quell’interesse, come detto, non si riduce ad una più o meno bene statutariamente costruita utilità sociale.

E ciò perché le fondazioni di partecipazione già costituite assumono direttamente, come si ricava dai loro statuti, lo scopo (nei fatti per di più in via esclusiva) di promuovere, indirizzare e gestire le attività culturali o educative cui si applicano. Finiscono cioè per esercitare un spl con un modello semmai idoneo a gestire una attività economica di interesse pubblico. Con l’effetto, sin troppo comodo, per un lato di esercitare un’attività di impresa e per l’altro di lasciarsi alimentare con ingenti risorse pubbliche dirette e indirette (tramite comodati, accollo di utenze, personale comandato ecc. disposte per lo più in via convenzionale) al di fuori di contratti di servizio, del controllo dei revisori dell’ente locale, senza estensione della disciplina sull’accesso ai documenti, della carta dei servizi, al di fuori delle prerogative di indirizzo e di determinazione tariffaria consiliari ecc.

Questo modello di fondazione è stato dunque concretamente applicato nel presupposto di ritenere indifferente al diritto pubblico ricorrere ai modelli della legge 142 o al codice civile. Ed anche laddove gli enti che lo hanno accolto avessero formalmente manifestato la volontà di esercitare suo tramite non un spl bensì un’attività economica di interesse pubblico (come peraltro non si riscontra) la scelta di quel modello si rivela comunque sospetta dato che quelle attività possiedono in concreto i caratteri del spl. Come del resto lascia perplessi il vedervi partecipati in qualità di fondatori gli enti titolari del servizio: l’elemento caratterizzante la sua forma e su cui si punta (unire pubblico e privato) finisce per costituire motivo di debolezza o poca coerenza ai principi di regolazione già fissati nel 1990 e che, pure faticosamente, il d.d.l. vorrebbe piuttosto rafforzare: i quali, implicando la separazione fra i soggetti regolatori e quelli gestori, vengono in effetti qui ridotti ad una soluzione di (com)partecipazione organica ove l’esercizio dell’attività - il perseguimento dello scopo fondazionale - si fa spl con l’esecutività della convenzione (integrando a quel punto un modello di amministrazione privata di funzioni pubbliche che ci sembra sinora carente, a mente dell’art. 97 Cost., di un’adeguata autorizzazione legislativa).

L’eventuale fondatezza di queste annotazioni potrebbe peraltro dirsi guardare il solo passato, posto che in futuro - piaccia o meno alle teorie care ai giuspubblicisti - occorre prendere atto della imperscrutabile "voluntas" del Legislatore. Il fondamento di tale obiezione, altrimenti invincibile, urta però i ricorrenti modi operativi attraverso i quali quelle esperienze vengono concretamente concepite nonché applicate e si crede possano per tal via trovare stabilità con l’approvazione del d.d.l. Urta cioè non tanto istanze legate ad una pretesa uniformità del sistema dei spl entro dei modelli organizzativi tipizzati per assicurare l’unitarietà dell’ordinamento locale - fine peraltro tuttora meritevole di tutela [33] - bensì le condizioni diretta a consentire l’affievolimento o il superamento di interessi e relative procedure che si pretendono tuttora ben tutelati. Come si è detto, la prospettiva d’azione non è - non riesce nei fatti ad essere - quella di costituire una fondazione idoneamente dotata in punto di patrimonio perché la sua più efficace gestione consenta quei risultati altrimenti incerti se non impossibili all’operatore pubblico.

E’ infatti piuttosto evidente che qui si propone, come meglio si vedrà più sotto, l’alterazione dei meccanismi di autorizzazione alla spesa che stanno alla base della disciplina di regolazione e che, a seconda della più o meno vicina corresponsabilità dell’ente pubblico al soggetto gestore hanno sino a qui giustificato, con diversa intensità, le relazioni di tipicità dei modelli gestionali all’utilizzo delle forme del diritto privato (escluse, dovendosi applicare il rispetto del regolamento di contabilità, per le attività gestite in economia; ammesse solo "in quanto compatibili" per talune di quelle gestite tramite istituzione, altrimenti sottoposta ad una intensa potestà di indirizzo e controllo; e via via sempre più largamente consentite fra azienda e società salvo pretendere la loro autonomia patrimoniale e quindi, per la seconda, soprattutto fondate nel divieto assoluto di poterne alimentare l’attività se non mediante la sua ricapitalizzazione). In breve, non basta guardare agli artt. 22 e 23 per concludere che i loro modelli sono inadeguati e quindi fungibili da altri più efficaci. La legittimità di questa impostazione muove dalla oggettiva dimostrazione che quei diversi modelli privati sono non solo, rispetto a quelli pubblici, più efficaci ma altrettanto capaci di soddisfare quella ulteriore serie di principi e norme che quei primi (i modelli pubblici) soddisfano per presunzione legale al prezzo, si consideri bene, di soggiacere alla loro rispettiva disciplina di regolazione. In breve, non ci pare che la mera previsione del rinvio svolto dal d.d.l. a questi due modelli privati consenta di applicarli, in alternativa a quello della istituzione, al di fuori dello stretto caso in cui le loro gestioni sappiano dimostrarsi ragionevolmente autonome soprattutto dal punto di vista economico; che le veda cioè dotate di un patrimonio adeguato a consentire, grazie alla sua gestione, di non vederne condizionata l’azione a ricorrenti conferimenti (pubblici di mano locale).

 

6. Sulla compatibilità dell’ordinamento delle persone collettive del Libro primo all’ordinamento delle autonomie locali

Se più sopra abbiamo riferito di difficoltà aventi natura soprattutto sostanziale, nel prendere atto della intenzione del Legislatore di acconsentire agli enti locali il ricorso a quei modelli ci rimangono taluni dubbi sulla loro formale compatibilità all’ordinamento delle autonomie locali.

Se fino agli anni ’60, la capacità dell’ente pubblico di farsi socio di fondazioni e associazioni veniva esclusa [34], è da tempo, in effetti, che quella originaria impostazione è stata superata. Ma ciò evidentemente non implica una generalizzata facoltizzazione in capo agli enti locali [35], come del resto dimostra anche il presente d.d.l. allorché prevede quella capacità con limitato riguardo ai servizi culturali. Se per questa ragione si accennava più sopra alla sensazione di trovarsi innanzi ad una condizione di privilegio, ora osserviamo che essa dimostra, a contrariis, non certo il superamento di quella nota teoria che vuole sommata alla capacità di diritto pubblico quella di diritto privato quanto piuttosto, come peraltro già chiaro, che per esercitarla legittimamente occorre di volta in volta eseguire più analitiche valutazioni: in breve, va escluso che fra i fini della riforma stia altresì la volontà del Legislatore di ampliare indistintamente, rispetto al passato, il raggio della capacità giuridica degli enti locali.

Dal dettato del d.d.l. non emerge del resto evidente la previsione di ammettere alla capacità dell’ente locale di (co)fondare egli stesso una fondazione anche se questa, per vari indizi, sembra essere l’ipotesi che ne anima la frettolosa inserzione. In ogni caso, è bene distinguere le situazioni a seconda che l’ente acceda o meno a quella ipotesi: nel primo caso dovrebbe venire negato il riconoscimento alla persona il cui scopo risulti essere, per previsione statutaria, quello di gestire servizi diversi da quelli culturali in senso stretto (è il caso di quella milanese sulle Civiche scuole, che si occupa di formazione); mentre nel secondo sarebbe invece illegittima la delibera di affidamento del servizio ad una data fondazione il cui scopo e la concreta organizzazione, sempre in un ambito diverso da quello della cultura, l’ente pubblico avesse considerato idoneo al punto da conferirgli il compito di gestire anche i propri servizi.

Rapportando quella distinzione all’area della cultura, la seconda ipotesi se non di scuola rimane peraltro limitata ad evenienze che possiamo ritenere rare: per esemplificare, il comune di Venezia potrebbe chiedere alla fondazione Gugghenheim di gestire, in suo nome ed interesse, una qualche attività di servizio nel campo della promozione delle arti figurative ovvero altrettanto quello di Bologna, all’associazione Musica insieme, in quello della musica. Ipotesi dunque limitate e che, fra l’altro, potrebbero già ora venire coltivate senza il bisogno della previsione legale all’oggetto. Ma a nostro avviso le uniche percorribili (anche se proprio dalla loro limitata portata troviamo ancora una volta confermato che il raggio operativo cui mira la proposta del d.d.l. è marcatamente riferito alla prima ipotesi, e cioè a quella della fondazione, di partecipazione o tipica qui irrilevante, che veda fra i fondatori anche l’ente titolare del servizio.

Rimaniamo dubbiosi sulla capacità dell’ente locale territoriale di ricorrere a quella strategia gestionale per il fatto che le irrinunciabili caratteristiche politico-amministrative di un ente a fini generali, qual è il comune, sembrano incompatibili all’ipotesi di vederlo stabilmente legato ad una struttura le cui caratteristiche sono viceversa quelle della perpetuità dello scopo, di un’organizzazione e di un’attività non solo di diritto privato ma anche di natura imprenditoriale al punto da implicare la rinuncia, "in blocco", alla sua propria potestà regolativa. Senza scomodare Santi Romano, vediamo cioè una situazione che senz’altro ammette la coesistenza di quei due ordinamenti, ma alla sola condizione che essi rimangano reciprocamente ben distinti l’uno dall’altro; nella quale il momento di contatto è dunque stabilito dalla convenzione, per il cui tramite l’amministrazione recupera la sua propria potestà regolativa (il punto è che queste fondazioni, aventi uno scopo a tal punto coeso con quello pubblico immanente al concetto di servizio pubblico ci sembrano come detto quanto meno rare [36]. Occorrerebbe allora dirigersi a pensare, lasciando correre la fantasia, che il meccanismo convenzionale si situi al caso di fondazioni - aventi uno scopo di tipo "pubblico" [37] e pure non strettamente di tipo culturale, le quali non di meno si dichiarino - disponibili ad esercitare il servizio pubblico culturale in quanto lo riconoscono strumentale alla soddisfazione di quello, irrinunciabile, loro proprio: in altre parole, all’idea che l’interesse pubblico possa divenire secondario o accessorio a quello privato loro proprio).

Ove ciò sia esatto, deriva che la fondazione o l’associazione riconosciuta (l’ipotesi di quella non riconosciuta è esclusa in radice per una questione di responsabilità certamente non assumibili da alcun ente pubblico [38]) non può vedere coinvolto l’ente locale in qualità di fondatore se non forse quale socio d’onore; senza cioè partecipare non solo alla formazione del capitale, ma nemmeno alla sua amministrazione. Dicesi forse in quanto tale residuale ipotesi tendenzialmente collide con il principio della già cennata separazione fra soggetti titolari e gestori. Sinora è invece avvenuto l’esatto contrario, risultando ovunque l’amministrazione pubblica essere, collettivamente (ad Ancona e Crema) od esclusivamente (a Milano), la parte di gran lunga maggiormente esposta sin da quella prima, inevitabile fase di costituzione del patrimonio. A nostro avviso, quelle tre fondazioni non dovevano venire riconosciute (né a ciò avrebbe dovuto provvedere l’autorità regionale, posto che il loro scopo inerisce tuttora, ai sensi del d.lg. 112, ad una competenza ripartita fra Stato e regioni [39]) così come l’unica prospettiva ammessa anche dal d.d.l. servizi rimane quella legata a facoltizzare rapporti consensuali fra soggetti sostanzialmente terzi (salvo quanto si è detto).

6.1. Segue: una rapida rassegna delle ragioni che impediscono all’ente locale di fondare una fondazione

Vediamo però meglio a cosa si riferivano i cenni sulla deviazione a principi e regole tratte fuori da uno sguardo ristretto alla disciplina dei spl, da cui si è tratta una situazione di incompatibilità fra i due ordinamenti (la disciplina dei servizi non compone se non "latu sensu" un ordinamento autonomo da quello dell’ente locale in quanto, come noto, ai suoi organi rimane la potestà di regolazione). Tenendo sempre presente, anche se già chiaro, che non ci si può riferire per analogia al caso delle fondazioni di diritto pubblico o privato speciale (direttamente autorizzate dalla legge e, non a caso, tipizzate con tratti distintivi di derivazione pubblicistica), ma al raggio della capacità giuridica pubblica di apprendere quelle disegnate dal codice nelle vie amministrative, occorre verificare se la legge consente di reputare indifferente all’ordinamento delle autonomie vedere agire gli enti locali tramite quello strumento.

In via di premessa, invero ripetuta, è certo che l’ipotesi da considerare rimane molto distante tanto da quella delle "cosiddette" fondazioni liriche (e bancarie [40]), le quali se del caso sorgono per trasformazione del previgente ente pubblico (che dunque declina), quanto da quella che ammette all’ente locale il potere di costituire o partecipare ad una società al fine di soddisfare una propria aspettativa di profitto nella gestione di attività economiche che non siano spl [41]. Mentre non può dimenticarsi che la tipologia delle fondazioni fiduciarie di derivazione anglosassone è per intrinseca natura (e unanime dottrina) incompatibile ad un sistema a diritto amministrativo.

Ebbene, va innanzitutto osservato che, con tratti distintivi rispetto all’ipotesi societaria (anche solo per la gestione di attività economiche di interesse pubblico), accedere ad una fondazione implica per l’ente locale assumere, pure indirettamente, un impegno giuridico di durata teoricamente perpetua e dunque una inaccettabile valutazione di priorità nel tempo di un interesse, reso spl, rispetto agli altri di pari grado in gioco (e quanto maggiore risulta la coincidenza dello scopo fondazionale con quell’interesse pubblico particolare tanto minore risulterà il margine per valutarlo consumato al punto da ammetterne lo scioglimento).

Va quindi considerato che una fondazione presuppone in ogni caso assolta la condizione di formare un patrimonio adeguato al suo scopo (la "universitas bonorum", sia pure nei sensi aggiornati della c.d. fondazione-organizzazione, o impresa o di partecipazione). Indipendentemente dal percorso individuato dall’ente locale per soddisfarla (in parte in numerario o mediante l’acquisto di beni strumentali destinati al suo funzionamento od anche, per ragioni di spesa disponibile, tanto con il conferimento degli immobili già utilizzati per l’esercizio delle sue attività quanto con beni di natura artistica del proprio patrimonio disponibile [42] ovvero ancora canalizzandole donazioni private senza vincolo organizzativo ecc.), ecco comunque profilarsi la questione del "quid accidit" ove, prima o poi, quell’ente per un qualche e comunque difficilmente sindacabile motivo ritenga di recedere dalla fondazione. E lo stesso interrogativo vale per l’ipotesi delle conseguenze legate ad un suo possibile stato di insolvenza.

Attualmente, come noto, alcuna norma impone all’ente locale di esercitare le attività culturali se non quella, non giuridica, di esporsi alla censura politica. In breve, può chiudere i cancelli di un proprio museo o rinunciare a finanziare produzioni teatrali ove ritenga di destinare le relative risorse ad altri fini. Qui la fattispecie è però diversa: quell’ente ha perso non tanto la disponibilità nella gestione di una data attività culturale (per la durata del convenzionamento) quanto la proprietà di quel patrimonio, che ora infatti appartiene ad un’altra persona giuridica a lui terza.

Se la disciplina civilistica è chiara nel disporre che in siffatte situazioni l’interesse del fondatore vada sacrificato (in quanto di questi rimane impressa la sola volontà originaria di perseguire un determinato scopo), tanto da ben disciplinare l’ipotesi (invece non prevista per l’associazione in quanto essa persegue fini interni ai propri soci), non sapremmo dire con riguardo al modello atipico della fondazione di partecipazione (si noti peraltro che lo statuto delle sue rappresentazioni cit. esegue un generico rinvio agli artt. 27 e 28 c.c.). Di certo rimane, ai sensi dell’art. 15 c.c., che l’atto di una fondazione riconosciuta "non può essere revocato".

In breve, se il dato gestionale (in quanto connesso alla convenzione) rimane flessibile in punto di durata e se del caso di ritiro sulla scorta di istituti pubblici noti, quello della struttura su cui poggia (la fondazione partecipata, in qualità di fondatore, dalla amministrazione) resta invece rigido. Il problema, come vedremo fra un attimo, non ci sembra di poco conto se si considera che una fondazione è legittima e può quindi venire riconosciuta nella misura in cui disponga di un patrimonio idoneo al perseguimento del suo scopo. Malgrado sia ingiusto se non poco corretto traguardare l’interpretazione sulla astratta validità di un modello all’uso che di esso tende a farne la prassi, è peraltro vero che non tanto l’esperienza quanto lo stesso impianto statutario da cui deriva, nel conoscere la distinzione fra il fondo di dotazione e il fondo di gestione, autorizza ritenere che si tenda a sottoesporre la forza di quel presupposto. Con delle conseguenze doppiamente sospette: per il diritto privato, la non adeguata capienza di quel primo fondo (e cioè del patrimonio) incrina la legittimità del modello [43]; per il diritto pubblico, il vederne alimentata l’azione tramite il secondo (il fondo di gestione) con ricorrenti trasferimenti, è altrettanto, per non dire più esattamente, impensabile. Così operando non ci si discosta infatti molto da uno schema che veda un ente pubblico costituire una società dotata di uno scarso capitale salvo poi, risultando questi insufficiente, acconsentirne egualmente l’attività trasferendole in via corrente risorse da utilizzare per la gestione senza passare per la sua ricapitalizzazione. Ovvero, in via sostanziale, all’aggiramento e della legge sul parastato (l’ente locale fonda enti privati perché gli è precluso costituire enti pubblici economici ) e della legge 142 (in quanto intende derogare all’evidenza pubblica).

Ritornando al tema del ritiro, non ci sembra che il diritto pubblico conosca degli istituti diretti a sancire, in una simile situazione, una potestà dell’ente pubblico riconducibile allo schema dello "jus poenitendum" conosciuto, ad es., sul fronte degli accordi di cui all’art. 11, legge 241/1990. E tale impressione trova conforto nell’osservare che, a differenza del modello societario pubblico (la cui vita è comunque delimitata da una scadenza legale), a questo proposito e con riguardo agli enti collettivi privi di lucro il d.d.l. servizi non dispone nulla. Anzi, posto che l’art. 113, comma 2, stabilisce con norma di chiusura un termine finale di dieci anni per i spl "diversi da quelli di cui al comma 1 dell’art. 113" (fra i quali recapitano quelli culturali), se si dovesse trarre una conseguenza interpretativa questa sarebbe nel senso di osservare che il legislatore ha qui volutamente evitato di imputare all’ente locale alcuna potestà di recesso unilaterale (forse anche in coerenza all’idea, effettivamente pervasiva tutta la presente proposta, che più che al pubblico dovessero venire fornite adeguate garanzie di stabilità al privato. Questione di punti vista!) [44]. Come del resto, lo si ripete, pretende lo schema civilistico delle fondazioni (che possono sì estinguersi per le cause previste dall’atto costitutivo e dallo statuto ovvero quando lo scopo sia stato raggiunto ecc., ovvero venire trasformate ai sensi degli artt. 27 e 28 c.c., ma non per la volontà del fondatore e comunque con delle procedure di liquidazione ovvero di conferimento del suo patrimonio ad altre analoghe istituzioni ecc. del tutto penalizzanti per l’ente locale fondatore).

Quest’ultimo, in conclusione, deve accettare in partenza la conseguenza di sapere che nel momento in cui si fa fondatore avvia un percorso che fra l’altro gli preclude la facoltà di rientrare nella proprietà dei beni conferiti per formarne il patrimonio: e ciò forse spiega la evidente sottocapitalizzazione delle esperienze sin qui avviate, ma allo stesso tempo la condizione ibrida del modello e la sua scarsa capacità di stare sul mercato (da questo punto di vista, si mostra quindi senz’altro più efficace l’alternativo modello della società per azioni, eventualmente a capitale diffuso onde curare altresì la prospettiva di un’ampia "partecipazione" popolare). Ma anche quella "strategia" si mostra ai limiti della legittimità posto, come già detto, che fra i punti fermi del modello fondazionale sta l’esigenza che i suoi mezzi patrimoniali risultino adeguati alla soddisfazione dello scopo, a pena del rifiuto di riconoscimento (nella realtà delle esperienze esaminate la situazione, ad ulteriore indizio della situazione finanziaria in cui versano gli enti locali e delle "strategie" che talora ne animano confusamente l’azione, non mancano di vedersi situazioni in cui alla fondazione sono stati invero accollati dei debiti; in ogni caso, rispetto agli ampi scopi, il loro patrimonio sembra obiettivamente mostrarsi inadeguato [45]).

Tale condizione non può venire aggirata, come ci pare di intravedere immaginato nella configurazione del rapporto tratteggiata nel d.d.l., tramite il veicolo del convenzionamento diretto (art. 113, comma 1, lett. d). E non tanto perché reintroduce una tecnica in chiara e discutibile controtendenza alla proiezione, non solo comunitaria [46] ma già propria della legge del 1990, di assicurare ciò che, in un linguaggio aggiornato a quel diritto, richiede lo scollegamento fra rete e servizio - una "tecnica" che si commenta da sola - quanto perché quel veicolo soddisfa profili distinti rispetto a quelli dell’ordinamento della fondazione (che, cioè, presuppone già interamente valido) e va senz’altro inquadrato nello schema dei "munera" pubblici [47]. E’ cioè l’atto tramite il quale l’ente locale trasferisce alla fondazione, già perfetta in tutte le sue componenti costitutive e da lui inoltre riconosciuta (organizzativamente e finalisticamente) idonea alla funzione di esercitare un spl, il compito di gestirli per un tempo determinato e nel rispetto di determinati indirizzi, obiettivi, condizioni di trasparenza, di parità di accesso, di costo eventualmente differenziato per fasce d’utenza ecc. rispetto ai quali si impegna a riconoscerle, in un rapporto sinallagmatico solo in parte a lui disponibile un corrispettivo (non dispone della legge 241 né dei principi di regolazione di cui anche al d.d.l. servizi). Può essere che tale prospettiva corrisponda ad una visione antiquata, ma non sembra che quel disegno ne autorizzi altre, come del resto può accennarsi che il sorgere di fondazioni non è nemmeno assistito, a differenza delle associazioni, di un particolare "favor" costituzionale.

Non da ultimo, più che in analogia all’espresso diniego sulla capacità di ottenere il riconoscimento di Onlus alle strutture che vedano associati enti pubblici stabilito dalla legge del 1997, la incapacità dell’ente locale di fondare le persone collettive del Libro primo ci sembra discendere dal principio di sussidiarietà orizzontale (malgrado la sua confusa rappresentazione positiva nella legge 265/1999 di certo non aiuti; cfr. art. 3, comma 5, t.u.a.l.). Quel principio è stato comunque normativizzato, divenendo regola giuridica, per quanto qui importa, proprio all’interno del medesimo testo legislativo nel quale dovrebbe recapitare la disciplina dei spl, finendo per costituire un’ulteriore barriera all’ipotesi di ammettere fondazioni "partecipate" in siffatti termini dall’ente locale (esse né sorgono per "autonoma iniziativa dei cittadini" né soddisfano quella regola laddove la sua espansione si realizzi in una simile compenetrazione).

Può inoltre accennarsi al profilo connesso alla capacità delle fondazioni di esercitare un’attività economica e se del caso di impresa. Si è già detto che una dottrina assolutamente prevalente la ritiene da tempo ammissibile e che su di essa naturalmente poggiano le prospettive di risultato affidate a questi modelli. Ma quali conseguenze implica concretamente saperla ammessa? Senz’altro di ricercare non solo il pareggio ma il c.d. lucro oggettivo, e cioè un utile di gestione da reinvestire nelle attività. Ma anche di dovere applicare lo statuto dell’imprenditore commerciale (iscrizione al registro delle imprese, obbligo di tenuta delle scritture contabili, capacità di fallimento [48] ecc.). E anche qui non possono che richiamarsi le note già rese più sopra sulla incerta scissione, nei modi e nelle entità, fra le operazioni di alimentazione dei due fondi cit., i quali incrinano l’idea del preteso "distacco" fra le parti e, anzi, insinuano il dubbio della persistenza di un rapporto di subordinazione della fondazione alla mutevole volontà dell’ente locale sin dall’atto o esecuzione del negozio fondativo [49]; nella prassi si osserva l’amministrazione fortemente impegnata sul secondo, talora addirittura in via esclusiva e cioè senza alcuna corrispondenza all’apporto dei fondatori privati, per valori relativamente molto importanti (si pensi ai circa venti mld. annuali del caso milanese): non di meno, quei privati, grazie ad una quota di ingresso tutto sommata modesta, vengono coinvolti non nella gestione del patrimonio (il fondo di dotazione), ma del denaro pubblico che di volta in volta l’amministrazione direttamente recapita in quello di gestione. Ovvero, ma ciò non cambia la situazione, grazie ad un versamento annuale che non ha comunque proporzione rispetto a quello pubblico.

E non è solo questo il punto, in quanto rimane sullo sfondo anche quello delle responsabilità connesse all’esercizio delle attività in forma imprenditoriale. Può l’ente locale territoriale, non economico, accettare di assumerle? Altresì notando che ad un’osservazione di tipo sostanziale sembra difficile attribuirgli un carattere secondario e strumentale a quella morale, principale.

Quest’ultima obiezione, se corretta, riporta all’origine della questione. Gli ordini del problema hanno cioè qui un taglio bifronte: per un verso sembra potersi cogliere che la prospettiva funzionale ricercata dal d.d.l. sia soprattutto quella di consentire una gestione dei servizi culturali con gli strumenti dell’imprenditore; per l’altro, quella maggiore prospettiva è in sé inconciliabile alla natura di quelle persone private: gli enti che non abbiano la struttura o che non perseguano le funzioni tipiche delle fondazioni e delle associazioni, come sono previste direttamente dal codice civile negli artt. 14 ss. c.c. anche per differenza dagli artt. 13 e 2247 c.c., o non vanno riconosciuti (chiamando la responsabilità personale dei loro amministratori) o vanno comunque assimilati alle società, da cui altrimenti si connoterebbero per un incostituzionale privilegio sulla limitazione della responsabilità. Ora, anche al di là del fatto di capire se prevalga la tesi della dottrina (per cui si salva la fondazione-persona, ma non i suoi amministratori) ovvero quella della giurisprudenza (quella fondazione viene travolta in quanto in essa non persistono i suoi propri caratteri), occorre valutare chi e come possa rispondere verso i terzi creditori da parte dell’ente locale che sia non solo fondatore, ma qui anche solo amministratore. Per meglio dire, andrebbe prima ancora chiarito se l’ente locale può assumersi tale responsabilità (dalla quale rimane invece riparato con l’utilizzo, in senso proprio, dello strumento convenzionale).

Ad ogni buon conto - ricollegandosi alle note eseguite in premessa - l’esercizio di un’attività economica in forma imprenditoriale per la gestione dei presenti compiti che sia in concreto finanziariamente alimentata nei suddetti termini, di certo non sfugge alla nozione comunitaria di organismo di diritto pubblico per il fatto di essere una fondazione di diritto privato [50], né forse anche al controllo della Corte dei conti [51].

Può infine considerarsi che l’assetto del presente modello (nell’incrociare per così dire istituzionalmente la capacità dei fondatori di ingerirsi nella cura dello scopo) ancora meno di quelli tipici soddisfa quelle garanzie di trasparenza e cristallina devozione al suo perseguimento che stanno alla base del successo dei "trustees" anglosassoni (con relative, incisive responsabilità civili e penali) e che pure dovrebbero venire coltivate dagli enti locali territoriali. Ancora meno, in quanto qui alla (pur presumibile) proiezione di esercitare attività imprenditoriali si accompagna la soddisfazione di quelle garanzie mediante dei percorsi di minore intensità rispetto a quelli tipici sia dell’operatore pubblico che di quello societario. Non solo in talune delle esperienze esaminate gli amministratori locali siedono nel cda (fatto vietato al caso delle istituzioni) [52], ma nei loro statuti e nelle convenzioni che le accompagnano non c’è traccia circa un’estensione delle regole sull’accesso e sulla partecipazione, sul controllo dei revisori, sulla vigilanza degli organi assembleari pubblici, sul rispetto di carte dei servizi ecc. (viceversa imposti al caso della istituzione). Anche dal punto di vista del cittadino-utente, la cui tutela è del resto compenetrata alla forma dell’ordinamento pubblico ed ai limiti dei "munera", non è dunque indifferente la prospettiva di facoltizzare l’ente locale ad uscirvi. In breve, sembra anche in questo profilo temersi una deviazione dai c.d. vincoli di scopo che una amministrazione pubblica, anche entrando nel diritto privato, deve comunque rispettare [53].

In conclusione, siamo portati a ritenere che difficilmente il disegno servizi consenta di avviare un incisivo percorso di politiche pubbliche in campo culturale basato sulle fondazioni (come gli infruttuosi, ma pure ben più organici tentativi già svolti in passato lasciavano del resto capire che in quel campo non sono consentite scorciatoie).



Note

[1] E dunque in grado di accedere autonomamente ai servizi ritenuti essenziali. Sulle linee dell’azione comunitaria fra il rispetto delle missioni di interesse generale nell’organizzazione economica e sociale interna e la realizzazione del grande mercato, v. Commissione CE, I Servizi di interesse generale, comunicazione 11 settembre 1996, in G.U.C.E. 26 settembre 1996, n. C281. Per una rassegna sulle sue iniziative e azioni in campo sociale, v. da ultimo B. Busi, La politica sociale europea: linee evolutive e programmi d’azione, in Autonomie locali e servizi sociali, 2/2000, 169.

[2] Al n. 69 della comunicazione CE cit. si trova confermato che l’assistenza sociale compone un servizio di interesse generale.

[3] Si veda fra gli altri, anche per l’ampia panoramica comparata, E. Ferrari (a cura di), I servizi a rete in Europa, Milano, 2000.

[4] Intorno a tale difficoltà, accentuata con la ratifica del Trattato di Amsterdam, v., da ultimi, J.C. Pielow, Il "service public" e l’art. 16 del Trattato Ce da un punto di vista tedesco, ne I servizi a rete, cit., 70-74, e F. Salvia, Il servizio pubblico: una particolare conformazione dell’impresa, in Dir. pubbl., 2/2000, 542-453.

[5] Dottrina e giurisprudenza hanno sinora dedicato la loro attenzione all’elaborazione degli elementi costitutivi le situazioni rientranti nel concetto di servizi di interesse generale economici (ex art. 86 Tratt.) senza soffermarsi, in specifico, attorno alle caratteristiche ed al regime di quelli che tali non sono. La valutazione interpretativa si è cioè finora soprattutto focalizzata sopra uno solo dei due versanti, restando così imprecisato se in quello dei servizi non economici possono ammettersi situazioni intermedie e graduali in ragione di un’appropriata differenziazione di quanto non debba qualificarsi economico, come sarebbe del resto tipico all’azione dell’Unione (basti pensare alle soglie degli appalti): in breve, con riguardo ai servizi sociali sembra ancora prematuro ipotizzare di ricorrere ad un più o meno semplice test, rispetto alla griglia elaborata da quelle letture, per concludere che essi sono o non sono economici e che dunque ad essi si applicano o meno le regole del mercato comunitario.

[6] Si veda, con riguardo al sistema della previdenza sociale, la recente segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali del 9 febbraio 1999 (pubblicata in Foro it., 3/2000, III, 183 ss.), ove, riconoscendo che essa invero "costituisce attività economica", si auspica il definitivo superamento del regime di monopolio legale gestito dall’Inail e, nei fatti, si blocca il già avanzato iter legislativo diretto a riformarlo secondo una logica non di mercato.

[7] Specialmente a seguire il Trattato di Amsterdam e l’inserzione dell’art. 16, G. Corso, I servizi pubblici nel diritto comunitario, in Riv. giur. quad. pubbl. servizi, 1/1999, 10-11, nota peraltro quanto vani si siano dimostrati, innanzi al magistrato comunitario, gli sforzi di qualificare come funzione un’attività avente invero, concretamente, i caratteri del servizio.

[8] Cfr. G. Di Gaspare, I servizi pubblici verso il mercato, in Dir. pubbl., 3/1999, 797 ss., nonché il parere sul d.d.l. servizi, nella stesura di cui in A. S. n. 4014, dell’Autorità garante del 21 ottobre 1999, in Foro it., 1/2000, III, 48 ss.

[9] Per una analisi storica di questo processo nel settore della cultura, v. da ultimo D. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana (1880-2000), Bologna, 2000.

[10] Ma anche quale "missione" principale, come nei casi delle aziende di Mantova e Bolzano.

[11] Cfr. E. Menichetti, Accesso ai servizi sociali e cittadinanza, in corso di pubblicazione in Dir. pubbl.

[12] Se non considerando, come si capirà meglio in seguito, che nel più rilevante fronte dei servizi socio-assistenziali le Onlus non sono in realtà interessate ad utilizzare i modelli all’oggetto nella medesima prospettiva rilevata dal mondo della cultura in quanto, come è noto, esse non possono divenire tali ove alla loro struttura partecipi un ente pubblico (art. 10, n. 10, d.lg. 460 del 1997). L’approccio dei soggetti del terzo settore è dunque tendenzialmente opposto a quello che rivela la proposta di legge nel campo dei servizi culturali, salvo trovare congiunzione nell’istituto del convenzionamento diretto: in questi ultimi la tesi è quella di associare pubblico e privato nel momento organizzativo-gestionale mentre in quelli socio-assistenziali si rivendica per così dire orgogliosamente l’autonomia organizzativa e, suo tramite, l’idoneità di un’efficace capacità gestionale. Si tratta peraltro di una constatazione empirica che non spiega l’anomalia della presente riserva.

[13] In Appunti sul modello dell’istituzione per l’esercizio di servizi sociali, in Le Regioni, 5/1999, 925 ss.

[14] Sia pure in una prospettiva d’indagine necessariamente formale, in quanto la loro recente costituzione non consente, per quanto a noi noto, di valutarne altresì l’efficacia gestionale.

[15] Rispetto alla cui configurazione si rinvia, per tutti, a M.V. De Giorgi, Le persone giuridiche, associazioni e fondazioni, in Trattato di diritto privato, II, sez. I, cap. I-IV, Torino, 1999, 279 ss., ricco di un’amplissima bibliografia.

[16] E’ gestito tramite il modello della fondazione tipica ad es. il Museo ebraico di Bologna, fra i cui fondatori siedono comune e provincia di quella città. Posto che la partecipazione di detti enti risale ad un loro atto amministrativo, le considerazioni che si svolgeranno in seguito, al par. 6, si applicano anche nei suoi confronti.

[17] Dalla quale si dissocia la sola, pur autorevole, voce di C.M. Bianca, Diritto civile, I, 1987, 334. Sui caratteri della fondazione-impresa e le sue conseguenze alla fattispecie in esame torneremo più sotto, ai par. nn. 5 e 6,

[18] Secondo Galgano, Le associazioni, le fondazioni, i comitati, II ed., 1996, 413, l’impresa della fondazione può costituire sia l’oggetto principale o esclusivo che secondario o accessorio dell’ente, con la conseguenza che nel primo caso a questi si applicherà lo statuto dell’imprenditore commerciale e nel secondo il più generico statuto dell’imprenditore.

[19] All’obiezione di osservare che una fondazione ben potrebbe limitarsi alla mera gestione del proprio patrimonio (e cioè senza impulso imprenditoriale), è facile replicare che a questa indiscutibile verità - tipica a quella dell’originario ma del tutto recessivo modello delle fondazioni caritatevoli - non sembra però corrispondere la "ratio" della presente fattispecie, la quale muove per l’appunto in reazione a tipologie gestionali pubbliche prive o non sufficientemente attrezzate proprio in quel profilo.

[20] Non vi sono indizi per ritenere che la mera previsione legislativa di quei modelli ne comporti l’acquisizione della personalità di diritto pubblico: come si è visto sono per di più sottratti al regime di regolazione previsto per il modello, pubblico, dell’istituzione. In giurisprudenza, fra le altre, v. Cons. stato, sez. IV, 19 marzo 1987, n. 137, in Foro amm., 1987, 527 ove si afferma che "il perseguimento di finalità pubbliche non costituisce elemento determinante il carattere pubblico di un ente, così come non ne sono sicura testimonianza l’intervento di organi pubblici nel procedimento di nomina di organi amministrativi o l’esercizio di controlli statali; ove non siano accompagnati dalla titolarità di pubblici poteri, dalla prerogativa dell’autotutela e dalla potestà di autodeterminazione di scioglimento, nonché dalla espressa qualificazione pubblicistica da parte del legislatore". Aderisce a tale lettura, in dottrina, A. Bardusco, Le fondazioni di diritto pubblico, in Dig. dir. pubbl., vol. VI, 1991, 390, ribadendo che solo la legge (anche regionale o provinciale) può introdurre caratteri distintivi al modello civilistico e quindi, per tal via, determinare il sorgere di una fondazione di diritto pubblico; ma altresì, all’opposto, che se nella previsione legale mancano (pur anche in una prospettiva più sfumata di quanto pretende il giudice amministrativo) quei caratteri distintivi non potrà allora parlarsi di un ente diverso da quello configurato dal codice, cui dunque riceve la complessiva disciplina.

[21] Né questa conclusione trova smentita nel vedere che il d.d.l. aggiunge, all’art. 113-bis, comma 1, che "gli enti locali ... svolgono attività di indirizzo, di vigilanza, di programmazione e di controllo" e che "nei limiti e nel rispetto delle leggi vigenti (essi) svolgono inoltre attività di regolazione diretta ad assicurare l’accessibilità, la continuità, la qualità, la fruizione in condizione di eguaglianza dei servizi essenziali, l’universalità..." ecc. Il rinvio a questo elenco di istituti, invero tanto poco distinti l’uno dall’altro da finire per apparire confuso, non può infatti formalmente applicarsi ai presenti modelli privatistici se non inammissibilmente alterandone la natura (ovverosia trasformandoli, agendo sui loro statuti, in enti collettivi di diritto speciale in via amministrativa). Il fatto che quell’elenco preesistesse alla recentissima inserzione, fra i modelli pubblici cui può invece applicarsi, di questi ulteriori due privati in un processo elaborativo di revisione del testo del d.d.l. "per stratificazione" può forse spiegare l’origine di tale antinomia. La quale trova comunque scudo nell’ammettere una precisa deroga ("nei limiti e nel rispetto delle leggi vigenti", e dunque anche del codice). Quel generico elenco possiede allora una debole valenza giuridica rispetto al più analitico statuto disciplinare dei vari modelli conosciuti; costituisce una sorta di generale dichiarazione di principio che trova poi concreta manifestazione nel puntuale regime organizzativo proprio di ogni modello. Ovvero, malgrado non sia detto e dunque resti poco chiaro, si riserva di trovare applicazione non sul lato della loro struttura bensì in quello della convenzione attraverso la quale l’ente titolare lo incarica dell’attività erogativa.

[22] Per tutti, M. Cammelli - A. Ziroldi, Le società a partecipazione pubblica nel sistema locale, II. ed., Rimini, 1999, 77 ss. e spec. 88 ss.

[23] V. E. Ferrari, I servizi sociali, in S. Cassese (a cura di) Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2000, spec. 608 ss.

[24] Più esattamente, della Fondazione di partecipazione per la gestione delle Civiche scuole di Musica, Cinema, Teatro, Interpreti e Traduttori. Dagli atti istruttori collazionati nella stesura del 22 maggio 2000, invero piuttosto confusi, si ricava che i rapporti fra il Comune e quella fondazione verranno articolati sulla base di una convenzione di durata trentennale a mente della quale il comune si impegna ad acquistarne i servizi per un importo stimato, per l’esercizio 2000/2001, in 22 mld., ma decrescenti nel tempo "in quanto è stato previsto l’aumento della capacità di autofinanziamento della fondazione con la vendita dei propri prodotti e la ricerca di altri finanziatori...". Fra cui anche i "cittadini, i quali versando un piccolo contributo parteciperanno alla vita della fondazione...". Le maggiori aspettative di successo sembrano peraltro affidate alla prospettiva di "aumenta(re) il numero degli allievi per corso e producendo, così, un effetto di riduzione del costo" delle docenze frontali (p. 31). Si noti che al fondo di dotazione, e cioè alla formazione del patrimonio della fondazione il comune partecipa con un conferimento di 100 ml.

[25] A fronte di un bilancio compreso fra i due e i tre mld., alla fondazione anconetana i privati partecipano al fondo di dotazione, pari a 200 ml., con un apporto complessivo di 70 ml. (ma non anche a quello di gestione, che rimane dunque per ora ad integrale carico pubblico). Il testo del suo statuto, unitamente a quello della fondazione Pier Lombardo può leggersi in G. Franchi Scarselli, Le fondazioni di partecipazione per l’esercizio di attività culturali, in Autonomie locali e servizi sociali, 2/2000, 259 ss.

[26] Qui, e cioè alla fondazione San Domenico avente per scopo quello "di sostenere e incrementare l’attività del locale teatro con riferimento alla prosa, alla danza, alla musica, alla letteratura, alla cultura ed alle arti in generale ... secondo un progetto integrato di produzione, distribuzione, aggiornamento, formazione, promozione e ospitalità ... di cui la fondazione gestirà e garantirà la sede teatrale nonché la direzione artistica e organizzativa ecc.", i privati partecipano complessivamente con 80 ml. dei 130 del fondo di dotazione di partenza e con altrettanti per quello di gestione nei primi due anni di attività.

[27] Cfr. D. Jallà, Le istituzioni museali torinesi, in Aedon, 2/1998.

[28] Per F. Merusi, Commento dell’art. 9 della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1975, vol. I, 438-339, è "da respingere l’idea che nella nozione di Repubblica siano ricompresi enti formalmente di diritto privato, ma, sostanzialmente, di rilievo pubblicistico per l’importanza assunta dalla loro finalità di promozione della cultura ... così come sembrano suggerire recenti suggestioni dottrinali". E’ di diverso avviso, ragionando sull'assetto pluralistico dello Stato repubblicano, A. Predieri, Sull’ammodernamento della disciplina delle fondazioni e istituzioni culturali di diritto privato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, 1161-1162.

[29] Lo statuto tipo, secondo la configurazione degli Autori di cui alla nota successiva, può vedersi in A. Propersi - G. Rossi, Gli enti non profit, Milano, 2000, XIII ed., 79 ss.

[30] Così E. Bellezza - F. Florian, Le fondazioni del terzo millennio, Firenze, 1998, 63-64, da cui traiamo anche gli ulteriori brani di cui sotto.

[31] Ricapitola le due posizioni, rispettivamente ascrivibili al pensiero di Rescigno e di Galgano, G. Ponzanelli, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, 1996, 155-159. Del primo Autore, la cui tesi è sul punto esposta alla voce Fondazione, (dir. civ.), in Enc. diritto, vol. XVII, Milano, 1968, 792, può altresì vedersi Le fondazioni: prospettive e linee di riforma, in Le fondazioni in Italia e all’estero, Padova, 1989, spec. 467 ss. ove, nell’auspicare il superamento dell’attuale modello mediante un’organica riforma dell’impianto civilistico (dei cui sfortunati lavori sarebbe poi stato un protagonista), prende in esame, punto per punto, le diverse difficoltà che attualmente impediscono di intravedere una "terza via" (ovverosia, con argomentazione "a contrariis", che spiegano l’invalidità di soluzioni miste): v. spec. 490-494 ove, riconoscendo nella prassi l’avvento di modelli che ibridano i caratteri propri delle due categorie di enti in quanto li vede compatibili al modello dell’uno o dell’altro, replica che occorre invece rimanere fermi nel reputare che l’uso della "forma" della fondazione per creare e condurre istituzioni protette non può bastare a trasferire su di essa il valore racchiuso nel "contenuto", per il carattere esteriore e neutrale che la forma conserva rispetto alle attività poste in essere. La tesi di Galgano è esposta ne Delle persone giuridiche, in Commentario del cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Libro primo, Bologna-Roma, 1969, sub artt. 11-42, 121. Quella tesi, invero risalente, non ci sembra abbia peraltro trovato successivo conforto dalla dottrina di quel medesimo A. che già ivi, 71 ss. e quindi nei più recenti Le fondazioni, in Dir. civ. e commerciale, vol. I, 1999, III ed., 267 e Le fondazioni, le associazioni e i comitati, cit., 425, non ha dubbi nell’identificare, quale carattere essenziale del modello della fondazione, sapere il fondatore: a) spogliato in modo definitivo della disponibilità dei beni che ha destinato allo scopo; b) escluso da ogni forma di concorso alla sua amministrazione. Né individua ulteriori modelli per così dire misti, come del resto ci sembra abbia poi convenuto unanime dottrina, anche laddove tende a riconoscere la recessività dell’originario modello di fondazione-erogatrice disegnato dal codice (e quindi talora ad ammettere l’erosione del postulato sulla subordinazione dell’elemento personale rispetto a quello patrimoniale). Escludono espressamente forme di contaminazione dell’uno con l’altro modello nei termini qui in considerazione M.V. De Giorgi, op. cit., 284, 364, 387, 428-429; G. Ponzanelli, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, 1996, 72-76 il quale afferma che tali cambiamenti di ruolo, riscontrabili nella prassi di fondazioni culturali, integrano il rischio di "abuso della forma giuridica". Analogamente, A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, 68 ss.; D. Vittoria, Gli enti del primo libro del codice civile, in Le fondazioni in Italia e all’estero, cit., 47-48 e 70-71 (la quale, anzi, trae da questa incerta prassi motivo per auspicare il ritorno a più seri controlli); Id., Le fondazioni culturali ed il consiglio di amministrazione. Evoluzione della prassi statutaria e prospettive della tecnica fondazionale, Riv. dir. comm., 1975, I, 22 ss. e 54-55; S. Cassese e G. Mariconda, in AA.VV., Fondazioni e associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del codice civile, a cura del Gruppo di studio Società e Istituzioni, Rimini, 1995, 60 e 69. In sostanza, mentre la costruzione della fondazione di partecipazione si fonda nel convincimento della inadeguatezza delle persone collettive del Libro primo e da lì trova le ragioni - si consenta - per lo più sostanziali per superarla in via interpretativa la più autorevole dottrina, anche laddove concorda su quel presupposto, e lo riscontra risolto nella prassi, da lì viceversa muove per auspicare una riforma di quel Libro (come dimostrano i vari progetti in tal senso avanzatisi nel tempo), in quanto non riconosce affatto valide quelle prassi; né a diverso, ma anzi a generalmente più rigoroso, risultato arriva la giurisprudenza laddove abbia avuto l’occasione di conoscerle (v. infra, par. 6). Sulla più recente delle ipotesi di riforma, e cioè sul progetto c.d. Cassese, possono confrontarsi per la voce adesiva e quella perplessa rispettivamente: S. Ristuccia, La riforma del Libro I del codice civile: il tentativo Cassese, in Non profit, diritto e management degli enti non commerciali, 1995, 11 ss. nonché Riprendere la via legislativa dopo il tentativo di riforma regolamentare del 1994, in Fondazioni e Associazioni, cit., 32 ss.); e G. Ponzanelli, op. cit., 83 ss. il quale osserva, a nostro avviso fondatamente, che la prospettiva agevolativa il riconoscimento della personalità caratterizzante quel progetto, che passava da concessorio a normativo, urtava (ed urta) con il rilievo sociale assunto nell’ultimo decennio dal terzo settore, da cui discende l’esigenza di eseguire migliori distinzioni tipologiche, ma anche quella di offrire garanzie, semmai più incisive, sulla solidità patrimoniale e sull’affidabilità degli amministratori dei soggetti che lo compongono. Per una medesima prospettiva v. D. Vittoria, L’abrogazione dell’art. 17 c.c.: l’incidenza sull’assetto normativo degli enti del I libro del codice civile, in Contratto e impresa, 1998, 1, 332-335.

[32] E’ peraltro curioso osservare che lo statuto di queste fondazioni disponga da un lato, all’art. 1, che le loro finalità si esplicano "nell’ambito della Regione Lombardia (Marche)" (cui dunque dichiara di soggiacere ai fini del controllo) quando poi all’art. 2 le autorizza a costituire "delegazioni ed uffici ... sia in Italia che all’estero...".

[33] Anche ai sensi della legge 59. In dottrina, sull’esigenza di riparare ad un assetto organizzativo pubblico non tanto più pluralista o policentrico, ma affetto da un plurimorfismo "ordinato sempre più secondo il criterio della dispersione" al punto "da dare l’impressione di essere disordinato", v. ad es. C. Franchini, L’organizzazione, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, cit., I, 251.

[34] Cfr. Cons. st., par., 19 dicembre 1961, n. 2213, in Cons. st., 1962, II, 1964 (solo massima) secondo cui "lo Stato e gli enti pubblici non possono partecipare, quali fondatori, ad un atto notarile di costituzione di una fondazione privata". La previsione di subordinare il riconoscimento al parere del Consiglio di stato è stata, come noto, abrogata dall’art. 17, comma 26, della l. 127/1997.

[35] Come neppure in capo alle Regioni, a mente di Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75 ove, in tema di configurazione delle associazioni di volontariato, la Corte ha respinto le eccezioni di illegittimità della l. 266/1991 (anche) nel profilo riguardante la loro capacità di regolazione nell’ambito del diritto privato: con un più marcato rilievo a quel profilo, fra i tanti commenti, v. quello di D. Vittoria, La disciplina delle organizzazioni collettive e il limite del diritto privato alla competenza legislativa delle regioni, in Le regioni, 1992, 1757. L’esperienza di fondazioni che vedono la regione in qualità di soggetto fondatore rimane peraltro vasta ma, si noti, è sempre esercitata per legge. Ed anche quando si sono trovate nella condizione di doverne alimentare l’attività causa l’insufficienza dei ricavi patrimoniali, pure ricorrono alla legge. V. ad es., le ll.rr. Emilia-Romagna 38/1986 e 27/1995 nei riguardi della fondazione A. Toscanini.

[36] Se ne può vedere l’elenco di quelle riconosciute in via governativa, pur aggiornato al solo 1988, in calce a P. Rescigno (a cura di), Le fondazioni in Italia e all’estero, Padova, 1989.

[37] Lo scopo non può peraltro risultare "generico e imprecisato", cfr. Cass., 27 febbraio 1997, n. 1806, in Arch. civ., 1997, p. 616, annotata da F. Galgano in Le fondazioni, cit. 273.

[38] Cfr., per una fattispecie riguardante i comitati, E. Cannada Bartoli, Partecipazione di comuni a comitati di diritto privato senza personalità giuridica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, 763.

[39] Suscita inoltre una certa perplessità osservare che il riconoscimento e in genere il potere di controllo (spec. ex art. 25 c.c.) su di un ente che vede parte, in quanto socio fondatore, la regione possa risultare validamente affidato alla regione stessa.

[40] "Cosiddette" in quanto, come noto, è stata da subito revocata in dubbio la loro configurazione nello schema tanto delle fondazioni quanto del diritto privato (ed anche se, nel caso degli enti lirici, se ne preveda l’acquisto della personalità di diritto privato): per ampi riferimenti v. M.V. De Giorgi, op. cit., 294 e 431. Per una critica alla tendenza dell’ordinamento di disporre la proliferazione di enti dotati di diritti speciali, v. G. Rossi, Gli enti pubblici, Bologna, 1991, 262.

[41] Cfr. M. Cammelli - A. Ziroldi, op. cit., 153-156. Rimane invece pacifico che la potestà normativa sulla disciplina di associazioni e fondazioni è riservata alla legge. Da questo limite deriva che l’ente locale non ha ovviamente la capacità di derogare l’impianto codicistico: la circostanza che il d.d.l. servizi preveda il caso di enti "che, per la loro disciplina statutaria, garantiscono partecipazione, imparzialità e trasparenza nella gestione del servizio", non comporta di certo il superamento di quel limite. Una migliore dimostrazione di questa affermazione richiede uno spazio incompatibile a queste note: oltre a rinviare alla precedente nota n. 20, sia consentito sintetizzarla osservando che quei tre caratteri o non significano molto rispetto a quanto già tutela il codice (spec. all’art. 25) nell’impianto tipico rispetto alla cura di uno scopo avente una natura pubblico-generale o comunque non risolvono il punto secondo il quale, per aversi un ente di diritto pubblico, occorre svolgere una deroga a quell’impianto (e non solo una l’aggiunta di qualche ulteriore prescrizione al governo dei loro amministrazioni per conseguirlo).

[42] Circa quello indisponibile può dubitarsi anche se va confrontata, rispetto all’ultimissima stesura del d.d.l. (quella del 6 dicembre), all’ammissione in capo alle istituzioni della potestà di alienare i "propri fondi patrimoniali" (art. 114, comma 4), la quale peraltro apre considerazioni troppo ampie per potere essere affrontate in questa sede.

[43] Per violazione dell’art. 2, disp. att. c.c., su cui insiste copiosa giurisprudenza (riportata da M.V. De Giorgi, op. cit., 453, nota n. 102).

[44] Invero si è portati a credere che l’inserzione di una simile franchigia avrebbe configurato l’individuazione di un modello di fondazione (di diritto pubblico) speciale, con la conseguente alterazione dell’assetto codicistico e relative conseguenze.

[45] Cfr. Cons. stato, sez. I, 23 gennaio 1991, in Cons. st., 1992, I, 1215, ove si afferma che in tale evenienza i fini della fondazione debbano essere necessariamente ridimensionati. Né quel giudice, sia pure in tempi più remoti, ammette situazioni che vedano, a fronte della limitatezza del patrimonio, generiche indicazioni a contribuzioni successive ed eventuali di privati o di enti pubblici: così Cons. stato, 6 luglio 1960, n. 274, ivi, 1961, I, 195.

[46] V. però Corte giust. CE, 17 giugno 1997 (Sodemare c. regione Lombardia), in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 3-4/1998, 683, con commento critico di A. Cacace, nella quale si salva una legge regionale che conferisce alle associazioni non profit il diritto di stipulare convenzioni con le Asl senza sottoporsi a gara pubblica.

[47] Di tipo convenzionale, sui quali v. V. Cerulli Irelli, Corso dir. amm., 1994, 67.

[48] Da ultimo, v. Trib. Milano, 16 luglio 1998, e cioè la sent. di primo grado del noto caso sulla dichiarazione di fallimento della Fondazione Ist. Sieroterapico Belfanti, con nota di S. Sanzo, in Giur. it., 1999, p. 1678, con ampi riferimenti di dottrina (anche a proposito della suddetta, molto nota ed altrettanto commentata, dichiarazione).

[49] Nel profilo della responsabilità, cfr. Corte conti, sez. Lazio 10 settembre 1999, con nota adesiva di I. Cacciavillani, in Foro amm., 3/2000, 1086 (nella quale si condannano gli amministratori di un comune per i danni subiti in conseguenza del fatto di avere gestito un spl tramite una spa in forma a tal punto irregolare da potersi ritenere che essa, in frode alla legge, non era né in realtà voleva essere tale: quella spa era in effetti detenuta da quel solo comune).

[50] Cfr., per tutti, F. Galgano, voce Imprenditore, in Dig. disc. priv., VII, Torino 1992, 97 nonché in giurisprudenza, da ultimo, T.a.r. Lombardia, sez. III, 23 dicembre 1999, n. 5049, in Riv. it. dir. com., 6/1999, 1466 dove per l’appunto si riconosce in capo ad una fondazione di diritto privato ovvero, meglio, avente personalità di diritto privato (il teatro Carlo Felice di Genova, uno degli enti del d.lg. 367/1996), in materia di appalto di servizi, tale qualità e dunque il doveroso rispetto della direttiva servizi e reg.me attuativa. Il Tribunale, comunque, prescinde da un’indagine sulla natura formale della personalità di quell’ente, limitandosi a riconoscere che al suo caso si riscontra la sussistenza dei parametri di cui all’art. 1, lett. b), comma 2, dir. 92/50.

[51] Come sembra affermare Corte cass., sez. un. civ., sent. 5 giugno 2000, n. 400, in Foro it., 10/2000, III, c. 2789. V. altresì Corte conti, sez. giurisd. Lazio, 29 ottobre 1998, n. 2246, in Foro it., 5/2000, p. 263, con nota di M.P. Giracca, nella quale altrettanto si conferma, secondo un indirizzo costante, che per l’incardinazione del giudizio di responsabilità contabile nei confronti degli amministratori di un ente è sufficiente che questo persegua, con fondi di provenienza pubblica, finalità proprie della collettività. Va però osservato che la sua giurisdizione non sussiste allorché l’ente sia economico, nel qual caso si apre quella della ago. In breve, la presente questione ci sembra aperta a soluzioni da valutarsi concretamente, in ragione della attività fattivamente esercitata dalla fondazione.

[52] E come si diceva sospetto al modello tipico delle fondazioni: cfr. per tutti F. Galgano, Le fondazioni, cit., 425-426 e giurisprudenza ivi cit.

[53] Su cui può vedersi C. D’Orta, Il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato, in F. Carinci e M. D’Antona (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario, I, II ed., Milano, 2000, 121-122.



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