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Pubblico e privato per la gestione e la valorizzazione dei beni culturali
(Lecce, 30 novembre 2001)

Pubblico e privato nella gestione dei beni culturali:
ancora una disciplina legislativa nel segno dell'ambiguità e del compromesso

di Eugenio Bruti Liberati [*]


Sommario: 1. Premessa. Gli obiettivi (apparentemente) perseguiti dalla legge finanziaria e i suoi probabili effetti. - 2. La disciplina prevista per i servizi culturali statali e il rinvio ad un apposito regolamento ministeriale. - 3. I servizi culturali di ambito locale. - 4. Considerazioni conclusive.


1. Premessa. Gli obiettivi (apparentemente) perseguiti dalla legge finanziaria e i suoi probabili effetti

Accompagnata da polemiche di vario genere, più volte modificata nella sua formulazione nel corso dell'iter parlamentare, la normativa introdotta dalla legge finanziaria per il 2002 in merito all'affidamento a soggetti privati di servizi culturali richiede un giudizio articolato, che in particolare tenga conto della diversità della disciplina dettata per i servizi statali e per quelli di ambito locale [1].

In entrambi i casi l'obiettivo dichiarato del governo e della maggioranza parlamentare era quello di favorire un più esteso e significativo coinvolgimento di operatori privati nella gestione e nella valorizzazione dei beni culturali.

Tuttavia, mentre le norme dettate per i servizi locali sembrano in effetti idonee a svolgere una reale funzione di stimolo in tale direzione, quelle concernenti i beni e i servizi di livello statale appaiono destinate piuttosto a rallentare e a circoscrivere il ricorso a forme di esternalizzazione dei servizi culturali.

Il conflitto tra i fautori di un'ampia collaborazione tra pubblico e privato nella gestione dei beni culturali e coloro che invece, per ragioni diverse, guardano con diffidenza e contrarietà a tale collaborazione quando assuma caratteri propriamente gestionali (e non di semplice supporto finanziario) è ancora aperto. La disciplina dettata dalla legge finanziaria rappresenta una tappa di questo conflitto: una tappa che, certo non per caso, aldilà delle apparenze sembra segnare la vittoria dei primi per ciò che attiene ai servizi di ambito locale e quella dei secondi per i servizi di livello statale.

2. La disciplina prevista per i servizi culturali statali e il rinvio ad un apposito regolamento ministeriale

Relativamente ai servizi culturali di ambito statale la norma di riferimento è l'art. 33, che aggiunge un nuovo comma all'art. 10, comma 1, del d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368 [2].

Prevede l'art. 33 che il ministero per i Beni e le Attività culturali possa dare in concessione a soggetti "diversi da quelli statali" la gestione di servizi finalizzati "al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico come definiti dall'art. 152, comma 3, del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112".

Tale facoltà del ministero - già prevista, almeno implicitamente, dalla normativa previgente [3] - viene peraltro subordinata all'emanazione di un apposito regolamento ministeriale, destinato a definire modalità, criteri e garanzie per l'affidamento in concessione, e di cui lo stesso art. 33 determina dettagliatamente l'oggetto.

Le ambiguità della formulazione della norma, che attengono anzitutto all'individuazione dei possibili destinatari dell'atto di concessione e alla determinazione dei servizi che del medesimo possono costituire l'oggetto, appaiono evidenti, e rivelano con chiarezza la battaglia svoltasi fuori e dentro la sede parlamentare tra sostenitori e oppositori dell'esternalizzazione dei servizi culturali statali.

Il ricorso alla locuzione "soggetti diversi da quelli statali", anziché a quella (più comune) "soggetti pubblici e privati", farebbe di per sé sorridere per la sua ingiustificata ritrosia ad evocare esplicitamente l'ipotesi (comunque certamente ammessa dalla norma) di una concessione a privati, se non fosse rivelatore della forza delle resistenze (anche irrazionali) che tale soluzione gestionale incontra.

D'altra parte, la fumosa definizione dei servizi affidabili in concessione, unita al rinvio ad una norma (l'art. 152, terzo comma, del d.lg 112/98) che (ragionevolmente) non include tra i compiti di valorizzazione dei beni culturali la complessiva gestione dei medesimi, potrebbe far dubitare del fatto che oggetto della concessione possa appunto essere, ai sensi dell'art. 33, l'affidamento della gestione di un museo, di un sito archeologico o di un altro bene culturale statale [4].

E' vero che nel testo della norma sono inserite altre prescrizioni che sembrerebbero smentire tale dubbio: in particolare, viene disposto che la convenzione di concessione debba prevedere che "all'atto della cessazione per qualsiasi causa della concessione, i beni culturali conferiti in gestione dal Ministero ritornino nella disponibilità di quest'ultimo"; nonché che il regolamento ministeriale, destinato a definire modalità, criteri e garanzie dell'affidamento, debba tra l'altro disciplinare i compiti dello Stato e del concessionario riguardo a restauri e ordinaria manutenzione dei beni oggetto del servizio.

Tuttavia, si è aperta in tal modo la via ad una potenziale, drastica compressione dell'oggetto della concessione, operabile tanto nell'ambito del regolamento ministeriale quanto in occasione dei singoli affidamenti. E' possibile che nell'applicazione della norma il coinvolgimento dei privati venga ancora una volta inteso come affidamento ai medesimi di compiti specifici, strumentali alla complessiva gestione del bene culturale statale, e non come attribuzione di tale piena gestione.

D'altro canto, la natura fortemente compromissoria dell'art. 33 della l. 448/2001, e l'impatto quanto meno dubbio che esso potrà avere sul progredire della collaborazione tra pubblico e privato nel settore dei beni culturali, si ricollega anche, e anzi innanzitutto, alla previsione di un regolamento ministeriale come necessario presupposto per l'operatività della nuova disciplina e dunque per il ricorso allo strumento concessorio.

Si tratta di uno schema ben noto, a cui il legislatore ha già fatto in passato significativo ricorso proprio nel prevedere forme di esternalizzazione dei servizi culturali statali: il contrasto tra i fautori di tali soluzioni organizzative e gli oppositori delle medesime (tra cui va notoriamente ricompresa buona parte dell'alta burocrazia ministeriale) viene composto introducendo norme di legge che in linea di principio ammettono (e talora sembrano indirizzare verso) l'esternalizzazione, ma nel contempo rinviano l'operatività della medesima alla successiva emanazione di un regolamento, destinato a non venire mai alla luce o comunque ad avere contenuti drasticamente limitativi rispetto agli (apparenti) obiettivi del legislatore [5].

Emblematica da questo punto di vista è la vicenda dell'art. 10 del d.lg. 368/1998 (cioè proprio della norma che l'art. 33 vuole integrare).

E' noto che tale disposizione prevede che il ministero per i Beni e le Attività culturali, per il più efficace esercizio delle sue funzioni e in particolare per la valorizzazione dei beni culturali, possa stipulare accordi con altre amministrazioni o con soggetti privati nonché costituire ovvero partecipare ad associazioni, fondazioni o società. Questa seconda facoltà viene peraltro condizionata all'emanazione di un regolamento ministeriale diretto a definire modalità e criteri di tale costituzione o partecipazione.

Sono passati ormai tre anni dall'entrata in vigore del d.lg. 368 e il regolamento in questione non è stato ancora adottato. D'altra parte, il testo a suo tempo predisposto dal ministero (che riguardava unicamente le fondazioni) sembrava rivolto assai più a scoraggiare la partecipazione dei privati che non ad incentivarla, più a rendere improbabile la costituzione di fondazioni miste per la gestione di beni culturali che non a favorire il ricorso a tale strumento [6].

Mi sembra ragionevole supporre che nel caso del regolamento previsto dall'art. 33 della legge finanziaria per il 2002 le cose non andranno molto diversamente. E ciò a maggior ragione se si considerano le indicazioni che tale norma dà al ministero in ordine all'oggetto, e in definitiva anche al contenuto, del regolamento: indicazioni che sembrano autorizzare, e anzi richiedere, una forte e pervasiva ingerenza dell'amministrazione non solo sull'attività del concessionario (si prevede, tra l'altro, che il regolamento debba definire "i rispettivi compiti dello Stato e dei concessionari riguardo alle questioni relative ai restauri e all'ordinaria manutenzione dei beni oggetto del servizio, ferma restando la riserva statale sulla tutela dei beni") ma anche sulla sua organizzazione (la norma si spinge sino a stabilire che il regolamento dovrà disciplinare "i criteri, le regole e le garanzie per il reclutamento del personale, le professionalità necessarie rispetto ai diversi compiti, i livelli retributivi minimi per il personale").

L'obiettivo di disincentivare al massimo la eventuale disponibilità di operatori privati ad assumersi la gestione di un bene culturale statale appare perseguito con determinazione: e infatti la norma prevede anche, incongruamente ma coerentemente, che i concessionari debbano versare anticipatamente, all'atto della stipulazione della convenzione di concessione, almeno il 50 per cento del canone complessivo da corrispondere allo Stato per tutta la durata del rapporto concessorio.

E' probabile, del resto, che tra i redattori della norma la lucida volontà di alcuni di ostacolare l'utilizzo di strumenti di esternalizzazione si sia incontrata con l'ottimistica convinzione di altri che la gestione dei beni culturali rappresenti un business di grande interesse e che alle porte premano orde di aspiranti imprenditori culturali ansiosi di profittare degli straordinari indici di redditività di tali intraprese [7].

Per chi condivide l'uno o l'altro di tali orientamenti, la formulazione della norma a cui il complesso iter parlamentare è pervenuto rappresenta certamente un risultato apprezzabile. Per chi invece ritiene che la migliore fruizione e valorizzazione del nostro patrimonio culturale e ambientale richiedano di ampliare la gamma degli strumenti di gestione utilizzabili dalle pubbliche amministrazioni e dunque di acquisire il supporto non solo finanziario ma anche tecnico-organizzativo e gestionale dei privati, l'art. 33 della legge finanziaria per il 2002 costituisce una delusione ed una sconfitta.

Deve essere chiaro, d'altro canto, che le esigenze di tutela del bene culturale poste dall'affidamento della gestione del medesimo a "soggetti non statali" potevano e possono essere soddisfatte senza bisogno di alcun regolamento ministeriale.

In ordine alla gestione di servizi pubblici da parte di soggetti privati o di strutture miste, pubblico-private, infatti, si è ormai consolidato all'interno del nostro ordinamento un sistema di principi e di regole che possono (e devono) certamente essere applicati anche nel settore dei beni culturali e che appaiono del tutto idonei a garantire la salvaguardia degli interessi pubblici propri del settore [8].

Su tali principi e regole si tornerà brevemente nel paragrafo conclusivo. Prima occorre considerare la (diversa) disciplina dettata dalla stessa legge finanziaria per il 2002 relativamente ai servizi culturali di ambito locale.

3. I servizi culturali di ambito locale

La l. 448/2001 si occupa dei servizi culturali di ambito locale all'art. 35 comma 15, che disciplina la "gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza imprenditoriale" (inserendo allo scopo un'apposita disposizione, l'art. 113-bis, nel Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) [9].

Prevede infatti il terzo comma del nuovo art. 113-bis che "gli enti locali possono procedere all'affidamento diretto dei servizi culturali e del tempo libero anche ad associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate".

D'altra parte, il successivo quarto comma del medesimo art. 113-bis dispone che quando sussistono ragioni tecniche, economiche o di utilità sociale tali servizi possono essere affidati a terzi in base a procedure ad evidenza pubblica [10].

Infine, l'ultimo comma della disposizione in discorso prescrive che i rapporti tra gli enti locali e i soggetti erogatori dei servizi siano regolati da contratti di servizio.

In definitiva, la disciplina ora richiamata consente espressamente che la gestione dei servizi culturali locali sia esternalizzata mediante affidamento: a) ad una fondazione o associazione costituita o partecipata dall'ente locale; b) ad un soggetto terzo rispetto all'ente locale, e dunque eventualmente ad un soggetto anche sostanzialmente privato [11].

In entrambi i casi non è richiesto, per la concreta operatività di tali soluzioni gestionali, l'emanazione di alcun regolamento: vi è solo, per ciò che attiene all'affidamento a soggetti terzi, un rinvio alle normative di settore, formulato peraltro in termini tali da far escludere che l'assenza di tali normative possa precludere l'utilizzo dell'istituto.

Il contrasto con la disciplina dettata per i servizi culturali statali appare stridente. Sembra quanto meno singolare che quello stesso legislatore che per i servizi culturali di competenza dello Stato ha ritenuto indispensabile subordinare la possibilità di affidare a terzi il servizio ad una serie di penetranti cautele - che, come si è visto, arrivano sino all'imposizione al concessionario di regole particolari quanto al reclutamento e al trattamento del personale - e alla emanazione di un apposito atto regolamentare, per i servizi di ambito locale si sia invece rimesso alla discrezionalità dell'amministrazione e all'operare dei principi generali in tema di affidamento di servizi pubblici a strutture private o miste.

Può essere che tale differenza di regime discenda dal lodevole intento di rispettare l'autonomia degli enti locali e le competenze legislative regionali, come definite dal nuovo Titolo V della Costituzione [12]. Appare peraltro giustificato il sospetto che essa si ricolleghi in realtà innanzitutto all'efficace azione della lobby ministeriale e, viceversa, all'assenza presso gli enti locali di consolidati apparati burocratici nel settore dei servizi culturali.

Quello che è certo è che le norme concernenti i servizi culturali locali, contrariamente a quelle relative ai servizi statali, appaiono effettivamente idonee ad incentivare il ricorso a forme di esternalizzazione.

L'ente locale ovviamente non è in alcun modo tenuto ad avvalersi degli strumenti dell'associazione o fondazione mista oppure dell'affidamento a privati: ma se ritiene di utilizzare l'uno o l'altro di tali strumenti, perché le altre soluzioni gestionali contemplate dalla legge non risultano in concreto soddisfacenti [13], non deve fare i conti con una disciplina legislativa e regolamentare che espone la struttura affidataria (sia essa mista o esclusivamente privata) a fortissime ingerenze funzionali ed organizzative dell'amministrazione affidante e che quindi inevitabilmente allontana e disincentiva i potenziali partners (e in particolare quelli dotati di maggiore esperienza e qualificazione).

Né questo implica, come si è già osservato e come si preciserà meglio nel prossimo paragrafo, alcuna riduzione delle garanzie di tutela del bene culturale e più in generale del pubblico interesse: tali garanzie infatti sono fornite dalle norme e dai principi generali sull'affidamento dei servizi pubblici, che attengono sia alla fase della scelta dell'affidatario (per la quale comunque l'art. 113-bis impone il rispetto di procedure ad evidenza pubblica) sia a quella della regolazione della sua attività gestionale.

Resta da osservare che nel contesto ora richiamato appare difficilmente collocabile la singolare previsione dell'art. 32 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, poi specificata dal regolamento emesso con il d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, che subordina il conferimento in concessione o l'utilizzazione mediante convenzione dei beni di interesse storico e artistico di proprietà (oltre che dello Stato) delle regioni, delle province e dei comuni a preventiva autorizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali.

Tale disciplina, peraltro, risulta oggi, alla luce del nuovo testo dell'art. 118 della Costituzione, di assai dubbia legittimità costituzionale: non solo perché difficilmente compatibile con il principio di sussidiarietà ivi enunciato, ma anche perché in contrasto con l'espressa previsione secondo cui la tutela dei beni culturali deve essere garantita dalla legge statale mediante "forme di intesa e di coordinamento". Tale previsione sembra infatti escludere la legittimità di norme di legge che per assicurare tale tutela subordinino le scelte organizzativo-gestionali degli enti locali ad atti imperativi di organi statali.

4. Considerazioni conclusive

Le considerazioni sopra formulate conducono a conclusioni ovvie.

Mentre è prevedibile che la disciplina introdotta dalla legge finanziaria 2002 possa realmente incentivare la collaborazione tra pubblico e privato in ordine ai servizi culturali di ambito locale, è invece quanto meno improbabile che ciò avvenga per i servizi di competenza statale. Per questi ultimi, al contrario, le disposizioni contenute nell'art. 33 della legge 448/2001 segnano un significativo arretramento rispetto alla normativa previgente, che come si è sopra rilevato già consentiva l'affidamento in concessione della gestione di beni culturali anche statali.

Occorre nuovamente sottolineare che gli interessi pubblici messi in gioco dall'affidamento a soggetti privati o pubblico-privati di servizi culturali, e in primis della gestione di beni culturali, possono trovare tutela adeguata anche nelle norme e nei principi generali sull'affidamento dei servizi pubblici a strutture esterne all'amministrazione che ne è titolare. Nulla vieta evidentemente che tali norme e principi vengano opportunamente precisati, con riferimento alle specifiche caratteristiche dei servizi culturali, con atti di natura regolamentare; ma non sembra necessario né ragionevole che a tale precisazione sia subordinata l'effettiva possibilità di esternalizzazione del servizio.

Nei confronti dei gestori di pubblici servizi le pubbliche amministrazioni comunque dispongono di penetranti poteri di regolazione e di controllo, che sono variamente configurati dalle norme di settore (e che talora sono attribuiti ad apposite autorità semi-indipendenti) ma che sotto diversi profili sono insiti nella stessa titolarità del servizio pubblico.

E' noto che oggi tali poteri trovano anzitutto espressione e insieme specificazione nel contratto di servizio, che deve essere stipulato tra l'ente affidante e il gestore all'atto dell'affidamento e che ha ad oggetto la definizione delle modalità di erogazione del servizio, la fissazione di standards quali-quantitativi a cui il gestore deve attenersi, e ogni altro elemento che ad avviso dell'amministrazione sia rilevante per la tutela del pubblico interesse [14].

E' nel contratto di servizio - atto il cui carattere negoziale consente di trovare, o almeno di ricercare, un equilibrio tra il necessario intervento regolatorio dell'amministrazione e il rispetto dell'autonomia organizzativa e funzionale del soggetto affidatario - che trovano la loro naturale collocazione anche le prescrizioni concernenti la tutela e la conservazione del bene culturale oggetto del servizio, le modalità di valorizzazione del bene e quelle relative alla fruizione dello stesso da parte del pubblico.

A tale modello si attiene, correttamente, la disciplina dettata dalla legge finanziaria per i servizi di ambito locale, che prescrive appunto che i "rapporti tra gli enti locali e i soggetti erogatori dei servizi … sono regolati da contratti di servizio" [15].

L'art. 33 della l. 448/2001 crede invece opportuno prevedere che i profili sopra richiamati siano disciplinati, in modo unilaterale, con il più volte citato regolamento ministeriale, e sembra voler riservare all'atto di natura contrattuale (e cioè alla convenzione di concessione) un contenuto essenzialmente patrimoniale: si tratta, com'è facile rilevare alla luce dei contributi dottrinali che hanno ricostruito l'evoluzione dell'istituto della concessione [16], di un'impostazione vecchia, datata, ormai da tempo superata dalla prassi in quasi tutti i settori di amministrazione.

L'esperienza mostra con chiarezza che laddove l'amministrazione voglia acquisire il supporto gestionale di operatori privati, essa deve almeno in parte concordare con gli stessi il contenuto del rapporto e attribuirsi un ruolo di indirizzo e di controllo compatibile con l'autonomia del gestore (fermo restando che eventuali violazioni contrattuali del medesimo o particolari esigenze di pubblico interesse possono giustificare l'adozione di atti unilaterali da parte dell'ente affidante) [17].

La pretesa di operare in via sostanzialmente imperativa in sede di definizione delle regole di svolgimento del servizio, come pure quella di intervenire pesantemente sulla struttura organizzativa degli aspiranti gestori privati, non possono che avere come conseguenza quella di allontanare gli operatori più seri, esperti e qualificati (come tali normalmente gelosi della propria autonomia ed identità anche organizzativa).

Non vi è dubbio che l'attività dei gestori debba essere indirizzata e controllata dall'amministrazione, e in particolare che, quando il servizio abbia ad oggetto la gestione di un bene culturale, debbano essere definite con chiarezza le modalità di conservazione del bene e, nei loro termini essenziali, quelle di fruizione dello stesso da parte del pubblico. Ma questo non può e non deve tradursi in una ingerenza continua dell'ente affidante sulla gestione, in una commistione tra il ruolo di regolazione e quello di gestione che inevitabilmente finirebbe per incidere in negativo sull'efficacia e sulla trasparenza di entrambi.

Occorre chiedersi piuttosto se l'esigenza di tutelare adeguatamente il bene culturale non debba condurre ad escludere che la gestione del medesimo possa essere affidata a soggetti che perseguono fini di lucro.

Mi riferisco qui solo alle ipotesi in cui oggetto del servizio è la gestione complessiva del bene e non a quelle relative ai c.d. servizi aggiuntivi (per i quali la finalizzazione al profitto dell'affidatario non sembra comportare problemi, e anzi può in concreto risultare funzionale alla sua maggiore efficienza).

Quando al gestore è affidata la responsabilità complessiva di un museo (o di una dimora storica o di un sito archeologico o altro), esso è tenuto ad operare un non facile bilanciamento tra le esigenze di valorizzazione e fruizione del bene, che di per sé potrebbero indurre a massimizzare l'"esposizione"al pubblico del medesimo o anche il suo utilizzo per fini di spettacolo o di divertimento, e quelle di tutela, che notoriamente possono invece richiedere modalità più controllate di fruizione. E sembra improbabile che tale bilanciamento possa essere garantito da chi, per dovere statutario, è necessariamente orientato al conseguimento del massimo profitto possibile.

Limitare ai soli soggetti non profit la possibilità di conseguire l'affidamento della gestione del bene dovrebbe d'altro canto almeno in parte attenuare le preoccupazioni inerenti all'esternalizzazione del servizio e rendere quindi più facilmente percorribile la strada di una regolazione puntuale ma non pervasiva del medesimo. Il che, come più volte si è sottolineato, appare presupposto necessario perché l'incontro tra le capacità gestionali che taluni operatori privati sono in grado di offrire e la domanda di collaborazione dell'ente proprietario del bene possa concretamente realizzarsi.



Note

[*] Il testo riproduce - con aggiornamenti - il testo della relazione svolta al convegno "Pubblico e privato per la gestione e per la valorizzazione dei beni culturali", Lecce, 30 novembre 2001.

[1] La legge finanziaria per il 2002 è la legge 21 dicembre 2001, n. 448. Per i servizi culturali statali v. l'art. 33; per quelli locali l'art. 35 comma 15.

[2] Ricordo che l'art 10 cit. prevede la facoltà del ministero di stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e soggetti privati nonché di costituire o di partecipare ad associazioni, fondazioni o società. Su tale disposizione v. E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero (art. 10 del d.lg. 368/1998), in Aedon 1/1999.

[3] La facoltà in questione era certamente desumibile dall'art. 32 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 e dal relativo regolamento, d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, che sottopongono a preventiva autorizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali l'alienazione, il conferimento in concessione e l'utilizzazione mediante convenzione di beni del demanio storico-artistico. E doveva del resto riconoscersi al ministero anche in base allo stesso art. 10 comma 1 lett. a) del d.lg. 368/1998: tra gli accordi previsti da tale norma, infatti, potevano farsi rientrare anche quelli di carattere concessorio (v. specificamente sul punto E. Bruti Liberati, op. cit., par. 2).

[4] E' bene ricordare che in precedenti formulazioni della norma, che come si è detto nel testo è stata più volte modificata durante l'iter parlamentare, si prevedeva esplicitamente che la concessione riguardasse l'affidamento a privati della "intera gestione del servizio concernente la fruizione pubblica dei beni culturali".

[5] Sul punto si vedano le considerazioni svolte da G. Corso nella sua Relazione conclusiva alla Giornata di studio su "L'istituzione del ministero per i beni e le attività culturali nel quadro delle riforme amministrative", in Aedon 1/1999.

[6] Su tale testo, pubblicato sul n. 2/2000 di Aedon, v. infatti il commento critico di A. Canuti, Il regolamento attuativo dell'art. 10 d.lg. 368/1998: un primo commento, ivi.

[7] Così non è, come studi economici di settore e consolidate esperienze estere documentano ampiamente. Sul punto v. di recente le chiare e condivisibili considerazioni svolte dalla Presidentessa del Fai (G.M. Mozzoni Crespi, Ma coi musei non si guadagna, Sole 24 Ore, 18 novembre 2001). Ciò vale, ovviamente, per la gestione complessiva di un museo o di una dimora storica o di un altro bene culturale, e non per i c.d. servizi aggiuntivi (bar, ristoranti, bookshop, merchandising, etc.), riguardo ai quali i margini di profitto possono talora essere significativi: ma è l'esternalizzazione della prima quella su cui si discute e si polemizza, mentre per i secondi il ricorso a gestori esterni rappresenta ormai una soluzione organizzativa pacificamente ammessa (a partire dall'art. 4 del d.l. 14 novembre 1992, conv. in l. 14 gennaio 1993, n. 4).

[8] La bibliografia sui servizi pubblici e sulla disciplina ad essi applicabile è ormai ricchissima e si è arricchita in questi ultimi anni di diversi contributi monografici. Tra essi v. in particolare G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova, 2001; A. Pericu, Impresa e obblighi di servizio pubblico, Milano, 2001; N. Rangone, I servizi pubblici, Bologna 1999.

[9] Non si affronta qui il problema della effettiva riconducibilità di tutti i servizi culturali alla "species" dei servizi privi di rilevanza imprenditoriale, che sembra necessariamente richiedere un approfondimento di carattere sistematico su tale nozione e su quella simmetrica dei "servizi di rilevanza industriale" (disciplinati dall'art. 113 del Testo Unico sugli enti locali, nel testo riformato dal medesimo art. 35 della l. 448/2001).

[10] Si noti che la norma fa esplicito riferimento ai servizi di cui al comma 3 (oltre che a quelli considerati dai commi 1 e 2), e dunque anche ai servizi culturali. Il che sembra attenuare la rilevanza concreta del problema segnalato nella nota precedente. Se anche, infatti, i servizi culturali, o alcuni servizi culturali, dovessero ritenersi caratterizzati da rilevanza imprenditoriale, la disciplina dettata dall'art. 113-bis resterebbe comunque applicabile ad essi in considerazione di tale espresso, nominativo riferimento. Occorre anche rilevare che la norma, coerentemente con la terminologia utilizzata in tutto l'art. 35 e contrariamente a quanto avviene nell'art. 33, non qualifica come concessione l'atto e il rapporto relativo all'affidamento a terzi del servizio culturale. Tra i due istituti - concessione e affidamento di pubblico servizio - vi è comunque una sostanziale identità, e la diversità terminologica riscontrabile nelle due norme della legge finanziaria concernenti i servizi culturali sembra più che altro il frutto della inconsapevolezza concettuale del legislatore (oltre che, verosimilmente, di una piuttosto semplicistica (oltre che incostante) tendenza a dissimulare ipotesi di concessione dietro nomina differenti).

[11] Anche l'affidamento in concessione dei servizi culturali locali, e in particolare di quelli aventi ad oggetto la gestione di beni culturali, era certamente già consentito dalla legislazione previgente: in termini espressi v. ancora l'art. 32 della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

[12] Ricordo che, in base alle modifiche apportate dalla legge costituzionale 3/2001, mentre la tutela dei beni culturali è riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, la valorizzazione dei medesimi così come la promozione e la organizzazione delle attività culturali rientrano tra le materie di legislazione concorrente (con la nota conseguenza che per le medesime la potestà regolamentare spetta alle regioni).

[13] L'art. 113-bis prevede che i servizi pubblici privi di rilevanza industriale possano essere gestiti anche mediante affidamento diretto ad istituzioni, aziende speciali, società di capitali costituite o partecipate dagli enti locali ovvero in economia.

[14] Sui contratti di servizio v. Di Gaspare, I servizi pubblici locali verso il mercato, in Diritto pubblico, 1999, 797 ss.; A. Pericu, Impresa e obblighi di servizio pubblico, cit., in part. 451 ss.; M. Mazzamuto, Concorrenza e modelli di gestione dei servizi pubblici locali: il caso paradigmatico dei trasporti, in Nuove autonomie, 2000, 569 ss.; M. Cella e V. Termini, La funzione economica del "contratto di servizio" nella trasformazione in Spa delle aziende di servizi pubblici locali, in Economia pubblica, 1999, 32 ss.

[15] Così prevede, come già sopra ricordato, il comma 5 dell'art. 113-bis.

[16] V. in particolare M. D'Alberti, Le concessioni amministrative, Napoli, 1981, in part. 294 ss.; G. Falcon, Le convenzioni pubblicistiche, Milano, 1984, in part. 205 ss.

[17] Mi riferisco in particolare agli atti di risoluzione unilaterale per inadempimento e alla revoca dell'affidamento per sopravvenute ragioni di pubblico interesse (per uno sguardi di sintesi su tali poteri e sugli altri spettanti alle amministrazioni nell'ambito di rapporti contrattuali di carattere pubblicistico v. di recente E. Bruti Liberati, voce Accordi pubblici, in Enc. dir., V aggiornamento, 19 ss.).


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