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L'accordo Stato-regioni in materia di catalogazione dei beni culturali

di Valentina M. Sessa


Sommario: 1. L'Accordo Stato-regioni per la catalogazione dei beni culturali. - 2. Una nuova lettura della catalogazione e della Carta del rischio. - 3. Profili metodologici ed operativi dei sistemi informativi: il criterio della cooperazione. - 4. Nuove sedi di cooperazione: la commissione tecnica paritetica nazionale e i coordinamenti tecnici regionali. - 5. Prospettive di sviluppo e profili problematici.



1. L'Accordo Stato-regioni per la catalogazione dei beni culturali

Il 1° febbraio 2001 il ministero per i Beni e le Attività culturali e le regioni, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, hanno stipulato a Roma un importante Accordo per la catalogazione dei beni culturali in attuazione del disposto dell'art. 149, comma 4, lett. e), del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112 [1]. Quest'ultimo, infatti, mentre da una parte rivendica tra le funzioni riservate allo Stato la definizione delle metodologie da seguire nelle attività di catalogazione, dall'altra stabilisce anche che tale definizione debba avvenire con la cooperazione delle regioni, così da elaborare criteri e modalità operative comuni tali da consentire l'integrazione in rete delle banche dati regionali e la raccolta ed elaborazione dei dati a livello nazionale.

Tale disposizione, peraltro, è stata ripresa anche dal d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, il cui art. 16, oltre a stabilire che il ministero per i Beni e le Attività culturali assicuri la catalogazione dei beni culturali (comma 1), riconosce agli enti territoriali la possibilità di curarsi sia della catalogazione dei beni loro appartenenti che di quelli comunque presenti sul loro territorio (comma 2) e allo scopo - con formulazione pressoché identica a quella del d.lg. n. 112/98 - prevede forme di cooperazione tra lo Stato e le regioni per individuare metodologie comuni di raccolta ed elaborazione dei dati a livello nazionale nonché per integrare in rete le banche dati regionali o locali (comma 3).

Le norme richiamate costituiscono in realtà declinazione del più generale principio sancito dall'art. 4, comma 1, del d.lg. 28 agosto 1997, n. 281, il quale prevede la possibilità del governo, delle regioni e delle province autonome di concludere accordi in sede di Conferenza Stato-regioni, in attuazione del principio di leale collaborazione e nel perseguimento di obiettivi di funzionalità, economicità ed efficacia dell'azione amministrativa, al fine di coordinare l'esercizio delle rispettive competenze e svolgere attività di interesse comune.

La sottoscrizione dell'Accordo, da tempo oggetto di trattativa [2], ha come obiettivo la creazione di un sistema informativo completo e omogeneo concernente i beni culturali e riveste particolare interesse sotto diversi profili. Innanzitutto l'Accordo riporta l'attenzione sul tema della catalogazione e della Carta del rischio del patrimonio culturale, problematica storicamente risalente e pur tuttavia ancora attuale, benché oggi richieda un ripensamento soprattutto in merito alla funzione per la quale la catalogazione è stata originariamente concepita. In tal senso le osservazioni che seguiranno intendono evidenziare come questa evoluzione della concezione della catalogazione, ormai vista definitivamente in rapporto con la Carta del rischio, trapeli dall'Accordo lasciando presagire ulteriori positivi sviluppi.

In secondo luogo risulta interessante vedere come l'Accordo in oggetto attui le disposizioni sopra richiamate in materia di cooperazione Stato-regioni, soprattutto in ragione del fatto che si tratta del primo caso applicativo in materia di catalogazione e che potrebbe avere ulteriori possibili evoluzioni.

Infine, tale Accordo risulta significativo per quanto concerne i rapporti istituzionali tra Stato e regioni in quanto, soprattutto se analizzato nel quadro delle recenti riforme in materia di beni culturali, può essere considerato un espresso riconoscimento della competenza delle regioni - già implicita, come rilevato in altra sede [3], nella formulazione dell'art. 149 del d.lg. n. 112/98 e dell'art. 16 del d.lg. n. 490/99 - a coordinare la creazione del sistema informativo e la realizzazione della Carta del rischio nel loro territorio. In tal modo, almeno sul terreno della catalogazione, viene superato quel rigido riparto di competenze tra Stato e regioni in materia di tutela che la recente normativa ha più volte sottolineato.

 

2. Una nuova lettura della catalogazione e della Carta del rischio

La stipulazione dell'Accordo in oggetto, come anticipato in premessa, ripropone l'importanza sia della catalogazione dei beni culturali che della redazione della Carta del rischio. Per quanto concerne la catalogazione, già le premesse dell'Accordo - che, come specifica l'art. 10 dell'Accordo stesso, ne costituiscono parte integrante - la definiscono esigenza prioritaria. Essa infatti viene considerata strumento per pervenire alla creazione di quel Sistema informativo del catalogo generale nazionale dei beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici, storici e demo-etno-antropologici che dovrebbe assicurare al Paese un esauriente patrimonio di conoscenze accessibile a diversi livelli.

Il catalogo, infatti, rappresenta l'insieme delle informazioni, di carattere non solo storico-artistico ma anche giuridico, inerenti i singoli beni culturali, raccolte per ciascuno di essi in un documento denominato 'scheda'. Per comprendere la funzione attuale del catalogo e conseguentemente la portata delle statuizioni dell'Accordo, può però essere utile ripercorrere brevemente le fasi che hanno segnato l'evoluzione del concetto di catalogazione.

Si deve innanzitutto sottolineare il fatto che l'inserimento di un bene nel catalogo è stato inizialmente considerato presupposto dell'assoggettabilità del bene stesso alla disciplina di tutela. Conseguentemente alla catalogazione è stata da principio attribuita efficacia costitutiva del regime giuridico applicabile (legge 12 giugno 1902, n. 185).

In seguito, privato di tale efficacia costitutiva, il catalogo ne ha assunta una dichiarativa, divenendo uno strumento di ricognizione del patrimonio culturale: la raccolta di informazioni concernenti i beni avrebbe dovuto infatti mettere a disposizione degli organi di tutela gli elementi per valutare la necessità di un'eventuale apposizione di vincolo sui beni stessi.

In tal senso si potrebbero citare, a titolo esemplificativo, il r.d. 14 giugno 1923, n. 1889, concernente le Norme per la compilazione del catalogo dei monumenti e delle opere d'arte di interesse storico, archeologico ed artistico, il r.d. 2 dicembre 1929, n. 2262, contenente l'Approvazione del regolamento per l'esecuzione della Legge 27 maggio 1929, n. 848, sugli enti ecclesiastici e sulle amministrazioni civili dei patrimoni destinati a fini di culto, e infine la legge 1 giugno 1939, n. 1089, sulla Tutela delle cose d'interesse artistico e storico. In particolare l'art. 4 di quest'ultima imponeva ai rappresentanti degli enti territoriali nonché degli enti e istituti legalmente riconosciuti, l'obbligo di presentare l'elenco descrittivo delle cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico di spettanza degli enti o istituti da essi rappresentati. Tuttavia tali beni, in virtù dell'efficacia meramente dichiarativa degli elenchi, erano considerati sottoposti a tutela anche qualora non vi risultassero iscritti.

L'obbligo di cui sopra è stato per lo più eluso dai soggetti obbligati, la maggior parte dei quali ancor oggi non dispone di tale elenco. E' altresì vero che un rinnovato impegno, sia pure con limitati effetti a livello pratico, è conseguito all'entrata in vigore del Trattato di Roma del 25 marzo 1957 e, soprattutto, dell'Atto Unico del Lussemburgo del 17 febbraio 1986 che, prevedendo l'apertura delle frontiere e la libera circolazione dei beni nel territorio della Comunità Europea a partire dal 1993, ha reso evidente il rischio di dispersione del patrimonio culturale italiano. Ne è conseguito il tentativo di realizzare quantomeno una precatalogazione, ovvero una prima ricognizione dei beni culturali, scientificamente non esauriente quanto la catalogazione ma tuttavia essenziale per il reperimento almeno di alcune fondamentali informazioni concernenti i beni stessi.

Anche per tali operazioni, però, non si è andati oltre leggi d'emergenza contenenti per lo più disposizioni di carattere finanziario, quali ad esempio la legge 19 aprile 1990, n. 84, concernente un Piano organico di inventariazione, catalogazione ed elaborazione della carta del rischio dei beni culturali, anche in relazione all'entrata in vigore dell'Atto unico europeo: primi interventi, e la legge 10 febbraio 1992, n. 145, intitolata Interventi organici di tutela e valorizzazione dei beni culturali [4].

Tuttavia l'obbligo della redazione degli elenchi è stato recentemente riproposto prima dall'art. 5 del d.lg. n. 490/99 e quindi dagli artt. 3 e ss. del d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283 contenente il Regolamento per l'alienazione, il conferimento in concessione o l'utilizzazione mediante convenzione dei beni immobili del demanio storico-artistico dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni, il quale l'ha fatto assurgere a condizione per richiedere l'autorizzazione ad alienare i beni demaniali artistici e storici.

Indubbiamente una delle cause che hanno rallentato la redazione del catalogo è stato il lungo dibattito scientifico che ha avuto luogo in seno all'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (Iccd) - istituito con d.p.r. 3 dicembre 1975, n. 805, mediante la trasformazione dell'Istituto centrale del catalogo creato nel 1969 [5] - in merito ai criteri che dovevano presiedere alla catalogazione, il quale ne ha di fatto ritardato la pratica realizzazione ad opera dello Stato.

Le incertezze scientifico-metodologiche e i ritardi operativi che ne sono conseguiti hanno spinto nel frattempo diverse regioni ad assumere iniziative che, pur condotte con differenti criteri, hanno portato a raccolte notevoli di dati.

Si tornerà più avanti sulle problematiche di ordine metodologico suscitate da tali raccolte. Prioritariamente risulta invece opportuno sottolineare che anche tali iniziative, per quanto lodevoli, sono ancora lontane dall'aver completato la complessa e capillare opera di catalogazione richiesta dal nostro patrimonio storico-artistico. Opportunamente, dunque, l'Accordo in oggetto ribadisce la necessità di proseguire tale attività.

Più importante, tuttavia, è che esso esprima la consapevolezza del fatto che la funzione che oggi si deve attribuire alla catalogazione non è più semplicemente quella di fornire conoscenze finalizzate all'eventuale apposizione del vincolo.

La catalogazione, infatti, anche in relazione al ritardo con cui si sta realizzando, spesso concerne beni che sono già vincolati. Per questi ultimi, dunque - ma in prospettiva anche per i beni che verranno vincolati in futuro, sebbene per essi servirà inizialmente a motivare un'eventuale apposizione di vincolo - la funzione della catalogazione deve considerarsi necessariamente cambiata. Essa, in sostanza, non è più solo finalizzata all'apposizione del vincolo, ma costituisce "lo strumento conoscitivo basilare per il corretto ed efficace espletamento delle funzioni legate alla gestione del territorio ai fini del conseguimento di reali obiettivi di tutela ed è strumento essenziale di supporto per la gestione e la valorizzazione del patrimonio immobile e mobile nel territorio e nel museo, nonché per la promozione e la realizzazione delle attività di carattere didattico, divulgativo e di ricerca" (art. 2, comma 1, dell'Accordo).

Si comprende così anche l'accostamento del richiamo alla necessità di implementazione della Carta del rischio del patrimonio culturale, quale strumento di supporto alle decisioni in materia di conservazione programmata, di restauro e di pianificazione territoriale (art. 2, comma 2).

La Carta del rischio, infatti, costituisce a sua volta un sistema informativo fondato su una dettagliata conoscenza del territorio e dei suoi beni storico-artistici. In sintesi, la Carta del rischio parte da una complessa attività di catalogazione, in quanto presuppone la raccolta di una serie di informazioni inerenti la distribuzione, le caratteristiche storico-artistiche e lo stato di conservazione dei beni, ma arricchisce tale complesso di conoscenze con altre relative alla presenza nel territorio di fattori aggressivi di carattere ambientale, atmosferico e antropico. La lettura contestuale di questi dati dovrebbe consentire di valutare la vulnerabilità dei diversi beni e, conseguentemente, di individuare sistemi e procedimenti per la programmazione degli interventi sul patrimonio culturale in relazione al suo stato di conservazione ed alla pericolosità dell'ambiente in cui sono ubicati [6].

In tal senso, la Carta del rischio include la catalogazione e ne costituisce un fase più avanzata. Si comprende così perché nei rari casi in cui la Carta del rischio è oggetto di atti normativi [7], come nel caso della già citata legge 84/90, essa è considerata come parte dell'attività di catalogazione e salvaguardia dei beni culturali. La conoscenza dei beni culturali, congiunta a quella del contesto ambientale in cui essi si trovano, consente infatti non solo di valutare preventivamente i possibili danni e quindi gli interventi conservativi che si rendono necessari per evitarli, ma anche di stimare le priorità degli interventi, di individuare i fattori di degrado che si dovrebbero eliminare o quanto meno ridurre, di impostare una corretta pianificazione e gestione del territorio.

E' per questo che correttamente l'Accordo richiama la Carta del rischio non solo in funzione conoscitiva ma anche in relazione alla conservazione programmata - vale a dire a quella metodologia di intervento preventivo finalizzata ad evitare che si verifichi il danno sul bene [8] - ed alla pianificazione territoriale - investita dalle problematiche della riqualificazione urbana, della tutela dei centri storici, della realizzazione delle infrastrutture, dello sviluppo insediativo e produttivo - dimostrando quindi di considerarla un prezioso strumento di supporto alle decisioni dell'amministrazione.

In conclusione, a fronte della sostanziale mancanza di previsioni normative in merito alla Carta del rischio, risulta importante l'impegno dell'Accordo a portare avanti non tanto una politica di censimento quanto soprattutto la diffusione di una nuova cultura della tutela che interessi non solo i singoli beni ma anche l'ambiente circostante.

 

3. Profili metodologici ed operativi dei sistemi informativi: il criterio della cooperazione

La realizzazione di una capillare catalogazione e la rielaborazione dei dati per la redazione della Carta del rischio costituisce obiettivo tanto necessario alla tutela del patrimonio culturale quanto ambizioso.

Le parti dell'Accordo, di conseguenza, hanno opportunamente ritenuto che non si potesse procedere alla realizzazione di tale progetto se non mediante il coordinamento metodologico ed operativo delle attività di catalogazione e di redazione della Carta del rischio (art. 2, comma 2).

Si legge infatti tra le premesse dell'Accordo che "la catalogazione del patrimonio culturale costituisce un'esigenza prioritaria cui occorre provvedere per l'intero territorio nazionale con criteri metodologici unitari e attraverso programmi coordinati, riferiti sia alle attività da svolgere che alle risorse necessarie e che a tal fine il Ministero per i beni e le attività culturali, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, le regioni e le autonomie locali attuano forme permanenti di cooperazione strutturale e funzionale".

Sotto il profilo metodologico, l'art. 1 dell'Accordo attribuisce al ministero per i Beni e le Attività culturali la funzione di provvedere, tramite l'opera dell'Iccd, all'unificazione ed all'emanazione degli standard e metodologie da seguire nelle attività di catalogazione dei beni culturali, al fine di renderli validi nell'intero territorio nazionale. Dal punto di vista scientifico si tratta di un'operazione complessa, che tenta di arrivare a criteri condivisi per quanto concerne molteplici aspetti, da quello dei tracciati di compilazione, dei vocabolari e lessici controllati, delle metodologie e tecniche di ripresa fotografica, dell'informatizzazione e del trasferimento dei dati e delle immagini, fino a quello degli strumenti e procedure di validazione dei dati stessi. La risoluzione di tali problemi risulta di fondamentale importanza, dal momento che per rendere fruibili i dati messi a disposizione da soggetti diversi e per poterli successivamente interpretare in modo corretto, occorre che essi siano raccolti con criteri omogenei o comunque ‘tradotti' in un linguaggio scientificamente univoco.

Tale compito non poteva che essere attribuito al ministero, che è dotato di una struttura altamente specialistica come l'Iccd: tuttavia, data l'esperienza pregressa delle regioni, risultava allo stesso tempo utile sfruttare il patrimonio di conoscenze che esse hanno accumulato in termini tecnici e scientifici. Conseguentemente si è opportunamente optato, come volevano anche l'art. 149, comma 4, lett. e), del d.lg. 112/98 e l'art. 16, comma 3, del d.lg. 490/99, per l'affermazione del principio di cooperazione nella definizione di tali standard e metodologie (art. 1, comma 2, dell'Accordo).

Le metodologie e gli standard nazionali emanati dall'Iccd devono poi essere tenuti presenti, ai sensi dell'art. 5 dell'Accordo, nelle operazioni di raccolta e implementazione dei dati, qualunque sia il soggetto che vi provvede. Anche le procedure previste dai sistemi informativi regionali - articolazioni del Sistema informativo del catalogo generale - devono pertanto essere conformi a quelle definite dall'Iccd e vincolano i soggetti che concorrono alla formazione del suddetto sistema, i quali si rendono responsabili della validazione dei dati rispetto alle procedure stabilite. Ciò non toglie tuttavia che l'ingresso dei dati nel Sistema informativo del catalogo generale sia comunque subordinato ad ulteriori specifiche procedure di validazione finale da parte dell'Iccd stesso.

Naturalmente i sistemi regionali, oltre ad integrare in ambito locale gli archivi catalografici, devono essere realizzati in modo da potersi porre in comunicazione con il Sistema informativo del catalogo generale, di cui costituiscono parte integrante (art. 3 dell'Accordo). Mentre ciò potrebbe risultare agevole per i sistemi di nuova creazione, altrettanto non può dirsi per i sistemi già esistenti, dal momento che la sopra citata 'traduzione' dei dati raccolti con criteri diversi da quelli indicati dall'Iccd crea diversi problemi, soprattutto per quanto concerne il loro allineamento con il Sistema informativo del catalogo generale.

I sistemi informativi, in quanto dotati di una funzione pubblica, oltre a corrispondere alle esigenze dei soggetti che concorrono alla loro costituzione, saranno accessibili all'utenza esterna. A tal fine l'art. 3, comma 2, dell'Accordo stabilisce che i dati raccolti secondo le metodologie dell'Iccd possono essere organizzati, nell'ambito di ciascun sistema regionale, in modo tale da corrispondere alle esigenze di un'utenza differenziata, sia essa di tipo amministrativo, accademico-scolastico o privata.

Il sistema così delineato è dunque di tipo 'aperto' e si dovrebbe prestare anche ad usi diversi da quello che si potrebbe definire 'specialistico'. La possibilità di accedere a banche dati ricche e complesse quali quelle che costituiscono il Sistema informativo del catalogo delinea dunque un'impostazione apprezzabile in quanto coerente con l'obiettivo di sviluppo della fruizione dei beni culturali indicato come oggetto tanto della gestione quanto della valorizzazione del patrimonio culturale dall'art. 148, comma 1, lett. d) e e), del d.lg. 112/98.

Unici limiti alla fruibilità delle informazioni dei sistemi sono il rispetto della riservatezza e sicurezza nonché dei diritti d'autore. Per quanto concerne il primo aspetto, la previsione riecheggia, ampliandolo, il disposto dell'art. 16, comma 4, del d.lg. 490/99, che tutela la sicurezza e la riservatezza dei dati concernenti le dichiarazioni di interesse dei beni di cui all'art. 6 e gli elenchi di beni di proprietà degli enti territoriali, di altri enti pubblici o di persone giuridiche private senza fine di lucro di cui all'art. 5. La disposizione, peraltro, risulta in linea con la recente normativa in materia di trattamento dei dati personali, che fa specifico riferimento anche all'uso di informazioni per finalità storiche, statistiche e di ricerca scientifica (legge 31 dicembre 1996, n. 675, e d.lg. 30 luglio 1999, n. 281).

Per quanto riguarda le modalità di gestione dei diritti d'autore sui dati condivisi (banche dati comuni o con possibilità di accesso reciproco), esse saranno definite dal ministero per i Beni e le Attività culturali e dalle regioni, mediante la commissione paritetica di cui al successivo art. 7. Tuttavia già l'art. 4 dell'Accordo prevede che Stato e regioni conservino i propri diritti sui materiali prodotti distintamente da ciascuno di essi, anche se sarà possibile concederne l'utilizzazione a titolo gratuito limitatamente agli usi non commerciali da parte delle amministrazioni medesime, delle province e degli enti locali. A ciò viene aggiunto uno specifico diritto a titolarità comune tra Stato e singole regioni per i materiali acquisiti con investimenti e interventi comuni. In conformità allo spirito di cooperazione che domina l'intero Accordo, per i casi non espressamente previsti il metodo indicato è quello di ricorrere nuovamente ad accordi specifici.

Sotto il profilo operativo, in forza di quanto detto sull'esperienza maturata dalle regioni, l'Accordo prevede che in ogni regione venga costituito, a partire da quanto già realizzato nelle diverse realtà territoriali, un sistema informativo relativo ai beni culturali e ambientali che costituisca punto di riferimento in ambito regionale per le attività di catalogazione e di documentazione (art. 3, commi 1 e 3).

L'individuazione delle convenienti forme di organizzazione e di articolazione territoriale di tale sistema è affidata alle singole regioni, le quali devono anche garantire l'integrazione delle conoscenze nonché il collegamento e l'allineamento dei diversi archivi presenti in ambito regionale.

Se da una parte l'Accordo riconosce che le regioni e gli enti locali concorrono attivamente alla creazione dei sistemi informativi regionali, ciascuno per la parte propria e in reciproca collaborazione, è importante sottolineare come tali sistemi, secondo i termini dell'Accordo, debbano essere il frutto dell'apporto di tutti i soggetti istituzionali che operano sul territorio regionale mediante l'integrazione in rete dei rispettivi archivi catalografici (art. 3, comma 3) e il successivo aggiornamento a cura dei soggetti competenti (in premessa).

L'Accordo prende così atto dell'importanza delle raccolte di dati già effettuate da diversi enti e istituzioni ed estende l'applicazione del principio di cooperazione richiamato per le regioni anche ad altri soggetti. Dalla lettura delle premesse dell'Accordo si può evincere che vengono considerati potenziali concorrenti alla creazione dei sistemi informativi non solo le regioni, ma anche le province, i comuni singoli e associati, gli enti ecclesiastici e religiosi, le università, gli istituti culturali e di ricerca attivi in ambito locale e "altri eventuali soggetti pubblici e privati".

In tema di cooperazione si segnala poi una specifica disposizione dedicata ai beni ecclesiastici, che costituiscono per quantità e valore storico-artistico una parte importante del patrimonio culturale nazionale. Nell'art. 6 dell'Accordo, infatti, il ministero conviene, in conseguenza dell'Intesa siglata il 13 settembre 1996 con la Cei [9], che le regioni possano concorrere alle attività di catalogazione dei beni ecclesiastici, secondo modalità da concordare con la Cei e in armonia con le priorità definite nell'ambito della commissione prevista dall'art. 154 del d.lg. 112/98. Tuttavia anche in questo caso occorre che gli interventi di catalogazione rispondano agli standard dell'Iccd, in modo che le informazioni raccolte siano integrabili con il Sistema informativo generale e con i sistemi regionali.

 

4. Nuove sedi di cooperazione: la commissione tecnica paritetica nazionale e i coordinamenti tecnici regionali

Se è vero, come già evidenziato, che l'Accordo in oggetto ribadisce la competenza del ministero per i Beni e le Attività culturali, per mezzo dell'Iccd, alla definizione di metodologie comuni di catalogazione ed alla realizzazione del Sistema informativo del catalogo generale nazionale, è anche vero che tale funzione deve essere esplicata "tenuto conto anche delle esperienze condotte nelle singole regioni", con la loro cooperazione e affidando loro l'organizzazione e l'articolazione territoriale del sistema informativo regionale.

Poiché dunque il ruolo riconosciuto alle regioni è di primo piano, e dal momento che il criterio adottato dall'Accordo - anche in linea con i già richiamati art. 149, comma 4, lett. e), del d.lg. 112/98 e art. 16, comma 3, del d.lg. 490/99 - è quello della cooperazione, l'art. 7 dell'Accordo stesso prevede la creazione di un'apposita sede istituzionale per il raggiungimento degli obiettivi esposti nei paragrafi precedenti.

Entro tre mesi dalla firma dell'Accordo, infatti, un decreto del ministro per i Beni e le Attività culturali dovrà insediare una commissione tecnica paritetica nazionale composta da sei rappresentanti designati dal ministero, tra cui il direttore e almeno due tecnici dell'Iccd, e da sei rappresentanti tecnici designati dalla Conferenza dei presidenti delle regioni. La convocazione e la presidenza della commissione saranno affidate ad un rappresentante del ministero, mentre le funzioni di vicepresidente spetteranno a un rappresentante delle regioni.

Tale commissione avrà l'obbligo di riunirsi almeno due volte all'anno per espletare compiti di coordinamento sotto il profilo sia metodologico che operativo.

Per quanto concerne il primo aspetto, infatti, la commissione promuoverà e verificherà le comuni attività per la definizione degli standard e delle metodologie di catalogazione e studierà inoltre forme di integrazione tra il Sistema informativo generale e i sistemi regionali, con particolare riguardo allo scambio su base digitale delle informazioni.

In merito all'aspetto operativo, invece, la commissione formulerà e verificherà lo stato di attuazione di programmi e progetti coordinati su scala nazionale che prevedano l'impiego di finanziamenti statali, regionali ed eventualmente europei, individuerà strumenti di coordinamento per il monitoraggio a livello nazionale e regionale delle attività di catalogazione programmate o in corso, definirà le modalità di gestione dei diritti d'autore di cui all'art. 4.

La commissione, infine, avrà una competenza residuale, dal momento che sarà chiamata ad esaminare ogni altra tematica di carattere generale inerente alla catalogazione al fine di formulare indirizzi, individuare soluzioni e promuovere nuove forme di cooperazione e di sperimentazione.

Tale commissione dovrà necessariamente confrontarsi con le commissioni per i beni e le attività culturali di cui agli artt. 154 e 155 del d.lg. 112/98. L'Accordo prevede quindi che queste ultime abbiano funzione esclusivamente di coordinamento dei programmi di catalogazione condotti da Stato, regione, enti locali ed enti ecclesiastici in ambito regionale (art. 8).

Tutti i soggetti che concorrono alla realizzazione del sistema informativo regionale, siano essi enti pubblici o privati, enti ecclesiastici e religiosi, università, istituti culturali o di ricerca, al fine di svolgere più efficacemente le funzioni di cui sopra, dovranno avere inoltre, come sede specifica di raccordo, un coordinamento tecnico istituito da ciascuna regione nel proprio ambito con lo scopo di definire specifiche modalità attuative, assetti organizzativi ed operativi, nonché per armonizzare gli interventi di catalogazione (art. 9 dell'Accordo).

L'Accordo non fornisce ulteriori indicazioni in merito alle caratteristiche che dovranno avere tali coordinamenti tecnici, consentendo così a ogni regione di adattare struttura e modalità operative alle diverse situazioni ed esigenze.

 

5. Prospettive di sviluppo e profili problematici

L'Accordo in materia di catalogazione costituisce senz'altro una tappa importante sotto più profili. Innanzitutto è apprezzabile il recepimento di una nuova concezione di catalogazione, che fuga ogni dubbio riguardo all'attualità di questa attività e ne rilancia il ruolo all'interno non solo dell'azione di tutela ma anche di quella di valorizzazione e gestione tanto del patrimonio quanto del territorio.

Superata infatti sia l'ottica dell'inventariazione finalizzata alla mera apposizione del vincolo - che anima, come si è già visto, la normativa emanata nell'arco temporale individuabile tra il r.d. 1889/23 e la l. 1089/39 - sia quella dell'emergenza - emblematicamente rappresentata dalla l. 84/90 - la catalogazione e la Carta del rischio in primo luogo sono ormai riconosciute come insostituibili strumenti di tutela e di supporto per la gestione e la valorizzazione del patrimonio culturale nazionale.

In tal modo, riesaminando la mancanza di un'espressa collocazione della catalogazione all'interno delle aree di funzioni individuate dal d.lg. 112/98, sembra indubitabile, alla luce di quanto si legge nell'Accordo, che la catalogazione, fornendo una visione scientifico-giuridica completa di ogni singolo bene, sia presupposto dell'attività concernente i beni culturali nel suo complesso, in quanto al contempo espressione della tutela e insieme funzionalmente utile anche alla valorizzazione ed alla gestione.

In secondo luogo è essenziale il riconoscimento del fatto che tale attività può costituire la premessa di una più globale conoscenza del territorio di cui è espressione la Carta del rischio. Allo scopo è necessario al tempo stesso perseguire una conoscenza capillare dei beni storico-artistici e la consapevolezza delle interrelazioni tra essi e il loro contesto ambientale-territoriale. Le potenzialità del catalogo e della Carta del rischio saranno però adeguatamente sviluppate solo se il processo conoscitivo su cui si fondano sarà caratterizzato da un permanente dinamismo, che porti ad un continuo approfondimento e aggiornamento dei dati ed alla loro lettura tramite l'interazione delle diverse discipline scientifiche.

Da tale approccio discende non solo la possibilità di migliorare le condizioni di conservazione dei beni - come dimostra quanto detto sulla conservazione programmata - ma viene anche sottolineata l'importanza delle attualissime problematiche della riqualificazione urbana e territoriale e delle relative interazioni con la disciplina urbanistica, del paesaggio e dell'ambiente.

Assumendo come presupposti questi due punti, il ruolo dei diversi soggetti ne risulta indubbiamente valorizzato. Dall'assunto che la funzione della catalogazione non sia meramente quella di consentire l'attività provvedimentale dell'apposizione del vincolo, tradizionalmente riservata all'autorità statale, ma anche quella di consentire una più corretta ed efficace gestione e valorizzazione del patrimonio, si evince che il completamento della catalogazione costituisce interesse anche dei soggetti non statali che sono chiamati ad effettuarla. Infatti la recente normativa attribuisce alle regioni ed agli enti locali notevoli competenze in materia di valorizzazione e gestione: per la prima è attualmente già possibile parlare di potestà concorrente ai sensi dell'art. 152 del d.lg. 112/98, mentre per la seconda il ruolo di regioni, province e comuni è destinato ad acquisire sempre maggior peso in relazione al prossimo trasferimento della gestione di musei e beni statali ai sensi dell'art. 150 del medesimo decreto.

Se poi si considera che con la redazione della Carta del rischio si arriva ad ottenere uno strumento per la gestione complessiva del territorio, il quale è, sotto aspetti diversi, oggetto delle competenze di tutti gli enti territoriali, ci si rende conto dell'inevitabilità del coinvolgimento di questi ultimi.

Da tale considerazione discende, dunque, l'insufficienza della mera imposizione alle diverse istituzioni di effettuare la catalogazione del loro patrimonio e si sviluppa un'ottica di collaborazione tanto sulle metodologie quanto sui programmi operativi. Tale cooperazione, nei termini in cui ne parla l'Accordo e che si è tentato di esplicitare sinteticamente in questa sede, non costituisce unicamente assolvimento di un obbligo quanto anche modalità per ottenere un patrimonio di informazioni di cui si gioveranno in primo luogo - tanto per la valorizzazione e gestione dei beni culturali quanto per la pianificazione del territorio - gli stessi soggetti che sono chiamati alla creazione del sistema informativo, come ricorda il riferimento delle premesse al fatto che quest'ultimo corrisponde "alle specifiche esigenze del Ministero, della regione e di ogni altro soggetto che concorra alla loro costituzione".

In terzo luogo pare significativo il nuovo assetto di rapporti che dall'Accordo scaturisce. Quest'ultimo, infatti, lungamente richiesto dal Coordinamento delle regioni e solo adesso concluso, non si limita a riconoscere l'importanza della collaborazione tra Stato e regioni nella definizione di standard e metodologie - peraltro, come evidenziato, già presente tanto nel d.lg. 112/98 quanto nel d.lg. 490/99 - ma esplicita quel ruolo regionale di coordinamento che era solamente implicito nella normativa precedente.

Le regioni, infatti, sono innanzitutto chiamate ad individuare le convenienti forme di organizzazione e articolazione territoriale del sistema informativo regionale, ed inoltre sono considerate garanti dell'integrazione delle conoscenze, del collegamento e dell'allineamento degli archivi già presenti nel loro territorio. Tali elementi dimostrano una maggiore fiducia ed un importante riconoscimento della funzione fondamentale delle regioni nel loro ambito. Significativamente, nella bozza preparatoria dell'Accordo, si trovava l'affermazione - poi espunta dalla versione definitiva, ma il contenuto dell'Accordo conferma la veridicità di quanto omesso - che le regioni "sono i referenti fondamentali" del ministero in questa materia.

Qualche perplessità è destata invece dalla creazione della commissione tecnica paritetica nazionale di cui all'art. 7 dell'Accordo. Sebbene possa essere utile l'istituzione di una sede espressamente dedicata alle problematiche della catalogazione e della Carta del rischio, e sia importante la presenza paritetica dello Stato e delle regioni nella suddetta commissione, ci si chiede in che rapporti sarà quest'ultima con le commissioni istituite ai sensi degli artt. 154 e 155 del d.lg. 112/98. Queste ultime sono infatti riconosciute nell'art. 8 dell'Accordo quali sedi per il coordinamento dei programmi di catalogazione di Stato, regione, enti locali ed enti ecclesiastici in ambito regionale.

Il timore che si verifichi una duplicazione delle sedi di concertazione nasce dal fatto che le funzioni della commissione tecnica paritetica e di quelle per i beni e le attività culturali in materia di catalogazione sembrano in buona parte sovrapporsi. La prima, infatti, annovera tra le sue attività la formulazione e la verifica dell'attuazione di programmi e progetti su scala nazionale - ma che necessariamente andranno articolati poi nei poli regionali - nonché l'individuazione di strumenti di coordinamento per il monitoraggio a livello non solo nazionale ma anche regionale delle attività di catalogazione programmate o in corso.

Le seconde dovrebbero invece limitarsi al coordinamento ed all'armonizzazione dei programmi di catalogazione in ambito regionale. Tuttavia, se si considera la catalogazione attinente alla valorizzazione, come indica l'art. 2 dell'Accordo e come sembrerebbe desumersi dalla definizione di "valorizzazione" dell'art. 148, comma 1, lett. e), del d.lg. 112/98, tali commissioni avrebbero dovuto avere un ambito di competenze più esteso. Infatti, ai sensi dell'art. 155 del d.lg. 112/98, le commissioni per i beni e le attività culturali sarebbero tenute, in materia di valorizzazione, a istruire e formulare una proposta di piano pluriennale e annuale, di cui dovrebbero poi monitorare l'attuazione, perseguendo "lo scopo di armonizzazione e coordinamento, nel territorio regionale, delle iniziative dello Stato, della regione, degli enti locali e di altri possibili soggetti pubblici e privati" nonché ad esprimere pareri in ordine a interventi di tutela e valorizzazione dei medesimi beni.

Tale limitazione dei compiti delle commissioni per i beni e le attività culturali in materia di catalogazione, tuttavia, non sarebbe stata necessariamente negativa se fosse stata accompagnata da una divisione di competenze tra tali commissioni e quella tecnica paritetica. Ciò che desta preoccupazione è invece proprio il fatto che le funzioni attribuite alle due commissioni, così come delineate in seguito all'Accordo, sembrano ampiamente coincidenti e pongono pertanto problemi di attribuzione di competenze e di rapporti istituzionali tra le diverse sedi di cooperazione.

La situazione è resa ancor più complessa dal fatto che le sedi di confronto tra Stato, regione, enti locali ed enti ecclesiastici in ambito regionale si moltiplicano nuovamente per il disposto dell'art. 9 dell'Accordo, il quale prevede che ciascuna regione istituisca nel proprio ambito un coordinamento tecnico tra i soggetti che concorrono alla realizzazione del sistema informativo regionale allo scopo di definire specifiche modalità attuative, assetti organizzativi ed operativi, e per armonizzare gli interventi di catalogazione.

Il problema probabilmente è stato già intravisto nel corso della stesura dell'art. 6 del medesimo Accordo, che all'atto di prevedere la possibilità delle regioni di concorrere alle attività di catalogazione dei beni ecclesiastici secondo modalità da concordare con la Cei, segnala la necessità di perseguire l'armonizzazione della programmazione degli interventi di catalogazione così concordati con le priorità definite nell'ambito della commissione regionale prevista dall'art. 154 del d.lg. 112/98. Tale norma, infatti, come si ricorderà, dispone che faccia parte della commissione per i beni e le attività culturali anche un membro designato dalla rispettiva conferenza episcopale regionale.

Questa difficoltà di coordinamento, nel caso specifico dei beni ecclesiastici, è peraltro aggravata dal fatto che l'Accordo, in contraddizione tanto con lo stesso art. 6 quanto con l'art. 154 del d.lg. 112/98, non prevede la partecipazione alla commissione tecnica paritetica di una rappresentanza della Cei, cosa che sarebbe stata quanto mai opportuna dal momento che gli enti ecclesiastici e religiosi non solo sono proprietari di una parte ingente del patrimonio culturale italiano, ma sono da tempo impegnati nell'attività di catalogazione, con risultati molto spesso quantitativamente e qualitativamente apprezzabili.

Tuttavia non sembra che il problema sia confinato ai beni ecclesiastici. Vero è che molto dipenderà dalla configurazione che assumeranno le commissioni di cui all'art. 154, ma ciò non toglie la necessità di una pronta risoluzione - eventualmente con la correzione o integrazione di qualche norma - dei potenziali conflitti o disfunzioni che potrebbero derivare dall'attuale assetto istituzionale.

 



Note

[1] Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, del 18 aprile 2001, n. 90.

[2] Un protocollo d'intesa con il Coordinamento regionale per i beni culturali fu elaborato dall'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione già nel 1994, senza che si giungesse però alla sua sottoscrizione da parte degli organi competenti del ministero. Sui tentativi di collaborazione tra Stato e regioni e sull'evoluzione dei loro rapporti, cfr. N. Gazzeri, La catalogazione dei beni culturali tra competenze del ministero e iniziativa regionale: quadro storico e prospettive di sviluppo, in Aedon, n. 1/1998.

[3] Sia consentito in tal senso richiamare V. M. Sessa, La Carta del Rischio del patrimonio culturale: l'esperienza della Lombardia, in Aedon, n. 3/2000.

[4] Per un approfondimento del concetto di catalogazione e delle relative evoluzioni normative si veda W. Vaccaro Giancotti, Commento all'art. 16, in M. Cammelli (a cura di), La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, Bologna 2000, 66-73. Per un'interessante panoramica sullo stato dell'arte si vedano gli Atti del Primo Seminario Nazionale sulla catalogazione organizzato dall'Iccd in data 24-26 novembre 1999.

[5] Ai sensi dell'art. 12 del d.p.r. 805/75, l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (Iccd), al pari degli altri Istituti centrali, è dotato di autonomia amministrativa e contabile per quanto concerne le spese relative all'attività e al funzionamento, con esclusione di quelle per il personale, e mantiene collegamenti funzionali con gli organismi periferici del ministero. Esso, secondo il disposto dell'art. 13, esplica funzioni in materia di catalogazione e documentazione dei beni culturali, in particolare mediante la costituzione e la gestione del catalogo generale dei beni culturali, l'organizzazione di programmi di catalogazione generale e la promozione ed il coordinamento dell'attività esecutiva di catalogazione e di documentazione, nonché l'elaborazione delle relative metodologie.

[6] Per un approfondimento si vedano AA.VV., Carta del Rischio del patrimonio culturale, Ministero BB. CC. AA. - Ufficio Centrale per i Beni Archeologici, Artistici e Storici - Istituto Centrale per il Restauro, Roma, 1996; AA.VV., Carta del Rischio del Patrimonio Culturale - Informazioni generali e procedure informatiche ad uso dei Poli Periferici, Ministero BB. CC. AA. - Ufficio Centrale per i Beni Archeologici, Artistici e Storici - Istituto Centrale per il Restauro, Roma, 1997; P. Baldi, M. Cordaro, A. Melucco Vaccaro, Per una Carta del Rischio del patrimonio culturale: obiettivi, metodi e un piano pilota, in AA.VV., Memorabilia: il futuro della memoria, Bari, 1987, I, 371 ss.. Sia consentito inoltre rinviare nuovamente a V. M. Sessa, La Carta del Rischio del patrimonio culturale: l'esperienza della Lombardia, in Aedon, n. 3/2000.

[7] In tal senso si deve ricordare che la Carta del rischio non ha avuto la medesima considerazione della catalogazione non solo a livello normativo, bensì anche nelle intese e negli accordi di programma recentemente stipulati tra il ministero per i beni e le attività culturali e alcune regioni: si vedano in tal senso l'Accordo di programma quadro in materia di beni e attività culturali tra il ministero per i Beni e le Attività culturali e la regione Lazio del 12.4.00, in Aedon, n. 3/2000; l'Accordo di programma quadro in materia di beni culturali tra il ministero per i Beni e le Attività culturali e la regione Molise del 9.3.00, in Aedon, n. 3/2000; l'Accordo di programma quadro in materia di beni e attività culturali fra il ministero per i Beni e le Attività culturali e la regione Toscana del 16.12.99, in Aedon, n. 3/2000. Un'occasione perduta, dunque, per quanto concerne la Carta del rischio, dal momento che tali regioni avevano un precedente, quello della Lombardia, che all'argomento ha dedicato uno spazio rilevante. Si vedano in proposito l'Intesa istituzionale di programma tra il governo della Repubblica e la giunta della regione Lombardia e l'Accordo di programma quadro in materia di beni culturali fra il ministero per i Beni e le Attività culturali e la regione Lombardia, in Aedon, n. 2/1999, stipulate rispettivamente in data 3 marzo e 26 maggio 1999. In proposito si vedano L. Zanetti, Gli accordi di programma quadro in materia di beni e attività culturali, in Aedon, n. 3/2000, e M. Renna, Al via la concertazione in materia di beni culturali: l'accordo di programma quadro tra ministero e regione lombardia, in Aedon, n. 2/1999.

[8] La creazione della Carta del Rischio è basata sul concetto di restauro preventivo coniato da Cesare Brandi. Il tentativo di combinare, durante il ciclo di vita utile degli organismi edilizi e dei loro elementi tecnici, le azioni tecniche ed amministrative finalizzate a mantenere gli immobili o a riportarli al livello delle prestazioni corrispondenti ai requisiti iniziali, ha un precedente nel Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali avviato da Giovanni Urbani in Umbria del 1975, ma è stato esteso all'intero territorio nazionale solo nel corso degli anni ottanta. Per un approfondimento del tema si vedano C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, 1977; G. Urbani (a cura di), Problemi di conservazione, Ministero della Pubblica Istruzione - Istituto Centrale per il Restauro, Bologna, s.d..

[9] L'Intesa fra il ministro per i Beni culturali e Ambientali ed il presidente della Conferenza episcopale italiana, firmata il 13 settembre 1996 ed entrata in vigore nell'ordinamento italiano con il d.P.R. 26 settembre 1996, n. 571, concerne la tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche. Essa, in quanto attuazione dell'art. 12 dell'accordo di modificazione del Concordato del 1929 (legge 25 marzo 1985, n. 121), vincola sia il ministero sia, per quanto di competenza, le regioni, ai sensi dell'art. 19, comma 2, del d.lg. 490/99. L'Accordo del 1984 aveva previsto che le parti pervenissero a specifici accordi circa i beni culturali di interesse religioso, impegnandole a collaborare "nel rispettivo ordine (...) per la tutela del patrimonio storico ed artistico" concordando "opportune disposizioni per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali d'interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche", "al fine di armonizzare l'applicazione della legge italiana con le esigenze di carattere religioso". Conseguentemente l'Intesa del 1996 è anch'essa impostata sul principio di collaborazione sia per quanto concerne i programmi annuali e pluriennali di intervento sui beni di interesse religioso sia per la loro concreta realizzazione. Per un approfondimento si vedano G. Feliciani, Autorità ecclesiastiche competenti in materia di beni culturali di interesse religioso, in Aedon, n. 1/1998, e F. Margiotta Broglio, I beni culturali di interesse religioso, in Aedon, n. 1/2000.



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