testata
 
numerocorrentehome../indice../risorse%20web

Intorno ai beni comuni

La città come bene comune

di Christian Iaione

Sommario: 1. Premessa. - 2. La cura condivisa dei beni e servizi comuni urbani. - 3. Il welfare urbano. - 4. Il principio di sussidiarietà orizzontale come pietra fondante di un nuovo welfare urbano. - 5. La cura civica degli spazi urbani. - 5.1. La cura condivisa degli spazi urbani. - 5.2. Forme di partenariato pubblico-civico (PPC). - 5.3. Sussidiarietà quotidiana: regolazione di comportamenti individuali, usi e doveri civici urbani. - 5.4. La comunicazione pubblica e la creazione di reti locali attraverso il web 2.0: la wiki-sussidiarietà. - 6. Conclusioni: la necessità di una regia per l'innovazione sociale e la rigenerazione urbana.

The City as a Common Good
The purpose of this paper is to investigate a fundamental question relating to institutional design in the public sector. After two centuries of Leviathan-like public institutions or Welfare State, do we still need full delegation of every public responsibility and/or exclusive monopoly of the power to manage public affairs? In particular, is there space for a shared or collaborative governance of commons? In the global age, an age in which "bottom-up", "peer-to-peer" and "sharing" are the keywords there might be space for a new design of public institutions and their relationship with citizens. To investigate this question I chose the city as a particular case-study and Italy as observation point.

1. Premessa

La "città ideale" per Lefebvre è "una continua opera degli abitanti, essi stessi mobili e resi mobili per e da questa opera. [...] Il diritto alla città si manifesta come una forma superiore di diritti: diritti alla libertà, all'individualizzazione nella socializzazione, all'habitat, all'abitare" [1].

Dove va una persona se vive in una città, non ha la fortuna di possedere un giardino e sente il bisogno di immergersi in un ambiente naturale, usufruire di tutti i servizi che uno spazio verde può fornire come correre, leggere un libro su un prato all'aria aperta, respirare aria mediamente più pulita? Come può quella persona nutrire la propria sete di cultura e relazioni sociali, coltivare i propri interessi culturali e incontrare persone nuove, diverse, ricche di esperienze e tradizioni che non possiede? Dove può coltivare il proprio senso di appartenenza a una comunità, contribuire ad arricchire la sua identità con le proprie capacità e passioni, partecipare delle sue tradizioni? Quali sono le infrastrutture e i servizi che accrescono la qualità della vita urbana, mettono la persona in condizione di condurre un'esistenza degna di essere vissuta o la rendono più libera di muoversi e le consentono di condividere o coltivare stili di vita più coerenti con la propria sensibilità individuale e con quella di chi vive nel medesimo spazio di vita? Cos'è che determina il maggiore o minore valore economico o semplicemente estetico di una comunità sotto il profilo immobiliare?

Tutte queste domande trovano una sola, identica risposta. Si tratta degli spazi urbani, pubblici o privati, di interesse comune [2]. Essi soddisfano numerosi bisogni del vivere in città perché sono funzionali al benessere delle comunità, come all'esercizio individuale dei diritti di cittadinanza: qualità della vita e del lavoro, socialità, cultura, mobilità, svago, condivisione, senso di comunità, possibilità di coltivare capacità e passioni sono tutte cose che risentono immediatamente della maggiore o minore qualità delle infrastrutture di uso collettivo che una città è in grado di mettere a disposizione dei propri abitanti.

Purtroppo però vivono oggi un momento di profonda crisi. Una crisi determinata da due fattori.

Si tratta in primo luogo del deficit e del declino degli spazi e servizi pubblici o collettivi tanto nelle periferie, quanto nelle aree centrali, tanto nel momento della loro infrastrutturazione/organizzazione, quanto in quello della loro manutenzione o gestione. Il secondo fattore di crisi risiede, invece, nella graduale disaffezione e disattenzione dei cittadini verso questi spazi e servizi di interesse comune che sono percepiti come luoghi o servizi di nessuno (o al più dell'ente pubblico locale), anziché luoghi e servizi di tutti in quanto funzionali al soddisfacimento di bisogni "comuni". E questo atteggiamento di spoliazione di titolarità e responsabilità da parte dei cittadini consente l'aggressione predatoria di questi beni e servizi della comunità da parte di chi, nella società come nell'amministrazione, non riesce ad apprezzarne la coessenzialità per la vivibilità urbana e la coesione sociale.

Sul primo versante, vincoli sempre più stringenti ai bilanci degli enti locali, imposti dalla disciplina comunitaria in materia di patto di stabilità e derivanti dalla dimensione del debito pubblico italiano, oltre alla riduzione dei trasferimenti statali conseguente all'aggravamento dei conti pubblici italiani a seguito della crisi finanziaria del 2008, hanno indotto gli enti locali a ridurre il proprio intervento a favore dei bisogni della comunità locali. La riduzione delle risorse pubbliche non ha riguardato solo i servizi alla persona, ma sta incidendo fortemente anche sull'ambiente urbano e, in particolare, sui beni e i servizi comuni urbani.

La crescente penuria di risorse pubbliche fa il paio con un sempre più diffuso disinteresse dei cittadini, in particolare quelli di più giovane età, verso la preservazione, la cura e il mantenimento dei luoghi di vita e aggregazione dove si svolge la vita comunitaria. In maniera speculare stentano a svilupparsi e diffondersi forme di responsabilizzazione nella fruizione e nella gestione dei servizi pubblici locali. Molto probabilmente questa disaffezione trova origine anche in una scarsa opera di educazione alla cittadinanza da parte delle istituzioni ma anche delle singole famiglie e della scuola. Eppure nella costruzione del benessere urbano è decisivo il coinvolgimento degli attori principali dell'ecosistema urbano, e cioè gli stessi cittadini che usano e vivono la città.

2. La cura condivisa dei beni e servizi comuni urbani

I predetti fattori di crisi nel loro insieme hanno determinato, dunque, un pericoloso aggravamento del degrado locale/urbano. Per tale si deve intendere quello che sta incidendo sull'assetto/aspetto fisico e sulla funzionalità delle comunità locali, con particolare riguardo agli spazi di uso collettivo particolarmente rilevanti per la vita urbana. Interessano qui, anzitutto, quegli spazi urbani caratterizzati da una particolare "rilevanza culturale" (i.e. storica, artistica, architettonica, paesaggistica). Ma non solo. Rilevano qui anche spazi urbani che, pur non essendo caratterizzati dalla predetta rilevanza, rappresentano comunque un collante delle società locali e il cui degrado determina un degrado economico e sociale, diretto o indiretto delle collettività locali. Il degrado urbano è il prodotto e la causa anche della scarsa efficienza e del minimo coinvolgimento dei cittadini nella progettazione ed erogazione dei servizi locali.

In tal senso, gli spazi e i servizi urbani funzionali al benessere della comunità locale e alla qualità della vita urbana devono essere considerati "beni comuni urbani" alla cui produzione e cura devono poter concorrere in alleanza fra loro istituzioni e società civile. Come afferma Donolo, "[i] beni comuni sono un insieme di beni necessariamente condivisi. Sono beni in quanto permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell'uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui è parte. Sono condivisi in quanto, sebbene l'esclusione di qualcuno o di qualche gruppo dalla loro agibilità sia spesso possibile ed anche una realtà fin troppo frequente, essi stanno meglio e forniscono le loro migliori qualità quando siano trattati e quindi anche governati e regolati come beni 'in comune', a tutti accessibili almeno in via di principio" [3].

Si privilegia, dunque, una nozione relazionale di bene comune rispetto alle tradizionali classificazioni basate su caratteristiche morfologiche e titolarità formale dei medesimi. In qualche modo i beni comuni sono beni, cioè oggetti, fino a un certo punto. Essi non sono sempre equiparabili alle merci, ma il punto di maggior rilievo è che essi esistono solo in quanto sono parte di una relazione qualitativa (e non acquisitiva/appropriativa) con uno o più soggetti. In altri termini oggetto e soggetto non possono essere separati quando si parla di beni comuni. Non si possiede un bene comune, si è partecipi del bene comune. Non si può pretendere di "avere" una piazza, un giardino pubblico, un parco, si può aspirare ad "essere" parte attiva di un ecosistema urbano [4].

Sembra, insomma, di dover condividere qui l'opinione di chi ritiene che i "beni comuni divengono rilevanti in quanto tali soltanto se accompagnano la consapevolezza teorica della loro legittimità con una prassi di conflitto per il riconoscimento di certe relazioni qualitative che li coinvolgono. In altri termini, i beni comuni sono resi tali non da presunte caratteristiche ontologiche, oggettive o meccaniche che li caratterizzerebbero, ma da contesti in cui essi divengono rilevanti in quanto tali" [5]. Questo vuol dire, ad esempio, che una piazza non è un bene comune in sé, semplicemente per essere un mero spazio urbanistico, ma lo diventa per la sua natura di "luogo di accesso sociale e di scambio esistenziale" [6]. Non è possibile separare i tratti fisici da quelli sociali di uno spazio urbano inteso come bene comune. E perciò non sarebbe possibile escludere determinati gruppi di persone da uno spazio urbano che, in quanto bene comune, è soggetto al principio dell'accesso universale. Dovrebbe, dunque, ritenersi invalido un provvedimento amministrativo che impedisse a particolari categorie di individui di usufruire di un determinato spazio urbano. Infatti, come sostiene Mattei, lo spazio urbano per eccellenza, e cioè la piazza, "appartiene a una comunità tipicamente globale, ossia di tutti quanti, stanziali o viandanti, possano in astratto godere della sua funzione di luogo di scambio. E ciò nei modi e nelle forme di cui ciascuno è interprete [...] Nell'ambito dei beni comuni il soggetto è parte dell'oggetto (e viceversa)" [7].

Sulla stessa lunghezza d'onda si pongono quegli urbanisti che si sono preoccupati di definire cosa significhi "spazio pubblico". Per Crosta, "[p]ubblico non è lo spazio stabilmente destinato all'uso collettivo. È riduttivo considerare 'pubblico' uno spazio utilizzato 'in-comune'. L'uso in-comune (anche quando si tratti di più usi diversi) non 'fa' lo spazio pubblico. Il carattere pubblico non inerisce ad un luogo - detto altrimenti - solo che vi si svolgano (o venga destinato) ad attività collettive. Bensì, 'risulta' pubblico uno spazio in quanto costruito dall'azione sociale, a certe condizioni: è un costrutto sociale non necessario, eventuale" [8]. Vitellio spiega come "Allo spazio pubblico, inteso come lo spazio che dispiega la funzione di attrezzatura o servizio prodotto dallo Stato per lo svolgersi della vita sociale, si affiancano e si sovrappongono altri servizi e altre attrezzature non contemplati nel repertorio stabilito e non prodotti da una istituzione politico-amministrativa (...) spazi pubblici privatizzati, spazi privati pubblicizzati, spazi quasi-pubblici e quasi spazi pubblici sorgono all'intreccio di reti di relazione sociale e singoli percorsi individuali, rendendo problematica (la) caratteristica di non appropriabilità e non sottraibilità dello spazio pubblico. Ma ci sono anche luoghi che, individuati e progettati come pubblici, sono oggetto di cura e di adozione da parte di abitanti, scuole, associazioni, mentre altri - spesso luoghi privati abbandonati, sono resi pubblici con forme di appropriazione da parte di movimenti sociali. (...) Qui più che in altre esperienze, gli spazi pubblici non restituiscono solo cittadini come utenti-clienti, ma come citizenry, persone attive in grado di tematizzare la materia pubblica" [9].

Parimenti, i servizi locali possono e devono considerarsi come beni comuni. In molti casi si tratta di attività di gestione di beni comuni materiali e immateriali. Ad esempio, quando si gestisce il sistema di trasporto pubblico locale si stanno tutelando contemporaneamente beni comuni materiali - come l'ambiente urbano e il network stradale urbano che altrimenti sarebbe congestionato da mezzi di trasporto privato - e beni comuni immateriali come la mobilità collettiva, condivisa, sostenibile delle persone. Un discorso analogo potrebbe farsi per il servizio idrico, il servizio di igiene urbana, il servizio di distribuzione dell'energia e del gas e per le relative reti e infrastrutture.

In definitiva, nella nozione di beni comuni urbani rientrano tutti quegli spazi e servizi urbani che siamo abituati a considerare "beni comuni locali" o "beni di comunità", intesi come spazi e servizi di tutti e quindi "spazi e servizi comuni", pubblici solo in quanto finora sono stati affidati prevalentemente alla custodia, cura o sorveglianza di qualche amministrazione pubblica. Ma non è detto che la titolarità formale debba forzatamente essere pubblica. Possono esistere beni comuni in mano privata. La natura "comune" dei beni comuni urbani deriva dal loro essere strettamente connessi a identità, cultura, tradizioni di un territorio e/o per il loro essere direttamente funzionali allo svolgimento della vita sociale delle comunità che in esso sono insediate (es. una piazza, un parco, una rotatoria, un sentiero di montagna, un giardino o un immobile storico, una scuola, i tavolini di un bar, ecc.). Questo vale anche se essi non rivestono sempre la predetta rilevanza culturale e anche se non ricadono nella titolarità formale di qualche pubblica amministrazione. Data la loro natura comune, si caratterizzano, poi, per la necessità di garantirne un accesso e una fruizione universali e per la ineludibile esigenza di coinvolgere i membri della comunità e, di più, chiunque ne abbia a cuore la sopravvivenza, cura e conservazione nel loro governo, cioè nelle decisioni e nelle azioni che li riguardano.

Questa conclusione sembra sposarsi, anche se solo parzialmente, con i risultati cui è giunta sinora la riflessione dei giusprivatisti e, da ultimo, con l'orientamento della Suprema Corte di Cassazione. Sotto il primo profilo rilevano le acquisizioni maturate nell'ambito dei lavori della cd. Commissione Rodotà. Con Decreto del 21 giugno 2007 il Ministero della Giustizia ha istituito una commissione di studio per elaborare una proposta di modifica delle disposizioni del codice civile in materia di beni pubblici [10]. All'esito dei suoi lavori la Commissione ha caratterizzato i "beni comuni" come beni funzionali all'esercizio di diritti fondamentali e allo sviluppo della persona, che richiedono pertanto una tutela intensa anche a beneficio delle generazioni future. Sono beni a consumo non rivale ma con problemi di esauribilità. Possono appartenere non solo a persone giuridiche pubbliche ma anche ai privati, e deve in ogni caso esserne assicurata la fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Se poi la titolarità dei beni comuni è pubblica, essi sono collocati fuori commercio ma ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata. Chiunque può agire in giudizio per la tutela dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni, ma all'esercizio dell'azione di danni è legittimato in via esclusiva lo Stato.

Questa dottrina sembra permeare di sé anche la più recente giurisprudenza ordinaria di legittimità. La Suprema Corte di Cassazione, infatti, ha affermato a Sezioni Unite che dagli artt. 2, 9, 42 Cost. è possibile ricavare il principio della tutela della personalità umana, il cui corretto svolgimento avviene non solo nell'ambito dei beni demaniali o patrimoniali dello stato, ma anche nell'ambito dei quei "beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività".

E la Corte ci ha tenuto a sottolineare l'irrilevanza della titolarità formale, nonché lo stretto nesso funzionale tra beni comuni ed esercizio dei diritti sociali. Infatti, "[s]e un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale [...] detto bene è da ritenersi 'comune', vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini". In aggiunta, la Corte nel sottolineare che qualsiasi bene immobile è un bene comune se serve a realizzare benefici per la collettività statuisce, inoltre, che per: "la natura pubblica di un bene, più che allo Stato-apparato, quale persona giuridica pubblica individualmente intesa, debba farsi riferimento allo Stato-collettività, quale ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della cittadinanza (collettività) e quale ente preposto alla effettiva realizzazione di questi ultimi". La Cassazione si premura di ricordare allo Stato - apparato che la riconduzione dei beni comuni in capo allo Stato come Stato - collettività, quale ente espositivo degli interessi di tutti, "comporta per lo stesso gli oneri di una governance che renda effettivi le varie forme di godimento e di uso pubblico del bene" [11].

Qui si svela il doppio limite dell'impostazione accolta dalla Commissione Rodotà e dalla Cassazione. Non si considera cioè la capacità progettuale che la società è in grado di esprimere attraverso sia azioni organizzate e stabili che pratiche quotidiane nella gestione, cura e manutenzione dirette dei beni comuni. Ci si preoccupa esclusivamente di garantire l'affermazione di un uso o godimento aperto dei beni comuni. Nulla di più. Mentre con riferimento agli spazi urbani come beni comuni si profilano nuovi diritti, "'diritti di cura', non di proprietà, attraverso l'esercizio di quella libertà solidale e responsabile che costituisce oggi il nuovo modo di essere cittadini", quello sottinteso dall'art. 118, ultimo comma, Cost. [12]. Diritti che Arena accomuna ai diritti di terza generazione. Specularmente, per Cellamare, "[l]e pratiche urbane, oltre a una geografia di valori e significati, esprimono una forte progettualità, sono intrise di progettualità. Questo vale, in primo luogo, per le azioni collettive più o meno organizzate e intenzionali, ma vale anche per le pratiche ordinarie, quotidiane, di uso e anche di consumo della città che apparentemente non sembrano determinare grandi cambiamenti nella conformazione fisica e strutturale della città, mentre in realtà incidono fortemente sulla caratterizzazione dei luoghi. (...) Le pratiche urbane, anche le più 'banali' come il passeggiare, sono cariche di progettualità, spesso implicita: i percorsi che scegliamo, i luoghi dell'incontro, i tempi connessi, le modalità con cui percepiamo gli spazi attraversati, ecc. L'azione conforma lo spazio e si conforma nello spazio" [13].

Questa capacità progettuale si esprime con grande chiarezza in rapporto alla costruzione, alle modalità di utilizzazione e di gestione degli spazi pubblici, ma anche alle modalità di viverli, elaborando visioni progettuali per la configurazione spaziale dei luoghi, così come "le modalità (per) gestirli, centrate sull'autorganizzazione, sulla convivenza, sull'elasticità degli usi, sulla piena utilizzazione, sulla libera accessibilità, sulla cura" [14].

3. Il welfare urbano

La tutela e la salvaguardia degli spazi pubblici e servizi locali intesi come beni comuni urbani presentano risvolti inestricabilmente embricati con le politiche di inclusione sociale. Anche la Cassazione sembra aver colto questo profilo laddove richiama la funzionalità dei beni comuni rispetto alla realizzazione dello Stato sociale. La funzionalità dei servizi locali rispetto al livello di benessere delle persone che vivono e fanno parte di una determinata comunità è di lapalissiana evidenza. Ma è sempre più nitida anche la connessione tra politiche di welfare e dimensione spaziale. Le disuguaglianze redistributive, i conflitti sociali, le situazioni di disagio personale trovano nella città il palcoscenico per la loro più drammatica rappresentazione. Allora, il tema dell'inclusione sociale non può non essere affrontato nell'età contemporanea senza avere di mira quello che gli urbanisti definiscono il welfare o benessere urbano [15].

In generale, una condizione di non benessere e dunque di "disagio" si determina ogniqualvolta sia negata alla persona la libertà di svilupparsi pienamente, cioè di affermare la propria dignità di individuo unico e irripetibile e di valorizzare i propri talenti (art. 3, comma 2, Cost.) [16]. Questa impostazione è coerente con il passaggio da una concezione redistributiva a una concezione procedurale del principio di eguaglianza e, dunque, con la natura di canone che impone alla Repubblica di agire in misura prevalente nella direzione di promuovere attraverso politiche pubbliche ad hoc le condizioni che rendono effettivi i diritti dei cittadini, in particolare quelli sociali, anziché di mero vincolo a garantire con legge diritti a prestazioni pubbliche [17].

Ora, per consentire il "pieno sviluppo" è pregiudiziale che la persona stia bene nel proprio "spazio di vita". E una città consente ai suoi cittadini di "stare bene" solo se essa fornisce loro un complesso di beni e condizioni, materiali e immateriali, che consentano alla persona di crescere e coltivarsi [18]. Sotto il profilo materiale, rileva la possibilità di possedere o cambiare casa, avere un lavoro, vivere in un ambiente non degradato, poter utilizzare giardini e luoghi pubblici. Sul piano immateriale, poter tracciare o cambiare il proprio progetto di vita, non percepire alcun rischio per la propria sicurezza, sentirsi accolti dal luogo in cui si vive, sapere di potersi avvalere di reti sociali di sostegno [19].

Alle origini, nel ventesimo secolo, il tema del benessere individuale o collettivo dei cittadini è stato affrontato anzitutto nella sua dimensione fisica e quindi le politiche di welfare dei paesi più sviluppati si sono concentrate prioritariamente sulla costruzione dello "spazio pubblico urbano", cioè di "case, attrezzature collettive, spazi verdi e infrastrutture" [20]. È stato, infatti, osservato come la dimensione spaziale inevitabilmente condizioni la qualità della vita quotidiana dei cittadini e le loro forme di interazione e condivisione. In altri termini, le città costituiscono il principale ecosistema per lo svolgimento della personalità umana e in quanto tali rappresentano lo spazio fisico prioritario entro il quale occorre assicurare condizioni di benessere individuale e collettivo, l'esercizio dei diritti di cittadinanza, la possibilità di far convivere diversità [21].

Oggi, infatti, si parla di "città delle differenze" [22] per via delle "popolazioni plurali che abitano lo spazio e il tempo della vita quotidiana" [23] o dei "mille corpi plurali che abitano le città, nella loro diversità e ricchezza di generi, età, stili di vita e di consumo, disposizioni sessuali, religioni e spiritualità, provenienza geografica e culturale, condizione di salute fisica e mentale, livelli di reddito o collocazione sociale. È, infatti, negli spazi urbani e con riferimento agli usi che i cittadini fanno degli stessi" [24]. La complessità sociale della città contemporanea accoppiata con la scarsa consapevolezza e le ridotte o inesistenti capacità di governo delle istituzioni pubbliche è all'origine di fenomeni di insicurezza urbana, di degrado dell'ambiente urbano e di conflitto nell'uso degli spazi pubblici, del sorgere di aree adibite alle marginalità e all'esclusione (i.e. migranti e senzatetto), dell'innalzamento di barriere che impediscono la libertà di movimento o espressione dei cittadini (si pensi ai lavoratori che devono confrontarsi quotidianamente con i problemi del traffico urbano, alle barriere architettoniche o alla carenza/degrado di infrastrutture urbane dedicate anziani, bambini e disabili), di deterioramento delle condizioni di salute dei cittadini a seguito della complessiva riduzione del "benessere urbano".

La risposta del legislatore italiano a questa problematica è stata finora l'offerta pubblica di standard quantitativi, prestabiliti in astratto dalla legge, di infrastrutture e/o servizi. La legge urbanistica nazionale, la n. 1150 del 17 agosto 1942, demanda al piano regolatore generale la definizione delle "aree destinate a formare spazi di uso pubblico" (art. 7, comma 2, n. 3) e fissa un principio generale della materia in virtù del quale devono essere sempre rispettati "rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi" (art. 41-quinquies, comma 8). Nonostante la materia sia transitata nella sfera di competenze legislative regionali a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, a regolare questo rapporto tra spazi privati e spazi pubblici è ancora un decreto ministeriale. Si tratta del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, che aggancia al numero di abitanti insediato la dotazione minima di spazi pubblici o riservati ad attività collettive e, più precisamente, richiede 18 metri quadri di spazi pubblici per ogni 80 metri cubi di costruzione. Naturalmente si tratta di una regola che subisce e ha subito molte deroghe, specie nelle aree intensamente edificate o nei nuclei antichi [25]. Peraltro, si tratta di spazi che il più delle volte sono stati progettati o concepiti male e realizzati o gestiti ancora peggio. Oggi, poi, vengono drasticamente ridimensionati o cancellati del tutto per carenza dei necessari finanziamenti pubblici.

Si tratta all'evidenza di una soluzione anacronistica che è ormai entrata in crisi perché non tiene conto dei fattori di complessità che nel frattempo sono emersi nella società moderna e, soprattutto, stabilisce una riserva meramente quantitativa di spazi che non ha mai consentito di garantire la loro corrispondenza con le effettive esigenze della collettività, né la loro effettiva realizzazione [26].

A questa impostazione centralistica, quantitativa e gerarchica deve sostituirsi una logica policentrica, qualitativa e relazionale racchiusa nel concetto di welfare urbano qui avanzato. Ma la necessità di un cambio di prospettiva origina dai predetti fattori che stanno mettendo in crisi l'ambiente urbano e conseguentemente le condizioni di vivibilità fisica e sociale dei cittadini, in particolare delle fasce di popolazione svantaggiate.

Il welfare urbano, inteso come insieme delle condizioni che consentono a cittadini e comunità di "stare bene" sul proprio territorio, viene quindi a dipendere dall'esistenza di condizioni che garantiscano pieno accesso alle risorse del territorio e facciano leva sulle capacità delle comunità e dei cittadini nella loro manutenzione e cura. Difatti, "[l]'urbanistica appare sempre più come un insieme di pratiche che sorreggono la 'capacità' delle comunità a 'stare bene' sul territorio. Una doppia capacità. Una capacità sociale, attenta ad innescare relazioni complesse con il contesto e gli attori, rivolta ad un mutuo apprendimento, densa di responsabilità, leggera, che si dispone ad aver cura delle cose e a manifestare sollecitudine per gli altri. Una capacità istituzionale, fatta di competenza istituzionale, di capacità tecnica, di promozione di processi inclusivi e di ricerca dal 'locale' di collegamenti con i quadri delle politiche nazionali" [27].

La città e le sue istituzioni, pubbliche e private, devono dunque offrire ai cittadini l'opportunità di prendersi cura in prima persona della propria città, opportunità in grado di contribuire al miglioramento delle capacità individuali e sociali dei medesimi [28] e alla costruzione di reti di solidarietà, cooperazione sociale e reciprocità [29].

Predisporre le condizioni affinché i cittadini, soprattutto a quelli di più giovane età, possano liberamente e individualmente scegliere di assumersi la responsabilità di curare, proteggere e conservare - per tutta la comunità e per le generazioni future - i beni comuni di una città può contribuire a realizzare quella "fioritura della persona" che per Sen costituisce il vero fulcro della "felicità", l'unico valore da misurare per saggiare il reale benessere di una comunità. La giustizia nella prospettiva di Sen dipende non dal trattamento riservato all'individuo dalle istituzioni o dal potere politico, bensì soprattutto dai "legami etici e culturali che uniscono l'individuo alla società e che creano quella che si chiama atmosfera di libertà, l'ambiente complessivo nel quale le scelte individuali acquistano significato" [30].

Lo sviluppo delle capacità individuali diviene più importante delle regole, procedure e istituzioni volte a garantire un trattamento equo degli individui. Per aversi realmente giustizia deve garantirsi questa "atmosfera di libertà" e quindi prestare attenzione a che le condizioni sociali e culturali arricchiscano e non deprimano le capacità occorrenti per perseguire le scelte individuali funzionali ai progetti personali e alle aspettative dell'individuo. Solo così egli potrà essere consapevole di un suo eventuale malessere e di ciò che è necessario per superarlo [31]. In questa ottica la povertà non viene a dipendere esclusivamente dal reddito, ma soprattutto dalle risorse effettive, materiali e immateriali, di cui l'individuo ha bisogno nella propria società per raggiungere attraverso la propria capacità d'azione il vero benessere come descritto sopra [32]. Il governo e la società civile devono dunque incoraggiare la cultura della individualità attraverso politiche che mirino, con incentivi o interventi, a correggere le diseguaglianze materiali e sociali che il mercato produce [33]. Diviene perciò fondamentale verificare l'esistenza di una effettiva capacità degli individui di operare con autonoma responsabilità nella società in cui vivono. E quindi per assecondare il pieno sviluppo del welfare sociale bisogna cominciare a ragionare nel senso che "la democrazia politica e i diritti civili tendono a far crescere libertà di altro tipo [...] oltre quella economica proprio perché danno voce [...] a chi è in condizione di miseria o è più vulnerabile" [34].

4. Il principio di sussidiarietà orizzontale come pietra fondante di un nuovo welfare urbano

Tra le "libertà di altro tipo" deve, allora, essere annoverata anche quella che mette i cittadini in condizione condividere e cementare legami nella cura civica di beni comuni, cioè di quei beni che se impoveriti impoveriscono tutti e se arricchiti arricchiscono tutti [35]. Ma nella consapevolezza che a subire in maniera più immediata gli effetti del dissipamento dei beni comuni sono proprio le fasce popolari più svantaggiate. Perché i beni comuni e i legami di cooperazione sociale che attorno ad essi si cementano, rappresentano per i più deboli e i più poveri una imprescindibile base di sostentamento e una loro eventuale distruzione o degrado può segnare il passaggio da una situazione di povertà a condizioni di non sopravvivenza. Tant'è che a parità di reddito il cittadino di un territorio povero di beni comuni è più povero del cittadino di un territorio ricco di beni comuni [36].

Ora, l'adozione di questa prospettiva rispetto al welfare urbano deve tendere a valorizzare la relazione strettissima che può instaurarsi fra qualità dell'ambiente urbano e pratiche d'uso quotidiane dei suoi abitanti e utilizzatori. Sotto questa angolazione, la comunità costruisce il proprio "spazio di vita" proprio attraverso l'"uso" che fa del territorio, un uso molteplice e variabile nel tempo. Secondo Crosta, infatti, "[a]ttraverso gli usi che ne facciamo, certamente non edifichiamo il territorio, bensì costruiamo il nostro 'spazio di vita', nel senso che ridefiniamo continuamente le condizioni del nostro rapporto d'uso col territorio, con tutti coloro che come noi usano il territorio, e con le istituzioni, le norme e le consuetudini che regolano l'uso del territorio. [...] Se pensiamo (al territorio) come al nostro spazio-di-vita, allora abbiamo a che fare [...] con uno spazio composito, la cui composizione varia nel tempo in relazione al tipo, alle modalità e ai tempi delle nostre attività" [37].

La qualità dello spazio urbano viene così a "dipendere non solo dalla quantità delle dotazioni - infrastrutture e servizi - presenti su un territorio e dalla qualità dei progetti e degli 'oggetti' localizzati sul territorio ma, anche - e soprattutto - dalle relazioni istituite fra la città materiale e chi vive la città, e dalle concrete opportunità che la prima offre ai secondi di 'abitare' la città, di viverla - bene - quotidianamente, secondo le proprie possibilità e necessità, di farla propria, trasformandola e adattandola alle proprie condizioni ed esigenze, materiali e immateriali. Per questa via, si fanno strada l'idea e la possibilità di un 'welfare urbano', incentrato su una più ampia concezione di beni e condizioni che sostengono la capacità delle comunità e degli individui a 'stare bene' nella città. Una concezione che include in particolare gli spazi e le pratiche di cittadinanza attiva, intesa come attivazione e responsabilità da parte dei cittadini di forme di cura e trattamento dei beni comuni e, in senso più ampio, come routine e comportamenti quotidiani, attraverso i quali è consentita a tutti i soggetti una maggiore partecipazione alla vita urbana e una maggiore accessibilità al benessere che lo 'spazio' materiale, sociale, culturale di cui è fatta la città è in grado di generare" [38].

Per questi beni la "cura pubblica", cioè quella affidata prevalentemente ai poteri pubblici locali, si sta rivelando insufficiente. Questo sia per ragioni economiche, derivanti dal progressivo rarefarsi delle risorse finanziarie pubbliche, sia per la scarsa capacità della p.a. di fare intelligenza collettiva, cioè di mettere a sistema il patrimonio conoscitivo e di competenze presente nella società e di far cooperare tra loro le diverse energie civiche per la cura di questi beni comuni locali.

È, dunque, necessario mobilitare risorse ulteriori, aggiuntive (e non sostitutive) rispetto a quelle pubbliche. In base all'art. 118, ultimo comma, Cost. [39], la ricerca di questo "valore aggiunto" è indirizzata verso la società, organizzata o meno, nell'ambito di un'azione programmata e coordinata di lotta al degrado dei beni comuni locali che sia incentrata questa volta su una "cura civica" dei medesimi [40].

Ed è altrettanto imprescindibile la ricerca di strumenti e strutture idonei a facilitare questo cambio di filosofia incentrato sullo scambio, la collaborazione, la messa a sistema di tutti gli attori; quelli pubblici dotati di poteri, risorse e mezzi indispensabili per la buona cura dei beni comuni; e quelli civici disponibili a mettere in campo le proprie energie, risorse, conoscenze, competenze per prendersi cura dei beni di comunità.

5. La cura civica degli spazi urbani

La cura civica degli spazi urbani dovrebbe poggiare su quattro architravi, che rappresentano le linee di azione da intraprendere a livello locale a sostegno della riqualificazione di siffatti beni e per invertire la rotta del degrado e della disaffezione civica. Sono azioni caratterizzate da un diverso grado di praticabilità e incidenti su settori/oggetti diversi (formazione, comunicazione, regolamentazione, riqualificazione dell'ambiente urbano).

5.1. La cura condivisa degli spazi urbani

La prima linea di sviluppo registrata in questi ultimi anni riguarda la implementazione della normativa sui cd. microprogetti di arredo urbano o di interesse locale [41] e la diffusione su larga scala di forme di adozione civica degli spazi verdi urbani [42] e, da ultimo, le diverse iniziative regolatorie sviluppatesi a livello comunale per favorire la creatività urbana attraverso l'affidamento temporaneo dei cd. "muri legali" a giovani esponenti della "street art".

Sul primo schema regolatorio proposto che rappresenta l'unico modello penetrato nella legislazione ordinaria statale. I microprogetti, strumento amministrativo di diretta applicazione della disposizione costituzionale contenuta nell'art. 118, ultimo comma, sono contemplati e disciplinati nell'art. 23 d.l. n. 185/2008 convertito in legge n. 2/2009, secondo il quale gruppi di "cittadini organizzati" possono formulare all'ente locale territoriale competente proposte operative per la realizzazione di opere di interesse locale di pronta realizzabilità senza oneri per l'ente locale territoriale competente. Le spese per la formulazione delle proposte e la realizzazione delle opere sostenute dai soggetti proponenti sono ammesse in detrazione dall'imposta sul reddito nella misura del 36 per cento, in attesa che l'attuazione del federalismo fiscale ne consenta la detrazione dai tributi propri dell'ente competente [43].

I microprogetti rappresentano un modello per avviare una rigenerazione civica degli spazi urbani in quanto consentono ai cittadini di attivarsi direttamente per risolvere problemi della comunità locale o del quartiere in cui vivono. I cittadini possono organizzarsi in gruppi, anche temporanei e senza organizzazione permanente, per svolgere attività di cura dei beni comuni locali. Gli effetti positivi di questo strumento non si limitano alla diretta realizzazione del microprogetto realizzato (es. la riqualificazione di un spazio urbano degradato). Essi hanno, anzitutto, effetti pedagogici ed etici. Chi partecipa a questa tipologia di iniziative, come ad ogni altra tipologia di iniziativa applicativa del principio di sussidiarietà orizzontale, si accorge di non essere più un mero cittadino passivo che subisce l'amministrazione, i suoi obblighi e i suoi divieti. Ma comincia a prendere consapevolezza di potere essere un cittadino individualmente più responsabile nella vita quotidiana (ad. es. adottando stili di vita che minimizzano i costi per la collettività, come la mobilità condivisa, la raccolta differenziata). E, poi, che può essere un cittadino in grado di offrire all'amministrazione conoscenze, competenze, risorse, soluzioni all'amministrazione. Insomma chi si attiva per microprogetti urbani diventa un cittadino migliore perché diventa più attento ai problemi della propria città e più disponibile ad aiutare l'amministrazione nella cura dei beni comuni locali.

Queste iniziative determinano, poi, positivi effetti moltiplicatori e di imitazione, perché favoriscono lo sviluppo del senso di appartenenza alla comunità e al quartiere e di difesa dei medesimi anche in chi non partecipa direttamente alle iniziative. Se sono gli operai o i dipendenti del comune a rimediare costantemente a situazioni di degrado urbano, i cittadini non sono portati a proteggere il frutto dell'intervento comunale come invece accadrebbe se fossero altri cittadini a impegnare direttamente il proprio tempo e le proprie risorse. E in più il fatto di vedere che alcuni cittadini si impegnano per prendersi cura dei beni comuni locali può indurre anche altri cittadini a prendere l'iniziativa per proteggere e curare gli stessi o altri beni comuni locali.

A loro volta gli enti locali trovano nei cittadini, non più soggetti portatori di problemi e lamentele, ma alleati disposti a collaborare per la soluzione di problemi di interesse generale per la comunità locale.

Sul piano più strettamente giuridico, il primo aspetto da approfondire è quello della identificazione del meccanismo autorizzativo e dei suoi eventuali limiti. La norma prevede un meccanismo di silenzio-rifiuto, per cui decorsi due mesi dalla presentazione della proposta da parte dei cittadini organizzati "la proposta stessa si intende respinta. Entro il medesimo termine l'ente locale può, con motivata delibera, disporre l'approvazione delle proposte formulate ai sensi del comma 1, regolando altresì le fasi essenziali del procedimento di realizzazione e i tempi di esecuzione". In ogni caso i microprogetti non possono derogare agli strumenti urbanistici vigenti e alle clausole di salvaguardia degli strumenti urbanistici adottati, così come sono assoggettati al consenso delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili (es. tutela storico-artistica, paesaggistico-ambientale).

Peraltro, sul piano operativo, per attuare la disposizione sui microprogetti gli enti locali "possono", in realtà "devono", anzitutto adottare un apposito regolamento per disciplinare le attività e procedure relative alla realizzazione dei microprogetti. L'adozione del regolamento non è obbligatoria. Il regolamento potrebbe essere sostituito da una delibera-quadro della giunta comunale che, facendo leva direttamente sulla disposizione nazionale, disciplini procedure e strutture amministrative per la sua attuazione. Sulle singole istanze, l'ente locale provvede adottando una "motivata delibera di approvazione" delle proposte presentate dai cittadini che regoli le fasi essenziali del procedimento di realizzazione ed i tempi di esecuzione e, se necessario, coinvolgendo altri soggetti, enti ed uffici interessati, oltre a fornire prescrizioni ed assistenza.

Per la riuscita di questa politica sarà, però, cruciale l'opera di organizzazione, comunicazione e formazione interna alle strutture amministrative dell'ente locale. Questo perché si tratta di una politica strategica trasversale e innovativa. Essa è trasversale perché si pone al crocevia di diverse funzioni amministrative locali, e quindi richiede una cabina di regia unica, flessibile e snella (ufficio extradipartimentale, ufficio temporaneo di scopo, ecc.), posta il più possibile a contatto con il vertice politico e amministrativo dell'amministrazione comunale e in grado di comunicare, interagire e relazionarsi con i diversi dipartimenti e uffici della amministrazione locale.

Ma soprattutto la sua innovatività richiede personale amministrativo attrezzato a dialogare con i cittadini in maniera collaborativa, flessibile e non formalistica, dunque, capace di rinunciare allo schema tradizionale in cui l'amministrazione si relaziona con i cittadini in maniera autoritativa, gerarchica, rigida e formalista. Nel contempo, però, dovrà trattarsi di personale amministrativo fornito di doti adeguate - capacità di facilitare il dialogo civico, leadership, autorevolezza - per seguire e condurre in porto questi progetti e i loro promotori. Questo richiederà un'attività di selezione e formazione molto accurata del personale che verrà preposto alla attuazione di questa politica.

Anche la regione può svolgere un ruolo importante per favorirne la diffusione di questo strumento amministrativo. Il maggiore ostacolo al decollo dei microprogetti è, infatti, rappresentato dalla "laconicità" della norma. Al momento la regione può anche limitarsi a non fare nulla e lasciare che la portata applicativa della norma nazionale si dispieghi attraverso il mero intervento regolatorio locale. La regione può, peraltro, "ampliarne o ridurne l'ambito applicativo", definendo meglio il tipo di interventi proponibili, l'ambito e i limiti, e chiarire anche la natura dei soggetti privati proponenti, definiti genericamente "gruppi di cittadini organizzati". Non è chiaro se possa modificare il meccanismo procedimentale del silenzio-rifiuto. Il principio della detrazione è, invece, inderogabile. La regione può, infine, approvare con delibera di giunta linee guida contenenti criteri di massima semi-vincolanti per gli enti locali oppure un regolamento-tipo che gli enti locali possono recepire o adattare alle proprie esigenze.

5.2. Forme di partenariato pubblico-civico (PPC)

La seconda linea di intervento dovrebbe tendere a favorire la creazione di forme di partenariato pubblico-privato di natura non profit per la tutela e la cura dei beni comuni locali. Il modello di riferimento dovrebbe essere rinvenuto nell'esperienza americana delle Park Conservancies (in seguito PCs) o dei Business Improvement Districts (in seguito BIDs). Si tratta di forme di collaborazione contrattuale o istituzionalizzata fra diversi stakeholders locali (i.e. filantropi individuali o istituzionali, associazioni, NGO, imprese locali, cittadini, residenti, commercianti, proprietari immobiliari, ecc.) e fra questi e gli enti locali.

Nel caso delle PCs si tratta di "donative NPOs", cioè di organizzazioni no-profit costituite originariamente per iniziativa di gruppi informali di cittadini interessati a prendersi cura di un determinato bene comune locale - es. "gli amici del parco X" - che successivamente si strutturano in maniera formale attraverso la creazione di un soggetto giuridicamente distinto con l'obiettivo di raccogliere donazioni a favore del bene comune in questione e di organizzare in maniera sistematica le iniziative civiche, volontarie per la gestione del bene comune locale. In questo caso la responsabilità di chi gestisce l'NPO è primariamente verso cittadini attivi e donatori, nel senso che se la gestione del bene comune non raggiunge risultati apprezzabili in termini di qualitativi, la PC ci rimetterà in termini di reputazione, e quindi non sarà in grado di mobilitare le risorse civiche, così come non vedrà rinnovata la fiducia sul "mercato delle donazioni".

In altri termini una scarsa qualità del management si traduce automaticamente in una riduzione della partecipazione civica come delle donazioni che tenderanno inevitabilmente a scemare. Per questo motivo, diventa decisiva per il successo di questo modello la capacità della PC di ottenere attraverso un accordo di gestione con l'ente locale la piena disponibilità fisica, gestionale e finanziaria e, soprattutto, l'assicurazione che il livello attuale di risorse finanziarie pubbliche destinate al bene comune considerato non verrà ridotto. La riduzione del sostegno pubblico viene di solito vissuta male da chi si attiva non per supplire o sollevare i poteri pubblici dai propri compiti e responsabilità, bensì per aggiungere a queste risorse di tempo o economiche.

Nel caso dei BIDs si tratta di "commercial NPOs", cioè di soggetti no-profit (generalmente di diritto pubblico) costituiti originariamente per volontà di una maggioranza qualificata dei proprietari immobiliari di una certa zona al fine di fornire servizi aggiuntivi al quartiere. Le attività dei BIDs sono finanziate nella fase di start-up da una tassa supplementare per tutti i proprietari ricompresi all'interno del BID. Ma nel lungo periodo il loro successo dipende dalla capacità di generare reddito attraverso tariffe sull'utenza e proventi derivanti dall'affitto di aree per eventi. La responsabilità primaria in questo caso è, dunque, verso il mercato. Infatti, una cattiva gestione del bene comune determinerà una ridotta capacità reddituale che pregiudicherebbe il finanziamento delle attività necessarie a garantire la cura, conservazione e valorizzazione del bene comune locale.

In via di prima approssimazione, le due formule organizzative appena citate potrebbero essere adottate in Italia attraverso la costituzione di fondazioni di partecipazione [44] con donazioni modali ex art. 793 c.c., che garantiscono la possibilità di imprimere all'atto di liberalità una specifica finalità mediante apposizione di un onere, ma non assicurano la separazione patrimoniale (v. art. 2740, comma 1, c.c.), oppure con l'attribuzione alla fondazione del ruolo di trustee, ciò che garantirebbe la separazione patrimoniale.

Anche la New York Foundation potrebbe rappresentare un modello utile da sperimentare. Ma si tratta del tradizionale modello di fondazione di comunità o di erogazione, in corso di sperimentazione da parte di alcune fondazioni (v. Fondazione Cariplo e Fondazione per il Sud) nel settore dei servizi sociali. In questo caso la fondazione creata appositamente per la tutela del bene comune non gestirebbe direttamente il bene, bensì si limiterebbe a fare da intermediario per finanziare progetti di cura del bene comune da parte di singoli cittadini, gruppi, organizzazioni no-profit, presenti sul territorio, con le risorse provenienti dal reddito del patrimonio o da quello di appositi fondi nei quali confluiscono beni mobili e immobili oggetto di donazioni o di altro atto di liberalità.

5.3. Sussidiarietà quotidiana: regolazione di comportamenti individuali, usi e doveri civici urbani

La terza linea di intervento dovrebbe avere ad oggetto nudges (i.e. misure amministrative incentivanti) [45] o, ancora meglio, politiche di responsabilizzazione dei cittadini verso la cura dell'interesse generale e quindi dei beni comuni. Si tratta di quella che altrove si è definita la "sussidiarietà quotidiana" [46]. Essa può farsi rientrare nell'alveo della cd. "comunicazione di cittadinanza", cioè su una strategia amministrativa basata non sull'esercizio di poteri amministrativi autoritativi, bensì su azioni dirette a convincere i cittadini a condividere, con il proprio comportamento o con le proprie risorse, lo sforzo necessario per il raggiungimento di obiettivi di interesse generale [47].

In altri termini, il cittadino che risparmia energia, fa un uso sostenibile della risorsa idrica, segue le regole della raccolta differenziata, sceglie il trasporto pubblico o la mobilità condivisa anziché il mezzo privato, tiene in buono stato un proprio immobile (es. restaura la facciata, pulisce o sgombera il proprio marciapiede da rifiuti, detriti o dalla neve, pota alberi che minacciano di rovinare su strade pubbliche, smaltisce foglie secche che rischiano di causare un incendio oppure ostruiscono canali di drenaggio delle acque piovane, ecc.) può considerarsi un cittadino che svolge "attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà"?

Il cittadino che nella propria vita privata o nella gestione di beni privati tiene una condotta orientata alla riduzione o, addirittura, alla eliminazione di "problemi collettivi" (o, meglio, per la collettività) e che, conseguentemente, contribuisce a ridurre/eliminare la necessità di organizzare una risposta pubblica, si può considerare un cittadino attivo che deve essere "favorito" dai poteri pubblici? Oppure, guardando al fenomeno da un'angolazione opposta e inversa, si può parlare di veri e propri doveri civici del proprietario o del "privato cittadino"?

Si potrà sostenere che si tratta di comportamenti in alcuni casi già resi obbligatori dal diritto, in altri di condotte irrilevanti per lo stesso e che sarebbe bene che tali rimanessero. Qualcun altro potrebbe sostenere che in fondo non vi è sussidiarietà in azione, almeno fino a quando i poteri pubblici non cerchino davvero di istituire un'alleanza con i cittadini per tutelare l'interesse generale attraverso un miglior governo dei beni privati o delle condotte individuali.

Alcune delle fattispecie indicate potrebbero ricadere sotto il principio civilistico del neminem laedere (ex art. 2043 c.c.). In fondo, si può parlare di responsabilità aquiliana se non spalo la neve sul marciapiede davanti casa, che in alcuni casi o ordinamenti potrebbe essere considerato come una pertinenza, e qualcuno scivola a causa della mia negligenza (vd. il caso Soederberg vs. Concord Greene Condominium Association [48]).

Lo stesso potrebbe dirsi se fossi un agricoltore e non mi preoccupassi di "mantenere" correttamente i miei impianti di irrigazione e per effetto di questo si determinasse un disastro ferroviario (v. il caso del meleto di Merano [49]). Parimenti, se fossi un proprietario terriero e non svolgessi la periodica pulizia dei canali di raccolta delle acque piovane e sorgive (v. la frana di Montaguto [50] che per diversi mesi ha bloccato i collegamenti ferroviari della Puglia col resto dell'Italia, o l'inondazione del Sarno causata dalla mancata pulizia dei Regi Lagni da parte del consorzio di bonifica, peraltro commissariato, dell'Agro-nocerino-sarnese [51]). Mi sto riferendo qui ai numerosi fenomeni di dissesto idrogeologico causati, a seconda dei casi, dal mancato coinvolgimento o dal malfunzionamento di quelli che, almeno in linea teorica, sono consorzi tra proprietari di aree che necessitano il coordinamento di interventi pubblici e privati per la difesa del suolo, la regolazione delle acque, l'irrigazione e la salvaguardia ambientale, e cioè i consorzi di bonifica e irrigazione [52].

Altre fattispecie, invece, come la mancata tinteggiatura di una facciata o comunque lo stato di degrado e abbandono in cui lascio giacere una mia proprietà potrebbero farsi rientrare nel concetto anglosassone di nuisance, cioè dei limiti all'uso della mia proprietà (di cui v'è traccia anche nel nostro codice civile con le immissioni abusive e il danno temuto). Sul tema un recentissimo saggio di Freyfogle [53] è piuttosto illuminante. E questa dottrina troverebbe corrispondenza nel nostro art. 42 Cost. laddove stabilisce che la proprietà privata incontra dei limiti proprio per assicurarne una sua funzione sociale.

In un'ottica più orientata alla sussidiarietà, a mio avviso, esiste anche una diversa possibile configurazione delle fattispecie in questione. Esse potrebbero essere inglobate nell'ambito di quella che inizialmente abbiamo definito la "sussidiarietà nelle piccole scelte quotidiane" [54]. Pensiamo all'uso sostenibile delle risorse naturali o dell'energia, alla raccolta differenziata, a una regolazione della mobilità urbana che incentivi il trasporto collettivo o condiviso e disincentivi la mobilità privata o individuale.

Quest'ultimo settore è anche stato oggetto di un case-study [55] attorno al quale si è tentato di costruire uno schema regolatorio individual-based, cioè centrato sul comportamento individuale, per combattere il cambiamento climatico con una strategia dal basso [56], senza aspettare che i grandi della terra si mettano d'accordo su schemi regolatori contrastati da fortissimi interessi economici e nazionali.

Ed è stato dimostrato che in realtà si tratta di un paradigma concretamente applicabile anche ad altri settori [57]. La semplice riscoperta della bicicletta, dei mezzi pubblici, della mobilità condivisa e quindi di una mobilità sostenibile [58] o la valorizzazione del turismo diffuso in comunità ospitali [59], delle energie rinnovabili, dei prodotti locali biologici, della raccolta differenziata, di stili di vita più sostenibili e così via, rappresentano tutti esempi di come, apportando piccoli aggiustamenti alla vita quotidiana [60], si possa contribuire alla tutela dell'interesse generale. Lo stesso può dirsi se, sempre nella vita di tutti i giorni, i cittadini si preoccupassero di gestire meglio i propri beni privati, per migliorarli o conservarli correttamente, affinché producano un beneficio oppure non procurino danno alla collettività e quindi giovino all'interesse generale.

In definitiva, ciascuno di noi, obbedendo a regole di buon comportamento civico nella propria vita privata, sia con riguardo all'uso di beni privati, che con riguardo all'uso di beni pubblici, può dare il proprio contributo per tutelare l'interesse generale o, meglio con una terminologia a noi più cara, i beni comuni [61]. I cittadini possono diventare i migliori alleati delle amministrazioni.

Ma ci può essere alleanza solo laddove ci sia "responsabilità sociale individuale". Tutti questi comportamenti si basano, infatti, sull'assunzione di una responsabilità verso gli altri e verso i beni comuni [62]. Questi cittadini si sentono e sono persone responsabili. Non nel senso punitivo del termine, ma nel senso di accountable. Si tratta cioè di cittadini che si sentono investiti di un potere. Quello di fare qualcosa per dare una risposta a problemi collettivi con propri comportamenti individuali nella vita di tutti i giorni e incidenti per lo più sulla propria sfera privata. Gregorio Arena ha dimostrato come la sussidiarietà implichi anche una responsabilità sociale individuale, perché si fonda "sull'assunzione da parte dei cittadini di responsabilità nei confronti dei beni comuni, di cui essi decidono autonomamente di prendersi cura insieme con l'amministrazione. Si può dire, in altri termini, che la cittadinanza attiva consiste nell'assunzione da parte di singoli individui, da soli o insieme con altri, di responsabilità sociali, cioè di responsabilità verso la comunità" [63]. Qui l'assunzione di responsabilità è quotidiana, confermata giorno per giorno, attuata nella propria sfera privata anche se incidente in qualche misura sulla collettività.

Anche in questo caso si realizza quella forma di alleanza tra pubblici poteri e cittadini che nella nostra visione è sottintesa dall'art. 118, ultimo comma. Infatti, secondo il paradigma della sussidiarietà quotidiana, i cittadini decidono di prendersi cura di beni comuni attraverso comportamenti quotidiani orientati alla minimizzazione di problemi di dimensione collettiva o alla riduzione di costi per la collettività che creano la necessità di organizzare una risposta pubblica. Ma i pubblici poteri non smettono di colpo di occuparsi dei medesimi beni comuni. Anzi, i poteri pubblici scoprono degli alleati inaspettati nei cittadini che decidono di abbracciare la sussidiarietà quotidiana. Se si vuole, si tratta di una forma di alleanza spontanea e informale.

È possibile e auspicabile che dalla introduzione di politiche di responsabilizzazione basate sulla sussidiarietà quotidiana sorgano veri e propri doveri civici. Anzi, queste politiche dovrebbero avere come obiettivo ultimo proprio quello di trasformarsi in una fonte di produzione/protezione giuridica di comportamenti doverosi orientati alla cura dei beni comuni.

Ma come si fa a giuridicizzare e quindi a favorire la emersione di una responsabilità sociale individuale nella vita di tutti i giorni? Certo, ci si potrebbe appigliare a principi giuridici, più o meno vaghi, formalizzati o meno in disposizioni normative. Ad esempio, Fabrizio Fracchia ha spiegato che un solido fondamento normativo per le politiche delle sostenibilità potrebbe essere rinvenuto nel principio sancito dall'art. 3-quater del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, secondo cui "ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile [64], al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future".

Se ricordiamo le tipologie di comportamenti esemplificate all'inizio, ci accorgiamo che si tratta di regole di condotta oggetto di consuetudini già esistenti (come nel caso degli "addobbi", cioè i miglioramenti che i proprietari apportavano ai propri immobili come la tinteggiatura delle facciate in vista delle celebrazioni del ventennale della parrocchia) oppure che possono formare oggetto di "consuetudini civiche" la cui formazione ed implementazione può anche essere "favorita" e, quindi, indotta dai poteri pubblici con schemi regolatori formali (come nel caso della raccolta differenziata o della regolazione pubblica della mobilità privata).

La consuetudine si pone come la fonte per eccellenza della "sussidiarietà quotidiana" e quindi del "diritto sussidiario".

A mio avviso, questa tipologia di sussidiarietà deve vivere prevalentemente proprio di norme consuetudinarie. Si tratta, cioè, di comportamenti individuali che possono costituire oggetto di consuetudini o, come le chiamano negli USA, di social norms [65].

In Italia Fabio Merusi, già all'indomani della riforma costituzionale del Titolo V, coglieva il collegamento tra sussidiarietà e consuetudine nel sottolineare come, "riconoscendo l'autonoma iniziativa dei cittadini, il principio di sussidiarietà riconosca anche una fonte di produzione normativa proveniente dalla società civile e perciò non statale e non connessa alla logica della codificazione". E, addirittura, che "[r]iconoscere che cittadini associati possono svolgere attività di interesse generale secondo il principio di sussidiarietà significa riconoscere l'esistenza di un diritto alternativo rispetto a quello statale. Se poi, come nel caso, lo si favorisce, significa stabilire che, se c'è un diritto prodotto dai privati, non può essere sostituito da quello pubblico, a meno che questi non affermi una propria competenza esclusiva" [66].

Anche negli Stati Uniti le social norms sono in questo momento oggetto di rinnovato interesse da parte della dottrina giuseconomica e sociologica. Ma la novità di questo approccio sta nel suo legame con un altro filone di ricerca oggi molto in voga, la behavioural law & economics. Infatti, le fattispecie consuetudinarie di cui stiamo parlando (siano esse diritto positivo o diritto in formazione) presentano una caratteristica comune. Tutte possono avere come effetto quello di internalizzare le esternalità negative, in altri termini, i costi economici prodotti da condotte individuali o stili di vita generali che generano un costo per la collettività e producono una generale diminuzione del benessere collettivo.

Si pensi alla maggiore qualità della vita e alla maggiore attrattività (anche in termini economici) di una comunità locale in cui i cittadini adottino comportamenti e stili di vita che li inducano a prendersi miglior cura tanto di spazi e beni pubblici locali, quanto di beni privati (come riparare immediatamente una finestra rotta o cancellare immediatamente i graffiti sulla facciata di un edifico per evitare di dare l'impressione che rompere finestre o fare altri graffiti siano comportamenti socialmente accettati e, quindi, poco "costosi"). Il riferimento alla teoria delle broken windows di Wilson e Kelling è immediato [67]. Ulteriore aspetto degno di nota è l'effetto di maggiore controllo sociale che questo schema regolatorio comporta. E, infatti, il campo in cui questa teoria ha già dato buona prova di sé è proprio il "community policing" che ha consentito di riqualificare diverse città americane [68]. Questo approccio è stato in grado di modificare atteggiamento e ruolo dell'amministrazione (nel caso specifico, la polizia locale) come quello dei cittadini [69]. Esattamente quanto auspicato da Gregorio Arena [70].

Infine, un avvertimento metodologico. Occorre costruire quotidianamente la sussidiarietà. Generalmente le social norms prosperano in "comunità omogenee" ("close-knit"). Per costruire buone consuetudini civiche in comunità eterogenee come sono diventate quasi tutte le comunità dei paesi occidentali e industrializzati, si deve ricorrere necessariamente alla metodologia del "bene comune". Che non è un oggetto o un obiettivo fisso e immutabile. È bensì un processo dialogico, deliberativo che costruisce e ricostruisce in maniera dinamica e costante i valori e i beni-oggetto (materiali o immateriali che siano) veramente unificanti della comunità eterogenea. Valori unificanti che possono variare nel tempo e nello spazio. Da qui origina la necessità di indagare e approfondire gli istituti della democrazia deliberativa [71].

5.4. La comunicazione pubblica e la creazione di reti locali attraverso il web 2.0: la wiki-sussidiarietà

La quarta e ultima linea di azione in tema di spazi urbani potrebbe consistere in iniziative di comunicazione pubblica (campagne pubblicitarie, attività promozionali nell'ambito di eventi/fiere e strumenti premiali) dirette prevalentemente alle nuove generazioni di educatori, amministratori pubblici e cittadini. Potrebbe rientrare nell'ambito di questa linea di intervento l'allestimento di stands nell'ambito di fiere come ExpoScuola, ForumPA, ComPA e altre fiere locali o settoriali che abbiano a oggetto le professioni e la formazione al servizio delle nuove generazioni (es. YOUNG-Future for you [72]).

Inoltre, si potrebbero attivare strumenti premiali come il "Premio per la sussidiarietà" che Labsus ha portato avanti con la collaborazione di Fondazione per la Sussidiarietà e ForumPA. Nell'ambito degli strumenti incentivanti potrebbero ricomprendersi anche iniziative volte a sollecitare gruppi di cittadini, associazioni, gruppi informali, cooperative sociali, istituti scolastici dell'obbligo e società sportive a presentare proposte al fine di promuovere il protagonismo della società civile e il coinvolgimento dei cittadini nella cura dei beni comuni locali (ad es. Reggianiperesempio [73]; Raeeporter [74]).

Ma questa strategia di comunicazione dovrebbe soprattutto mirare alla implementazione di tutti quegli strumenti istituzionali, comunicativi, logistici per la creazione di reti locali di cittadini, singoli o associati, impegnati nella o interessati alla tutela dei beni comuni locali. Questa azione di networking dovrebbe investire in misura massiccia sulle nuove tecnologie e sui social networks.

Si pensi alla creazione di una mappa dei beni comuni (sul modello di http://www.use-it.be/europe/; www.partecipedia.org) o a piattaforme per la condivisione delle iniziative dirette alla presa in cura dei beni comuni locali (es. http://my.barackobama.com; http://seedspeak.com/) o, infine, a sistemi che coinvolgano i cittadini nell'attività di monitoraggio sullo stato e di protezione dei beni comuni locali (es. http://www.everyblock.com/).

Infine, essa si potrebbe tradurre nella creazione di strutture, centri di ricerca o laboratori locali per la facilitazione e la mobilitazione delle risorse civiche, oltre che la disseminazione di tecniche/metodi di deliberazione pubblica, partecipazione o governance collaborativa per la cura dei beni comuni locali (es. Placemaking; Minneapolis Neighborhood Revitalization Program).

A tal proposito si è parlato di "wiki-sussidiarietà" [75]. Sempre più spesso ci si interroga su come le nuove tecnologie e il web 2.0 possano migliorare la trasparenza, l'efficienza e la democraticità del "governo pubblico" degli interessi generali.

Si sono coniate formule linguistiche evocative e affascinanti come open government, wiki-government, wikicrazia, we-gov. L'amministrazione Obama negli USA [76] e quella inglese di Cameron ne hanno fatto un cavallo di battaglia per conquistare e preservare la fiducia dei cittadini. Il Ministero per la pubblica amministrazione e l'innovazione ha provato a inseguirlo ma non è andato oltre le tradizionali soluzioni all'italiana: tante belle parole in un corpus legislativo rimasto largamente inattuato e una nuova burocrazia. Ma nessuno si è ancora domandato come il "governo civico" degli interessi generali possa essere favorito dall'introduzione di strumenti web 2.0.

Per favorire la sussidiarietà occorre dunque cominciare a pensare di utilizzare strumenti del web 2.0. Del resto, tra sussidiarietà correttamente intesa e web 2.0 intercorrono numerosi punti di contatto. Entrambi presentano la stessa morfologia: vivono se esiste una rete di soggetti che non si limita a mettere in connessione nodi passivi, ma fornisce agli stessi gli strumenti per dare vita a una interazione costante, produttiva e attiva. Insomma deve trattarsi di nodi attivi e non passivi. Entrambi fanno leva sull'intelligenza collettiva, cioè su quel patrimonio di conoscenze, saperi, competenze, abilità che sono diffusi nella società come nel web e che sono disponibili ad aggregarsi senza un tornaconto strettamente individuale. Questo è tanto evidente per il web 2.0 (si pensi a strumenti come blog, forum, chat, e sistemi come Wikipedia, YouTube, Facebook, Myspace, Twitter, Gmail, Wordpress, TripAdvisor), quanto per la sussidiarietà. Non ci stancheremo mai di ripeterlo. La sussidiarietà di cui parliamo si basa sulla libertà solidale e responsabile di cittadini attivi che decidono di mettere a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per prendersi cura dell'interesse generale. Decidono di condividere con i poteri pubblici la responsabilità di governare, cioè di dare risposte ai problemi della collettività con piccoli gesti quotidiani, così come con vere e proprie azioni sistematiche di cura civica dei beni comuni.

La cooperazione si pone, dunque, come archetipo della sussidiarietà. Infatti, il tratto fondamentale che sussidiarietà e web 2.0 condividono consiste nel fatto che nel loro DNA è incorporata la cooperazione fra i vari nodi della rete. Tanto l'una quanto l'altra vivono se la rete coopera, condivide, mette in comune, collabora, dialoga, si confronta, agisce insieme. Si stabilisce attraverso un confronto costruttivo e moderato un obiettivo comune, si mettono in condivisione le risorse necessarie e si ripartiscono le responsabilità in vista dell'azione comune. E specularmente il successo, come il fallimento, nella risoluzione dei problemi della comunità viene condiviso.

La cooperazione dal basso è sempre più necessaria per risolvere problemi e governare processi che le amministrazioni pubbliche non riescono più ad affrontare e risolvere, spesso per inerzia colpevole, a volte per incapacità manifesta o mancanza di risorse, ma sempre più spesso perché si tratta di problemi così complessi, ramificati e in rapida evoluzione da non consentire più alla pubblica amministrazione tradizionale di avere le capacità, le risorse, le conoscenza, la velocità per rappresentare una risposta adeguata alle esigenze di una società in continuo cambiamento. È la sindrome della Regina Rossa: bisogna correre molto in fretta per restare fermi nello stesso posto, e bisogna correre velocissimo per muoversi appena.

Ora, le ragioni di questa défaillance non devono importare. Bisogna invece cogliere questa sfida e questa opportunità. Lo devono fare i cittadini, e sono molti, che sono stufi di vedere le proprie città e il proprio Paese languire e che pensano di avere idee, fantasia e voglia di impegnarsi direttamente per i beni comuni e non si accontentano di delegare a un proprio rappresentante per 4-5 anni il compito di fare da intermediari con la pubblica amministrazione. Lo devono fare quei politici e quegli amministratori che vogliono veramente operare con un spirito di servizio al cittadino ed elaborare soluzioni innovative per dare risposte ai problemi della comunità e stare al passo con la velocità di una società 2.0.

Questo comporta che la politica e la pubblica amministrazione ripensino con urgenza il loro ruolo. Da monopolisti del potere di cura degli interessi della collettività, dovrebbero trasformarsi nei gestori di una "PA-piattaforma" capace di sorreggere la soluzione civica, condivisa, collaborativa dei problemi di interesse generale. Non di tutti, certo, ma della maggior parte. Il monopolio pubblico della cura dell'interesse pubblico è una tara atavica che le pubbliche amministrazione faranno fatica a scrollarsi di dosso. Ma bisogna cominciare a provarci, se necessario anche da soli, anche dal basso. Il web 2.0 può essere la strada che cittadini e amministratori locali possono sperimentare per svegliare anche chi oggi ricopre responsabilità pubbliche più elevate.

Il web 2.0 è dopotutto uno strumento formidabile di cooperazione. Esso, infatti, facilita e semplifica l'emersione e l'organizzazione di questa voglia di cura condivisa dei beni comuni. Può consentire a cittadini e amministratori pubblici innovativi di canalizzare queste energie civiche, indirizzarle verso gli obiettivi giusti, attrezzarle con le risorse necessarie perché possano condurre a buon fine episodi di cura civica dei beni comuni.

Esistono diversi strumenti che sembrano idonei a sostenere le aspirazioni di chi vuole essere cittadino attivo. Strumenti che consentono di associarsi sia pure in maniera temporanea o fare squadra con altri cittadini attivi per offrire il proprio contributo alla collettività. Strumenti che permettono a questi cittadini di restituire parte del proprio tempo e delle proprie risorse, soprattutto immateriali, alla comunità cui si appartiene, consapevoli che il successo individuale non può mai essere scisso del tutto dal contesto in cui si vive, si cresce e si opera. Il contesto, cioè i beni comuni di cui disponiamo e la comunità che ci accoglie, ci ospita, ci cura sono, infatti, la terra e le persone che ci consentono di condurre un'esistenza civile, sana, prospera e piena di quei privilegi che molte comunità nei Paesi in via di sviluppo agognano. È una ricchezza che diamo per scontata, e di cui non ci accorgiamo più e di cui non ci curiamo più. Ma se non invertiamo la rotta, presto dilapideremo questo patrimonio di beni comuni.

E allora internet 2.0 può aiutare e di molto i cittadini che vogliono spendersi per restituire alle proprie comunità. Si va dai siti che consentono la condivisione di buone prassi (Participedia; Civic commons), conoscenze (Code for america; Procivibus) oppure tempo ed energie per il pubblico interesse (The Good Gym), a piattaforme utili per segnalare problematiche per la collettività locale (ePart; Fixmystreet; Decoro urbano; Police.uk), a strumenti per la georeferenziazione di attività o informazioni di interesse generale (Ushahidi; Seedspeak; Fontanelle; C-Tag; Crowdmap; Openstreetmap; Openforesteitaliane; Incontri per il cambiamento), a siti per il fundraising che possono servire a dotarsi degli strumenti per prendersi cura dei beni comuni (Eppela; Kiva, Justgiving; Kickstarter; Schoolraising; Zopa), fino a vere e proprie comunità on line pensate per mettere in contatto chi vuole cambiare le cose (Shinynote; Jumo; Developmentcrossing). Esistono anche siti che favoriscono la sussidiarietà quotidiana (Zipcar; Velib; Snapgoods; Sharesomesugar; Neighborgoods; Tourboarding).

Serve, dunque, una piattaforma per la sussidiarietà 2.0. Tanto più se si considera che sono ancora rare vere e proprie piattaforme di azione civica. Almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Si intendono per tali degli strumenti web 2.0 che siano stati pensati e ingegnerizzati con il precipuo scopo di mettere i cittadini in condizione di collaborare in vista della cura di un ben determinato problema collettivo o di un particolare bene comune, locale o nazionale, sotto l'egida di una pubblica amministrazione che abbia voglia di "favorire", come richiede l'art. 118, ultimo comma, Costituzione, attraverso uno strumento web 2.0 accompagnato dai connessi strumenti di supporto nella realtà materiale, l'autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale.

Molto probabilmente si avvicina a questa tipologia di strumento Critical City, un gioco di ruolo pensato per indurre i giovani a uscire di casa, esplorare il territorio della propria città, elaborare e realizzare micro-progetti di cura degli spazi urbani, conoscere e individuare altri cittadini disposti a lavorare sullo stesso progetto e così migliorare anche la coesione sociale della comunità di riferimento. Ma in questo caso manca il coordinamento con i poteri pubblici.

Change by us NYC, invece, è lo strumento elaborato dal comune di New York per consentire ai cittadini di condividere le proprie idee su come migliorare la città e intende metterli in condizione di trasformare i propri progetti in azioni concrete con la collaborazione di altri cittadini. E anche Seedspeak sembra rispondere alla medesima filosofia.

In Italia, un esperimento con caratteristiche vicine al nostro ideale non è stato ancora messo in piedi. Si tratta di immaginare uno strumento istituzionale per consentire meetup civici. In molti stanno già lavorando al concepimento di una piattaforma web che aspiri ad offrire una risposta completa e univoca alle esigenze e alle sfide che pone la wiki-sussidiarietà. Ma sapranno le istituzioni cogliere le opportunità che essa può spalancare nella cura dell'interesse generale e dei beni comuni?

6. Conclusioni: la necessità di una regia per l'innovazione sociale e la rigenerazione urbana

Il progetto ambizioso qui delineato richiede inevitabilmente la individuazione di un soggetto che funga da facilitatore e coordinatore di questo programma organico di rigenerazione del territorio e delle città mediante la manutenzione civica dei beni comuni locali. La ricerca di un soggetto pivotale in grado di portare avanti il cambiamento qui prospettato, incentrato sullo scambio, la collaborazione, la messa a sistema di tutti gli attori coinvolti - quelli pubblici dotati di poteri, risorse e mezzi indispensabili per la buona cura dei beni comuni e quelli sociali disponibili a mettere in campo le proprie energie, risorse, conoscenze, competenze per prendersi cura dei beni di comunità - non può che indirizzarsi in due direzioni.

Da un lato, occorre concentrare l'osservazione su quelle pubbliche amministrazioni locali che negli ultimi anni più hanno innovato o stanno innovando le proprie strutture organizzative per predisporsi a governare con la rete. Sotto questo profilo diventa importante mettere in piedi unità organizzative all'interno della pubblica amministrazione locale dedicate specificamente alla funzione di facilitazione/capacitazione delle energie civiche presenti nella comunità locale al fine di inaugurare un metodo di governo della città "insieme con i cittadini" [77]. Tale funzione dovrà fondarsi su due pilastri e cioè: (i) sulla organizzazione dell'ascolto e del dialogo all'interno della stessa macchina amministrativa locale tra le sue diverse articolazioni e soprattutto con i cittadini e tutte le articolazioni della società civile potenzialmente interessati a questo metodo di governo; (ii) sul disegno e la strutturazione di regole, procedure e moduli organizzativi che garantiscano la stabilità nel lungo termine di questa alleanza tra la pubblica amministrazione locale e la comunità, le risorse civiche, economiche, culturali, sociali in essa presenti, attive o anche solo latenti.

E naturalmente a ogni nuova funzione corrisponde una diversa organizzazione. Ci vuole anzitutto una "cabina di regia del governare insieme" posta il più possibile vicino alle funzioni apicali dell'ente locale e, se possibile, che abbia natura interdipartimentale, di coordinamento, trasversale rispetto alle funzioni tipiche per settori omogenei dell'amministrazione organizzati in vista dell'offerta di funzioni e servizi piuttosto che della domanda di tali funzioni e servizi, per materie, più che per bisogni. La cabina di regia avrebbe il compito di essere l'architetto del sistema attraverso la modifica, semplificazione, innovazione di regolamentazioni, strutture organizzative e procedure della amministrazione locale. Poi, occorre una struttura dedicata alla comunicazione istituzionale di questa profonda innovazione organizzativa e di azione dell'amministrazione. Un "URP del governare insieme", una struttura cioè che per un verso faciliti l'incontro tra i cittadini attivi e volitivi e per altro verso avvicini i cittadini distanti dall'interesse generale o distratti dalla cura dei propri interessi individuali all'amministrazione condivisa conducendoli fino alle porte di quello che dovrebbe essere una sorta di "sportello unico della cittadinanza attiva".

Questo "sportello unico" dovrebbe caricarsi sulle spalle il compito di semplificare la inevitabile complessità amministrativa che un modello di cura condivisa dell'interesse generale reca seco. Cabina di regia, URP e sportello unico della cittadinanza attiva sono i tre elementi di innovazione organizzativa di cui un'amministrazione locale deve dotarsi per poter amministrare con i cittadini e non più solo per i cittadini. Non basta più organizzare sedi di ascolto e al limite di codeterminazione delle decisioni della pubblica amministrazione. Benché sotto questo profilo si registrino interessanti innovazioni, rimaniamo pur sempre nell'ambito del vecchio paradigma bipolare. Magari si tratta di un'amministrazione più aperta, ma si tratta pur sempre di un'amministrazione che mira a preservare il monopolio della cura dell'interesse generale e a farsi interprete ultima e unica della volontà dei cittadini.

Dall'altro, occorre volgere lo sguardo al di fuori del circuito istituzionale dello Stato-apparato. Sotto questo secondo profilo, è ragionevole immaginare che un ruolo molto importante possa essere svolto dalle istituzioni dello Stato-comunità, come ad esempio le autonomie funzionali, il mondo del terzo settore, le fondazioni di erogazione o di comunità e, in particolare, le fondazioni di origine bancaria. A queste ultime istituzioni sociali si è assegnato il ruolo di "soggetti dell'organizzazione delle libertà sociali" (C. cost. n. 300 del 2003) e in molte istanze esse si sono caricate la responsabilità di essere gli investitori istituzionali nell'innovazione sociale a livello locale.

Le fondazioni, insieme con tutte le altre istituzioni dello Stato-comunità o Stato-collettività, potrebbero e dovrebbero pertanto farsi promotrici di piani locali di manutenzione civica dei beni comuni locali. Ad esempio, le fondazioni potrebbero far rientrare il supporto ai microprogetti civici di arredo urbano nell'ambito delle loro attività a favore delle comunità locali. Esse potrebbero, in particolare, agevolare l'attuazione della disposizione sui microprogetti in due direzioni. L'azione principale potrebbe essere quella di lanciare a livello locale bandi per la selezione di alcune proposte di microprogetti da sostenere economicamente e amministrativamente. In tal modo, i cittadini potrebbero essere sollevati anche dall'esborso immediato delle "spese per la formulazione delle proposte e la realizzazione delle opere" e in più potrebbero avvalersi delle agevolazioni fiscali. In alternativa, potrebbero essere le stesse fondazioni ad avvalersi dell'agevolazione fiscale connessa. Si tratta naturalmente di verificare la fattibilità dell'una o dell'altra soluzione sotto il profilo fiscale.

In una seconda direzione, le fondazioni e tutte le altre istituzioni dello Stato-comunità potrebbero svolgere un'azione di moral suasion nei confronti del decisore pubblico locale affinché approvi la regolamentazione attuativa necessaria a conferire effettività e immediata operatività alle disposizioni in esame. In ipotesi si potrebbe anche immaginare la creazione di forme di partenariato istituzionalizzato fra ente locale e queste istituzioni per mettere a disposizione dei cittadini le risorse amministrative ed economiche necessarie alla implementazione dei microprogetti di arredo urbano.

Il carattere nazionale non contrasta con il necessario svolgimento a livello locale delle azioni che dovrebbero implementarlo e deriva da due esigenze.

La prima è che si stabilisca a livello nazionale una politica pubblica centrata sulla definizione di linee guida generali e la messa in rete delle diverse esperienze locali per garantire efficienza, mutuo apprendimento e un minimo di uniformità nella azione delle diverse istituzioni sociali. Questo sia per sussumere le buone prassi locali, già oggi esistenti in questo ambito, all'interno di un modello di base costruito sulle virtù e i difetti riscontrati a livello locale, sia per evitare fughe in avanti da parte di singole istituzioni sociali che possano esporre l'intero piano, e in primis le fondazioni come investitori nell'innovazione sociale, a responsabilità, pretese, aspettative che pregiudicherebbero la buona riuscita del piano.

La seconda esigenza è quella di mantenere a un livello centrale il monitoraggio e la valutazione sulle possibili disuguaglianze che la implementazione di un piano di questo tipo potrebbe generare tra diverse comunità o aree territoriali. La considerazione di queste disuguaglianze potrebbe condurre alla adozione di interventi di perequazione come la creazione, con il supporto anche finanziario delle istituzioni centrali, di un "fondo nazionale per la manutenzione civica dei beni di comunità".

L'azione del "pubblico-comunità" non può affatto significare che si debba fare a meno dell'intervento dei poteri pubblici o delle loro risorse economiche ed amministrative. Né può legittimare una loro ritrazione. Difatti, il venir meno del "pubblico-pubblico" pregiudicherebbe la capacità di mobilitare quelle risorse civiche aggiuntive che si vuole con questa azione motivare alla cura dei beni comuni locali. Una parte consistente dello Stato-comunità, a ragione, non intende agire in sostituzione dei poteri pubblici e così agevolarne l'abbandono dei compiti istituzionali loro assegnati.

 

Note

[1] H. Lefebvre, Il diritto alla città, Venezia, Marsilio, 1970 (ed. orig. Le droit à la ville, Parigi, Editions Anthropos, 1968).

[2] Sul principio divisione della città in spazi pubblici e spazi privati v. J.B. Auby, Droit de la ville, LexisNexis, Paris, 2013, pag. 20.

[3] C. Donolo, I beni comuni presi sul serio, in L'Italia dei beni comuni, a cura di G. Arena, C. Iaione, Roma, Carocci, 2012, pag. 14.

[4] U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011, pag. 52.

[5] U. Mattei, op. cit., pag. 53.

[6] U. Mattei, op. cit., pag. 55.

[7] U. Mattei, ibidem.

[8] P.L. Crosta, Società e territorio, al plurale. Lo "spazio pubblico" - quale bene pubblico - come esito eventuale dell'interazione sociale, in Foedus, 2000, n. 1, pagg. 42-43.

[9] I. Vitellio, Spazi pubblici come beni comuni, in Critica della razionalità urbanistica, 2005, n. 17, pagg. 9-20, part. 12.

[10] Sui lavori della Commissione Rodotà v. U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, I beni pubblici. Dal governo democratico dell'economia alla riforma del codice civile, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2010.

[11] Cass., SS.UU., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Giorn. dir. amm., 2011, pag. 1170-1178 con commento di F. Cortese, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici?; nonché in Dir. giur. agr. alim amb., 2011, 7, 1, pag. 473, con commento di L. Fulciniti, Valli da pesca lagunari. La Cassazione reinterpreta i beni pubblici, Vd. anche S. Lieto, 'Beni comuni', diritti fondamentali e stato sociale. La Corte di Cassazione oltre la prospettiva della proprietà codicistica, in Pol. dir., 2011, 2, pag. 331. Cfr. pure la "sentenza gemella" Cass., SS. UU., 16 febbraio 2011, n. 3811, in www.labsus.org, 12 agosto 2011, con commento di C. Feliziani.

[12] G. Arena, Beni comuni. Un nuovo punto di vista, in Labsus.org, 19 ottobre 2010.

[13] C. Cellamare, Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi, Milano, Elèuthera, 2008.

[14] C. Cellamare, op. cit., pag. 101.

[15] P. Bellaviti (a cura di), Una città in salute, Milano, Franco Angeli/Diap, 2006; Id., La città, la salute e la pianificazione urbana, in Salute, ambiente e qualità della vita in ambiente urbano, a cura di G. Nuvolati, M. Tognetti Bordogna, Milano, Franco Angeli, 2008; Id. (a cura di), Benessere urbano. Approcci, metodi e pratiche per sostenere la capacità di 'stare bene' nello spazio urbano, in Territorio, 2008, pag. 47; Id., Alla ricerca di un nuovo "benessere" urbano promuovendo la capacità degli abitanti a "stare bene" nella città, in F. Pomilio, Welfare e territorio, Alinea Editori, Firenze, 2009; S. Munarin, C. Tosi (a cura di), Lo spazio del welfare in Europa, in Urbanistica, 2009, 139, pagg. 88-112.

[16] G. Arena, Interesse generale e bene comune, in Labsus.org, 1 novembre 2011.

[17] Cfr. C. Pinelli, I rapporti economico-sociali fra Costituzione e Trattati europei, in La costituzione economica: Italia, Europa, a cura di C. Pinelli, T. Treu, Bologna, Il Mulino, 2010, pag. 31 e 37. In generale, sul principio di eguaglianza, cfr. L. Paladin, Il principio costituzionale di eguaglianza, Milano, Giuffrè, 1965; C. Rossano, L'eguaglianza giuridica nell'ordinamento costituzionale, Napoli, Jovene, 1966.

[18] A. Belli, Editoriale, in Critica della razionalità urbanistica, 2005, n. 17.

[19] P. Bellaviti, Disagio e benessere nella città contemporanea, in atti della XIV Conferenza SIU, Abitare l'Italia. Territori, Economie, diseguaglianze, 24-26 marzo 2011.

[20] B. Secchi, La città del ventesimo secolo, Roma, Laterza, 2005, pagg. 108-110.

[21] P. Bellaviti, Disagio e benessere nella città contemporanea, cit., pag. 1. L'Autrice osserva come "la dimensione spaziale incida sulla qualità della vita quotidiana dei diversi soggetti urbani e sulle loro forme di interazione e condivisione. La città, infatti, con i suoi spazi e le sue infrastrutture, in quanto 'ambiente di vita' individuale e collettiva, è lo 'spazio' privilegiato per lo sviluppo del benessere, l'affermarsi dei diritti di cittadinanza e il realizzarsi della convivenza fra diversità".

[22] P. Bellaviti, op. loc. cit.

[23] G. Pasqui, Città, popolazioni, politiche, Milano, Jaca Book, 2008.

[24] G. Paba, Corpi urbani. Differenze, interazioni, politiche, Milano, Franco Angeli, 2010.

[25] V. P. Urbani, S. Civitarese, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, Torino, Giappichelli, 2010, pag. 90.

[26] P. Stella Richter, Diritto urbanistico. Manuale breve, Milano, Giuffrè, 2010, pag. 55.

[27] A. Belli, op. loc. cit.

[28] A. Amin, N. Thrift (a cura di), Città: ripensare la dimensione urbana, Bologna, Il Mulino, 2005; M.C. Nussbaum, A.K. Sen (a cura di), The Quality of Life, London, Clarendon Press, 1992.

[29] U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011; S. Bowles, H. Gintis (a cura di), A Cooperative Species. Human Reciprocity and Its Evolution, Princeton, Princeton University Press, 2011.

[30] N. Urbinati, Liberi e uguali. Contro l'ideologia individualista, Roma, Laterza, 2011, pag. 29, che cita A. Sen, Capability and well-being, in M.C. Nussbaum, A.K. Sen (a cura di), The Quality of life, cit., pagg. 30-66.

[31] A. Sen, The Idea of Justice, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2009, pagg. 1-27.

[32] A. Sen, The Idea of Justice, cit., pagg. 253-260.

[33] N. Urbinati, op. cit., pag. 35.

[34] A. Sen, The Idea of Justice, cit., pag. 348.

[35] G. Arena, Cittadini e capitale sociale, in Labsus.org, 5 giugno 2007.

[36] Vanno in questa direzione i tentativi di misurare il livello di benessere di un territorio partendo da indici più complessi del mero PIL. Cfr. il Rapporto ISTAT-CNEL, BES 2013 - Il benessere equo e sostenibile in Italia, Roma, 2013.

[37] P.L. Crosta, Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica, in M.C. Tosi (a cura di), Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica?, Roma, Meltemi, 2006, pag. 93; Id., Pratiche. Il territorio è "l'uso che se ne fa", Milano, Franco Angeli, 2010.

[38] P. Bellaviti, Disagio e benessere nella città contemporanea, cit., 3.

[39] "Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà".

[40] G. Arena, G. Cotturri, Il valore aggiunto. Come la sussidiarietà può salvare l'Italia, passim.

[41] C. Iaione, Microprogetti, storia di silenzi tra assensi e rigetti, in Labsus.org, 5 febbraio 2009.

[42] V. Taccone, Quelli che il parco, in Labsus.org, 12 giugno 2011.

[43] S. De Santis, La detassazione dei microprogetti di interesse locale, in Enti non profit, 2009, pag. 17.

[44] Cfr. A. Police, Le fondazioni di partecipazione, in La collaborazione pubblico-privato e l'ordinamento amministrativo, a cura di F. Mastragostino, Giappichelli, Torino, 2011, pag. 393.

[45] R.H. Thaler, C.R. Sunstein, Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness, Penguin Books, New York, 2008.

[46] Cfr. C. Iaione, La sussidiarietà quotidiana, in Labsus.org, 12 luglio 2010.

[47] Cfr. G. Arena, La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, Rimini, Maggioli, 2004, pag. 69.

[48] In http://www.socialaw.com/slip.htm?cid=19699&sid=119.

[49] V. http://www.libero-news.it/news/389717/Merano__agricoltura_troppo_spinta_tra_le_cause_del_disastro_.html.

[50] http://www.montaguto.com/modules.php?name=News&file=article&sid=724.

[51] http://www.cittattiva.net/?p=132.

[52] I. Salvemme, La sussidiarietà nei consorzi di bonifica, in Labsus.org, 6 luglio 2008.

[53] E.T. Freyfogle, Property and liberty, in Harv. Envtl. L. Rev., 2010, 75, in particolare pag. 95 e 107.

[54] C. Iaione, Progetto "CAmbieReSti?", in Labsus.org, 15 novembre 2008.

[55] C. Iaione, The tragedy of urban roads: saving cities from choking, calling on citizens to combat climate change, in Fordham Urban Law Journal, 2010, 889.

[56] F. Spano, Cosa puoi fare tu per l'ambiente?, in Labsus.org, 29 ottobre 2009.

[57] Basta visitare le categorie "Sostenibilità" della sezione "Casi" e di quella "Documenti" di Labsus.org in cui si descrivono possibilità di vivere in maniera sostenibile, cioè in armonia con la natura e la propria comunità.

[58] S. Chiaramonte, Una giornata con la famiglia Attiva, in Labsus.org, 8 febbraio 2010.

[59] V. Taccone, Albergo diffuso: la vacanza è sostenibile, in Labsus.org, 19 giugno 2011.

[60] M. Pistilli, Un anno di greenMe, in Labsus.org, 7 febbraio 2010.

[61] Vd. G. Arena, Beni comuni. Un nuovo punto di vista, in Labsus.org, 19 ottobre 2010; C. Donolo, I beni comuni presi sul serio, in Labsus.org, 31 maggio 2010; C. Iaione, L'acqua bene comune, in Labsus.org, 3 maggio 2010.

[62] M.C. Marchetti, Sviluppo sostenibile? Dipende da noi, in Labsus.org, 15 novembre 2009.

[63] G. Arena, Responsabilità sociale individuale, in Labsus.org, 10 marzo 2007.

[64] F. Fracchia, Sviluppo sostenibile, dalla teoria alla pratica quotidiana, in Labsus.org, 10 agosto 2009; nonché Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, Torino, Giappichelli, 2010.

[65] C.R. Sunstein, Social norms and social roles, in Colum. L. Rev., 1996, pag. 903.

[66] F. Merusi, Il diritto 'sussidiario' dei domini collettivi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003, 1, pag. 77.

[67] G.L. Kelling, J.Q. Wilson, Broken Windows. The police and neighborhood safety, in Atlantic Magazine, marzo 1982, pagg. 29-38, che sviluppano l'intuizione di J.Jacobs, Death and life of great american cities, New York, Vintage Books, 1961.

[68] R.C. Ellickson, Order without law: how neighbors settle disputes, Harvard University Press, 1991; Id., Controlling chronic misconduct in city spaces: of panhandlers, skid rows, and public-space zoning, in Yale L.J., 1996, pag. 1165.

[69] N.S. Garnett, Private norms and public spaces, in Wm. & Mary Bill Rts. J., 2009-2010, pag. 183.

[70] G. Arena, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all'Italia, Laterza, Bari, 2006.

[71] G. Arena, F. Cortese, Per governare insieme: il federalismo come metodo. Verso nuove forme della democrazia, Cedam, Padova, 2011.

[72] Si tratta di YOUNG, il Salone dell'orientamento nel mondo della scuola e del lavoro. Cfr. http://www.udinefiere.it/099/YOUNG+2011.

[73] "I reggiani, per esempio" è un progetto promosso dal Comune di Reggio Emilia che nasce nel 2008 con l'idea di riscoprire e far emergere il ricco capitale sociale della comunità locale attraverso una raccolta di testimonianze e di buone pratiche di cittadinanza attiva e responsabilità sociale. V. http://www.comune.re.it/reggianiperesempio.

[74] Foto RAEEporter (RAEEporter, nell'edizione 2010) è una campagna di sensibilizzazione ambientale sull'importanza del corretto riciclo dei RAEE promossa da Ecodom, in collaborazione con Legambiente. V. http://www.raeeporter.it/premiazione.aspx.

[75] Cfr. C. Iaione, La wiki-sussidiarietà, in Labsus.org, 12 settembre 2011.

[76] V. sull'open goverrnment http://www.whitehouse.gov/the_press_office/TransparencyandOpenGovernment/

[77] Cfr. G. Arena, F. Cortese, Per governare insieme: il federalismo come metodo, Padova, Cedam, 2011, passim.

 



copyright 2013 by Società editrice il Mulino
Licenza d'uso


inizio pagina