testata

La valorizzazione del patrimonio culturale: modelli organizzativi e strumenti

A 50 anni dalla Convenzione Unesco del 1972 sulla protezione del patrimonio culturale mondiale: riflessioni alla luce dell’esperienza italiana [*]

di Claudia Tubertini [**]

Sommario: 1. Il carattere multilivello della protezione dei siti Unesco: il condizionamento effettivo degli organi sovranazionali. - 2. La prospettiva del diritto interno: la tutela coordinata dei siti Unesco ed il ruolo dei piani di gestione. - 3. L’impatto del sistema di riparto delle competenze sulla protezione dei siti Unesco: la collaborazione necessaria.

50 years after the 1972 Unesco Convention concerning The Protection of the World Cultural and Natural Heritage: considerations in relation of the Italian experience
World Cultural Heritage has to face not only the variety of legal status of the asset involved, but also the fragmentation of powers between the various territorial levels which are responsible for the protection and enhancement of Unesco sites and monuments. The coordination of these leves, and between them and the private actors, plays a fundamental role in order to balance conservation and exploitation of the sites; in this perspective, a more stronger interpretation of the obligations deriving from the Unesco Convention should lead to a widespread application of the collaborative method in this, so essential, material sphere, as it is now believed in other spheres of public intervention where constitutional rights are at stake.

Keywords: Cultural heritage protection; Unesco; Italy; Multilevel system; Coordination.

1. Il carattere multilivello della protezione dei siti Unesco: il condizionamento effettivo degli organi sovranazionali

Secondo la consolidata opinione della dottrina, il diritto dei beni culturali costituisce ormai un sistema normativo autonomo nel quale la crescente influenza della dimensione internazionale ha generato importanti trasformazioni nella struttura, nei metodi e negli strumenti che lo caratterizzano. Un primo elemento distintivo di questo sistema è infatti proprio il carattere multilivello delle norme che lo costituiscono: fonti di diritto internazionale, fonti di diritto dell’Unione europea, norme interne, nazionali e sub-statuali sono destinate a convivere e ad intrecciarsi, spesso generando non pochi problemi di convivenza, a partire dalla stessa individuazione del perimetro - più ampio o più ristretto - dei beni oggetto di regolazione [1]. L’affermazione dell’unità ed universalità della cultura e del patrimonio culturale, secondo il fenomeno ormai da tempo definito della globalizzazione dei beni culturali [2], del resto, ha acuito la necessità di trovare forme di convivenza tra le istituzioni chiamate, a diverso livello, a concorrere alla realizzazione degli obiettivi a cui tutto il diritto dei beni culturali da sempre è orientato, ed il contemperamento tra gli obiettivi primari a cui esse sono rispettivamente destinate: tutela e valorizzazione; conservazione e fruizione.

In questo contesto un indubbio ruolo di primo piano assume la Convenzione Unesco di Parigi del 1972 sulla protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale, che conta l’Italia come Stato da lungo tempo aderente [3] ed essenziale contributore, sia in termini di supporto finanziario che di numerosità dei beni riconosciuti e protetti. È a questa Convenzione che, come è noto, si deve l’introduzione nel sistema normativo dei beni culturali dell’innovativa nozione di Cultural Heritage, comprensiva di monumenti, siti e complessi (agglomerati) tanto di valore storico-culturale che naturalistico, di cui gli Stati aderenti sono chiamati a concorrere per l’identificazione, la protezione, la conservazione e la valorizzazione. L’innovazione è stata determinante per il nostro diritto interno, tradizionalmente ancorato ad una definizione atomistica e circoscritta delle “cose” oggetto tutela; altrettanto innovativa è stata, per il nostro Paese, la qualificazione operata dalla Convenzione del patrimonio culturale come un insieme nel quale convivono beni artistici e naturali, anticipando così di molto tempo la definizione di patrimonio culturale poi adottata, a livello interno, dal Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004.

D’altro lato, la stessa Convenzione ha riconosciuto la sovranità degli Stati nel determinare le politiche e le strategie interne di attuazione dei suoi obiettivi, salvo restando l’impegno ad astenersi dall’adottare deliberatamente provvedimenti che possano danneggiare direttamente o indirettamente il patrimonio dell’umanità. La conseguenza di tale “sovranità statale” - ragione principale, a detta degli studiosi di diritto internazionale, del suo ineguagliato successo in termini di numero di Stati aderenti - è che la qualificazione di un bene o di un complesso di beni come “World Cultural Heritage” non modifica lo status legale dello stesso, ma obbliga solo lo Stato aderente a riconoscere che il bene così identificato costituisce un bene alla cui protezione è chiamata a cooperare l’intera comunità internazionale (art. 6) [4]. D’altro lato, spetta agli Stati contraenti (art. 3) “identificare e delimitare i differenti beni situati sul suo territorio e menzionati agli artt. 1 e 2”, e da tale delimitazione vengono posti a carico degli stessi sia obblighi nazionali che internazionali, al fine di assicurare alla future generazioni la trasmissione del proprio patrimonio culturale; deve essere, come sancito dalla Convenzione, iniziativa dello Stato garantire una conservazione e protezione efficace “adottando una politica generale che valorizzi la funzione del patrimonio culturale e naturale nella vita collettiva per integrare la protezione di questo patrimonio nei programmi di pianificazione generale” (art. 5 lett. a).

La seconda conseguenza di questa riconosciuta sovranità statale è che l’organismo internazionale al quale è affidata primariamente l’implementazione della Convenzione, ossia il Comitato del patrimonio culturale e naturale (World Heritage Commitee), è sprovvisto, almeno formalmente, di poteri normativi, essendo prevista da parte dello stesso solo l’adozione e l’aggiornamento di “linee guida” (Operational Guidelines) per la regolazione e la gestione dei principali aspetti applicativi della Convenzione.

Il risultato è quello di un sistema normativo nel quale si combinano, come si è detto, elementi di diritto internazionale ed elementi di diritto interno, che vengono a formare lo “statuto multilivello dei beni Unesco”. Appartengono al primo livello, quello internazionale, i requisiti richiesti per il riconoscimento quale bene appartenente al patrimonio dell’umanità e la procedura di inclusione nella lista; la definizione degli obiettivi assegnati agli Stati firmatari; i poteri di intervento dell’Unesco e dei suoi organi, mentre al secondo livello, quello interno, restano le forme di individuazione dei beni culturali, e, soprattutto, le rispettive competenze e poteri delle amministrazioni nazionali di tutela e valorizzazione e la scelta degli strumenti idonei all’attuazione degli obiettivi della Convenzione.

Queste caratteristiche del sistema normativo multilivello di protezione dei siti Unesco hanno trovato conferma anche da parte della nostra Corte Costituzionale la quale, chiamata a verificare la compatibilità con la Convenzione di varie disposizioni del Codice dei Beni culturali e del paesaggio, ha escluso che nel nostro ordinamento i beni Unesco godano di una tutela a sé stante, in quanto, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme di protezione differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche.

In definitiva, tanto gli interessi ultrastatali, quanto l’interesse diffuso dell’intera popolazione mondiale alla conservazione del sito, sono concretamente realizzabili solo mediante l’esercizio dei poteri legislativi ed amministrativi statuali e la libera scelta da parte dello Stato dei provvedimenti più adeguati (Corte Cost., sent. 22/2016) [5].

In base a questo modello, quindi, il ruolo delle istituzioni sovranazionali dovrebbe considerarsi quale meramente sussidiario e complementare a quello degli Stati, risolvendosi in una attività di monitoraggio, supporto operativo e finanziario in caso di emergenza (attraverso il World Heritage Fund) e di moral suasion che non permette azioni dirette sui beni inclusi nella lista, salvo la misura estrema della loro cancellazione (Delisting) dalla lista stessa (misura concepita, evidentemente, come sanzione reputazionale diretta nei confronti dello Stato, che comporta tuttavia una ritrazione delle istituzioni sovranazionali dall’intervento su quei beni che essa stessa ritiene in maggior pericolo). Proprio partendo da questa constatazione è in atto da tempo un dibattito sull’opportunità e sulle modalità di misure di enforcement degli obblighi posti a capo degli Stati [6].

Eppure, non si può dubitare che l’azione globale dell’Unesco condizioni de facto l’esercizio delle prerogative statali, così come, parallelamente, la stessa attività amministrativa interna incida sulla complessiva efficacia della protezione programmata a livello globale, nell'ambito di un modello si fonda proprio sull’applicazione nazionale di standards e principi di tutela globale. Come è stato efficacemente sottolineato, “l’organismo sopranazionale che fissa lo standard, in difetto di strutture proprie, deve necessariamente ricorrere alle amministrazioni statali e substatali per realizzare delle efficaci politiche di protezione dei singoli Siti e tutelare gli interessi di riferimento; le amministrazioni statali e substatali che attuano le singole misure esercitano i relativi poteri all’interno di una cornice di valori ed interessi espressi a livello sopranazionale, ed adottano decisioni caratterizzate da una rilevanza giuridica che trascende l’ambito territoriale di riferimento e produce i suoi effetti giuridici a livello sopranazionale” [7].

Ma è stata, indubbiamente, la prassi d’applicazione della Convenzione, e, specificamente, il modo in cui è stata interpretata e progressivamente attuata la funzione di monitoraggio, ad aver determinato una interpretazione sempre più stringente degli obblighi di conservazione in capo agli Stati, chiamati in varie occasioni a modificare, in esito a lunghe e articolate consultazioni con gli organi della Convenzione, decisioni di particolare rilievo quanto alla pianificazione territoriale o allo sviluppo d’infrastrutture: tanto da potersi concludere che, “pur con i suoi limiti e la sua precettività variabile e debole, la Convenzione Unesco inserisce gli stati firmatari in un sistema di obbligazioni, singole e collettive, ulteriori rispetto a quelle già assunte nell’ordinamento di appartenenza, nei confronti non soltanto degli organi della Convenzione, ma della collettività globale” [8]. È da questa prassi che emerge, infatti, il ruolo centrale assunto dagli organismi consultivi dell’Unesco non solo in merito alla designazione dei siti, ma anche nel controllo sul rispetto degli obblighi di conservazione e nella gestione dell’assistenza internazionale [9].

2. La prospettiva del diritto interno: la tutela coordinata dei siti Unesco ed il ruolo dei piani di gestione

Il condizionamento diretto da parte dell’Unesco sulle scelte di diritto interno si è senz’altro rafforzato a seguito della Dichiarazione di Budaspest del 2002, con la quale il World Heritage Commitee dell’Unesco ha invitato gli Stati membri dell’Organizzazione a rafforzare le iniziative a tutela del patrimonio culturale mondiale, incentivando l’effettiva protezione dei singoli beni già iscritti (o di cui si auspica l’iscrizione) nella World Heritage List, in modo da garantire un equilibrato bilanciamento degli interessi sottesi alla conservazione e fruizione dei vari siti, rilevanti non solo sul Piano culturale, ma anche economico e sociale. È da questa dichiarazione, infatti, che si è inserito quale elemento necessario della proposta di inserimento di un bene nella lista Unesco la redazione di un piano di gestione, la predisposizione di tutti gli strumenti necessari per la sua attuazione, nonché l’impegno alla pubblicazione di rapporti periodici sul grado di protezione ed implementazione delle tutele delle singole aree inserite nella lista dell’Unesco. Nella prassi si è affermata la regola per la quale i rapporti periodici debbano contenere, oltre all’indicazione delle misure adottate, anche una relazione sullo stato di conservazione del bene. A seguito della presentazione dei rapporti, il Comitato analizza le questioni sollevate può rivolgere raccomandazioni agli Stati. La prassi ha poi affiancato a tale modalità di controllo ordinario anche un controllo straordinario (Reactive Monitoring) volto a fronteggiare situazioni a carattere eccezionale, ed anche missioni ispettive, allo scopo di determinare le condizioni del bene, la possibilità d’adottare misure correttive o l’efficacia di quelle prese dallo Stato territoriale [10].

Lo strumento del piano di gestione è stato recepito dal legislatore italiano con la legge 20 febbraio 2006, n. 77, “Misure speciali di tutela e fruizione dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella lista del patrimonio mondiale, posti sotto la tutela dell’UNESCO” [https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2006;77], dove si è previsto che l’elaborazione del Piano di gestione del Sito non sia necessaria solamente ai fini dell’iscrizione nella World Heritage List, ma costituisca anche una dotazione obbligatoria dei Siti che abbiano già ottenuto tale riconoscimento da parte dell’Unesco, nell’ottica di garantire una protezione e tutela continua di tali beni ed elevare gli stessi standard di tutela alle indicazioni contenute nella dichiarazione di Budapest.

È interessante notare come la legge preveda (art. 3, c. 3) che gli “accordi tra i soggetti pubblici istituzionalmente competenti alla predisposizione dei piani di gestione e alla realizzazione dei relativi interventi sono raggiunti con le forme e le modalità previste dal Codice”. L’obiettivo della cooperazione tra soggetti diversi (pubblici e privati, Stato, regioni ed enti locali) sono dunque quelli della realizzazione di una gestione necessariamente “integrata”, dove valorizzazione e tutela si presentano in posizione equiordinata e tra loro coordinate in vista della realizzazione del comune obiettivo della più efficiente gestione del sito, in una prospettiva, dunque, quasi rovesciata rispetto a quella assunta dal Codice [11]. Del resto, i principi dettati dal Codice in materia di valorizzazione privilegiano la cooperazione tra i vari livelli istituzionali, e a tal fine prevedono strumenti consensuali nei rapporti tra amministrazioni (artt. 102 e 112) destinati prevalentemente a realizzare una gestione integrata dei beni culturali, da intendersi proprio quale ricerca di una reale interazione tra le attività svolte dagli enti territoriali competenti che possa condurre alla realizzazione di percorsi unitari di valorizzazione, ad itinerari che possano consentire la fruizione ad un pubblico sempre più ampio che, infine, favorire un maggiore coinvolgimento dei soggetti privati sia in quanto potenziali operatori, sia, anche, come proprietari di beni da destinare alla pubblica fruizione (art. 104) [12].

Sia pure nel rispetto del principio di sovranità degli Stati, è quindi la necessità di dotare ciascun sito di un piano di gestione ad implicare il necessario superamento della dicotomia tra tutela e valorizzazione, in vista di un documento orientato, appunto, “gestione”, termine che evoca, in senso letterale, tutte quelle attività - come all’interno dei contesti aziendali - necessarie non solo a conservare l’insieme dei beni nel suo stato, ma anche ad aumentarne la capacità produttiva [13]. Tale strumento rappresenta, inoltre, un riflesso della stessa accezione ampia di patrimonio culturale adottata dalla Convenzione: è all’interno dei siti Unesco che comprendono intere porzioni di città, centri storici, paesaggi, dove appare più evidente la necessità di una gestione unitaria, che permetta di contemperare la necessità di tutela dei siti e quella di regolamentare l’uso del territorio e le attività di vita quotidiana, sociali, commerciali che nello stesso si svolgono.

Lo stesso metodo collaborativo, del resto, appare presupposto già dal procedimento per il riconoscimento del bene e la sua inclusione nella lista: la presentazione della candidatura chiama infatti già in causa tutti i soggetti, pubblici e privati, chiamati poi a collaborare nel piano di gestione [14].

Nonostante questi indubbi elementi positivi, la debole precettività giuridica del piano di gestione costituisce a tutt’oggi il principale limite dello strumento in questione. I piani appaiono infatti, per come disciplinati dalla citata legge 77/2006, ed interpretati successivamente [15], meri atti programmatici destinati ad essere concretizzati in successivi atti conformativi della proprietà. L’art. 3, comma 2, della legge 77/2006, infatti, da un lato sancisce la funzione strategica dei Piani di gestione a cui assegna il compito di definire le priorità di intervento e le relative modalità attuative, nonché le azioni esperibili per reperire le risorse pubbliche e private necessarie, dall’altro lato, delinea la sua funzione di coordinamento nella misura in cui in esso vanno definite le opportune forme di collegamento con programmi o strumenti normativi che perseguano finalità complementari, tra i quali quelli disciplinanti i sistemi turistici locali e i piani relativi alle aree protette. I piani di gestione non possono quindi considerati come fonti sovraordinate rispetto agli altri piani urbanistici che perseguano finalità complementari, essendo da escludere la sussistenza di un rapporto di tipo propriamente gerarchico rispetto al sistema di pianificazione urbanistica e settoriale.

Questa declinazione del Piano di gestione nell’ordinamento interno non elide la circostanza che l’obbligo di adozione dei Piani di gestione, sia per i siti già iscritti nella World Heritage List, sia per quei patrimoni di eccezionale valore che si candidano all’iscrizione, trovi la propria fonte in un impegno che lo Stato italiano ha pattiziamente assunto nei confronti dell’Unesco. Dunque, l’adozione del piano di gestione e il raggiungimento degli obbiettivi di salvaguardia e valorizzazione in esso perseguiti assolvono alla duplice funzione di adempimento di un obbligo internazionale e di tutela su scala locale di interessi internazionali. Non si comprende, quindi, perché non sia stata accolta la lettura, pure avanzata in dottrina, di considerare i piani di gestione veri e propri parametri di legittimità interposti da utilizzare da parte del giudice chiamato a sindacare la legittimità degli atti attuativi susseguenti [16]. Proprio il rispetto del piano di gestione, del resto, ha permesso in alcune eclatanti situazioni di messa in pericolo di beni già inseriti nella World Heritage List alle istituzioni sovranazionali di effettuare controlli e di esercitare sugli stati una forte pressione, condizionando di fatto l’esercizio di prerogative decisionali formalmente riservate alle istituzioni nazionali e spingendole a non adottare soluzioni urbanistiche ed edilizie incompatibili con il citato piano [17].

Un’altra caratteristica dei piani di gestione è quello della loro atipicità, riflesso inevitabile della pluralità di beni ed attori che possono essere coinvolti in esso, ma anche conseguenza della mancanza di una loro compiuta disciplina legislativa e del carattere solo latamente prescrittivo delle Guidelines elaborate in materia dall’Unesco, che contengono una elencazione meramente esemplificativa dei contenuti dei piani [18]. La differenziazione dei contenuti riguarda in primo luogo le strutture organizzative istituite per la loro attuazione, la loro durata e la periodicità effettiva di aggiornamento. Ne deriva un quadro variegato, che ovviamente porta ad una altrettanta varietà nell’efficacia dei piani sinora sperimentati, anche per quanto concerne il maggiore o minor grado di coinvolgimento della cittadinanza nella loro progettazione, monitoraggio ed implementazione [19]. Sotto questo ultimo profilo, conta anche il differente grado di sviluppo che tuttora presenta l’applicazione, nel campo dei beni culturali, degli strumenti della cd. amministrazione condivisa dei beni comuni [20]. La previsione di una sede deputata alla raccolta, al controllo ed alla verifica di sistema dei piani di gestione potrebbe certamente aiutare a effettuare una adeguata comparazione delle esperienze, a favorire la circolazione di best practices e a raggiungere una migliore omogeneità qualitativa dei piani.

3. L’impatto del sistema di riparto delle competenze sulla protezione dei siti Unesco: la collaborazione necessaria

La riflessione sull’efficacia del sistema di protezione dei siti Unesco in Italia non può dirsi completa senza aggiungere qualche riflessione sull’attuale sistema di ripartizione delle competenze in materia di beni culturali in Italia, così come derivante dall’evoluzione della legislazione ordinaria e soprattutto dalla riforma costituzionale del 2001.

Si è visto che la natura stessa dei beni Unesco e la molteplicità degli obiettivi che la Convenzione si prefigge portano inevitabilmente ad un necessario coordinamento, in primo luogo, tra più amministrazioni, oltre che tra attori pubblici e privati.

Nel caso dell’Italia, questa esigenza è ancor più forte in conseguenza della attuale ripartizione costituzionale delle competenze che vede lo Stato titolare della competenza legislativa esclusiva in materia di tutela e delle Regioni in materia di valorizzazione. A ciò si aggiungono gli enti locali, che in relazione ai beni di cui sono titolari hanno, in base al consolidato orientamento della Corte Costituzionale, un dovere di valorizzazione, così come allo Stato continua ad essere attribuito il compito di valorizzare i beni di sua proprietà. In buona sostanza, dopo la riforma costituzionale del 2001 si è passati sa un criterio fondato su tipi di beni ad un criterio per tipi di funzioni (tutela per lo più come competenza esclusiva statale, valorizzazione come competenza concorrente regionale), corretto in ragione dell’appartenenza dei beni (valorizzazione allo Stato ed agli enti locali per i beni rientranti nella sua disponibilità).

Per i beni paesaggistici, il significativo ruolo regionale e locale, unito alla competenza statale in materia di tutela, comporta pur sempre una necessaria quanto complessa cogestione.

La Corte Costituzionale ha sottolineato in più occasioni la stretta ed ontologica interconnessione tra tutela e valorizzazione per la natura unitaria delle esigenze che esprimono (si veda, da ultimo, la sent. 140/2015), facendone derivare la necessaria applicazione del principio della leale collaborazione tra Stato e regioni.

La connessione non è, del resto, solo tra tutela e valorizzazione ma anche tra queste e altre politiche pubbliche, a cominciare da quelle relative al governo del territorio ed al turismo. Per il raccordo tra lo Stato e le Autonomie territoriali, al momento, non vi sono sedi organizzative dedicate, diverse da quelle generali rappresentate dal cd. Sistema delle Conferenze (Stato-Regioni, Stato-Città ed Unificata), ormai divenute il perno delle relazioni interistituzionali nel nostro paese, e da tempo oggetto di proposte volte ad una loro riforma [21]. Sotto questo profilo, si concorda con chi ha criticato l’avvenuta soppressione delle Commissioni regionali per i beni e le attività culturali, previste dagli artt. 154 e 155 del d.lg. 112/1998 come strutture consultive e propositive per la programmazione delle attività di valorizzazione e la mancata loro sostituzione con altre soluzioni organizzative idonee ad assicurare il raccordo tra e strutture statali e le autonomie territoriali [22].

Questo sistema di competenze binario, se non tripartito (tenuto conto del rilevante ruolo delle amministrazioni locali) è da tempo oggetto di dibattito e di proposte volte al suo superamento, ora nella direzione di un più deciso riconoscimento della competenza regionale e locale, ora in senso accentrato. Si scontrano, infatti, due dinamiche opposte: una di tipo ascendente (la cultura è sempre più globale, il diritto alla fruizione del patrimonio culturale si trasforma, sia pur con qualche difficoltà, in un diritto fondamentale slegato dalla cittadinanza, con relativa competenza primaria dello Stato), una di tipo discendente (per molti beni culturali vi è un forte radicamento nel territorio, con conseguente nesso con la collettività di riferimento, che fonda e giustifica la richiesta di una loro cura e gestione locale; si vedano le dinamiche sottese anche al già citato fenomeno della cd. amministrazione condivisa per la cura dei beni comuni) [23].

Nel caso dei beni Unesco, più che la necessità di andare verso una totale centralizzazione degli assetti organizzativi - con relativa pubblicizzazione in senso organizzativo dell’interesse pubblico sottostante la tutela Unesco - si avverte un’esigenza di efficace coordinamento tra i vari enti pubblici territoriali coinvolti nella gestione, al fine di garantire una tutela piena ed uno sfruttamento equilibrato del sito.

Che la mancanza di coordinamento possa, se non impedire, quantomeno ritardare l’intervento dello Stato a protezione del bene Unesco è risultato, purtroppo, evidente in varie occasioni. La vicenda del passaggio della cd. Grandi Navi per la laguna di Venezia, e del divieto introdotto dal legislatore statale solo nel 2021, dopo numerosi e reiterati inviti - e la minaccia di cd. delisting - da parte del Comitato Unesco [24], hanno solo reso evidente al grande pubblico un problema che era già emerso anche in altre, e non meno significative, situazioni.

I siti Unesco, come si è detto, a seconda delle loro caratteristiche tipologiche, sono ora beni culturali, ora beni paesaggistici, ora beni ambientali; talvolta hanno solo una di queste caratteristiche, altre volte tutte e tre. L’idea che lega tra loro i beni Unesco - a cui è comune il livello di protezione apprestata per l’intera umanità e le generazioni future, così come sancito dalla Convenzione del 1972 - richiederebbe invece di superare la concezione individuale, facendone prevalere una d’assieme. Da ciò, a cascata, le naturali conseguenze su un piano di tutela ed organizzazione [25].

Sul punto, una indicazione può trarsi direttamente dalla Costituzione, che a fronte del pluralismo istituzionale delineato nella materia dei beni culturali (artt. 117 e 118) e della doverosità dell’impegno richiesto a tutte le articolazioni della Repubblica (art. 9), sembra suggerire anzitutto la strada della cooperazione fra soggetti pubblici, laddove allude (art. 118) a specifiche “forme di coordinamento tra Stato e Regioni” nella materia della tutela dei beni culturali. Da questa norma si può infatti ricavare una indicazione di metodo, ovvero, la collaborazione come criterio di azione necessario in questo settore, tenuto conto che oltre al pluralismo delle competenze esistono la molteplice appartenenza dei beni culturali, l'intreccio fra politiche dei beni culturali e altre politiche pubbliche e la dislocazione di dette politiche fra vari attori istituzionali. Il fatto che si tratti di un’esigenza nella pratica ancora largamente disattesa [26] non esclude che si debba procedere comunque in questa direzione. Su questo, proprio la corretta lettura ed interpretazione degli obblighi discendenti dalla Convenzione Unesco dovrebbe condurre ad una applicazione diffusa del metodo collaborativo in questo, così essenziale, ambito materiale, così come ormai si ritiene in altri ambiti dove sono in gioco diritti di rango costituzionale [27].

 

Note

[*] Il presente contributo costituisce la rielaborazione della relazione svolta nel convegno “L’impatto della Convenzione UNESCO del 1972 sui sistemi giuridici nazionali ed internazionale e il rapporto con l’Unione europea”, Università di Bologna, 2 dicembre 2022.

[**] Claudia Tubertini, professore associato in Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Bologna, Via Belmeloro 10, 40126 Bologna, claudia.tubertini@unibo.it.

[1] C. Barbati, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2020, pag. 25.

[2] A. Bartolini, Beni Culturali, in Enc. Dir., Annali, VI, Milano, Giuffrè, 2013, pag. 107 ss., e Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. amm., 2019, pag. 223 ss.; L. Casini (a cura di), La globalizzazione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2010; N. Bassi, Il demanio planetario: una categoria in via di affermazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2011, pag. 619 ss.; R. Chiarelli, Profili costituzionali del patrimonio culturale, Torino, 2010.

[3] Cfr. legge 6 aprile 1977, n. 184 sulla ratifica ed esecuzione della convenzione. Tra i molti scritti dedicati alla Convenzione, si v. F. Francioni, A. Del Vecchio, P. De Caterini (a cura di), Protezione internazionale del patrimonio culturale: interessi nazionali e difesa del patrimonio comune della cultura, Milano, Giuffrè, 2000; J.A.R. Nafziger, T. Scovazzi (a cura di), Le patrimoine culturel de l’humanité, Leiden-Boston, Martinus Nijhoff Publishers, 2008; F. Francioni (a cura di), The 1972 World Heritage Convention: A Commentary, Oxford, Oxford University Press, 2008; C. Forrest, International Law and the Protection of Cultural Heritage, Abingdon, Routledge, 2010; A. Cannone (a cura di), La protezione internazionale ed europea dei beni culturali, Bari, Cacucci, 2014; E. Baroncini (a cura di), Il diritto internazionale e la protezione del patrimonio culturale mondiale, Bologna, BUP, 2019.

[4] A.L. Tarasco, Il patrimonio culturale, Napoli, Editoriale scientifica, 2019, pag. 34.

[5] Sui riflessi critici di questa sentenza v. S. Mabellini, La poliedrica natura dei siti Unesco sotto la lente della Corte Costituzionale, in Giur. Cost., 2016, pag. 146 ss.; A. Guerrieri, Corte Costituzionale e siti Unesco: quali tutele nel nostro ordinamento? Uno sguardo alla disciplina interna relativa ai beni patrimonio dell’Umanità, in Riv. giur. urb., 2016, 4, pag. 116 ss.; M. Timo, Il riconoscimento del centro storico di Napoli come patrimonio culturale mondiale non produce vincolo paesaggistico automatico, in Giustamm.it, 2018, 3.

[6] Si è sostenuto, in particolare, la possibilità di estendere anche alla violazione delle linee guida Unesco l’orientamento del Consiglio di Stato che, a proposito di linee guida adottate dall’Autorità nazionale anticorruzione, ha ritenuto che la loro inosservanza possa essere oggetto di censura sotto forma di vizio di eccesso di potere degli atti adottati in loro violazione. Sul punto, si v A. Guerrieri, La tutela dei siti Unesco nell’ordinamento italiano, tra prospettiva interna e comparata, in Dir. econ., 2019, pag. 461 ss.

[7] A. Cassatella, Tutela e conservazione dei beni culturali nei Piani di gestione Unesco: i casi di Vicenza e Verona, in Aedon, 2011, 1.

[8] P. Chirulli, Il governo multilivello del patrimonio culturale, in Dir. Amm, 2019, pag. 706.

[9] Cfr. M. Gestri, Le grandi navi nella laguna di Venezia e la Convenzione Unesco del 1972, in Lo Stato, 2021, 16, pag. 315 e I.C. Macchia, Il mantenimento dell’outstanding universal value dei siti Unesco: esempi significativi nella prassi degli organi della convenzione del 1972 e delle autorità nazionali, in E. Baroncini (a cura di), Il diritto internazionale e la protezione del patrimonio culturale mondiale, Bologna, AmsActa UNIBO, 2022, pag. 132 ss.

[10] M. Gestri, op. cit., pag. 318-19.

[11] C. Vitale, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in L. Casini (a cura di), La globalizzazione dei beni culturali, cit., pagg. 177-178.

[12] C. Videtta, Beni culturali nel diritto amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., 2012.

[13] A. Guarnieri, op. cit., pag. 19. Sull’opportunità di una lettura della funzione di valorizzazione che ricomprenda, oltre alla conservazione dei beni e alla fruizione collettiva degli stessi, l’utilizzo delle potenzialità economiche che il bene racchiude, M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, in Aedon, 2018, 3.

[14] La World Heritage Committee, che si riunisce una volta all’anno, valuta le candidature avvalendosi dei propri organi consultivi (per i beni materiali, l’ICOMOS, International Council on Monuments and sites, uno dei tre organismi consultivi dell’Unesco) seguendo una articolata istruttoria della durata approssimativa di un anno e mezzo.

[15] Secondo Linee Guida MiBAC del 2004 Piani di gestione sono chiamati ad assolvere una mera opera di coordinamento su tutte le altre pianificazioni per a) Mantenere nel tempo la integrità dei valori che hanno consentito la iscrizione alla World Heritage List; b) Ridefinire e rendere compatibile un processo locale condiviso da più soggetti e autorità per coniugare la tutela e la conservazione con lo sviluppo integrato delle risorse d’area.

[16] A. Cassatella, Tutela e conservazione dei beni culturali nei piani di gestione dei siti Unesco, cit.

[17] Si veda l’esempio del centro storico di Vicenza e delle azioni di controllo intraprese dall’ICOMOS, che a seguito di una visita di controllo ha suggerito specifici adempimenti procedurali (come la valutazione d’impatto sul patrimonio culturale (Heritage impact assessment) del tutto estranei all’ordinamento giuridico interno (A. Cassatella, Vicenza: un centro storico tra dimensione locale e sovranazionale, in M. Malo (a cura di), I centri storici cine parte del patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2019, pag. 171 ss.

[18] G. Garzia, Tutela e valorizzazione dei beni culturali nel sistema dei piani di gestione dei siti Unesco, in Aedon, 2014, 2, il quale sottolinea che anche la struttura del piano non è disciplinata, a parte la previsione di eventuali c.d. “zone cuscinetto” (o “buffer zone”) necessarie per collegare il sito tutelato con l’area esterna allo stesso, favorendo la costituzione di una cornice di protezione al sito e che rende - sotto questo specifico aspetto - il piano di gestione assimilabile al sistema di pianificazione proprio delle aree naturali protette.

[19] Per una rassegna di alcuni processi inclusivi messi in atto da siti italiani della World Heritage List, E. Ercole, Governance, partecipazione e inclusione nei piani di gestione dei siti della World Heritage List dell’Unesco, in Annali del Turismo, VI, 2017, pag. 186 ss. Sulla tendenza del diritto internazionale al passaggio da un modello prevalentemente incentrato sulle esigenze di protezione del patrimonio culturale ad uno maggiormente indirizzato a promuoverne un uso a fini sociali, facendolo strumento di inclusione sociale e chiamando la società civile a concorrere alla sua gestione e utilizzazione, S. Mabellini, La proprietà conformata dei beni culturali come archetipo per lo status dei “beni comuni”?, in Rivista di diritti comparati, Special Issue II, 2020, pagg. 41-42.

[20] B. Accettura, Politiche di valorizzazione e funzione sociale dei beni culturali. Pratiche di cittadinanza attiva, in Federalismi.it, 2019, 16, pag. 12 ss.; F. Donà, Partecipazione e sussidiarietà nella valorizzazione dei beni culturali: strumenti disponibili e prospettive future, ivi, 2020, 25, pag. 57 ss.

[21] Sul punto mi sia consentito rinviare a C. Tubertini, Attualità e futuro del sistema delle Conferenze, in Dir. pubbl., 2021, pag. 667 ss.

[22] G. Sciullo, Patrimonio culturale e sviluppo delle istituzioni, in M. Malo (a cura di), Declinazioni di patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2021, pag. 88 ss.

[23] Evidenzia questa duplice traiettoria P. Chirulli, op. cit., pag. 701.

[24] Sulla ricostruzione di questa vicenda, rinvio nuovamente a M. Gestri, op. cit., pag. 322.

[25] A. Guerrieri, op. cit., pag. 30.

[26] Come rilevato da G Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare - una spesa, un investimento, in Aedon, 2017, 3, e, nuovamente e più recentemente, da M. Cammelli, G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, in Aedon, 2022, 1. Sulla necessaria convergenza tra le istituzioni pubbliche e tra queste e quelle private la gestione dei siti e beni protetti dalle Convenzioni Unesco, in particolare nelle aree economicamente svantaggiate, cfr. anche G. Armao, Tutela e valorizzazione integrata del patrimonio culturale dei siti Unesco. Il caso del sito seriale “Palermo arabo-normanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale”, in Aedon, 2018, 1.

[27] Sulla necessità di preservare l’attuale nostro sistema articolato di competenze potenziando i meccanismi di raccordo tra Stato, Regioni ed Enti locali, rinvio a C. Tubertini, Collaborazione necessaria e differenziazione responsabile: riflessioni sparse su emergenza pandemica e sistema plurilivello, in Ist. del Federalismo, num. spec. 2020, pag. 89 ss.

 

 

 

 



copyright 2022 by Società editrice il Mulino
Licenza d'uso


inizio pagina