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Editoriale

Nuovi paradigmi per la tutela del patrimonio culturale

di Girolamo Sciullo [*]

New paradigms for the protection of cultural heritage
The paper examines Council of State ruling No. 8167/2022, which contains significant new elements regarding the protection of cultural heritage, departing to a large extent from the traditional orientation of the administrative court.

Keywords: Cultural Heritage; Balancing of Interests.

Alla sentenza del Consiglio di Stato (sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167) ha fatto già cenno Giuseppe Piperata nell’editoriale del precedente numero (2/2022) della Rivista, e ne ha segnalato il rilievo nel quadro di un’auspicabile risoluzione dei conflitti fra paesaggio e ambiente sempre più di frequente generati dalle istanze autorizzative per la costruzione di impianti di energia rinnovabile.

La sentenza peraltro ha una portata ulteriore. Originando da una controversia in tema di beni culturali (dichiarazione di interesse ex art. 13 e connesse prescrizioni di tutela indiretta ex art. 45 del Codice, d.lg. 42/2004), investe il patrimonio culturale complessivamente inteso, comprensivo, come ricorda la stessa pronuncia, tanto dei beni culturali quanto del paesaggio. Ed è a questa portata ulteriore che si intende qui fare riferimento.

Punto di partenza è l’affermazione secondo cui “la primarietà dei valori come la tutela del patrimonio culturale o dell’ambiente implica che gli stessi non possono essere interamente sacrificati al cospetto di altri interessi..., ma non ne legittima una concezione ‘totalizzante’ come fossero posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto”. Ne consegue che “il punto di equilibrio, necessariamente mobile e dinamico, deve essere ricercato-dal legislatore nella statuizione delle norme, dall’amministrazione in sede procedimentale, e dal giudice in sede di controllo - secondo principi di proporzionalità e di ragionevolezza”. Il passo è dalla sentenza ripreso pressoché integralmente dalla nota pronuncia della Corte costituzionale n. 85/2013.

Il fatto che il Consiglio di Stato faccia ora proprio l’orientamento del giudice costituzionale a proposito della tutela del patrimonio culturale rappresenta una netta discontinuità, un vero e proprio cambio di paradigma rispetto alla posizione tradizionalmente sostenuta dalla giurisprudenza amministrativa, e in particolare dal suo organo di vertice.

A illustrare con esemplare lucidità e chiarezza la ‘posizione tradizionale’ ha provveduto Giuseppe Severini nel n. 3/2016 di questa Rivista. L’art. 9 Cost. - Egli scrive - oppone la salvaguardia del patrimonio culturale, in quanto ‘valore primario e assoluto’, “alla scelta libera tra interessi come alle concrete valutazioni di opportunità e convenienza, proprie rispettivamente delle decisioni politiche o delle scelte amministrative”, sottraendola “alla disponibilità delle contingenti maggioranze politiche come all’alea delle continue comparazioni con altri interessi”.

Di qui due conseguenze: la configurazione di un ordinamento di settore connotato dalla inscindibilità del binomio tutela del patrimonio culturale e discrezionalità tecnica, e nel quale, pertanto, non c’è spazio (salvo che in limitatissime ipotesi) per la ponderazione e la selezione fra più interessi (ossia per la discrezionalità amministrativa), malgrado il carattere fortemente valutativo che possiedono i giudizi di tutela; e, in secondo luogo, la connotazione in chiave rigorosamente tecnico/specialistica dell’apparato preposto a formularli, che “non deve prendere in considerazione e calcolare gli altri [rispetto a quello culturale/paesaggistico] interessi toccati, quale ne sia la natura o la meritevolezza, la convergenza o il conflitto”, pena un’attività viziata da eccesso di potere” (come ebbe modo di affermare la stessa Sez. VI nella pronuncia n. 3652/2015).

Appare davvero superfluo sottolineare la distanza, la cesura netta che separa dall’impostazione ‘tradizionale’ quella ora espressa dal Consiglio di Stato: non più una considerazione ‘totalizzante’ dell’interesse culturale/paesaggistico, ma la necessità di ricercare un punto di equilibrio con gli interessi che esso interseca (siano essi ambientali o di altra natura), alla stregua dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza.

Si affaccia però la questione di precisare gli ambiti in cui si applicano i nuovi paradigmi, giacché la dinamica dell’interesse culturale/paesaggistico conosce vari profili, concernenti tanto la sua individuazione quanto la successiva gestione.

La sentenza offre due indicazioni precise. La dichiarazione dell’interesse culturale/paesaggistico è “connotata da un’ampia discrezionalità tecnica-valutativa”, è frutto di “valutazioni di fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. ‘discrezionalità tecnica’)”, si basa su “riflessioni di natura storica e filosofica”, e perciò - si può concludere da parte dell’interprete - resta necessariamente estranea al meccanismo della ponderazione di interessi. Su questo aspetto, quindi, risulta conservata la posizione ‘tradizionale’. L’innovazione investe, invece, nella fattispecie esaminata, le prescrizioni di tutela indiretta (art. 45 Codice) che l’amministrazione aveva dettato a corredo del vincolo diretto. Tali prescrizioni, secondo la sentenza, vanno “dimensionate” alla luce dei principi di proporzionalità e ragionevolezza. Nel caso specifico si sanziona la scelta operata dall’amministrazione di tutelare in via indiretta il bene culturale attraverso il “radicale svuotamento delle possibilità di uso alternativo” del territorio circostante, e viene imposto che nel riesercizio del potere sia ricercata una “soluzione comparativa e dialettica” fra gli interessi coinvolti.

In definitiva, si potrebbe forse desumere dalla sentenza che il nuovo quadro di riferimento non si applichi solo nell’accertamento della sussistenza dell’interesse culturale/paesaggistico, mentre per tutto il resto trovi spazio il criterio della ponderazione degli interessi con gli annessi principi di proporzionalità e ragionevolezza.

Peraltro, successivamente (in sede di parere su un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica), la Sezione I del Consiglio di Stato (n. 1961/2022) pare andare oltre. Benché preliminarmente venga ribadito che i provvedimenti di imposizione di un vincolo culturale sono “per consolidato orientamento” espressione di “discrezionalità tecnico-valutativa”, si esprime l’avviso che nel caso di specie - dichiarazione dell’interesse culturale di un immobile nella sua totalità, con riferimento anche agli spazi interni - l’amministrazione non abbia “adeguatamente ponderato l’interesse alla tutela del bene con l’interesse alla sua attuale utilizzazione e valorizzazione, adottando cioè un provvedimento viziato sotto il profilo della proporzionalità dell’azione amministrativa”.

In breve, sembra potersi desumere dal parere che il criterio della ponderazione di interessi debba investire anche il momento dell’apposizione del vincolo diretto, per modularne l’estensione.

Viceversa, la recentissima Adunanza Plenaria (n. 5/2023), in tema di vincoli di destinazioni d’uso dei beni culturali ex art. 10 e di quelli costituenti “espressione di identità culturale collettiva” ex art. 7-bis del Codice, torna a muoversi all’interno dell’impostazione tradizionale. Per un verso, viene richiamata in premessa la originaria (ma datata) posizione del giudice costituzionale sull’art. 9 Cost (“l’interesse culturale ex art. 9 Cost. prevale su qualsiasi altro interesse ... nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti (Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151)”). Per altro verso, si precisa che le valutazioni che l’amministrazione deve porre a base dell’apposizione del vincolo (ossia l’indicazione delle “ragioni per cui usi della res diversi da quelli attuali siano di pregiudizio per la conservazione dei suoi caratteri artistici o storici ovvero per la sua integrità materiale”) potranno “essere oggetto di sindacato giurisdizionale nei consueti limiti previsti per gli atti implicanti esercizio di discrezionalità tecnica riservata all’amministrazione in merito alla qualitas di bene culturale”. La ‘linea’ della discrezionalità tecnica non è smentita dal successivo riferimento che la pronuncia opera ai principi di ragionevolezza e proporzionalità alla cui osservanza è tenuta l’amministrazione nell’esercizio del potere conformativo della destinazione d’uso. Il riferimento, infatti, non allude ad una comparazione e a un bilanciamento in concreto fra l’interesse culturale e gli altri interessi coinvolti (in specie del titolare del bene), ma alla necessità che “il provvedimento di vincolo non sia finalizzato a garantire in modo sviato la continuità d’uso a favore di un determinato gestore o volto a favorire una specifica attività imprenditoriale o commerciale”. Esso quindi si risolve in un limite tutto ‘interno’ all’esercizio della discrezionalità tecnica, si potrebbe dire di esclusiva direzionalità del vincolo rispetto all’interesse culturale da salvaguardare.

Su tutti questi temi converrà che si ritorni con analisi più approfondite e, in particolare, si presti attenzione alle future pronunce del giudice amministrativo, sempre comunque tenendo presente che i cambi di paradigma specie nelle discipline ’non esatte’, quale il diritto, scontano inevitabili incertezze e richiedono progressive messe a punto.

 

Note

[*] Girolamo Sciullo, già ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Bologna, Via Zamboni 22, 40126 Bologna, g.sciullo@studiogam.it

 

 

 



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