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Testimonianze

I novant’anni della Mostra del Cinema della Biennale di Venezia. La storia di una tormentata relazione tra “Madre e figlia”, con lieto fine [*]

di Paolo Baratta [**]

Sommario: 1. Molte storie, una storia. - 2. La situazione nel 1998. - 3. Un passo indietro: gli anni Ottanta e Novanta. - 4. 1998 – Che modello adottare per il futuro? – I modelli del passato. - 5. Primo periodo. La “Ginevra delle arti” ovvero la Mostra dei paesi produttori. - 6. La Mostra dei “capri espiatori”: 1949-1963. - 7. La direzione di Luigi Chiarini – La “mostra del curatore” ma autocefala. - 8. Gli anni Settanta – il “Sessantotto” dura ben dieci anni. - 9. La riforma della Biennale del 1998. - 10. I successivi sviluppi: dal 1998 al 2010. - 11. 2010: una decisione coraggiosa –  2011: il nuovo progetto. - 12. Il nuovo modello di Mostra e il nuovo binomio Biennale-Mostra. - 13. Il risultato: una “Mostra di Rivelazione”. - 14. La Mostra del Cinema della Biennale, l’impegno di un’istituzione culturale.

Ninety years of the Venice Biennale Film Festival. The story of a troubled relationship between “Mother and daughter”, with a happy ending
The author, former President of the Venice Biennale for over 15 years, illustrates the history and evolution of the Venice Biennale Film Festival.

Keywords: Biennale; Film; Culture.

1. Molte storie, una storia

Rivisitando questi novant’anni si possono leggere sovrapposte tante storie. C’è la lunga lista dei film in programma nelle varie edizioni, da ripercorrere in controluce rispetto agli sviluppi delle diverse cinematografie, ci sono le vicende personali dei protagonisti e l’aneddotica mondana. È quindi possibile ricostruire tanti racconti nei quali i tantissimi che furono presenti nelle varie edizioni, partecipanti o spettatori, e gli stessi veneziani di oggi trovino occasione per rivivere con qualche compiacimento avventure del passato.

Ma poi c’ è la storia della Mostra intesa come organismo in azione, come soggetto operante con finalità e ambizioni proprie, che ha avuto nei novant’anni diverse vite, che ha adottato mutevoli modelli organizzativi e istituzionali, che è stata diversamente governata e condizionata.

È una storia tutt’altro che lineare. A partire dal dopoguerra e per cinquant’ anni fu semmai generalmente tormentata, tra primati mondiali e cadute alla semplice sopravvivenza, con frequenti crisi e sempre più complesse “rinascite”. Era tratto caratteristico della Mostra quell’“insicurezza costante sulla propria sorte” che Callisto Cosulich lamentava nel 1975, esprimendo un giudizio assai diffuso.

Ripetute lamentazioni, ripetuti convegni sul suo futuro non venivano a capo delle necessarie trasformazioni pur auspicandole con viva appassionata partecipazione.

Solo con la riforma del 1998 [1] e le azioni che seguirono poté essere avviato un nuovo cammino che la condusse a risultati diversi e a nuovi traguardi, premesse di un nuovo prestigio nazionale e internazionale.

Questa considerazione conferma anche una diagnosi. Si può con chiarezza rilevare che la sua lunga storia e le alterne vicende del passato rispecchiano con sorprendente correlazione i modi diversi in cui operò il rapporto tra la Biennale e la sua Mostra, tra la Madre e la Figlia. Tra la prima e la seconda ci sono stati momenti di coesione, momenti di intense cure materne, ma altri di sornione distacco e di abbandono alle incursioni di spasimanti, momenti di vita da “separate in casa” e persino un tentativo di infanticidio.

Osservando le vicende trascorse da questa prospettiva, sarà ancor più chiaro quello che è stato fatto dopo il 1998 e risulteranno così evidenti i caposaldi su cui sono stati costruiti la nuova Biennale Cinema e il suo nuovo posto nel mondo.

2. La situazione nel 1998

Nel 1998 giungemmo a Venezia con il fine di dar piena attuazione alla riforma della Biennale approvata dal Parlamento all’inizio di quell’anno e con l’intento di attivare le trasformazioni auspicate e rese possibili dal nuovo statuto.

Le due, la Madre e la Figlia, si presentavano davvero come “separate in casa”. Pareva che la Mostra fosse il montaggio al Lido, quasi una piattaforma “off-shore”, di qualcosa pensato e costruito altrove. Emblematico era che anche lo storico addetto al governo del tappeto rosso e quello addetto alla cura delle delegazioni venissero da Roma e arrivassero con altri componenti dell’organizzazione il lunedì mattina, in treno.

All’interno operavano meccanismi ripetitivi, una diffusa ritualità. Nel pubblico degli accreditati un compiaciuto pauperismo di stampo tardo-sessantottino. Nessuna possibilità di nuovi progetti, mentre le strutture erano ancora quelle di un tempo, ormai davvero in sofferenza. La stampa se ne lamentava, e non aveva esatta conoscenza del vero degrado.

Nessuna particolare ambizione ad un confronto con altri festival, nel frattempo moltiplicatisi e cresciuti.

Cannes correva e, si narra (ma tacerò la fonte) che un direttore degli anni Ottanta manifestasse la propria soddisfazione dicendo: quest’ anno abbiamo sconfitto Deauville!

La profonda crisi del cinema italiano della fine degli anni Novanta creava un clima plumbeo di rancori e attese, mentre il mercato interno si contraeva ed era sempre più sostenuto da produzioni di facile intrattenimento.

Poteva dunque capitare che una Mostra di grande apertura come la seconda curata da Felice Laudadio, proprio quella del ‘98, finisse in acrimoniose discussioni sulle inefficienze, dove tutti avevano ad un tempo torto e ragione e la sua notevole dimensione internazionale (la mostra comprendeva una notevole lista di film indipendenti americani) fosse appannata dalle ansie sullo stato del cinema italiano al quale veniva dato un Leone d’oro (“Così ridevano” di Gianni Amelio) dopo molti anni di astinenza.

3. Un passo indietro: gli anni Ottanta e Novanta

Cosa era successo alla Mostra? Occorre più di un passo indietro.

Dopo la sospensione della Mostra decisa dalla Biennale (per l’appunto l’“infanticidio”) negli anni Settanta, era venuto, tra qualche rimorso, uno sprazzo di rinascita.

Fu infatti con il 1979, sotto la presidenza di Giuseppe Galasso, che, se pur per breve tempo, si manifestò una progettualità impegnativa per tutta l’istituzione, Mostra compresa, che fu affidata a Carlo Lizzani. Ma c’era spirito nuovo anche nel campo dell’Arte; grande novità rappresentò la Mostra d’Arte del 1980 quella di “Aperto” curata da Bonito Oliva e Harald Szeemann, alla quale ci siamo ispirati nella definizione delle nuove strategie nel 1998. C’erano poi nuove iniziative nel Teatro e nell’Architettura. Lizzani portò nuove energie da fuori ma operò con visione progettuale sistematica. Chiamava la Mostra la Biennale Cinema, anche nelle parole si manifestava la sua visione integrata.

I primissimi anni Ottanta sono stati quindi molto importanti. Non deve trarre in inganno il fatto che furono detti anni del “riflusso”. Si annunciava un nuovo modello. Ma, ahimè, come detto, fu un periodo breve.

Nel campo dell’Arte, dopo la grande apertura, si tornò alle mostre antologiche e nel campo del Cinema si tornò alla sfilacciata articolazione di competenze e responsabilità già sperimentate anni addietro.

La scarsità di risorse, poi, diveniva cronica. Quello che va dal 1982 al 1998 fu infatti un lungo periodo di difficoltà per tutta la Biennale, che proseguì in un susseguirsi di destrezze, miracoli e rinunce. La Mostra d’Arte si avviò ad una protratta caduta di visitatori. il Teatro venne sospeso per anni. la Musica dopo alcuni exploit aveva alti e bassi, l’Architettura c’era o scompariva con alterne vicende.

La palla era tornata alla politica, ai partiti, e la Mostra si allontanò dalla Madre. La nomina dei direttori del Cinema si incrociava con quella dei presidenti della Biennale secondo bilanciamenti politici. La designazione congiunta secondo criteri di appartenenza era di fatto una doppia parallela investitura per compiti separati. La separatezza era implicita nel modello.

La politica era poi contradditoria, interferiva pesantemente nel tempo delle nomine per poi abbandonare la Biennale con poche risorse e con nessun progetto.

Per salvare la qualità della Mostra si fece ricorso per l’incarico di direttore a grandi personalità e affermati registi (Lizzani, Biraghi, Rondi, Pontecorvo); con essi si metteva a frutto il loro prestigio, ma non si dava vita a nuovi curatori dedicati per una mostra rinnovata (Cannes proprio nel 1979 nominava a capo del festival Gilles Jacob che conserverà l’incarico per due decenni).

Era mantenuto un certo prestigio culturale, ma tutti si lamentavano che si perdessero colpi rispetto ai festival concorrenti, che intanto si moltiplicavano e si affermavano anche nel continente americano. E la Mostra diveniva sempre più “esterna” rispetto alla Biennale. che nemmeno presidiava più completamente tutte le funzioni organizzative. Frequenti i conflitti, costante un senso di conflittualità.

C’era chi senza mezzi termini chiedeva che la sua organizzazione fosse tolta alla Biennale e affidata ad altri, a Roma, a Cinecittà. La Madre dichiarata indegna e La Figlia data in affido. Un finale di partita, certo non un modello per l’avvenire.

Nel frattempo, tutto stava cambiando nel mondo del cinema. Si dilatavano i mercati, ci si incamminava verso rivoluzioni tecnologiche e una nuova concorrenza tra festival, che farà apparire ancor più precarie le condizioni di quegli anni. Un modesto stanziamento per realizzare una nuova sala del 1998 fu inghiottito dall’amministrazione comunale in urgenti lavori di manutenzione e in un parziale risanamento di impianti.

4. 1998 – Che modello adottare per il futuro? – I modelli del passato

Escludendo dunque quest’ultimo e ovviamente l’infanticidio degli anni settanta e traendo dal quadriennio 1979-82 tutti i possibili benefici, restavano tre modelli nella storia precedente, che tutti rispecchiavano un modo particolare di intendere il rapporto con la Biennale.

1) La mostra della “Ginevra delle arti”, dal 1932 al 1940;

2) La mostra “dei capri espiatori” dal 1947 al 1963;

3) La “mostra curatoriale” autocefala di Chiarini dal 1963 al 1968;

cui andrebbero aggiunti due modelli abortiti negli anni Settanta: la mostra autogestita degli autori o affidata ai critici e la mostra intesa come festival metropolitano.

5. Primo periodo. La “Ginevra delle arti” ovvero la Mostra dei paesi produttori

Nel 1932 la Biennale promosse la prima Mostra del Cinema come espansione di quella dedicata all’Arte, e per i primi anni essa fu concepita e organizzata come uno strumento della diplomazia culturale.

A Venezia la Biennale offriva una piattaforma internazionale nello spirito della “Ginevra delle arti” già conclamato a cavallo degli anni Trenta. Quello che presentava l’Italia come giovane nazione aperta alle altre nazioni e alle novità del secolo. Era la Madre ideale. La Mostra e la Biennale eran tutt’uno. IL modello adottato lo esigeva.

I film non erano scelti da un curatore, come accadrà nei festival moderni. Invitati a partecipare erano i governi che, accettando l’invito, nominavano commissioni. Queste delegazioni ufficiali nazionali, composte di rappresentanti delle amministrazioni degli stati e delle case di produzione, formulavano l’elenco dei film che ciascun paese proponeva. Il programma del festival era frutto al più di qualche negoziato assai delicato, dato il peso e il carattere ufficiale dei proponenti. Ogni discussione al riguardo rischiava di creare imbarazzi per non dire incidenti diplomatici. E questo valeva per la definizione dell’elenco delle opere, del calendario e ancor più per il lavoro della giuria e per le premiazioni.

Per dare un’idea, si consideri, quale esempio estremo, che quando Goebbels si presentava alla Mostra non compariva solo un visitatore di prestigio, ma il responsabile della produzione cinematografica tedesca tutta nazionalizzata e affidata alle sue cure e, ad un tempo, il capo della propaganda del Reich, la persona che aveva direttamente stilato l’elenco dei film che avrebbero dovuto rappresentare la Germania (dopo consultazione con lo stesso Fuehrer). Difficile immaginare cosa restasse da fare a un direttore di mostra.

Di grande aiuto fu nei primi anni Luciano De Feo, esperto di cinema internazionale; scalpitava Pasinetti, cultore di cinema della prima ora, invocando un maggior ruolo per la selezione. Le eventuali discussioni consentivano invece al Presidente della Biennale di sfoggiare le sue doti di mediatore. Era in effetti la Mostra di Volpi [2]. Difficile immaginare quella gestione della Mostra senza la presenza di una personalità di grande prestigio. Giuseppe Volpi era anche presidente della Giuria e per risolvere situazioni spinose giungeva ad assegnare un numero spropositato di premi (34 nel 1938).

Un successo che durò fino a quando fu conservata la “neutralità” italiana nel condurre la complessa macchina. La corda si ruppe quando l’autonomia della Biennale venne meno e i sospetti di partigianeria politica nelle scelte, già adombrati nel 1938, divennero certezza nel 1940, anno in cui la Mostra fu esplicitamente dedicata al cinema italiano e tedesco.

E la Mostra, nata come luogo della diplomazia, finì accusata di essere luogo della complicità politica. Come è noto, da questo temporaneo fallimento nacque Cannes; la decisione fu presa con il consenso dei principali produttori mondiali nel 1938 per una prima edizione nel 1939, rinviata poi al 1946.

Ma il modello organizzativo non morì qui, prese nuove forme nel dopoguerra, senza abbandonare del tutto quello su cui era maturata la sua fama nel mondo, e si era consolidato il suo carattere internazionale e nel 1946 si procedette di nuovo a inviti ufficiali ai paesi, non ai film, con poche modifiche al regolamento.

6. La Mostra dei “capri espiatori”: 1949-1963

La Mostra dunque risorse nel ‘46, con la Biennale in testa, che ne promosse in fretta in fretta la rinascita, appena terminato il conflitto mondiale, anche per contrapporsi da subito alla prima mostra di Cannes annunciata per lo stesso anno (la Mostra d’Arte poté riprendere solo nel 1948).

Ma passato appena un triennio, nel ‘49, il direttore Zorzi si dimise manifestando delusione per le interferenze esterne, e dopo queste dimissioni, iniziò a svilupparsi un sistema frastagliato e confuso di responsabilità e di prerogative, che ci appare chiaramente come la causa prima di molte crisi e della generale instabilità che ne seguì.

La Mostra fu confermata come vasto Festival-kermesse. Si partiva in estate con la rassegna del film per ragazzi e con quelle sui film scientifici, sui film turistici, sui film dedicati alle arti, ecc. ecc. Furono individuati spazi per dibattiti, per una mostra partecipata. Cresceva il numero dei giornalisti. Si confermava come luogo della mondanità, ma divenne anche luogo dei fermenti polemici, delle prese di posizione riverberanti le appartenenze politiche.

Era però un modello nel quale la Biennale abdicava a molte delle sue funzioni. Perdeva da subito la prerogativa fondamentale, quella di nominare il direttore della Mostra. Il suo nominativo infatti veniva segnalato dalla direzione ministeriale con tutte le conseguenze che ne derivavano. La Biennale attendeva e spesso sollecitava l’indicazione. Il direttore, a sua volta, non aveva ancora appieno la prerogativa della selezione dei film. Perduravano il regolamento e la consuetudine che davano ruolo primario alle delegazioni dei paesi.

Si videro così in questi quindici anni un certo numero di opere importanti di varie cinematografie, si intercettarono in particolare molti esordi di grandi autori italiani e non, distribuiti sobriamente nei programmi, insieme a tante altre opere, alcune inserite nel negoziato con i paesi o su pressioni varie. Un ventaglio che si prestava a suscitar polemiche.

Scoppiavano facilmente entusiasmi, ma anche crisi, e crisi violente, non sempre giustificate dalla qualità dei film presentati, anche se la giuria per ben due edizioni (1953 e 1956) non assegnò il Leone d’oro, non ritenendo nessun film degno del premio e quella del 1957 (presieduta da René Clair), addirittura insorse per denunciare l’inclusione di film che “non dovrebbero figurare in una mostra come quella di Venezia”.

Più di una volta le baruffe di fine mostra terminavano con la richiesta di chiusura della stessa. Una vivacità estrema, e inevitabili tensioni. Mancava un governo degli eventi da parte della Biennale, si ripristinava l’equilibrio in un sol modo: mandando il direttore al patibolo.

Solo così gli animi dei partecipanti si potevano calmare e i più accalorati tornavano alle rispettive case soddisfatti dell’avvenuta esecuzione. Poi si ricominciava col successore. Una vera ecatombe.

Ripercorriamola: 1949 dimissioni di Zorzi, nomina di Petrucci; 1953 cacciata di Petrucci e nomina di Croze; 1955 crisi, dimissioni di Croze e nomina di Floris Ammannati; 1959 crisi, dimissioni di Ammannati e nomina di Lonero; dopo un solo anno c’è rivolta ed è nominato Meccoli; dopo due anni uscita di Meccoli e nomina di Chiarini [3].

Ad un’analisi dettagliata dei film presentati in questi anni non emerge la presenza di una zavorra festivaliera che giustifichi sempre l’intensità e l’acrimonia delle critiche e delle polemiche scoppiate in quegli anni, che appaiono pertanto da ricondurre al modello organizzativo, alla evanescente distribuzione delle responsabilità e dei ruoli che faceva di Venezia un terreno favorevole alle battaglie politiche.

Il Cda della Biennale assumeva un atteggiamento a dir poco sornione. Con equilibrismi di varia natura seguiva gli eventi, non volle mai né reclamare il diritto alla nomina del direttore né introdurre radicali riforme nel regolamento, e accettò con deferenza che nel 1955, dopo una pesante crisi, si affidasse a una commissione nominata dal sottosegretario allo Spettacolo del Governo la questione del suo regolamento interno! La Biennale ancora una volta abdicava (non solo non nominava il direttore ma neppure manteneva sovranità sul regolamento).

I direttori si destreggiarono, riuscirono a fatica ad articolare i programmi, per crearsi spazi di autonomia, ma solo nel ’58, dopo dodici anni, cessavano le sezioni individuate ancora per paese e nascevano le sezioni “in concorso” e “fuori concorso” (quest’ultima chiamata sezione informativa). Fu salvaguardato il carattere internazionale della Mostra, ma il fatto che il direttore non fosse emanazione del Cda della Biennale rendeva il rapporto tra i due non fondato su convinta delega e fiducia; il direttore era sistematicamente abbandonato. L’ecatombe era funzionale al modello. Il disordine regnava in famiglia.

7. La direzione di Luigi Chiarini - La “mostra del curatore” ma autocefala

Di stampo del tutto opposto il modello di mostra inaugurato con la nomina di Luigi Chiarini (1963). Chiarini lungi dal candidarsi come sesto consecutivo agnello sacrificale assumeva su di sé con coraggio e spavalderia la responsabilità delle scelte. Con sua lettera (si badi non con delibera del Cda) fece presente alle delegazioni dei paesi che le scelte d’ora in avanti le avrebbe fatte lui! Con Chiarini si affermava in via definitiva la “Mostra del curatore”, un passaggio importante per una mostra nata come “expo” internazionale, un modello ineludibile che nasceva però figlio delle circostanze non di convinta decisione istituzionale. Era poi in armonia con le tendenze verso l’autorialità dominanti nel cinema di quegli anni e le richieste di sensibilità sociale. Era quanto di meglio potessero sperare i rivoluzionari del ‘68, ma paradossalmente la formula, che non fu mai supportata dalla Biennale che non la difese e tanto meno la fece propria, fu addirittura rinnegata dagli stessi “rivoluzionari”, che, come spesso capita sia nelle rivoluzioni vere che in quelle finte, per prima cosa fanno fuori i riformatori.

Venne infatti il ‘68 e tutto finì.

I congiurati salirono le scale e chiesero a Chiarini, si badi a Chiarini non alla Biennale, di dar vita ad una nuova formula, nel nome di più alti obbiettivi di democrazia. Ma che cosa si proponeva al posto della mostra del curatore? Quale modello? Sembra che si volesse l’autogoverno della corporazione degli autori.

In pubblico si evitava la questione dicendo che occorreva riformare lo statuto, non di più.

Alla Biennale gli effetti del Sessantotto furono del tutto modesti nell’anno 1968: si ebbe un ritardo di due giorni per l’apertura e poi tutto filò liscio.

Ben diversi gli effetti di lungo periodo.

8. Gli anni Settanta - il “Sessantotto” dura ben dieci anni

A differenza di Cannes dove si cercò di incanalare lo spirito sessantottino in una sezione speciale (detta la “Quinzaine des Realizateurs”), mentre la mostra riprendeva l’anno successivo nelle sue tradizionali modalità, a Venezia la Biennale volle assumere su di sé il compito di rappresentare in parte o in toto le istanze dei rivoluzionari, con scelte e compromessi i più disparati.

E si parti subito con la compilazione e l’attuazione del “revolutionary correct”.

Per quattro anni la Mostra, sempre diretta da direttori di fede democristiana, fu tenuta ma senza concorso, senza giurie e premi. Il leone d’oro come il suo omonimo vitello era additato quale simbolo di nefandezze.

Non bastò, e per due anni gli Autori (protagonisti primari del Sessantotto) organizzarono una rassegna in Campo Santa Margherita che finì con il rappresentare una sorta di “antifestival” di un “non-festival”.

Dopo la riforma dello statuto del 1973, con la quale nel consiglio della Biennale entravano componenti rappresentanti i partiti e i sindacati, tanto decantata come democratica, si prosegui nella direzione sopradetta con ancor maggior vigore ideologico. Venne la Presidenza di Ripa di Meana celebrato dai suoi esegeti per aver dato vita alla Biennale del dissenso nei paesi dell’Est del 1977, ma che per il suo primo triennio si impegnò in direzioni affatto diverse, direi opposte.

Nella prima parte della presidenza infatti egli volle guidare una riorganizzazione senza precedenti per dimensione e ambizioni della Biennale e ad un tempo si impegnò personalmente nel dar vita ad un esperimento di esemplare conclamato consociativismo politico (tutte le sinistre che si riconoscevano nell’antifascismo tenute insieme da obbiettivi che potevano attrarre anche posizioni estreme). Proprio quel consociativismo contro il quale scagliò con un guizzo la Biennale del dissenso del 1977.

E per quel triennio si procedette ulteriormente sulla via del “revolutionary correct”, in primis si proclamò la cancellazione della parola Mostra.

Per la “Biennale Cinema” del 1975, per l’apertura e per le “proposte di nuovi film”, si tornò al Lido, al Palazzo del Cinema, già esecrato come simbolo di una vergogna da rinnegare.

Ma non si parla più di Mostra, e lo si esibisce come scelta fondamentale [4].

Si parla di “anno primo” della Biennale Cinema, e non basta aver eliminato premi, giurie, concorsi e la parola mostra. Ora si condanna e si elimina anche il termine “selezione”. Ma il “revolutionary correct” va ancora oltre. La “non selezione” è sacralizzata nel principio della “non visione”. Il direttore Gambetti ci tiene ad assicurare il pubblico che “I film non vengono visionati dalla direzione artistica, ma sono accolti su suggerimento di soggetti esterni e per i temi trattati. Non ci sono né film in concorso, né fuori concorso, abbiamo chiesto ai vari interlocutori internazionali di inviarci i film” [5].

Nel ‘76 si introduce la sezione “suggerimenti” ma la si tiene durante il mese di agosto e per la sua composizione si utilizza una lista di film compilata dal Sindacato dei Critici, si badi non da alcuni critici scelti dalla Biennale ma dall’organizzazione ufficiale rappresentante i critici italiani, una soluzione sindacal-corporativa che richiamava aspirazioni e modelli di altri tempi andati. A quanto pare persino gli Autori mossero critiche all’iniziativa [6].

La sezione si tenne in vari cinema dell’entroterra (decentramento). Fu questo anche un tentativo, non riuscito, di festival metropolitano.

Restava l’inclinazione all’autorialità nel cinema che opportunamente coltivata resterà patrimonio per il futuro (una sorta di viatico contro i pericoli mortali).

Dopo questa maldestre vicende, e la cancellazione della Mostra del cinema anche nel 1978, fini nel paese la fase in cui si auspicavano riforme e ci si orientò per lunghi anni verso un’altra soluzione per i problemi italiani: quella della spartizione politica. Gli esiti dopo il primo quadriennio (1979-82) li abbiamo commentati.

Lo spirito riformatore sopito riemergeva con vigore nel 1998.

9. La riforma della Biennale del 1998

E quella del 1998 fu una vera riforma, un fatto straordinario.

Nasceva davvero La Nuova Biennale, iniziava un nuovo cammino.

Visto come stavano le cose e pur senza ancora poter programmare tutto, manifestammo subito la volontà di riacchiappare la Mostra per i capelli e riportarla in Biennale, secondo un modello tutto da costruire, ma che non poteva non cominciare con l’affermazione dell’autonomia nella nomina dei direttori. Non era cosa ovvia, disponevamo ancora di risorse limitate, e la situazione delle strutture era assai precaria (soprattutto se confrontata con altri festival), ma cominciammo da qui.

Con la nomina di Alberto Barbera venivano nei fatti adottati cinque nuovi indirizzi:

1) come detto il direttore veniva scelto dalla Biennale autonomamente e direttamente;

2) con la nomina per scelta autonoma si stabiliva un rapporto fiduciario tra direttore e la Biennale e dunque si poteva anche annunciare l’avvio di una progettualità di medio temine sviluppata in sintonia;

3) era una figura non appartenente all’entourage che (alternando gli inviati) aveva considerato per molto tempo la Mostra di Venezia come proprio appannaggio [7];

4) era poi una novità per la figura scelta: un giovane moderno cinefilo aperto e avviato sulla via della professione di curatore (innovazione che sarà imitata da Cannes quando, terminato il sultanato di Jacob, fu chiamato nel 2001, Thierry Fremaux);

5) era la scelta di una professionalità coerente rispetto alle novità che si annunciavano nel mondo delle produzioni e delle promozioni del cinema, una scelta coerente quindi con le nuove ambizioni che dovevano caratterizzare una mostra internazionale, nei decenni a venire.

Ricordiamo infatti, a questo proposito, che un altro modello di festival stava già tramontando all’orizzonte: quello della mostra di alto profilo culturale ottenuto inserendo nella selezione anche film di qualità ma già proiettati in altri festival o già usciti nelle sale di altri paesi, per non parlare delle retrospettive. Un modello che fu seguito anche a Venezia, ma che già provocava, a fianco di qualche compiacimento di critica un calo di interesse della stampa estera, letale per un festival internazionale [8].

Che stava accadendo? La grande evoluzione nelle comunicazioni aveva unificato per così dire i diversi “mercati” del cinema: se prima l’uscita di un film in America lasciava ampi spazi di annuncio per una prima replica in Europa, ora non era più così. Le barriere di informazione erano cadute. Era un ricordo da annuario il caso di Rashomon che uscito come fiasco in Giappone, all’insaputa di tutti in occidente, quasi per caso fu ripresentato a Venezia nel 1951 ottenendo, con grandissima sorpresa dello stesso Kurosawa, il Leone d’oro e un clamoroso successo.

Ora la prima visione era per tutti una prima mondiale.

Ancora nel 1998 e ‘99 c’erano nel programma di Venezia film già proiettati altrove (“Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg e “Eyes wide shut” di Stanley Kubrick), ma eravamo incamminati verso rassegne di sole prime visioni assolute.

Per i festival, non bastava più il generico prestigio personale del direttore. Occorreva una direzione che quasi a full time seguisse l’evoluzione delle produzioni, fosse interessata in primo luogo alle novità, e che fosse dotata non solo di cultura cinefila ma anche di capacità di relazioni. In breve: che si trovasse sul terreno, capace di intercettare le decisioni di lancio dei film nel momento in cui erano adottate dai registi e dalle produzioni. Tutto sempre più frenetico. E in concorrenza con altri festival che intanto si erano sviluppati ai bordi o all’interno dei grandi mercati del film.

Per molti aspetti la nomina di Barbera va vista in parallelo con quella di Harald Szeemann quale curatore unico per le Arti Visive sempre del 98; anche qui si voleva che la Mostra d’arte abbandonasse il modello della kermesse artistica con personali, retrospettive, ecc. ecc. nelle quali si mostravano le predilezioni e gli interessi dei numerosi esperti convocati, per divenire Mostra del Presente.

10. I successivi sviluppi: dal 1998 al 2010

I Ministri dell’epoca Veltroni e Melandri accettarono la novità e la difesero nel metodo. Fu un passo importante. Ma non fu definitivo.

Dopo tre anni la politica (una nuova maggioranza politica sembrava ansiosa di riprendere gli stessi costumi negativi del passato) tornava a mettere gli occhi sulla direzione del cinema. I presidenti e gli amministratori di quegli anni furono accorti nel conservare le loro prerogative. Ma il percorso fu ancora tormentato.

Grazie alle gestioni autonome della Biennale la riforma poté continuare a dare i suoi frutti sia nel miglioramento continuo delle strutture organizzative sia nei programmi. Si procedette infatti alla nomina di direttori artistici di particolare qualità e prestigio, dapprima Moritz De Hadeln, poi Marco Mueller, che nel corso di molti anni (Mueller fu confermato per un secondo quadriennio alla fine del 2007) dette un contributo decisivo nell’innalzare e qualificare internazionalmente la Mostra con selezioni improntate a spirito di ricerca, ottenendo evidenti risultati (fu in questi anni, tra l’altro, che si affermò l’idea del festival di “sole prime mondiali”).

Ma su tutto il resto ci furono ancora incertezze ed eventi sfortunati che impedivano di configurare un progetto unitario e una prospettiva chiara e definitiva, che potesse trarre tutti i vantaggi dalla qualità delle selezioni e che vedesse queste inquadrate in modo efficace e coerente per quantità e articolazione.

Quando agli inizi del secolo fu lanciato in sede politico governativa il progetto del Nuovo Palazzo del Cinema, un colosso, un’astronave di molti metri cubi (una sala da 2400 posti, sale minori, vaste aree per la stampa, il mercato, i servizi, ecc. ecc.) il lancio fu sostenuto dalle più generose manifestazioni di affetto per Venezia, ma fu accompagnato da progetti con i quali il governo centrale avrebbe pilotato il “rilancio della Mostra” e si tornarono a sentire voci e legger documenti su riorganizzazioni con le quali La Biennale sarebbe stata non più da sola, ma associata ad altri nella gestione, nella fattispecie ancora si indicava Cinecittà. Si invocavano i tipici ingredienti dei falsi riformatori (partecipazioni incrociate e sinergie) ottenendo ancora una volta però solo nuovo senso di precarietà.

Il tutto divenne ancor più fumoso quando al conclamato rilancio di Venezia si affiancò (8 settembre 2005, conferenza stampa a Venezia) l’annuncio della nascita del Festival di Roma, senza precisarne le caratteristiche. La nebbia si addensava e si poteva udire in lontananza qualche derisione dal mondo internazionale sull’Italia pasticciona. Altro che rilancio di Venezia! Ben due festival! Mentre i botteghini del cinema segnalavano declino.

Nel frattempo, l’astronave si trasformava in meteorite (complice l’amianto che portò al blocco del cantiere) e da buon meteorite compiva la sua missione lasciando una voragine sul pianeta Lido - il buco – che, nel clima di incertezze programmatiche, sospesi i lavori, aggiungeva sgomento e assumeva carattere emblematico.

Sul piano delle strutture la situazione nel 2010 appariva semmai peggiorata rispetto al ‘98, le incertezze erano molte. Contrastavano questi andamenti con quanto era accaduto negli altri settori della Biennale dove si era proceduto con assai maggior speditezza a rinnovi di siti, indirizzi, programmi e dotazioni. Questi ritardi avrebbero potuto far deragliare il tutto favorendo il nascere di nuove immaginifiche ipotesi sul futuro della Mostra del Cinema e tentazioni di vecchio stampo circa la sua governance,

11. 2010: una decisione coraggiosa – 2011: il nuovo progetto

La Biennale doveva reagire. Fu nell’autunno del 2010 precisamente il 19 settembre che, dopo la sospensione definitiva dei lavori per il nuovo palazzo, all’apice della crisi, La Biennale assunse una decisione risolutiva. Impostava un nuovo programma di rinnovamento, assumeva su di anche costi di ristrutturazione degli edifici che sommeranno a sette milioni e per farlo indebitava gli esercizi futuri. La Biennale così prendeva in carico definitivamente il futuro della sua Mostra. Una scelta coraggiosa, persino un poco al limite (un debito per realizzare lavori su un edificio non di proprietà). In quel momento non ci si poteva rivolgere alle finanze statali, già provate dal “buco” e le finanze del Comune, proprietario degli immobili, erano in sofferenza.

Il primo passo era compiuto con le risorse della Biennale: ma per le restanti necessità? In tutti questi passaggi, molto importante fu la vicinanza del Comune di Venezia nella persona del Sindaco, che nel rispetto dell’autonomia, sostenne il programma e fu sempre coerentemente in appoggio ai passi che si compivano, fedele alla riforma e al suo spirito, grazie anche alla sua sofisticata cultura giuridica. Il Comune dirottò poi, negli anni successivi, verso la Biennale e il Lido, risorse ottenute dallo Stato per vie diverse. Gli interventi del Comune proseguirono grazie alla fattiva indole del Sindaco successivo e consentirono di completare il grande programma di riqualificazione delle sedi e delle strutture. Della Biennale fu il sigillo: il cubo rosso la nuova sala che completava la rinata cittadella del cinema del Lido.

Considerato il rapporto di grande attenzione e rispetto stabilitosi anche con la Regione, si può dire che questo periodo vide anche un’altra importante novità nella storia dei novant’anni: una stretta e corretta collaborazione tra la Biennale e le istituzioni locali, fenomeno del tutto inusitato nei decenni precedenti.

Non tutti apprezzarono, per così dire, quel che stava accadendo in quel periodo, alcuni presero le distanze, evocando forse futuri diversi per la Mostra che restarono avvolti nel mistero, ma che evidentemente affascinarono il ministro. Questi infatti nel 2011, senza proferire altro annunciava indirettamente alla stampa la futura conferma del direttore artistico (nominato quindi di fatto da parte sua) e poi comunicava al presidente che non sarebbe stato confermato. Nessuna risorsa per coprire almeno “il buco”, addio presidente, ma ancora una volta procedure maldestre e quindi addio statuto, autonomia e quant’altro. Com’è noto, le cose andarono diversamente e infine fu confermata la possibilità di proseguire.

E dunque si procedette. La Madre riconquistava la Figlia e confermava la sua volontà di un futuro autonomo. La Riforma poteva finalmente compiersi senza equivoci. Invitato di nuovo alla direzione del settore Cinema Alberto Barbera alla fine del 2011, si poté dar vita a quel programma coerente e condiviso, in precedenza solo vagheggiato, che comprendeva molteplici azioni su tutti i fronti, che vennero poi sviluppate nel corso degli anni successivi., godendo anche del vantaggio di mandati prolungati.

12. Il nuovo modello di Mostra e il nuovo binomio Biennale-Mostra

Possiamo ricondurre ai seguenti sette punti le caratteristiche del nuovo modello adottato e he si venne affermando nella pratica quotidiana.

1) Il direttore scelto autonomamente consente un rapporto fiduciario interno alla Biennale e quindi come detto una sintonia programmatica (cosa non da poco) mentre all’esterno consente al direttore una autonoma e tutelata capacità di interlocuzione, come rappresentante dell’intero programma e della stessa istituzione e pertanto non soltanto come tecnico pro tempore incaricato (e Barbera ha saputo svolgere questa funzione in modo egregio).

2) Il presidio diretto della Biennale sull’organizzazione, la logistica e gli impianti le hanno consentito di sviluppare all’interno tutte le straordinarie qualità professionali necessarie per procedere a un ordinato rinnovo totale degli spazi, per assimilare i radicali mutamenti intervenuti nelle tecnologie (si pensi all’arrivo del digitale) e per dar vita a un complesso di risorse umane che non teme confronti.

3) Il fatto che sia emanazione della Biennale evita alla Mostra di avere sopra di sé partners o partecipanti (enti rappresentanti di interessi vari qualche volta ingombranti ed esigenti come capita per molti altri festival). Ha giovato la circostanza che anche la Biennale non abbia cercato partners ma solo sponsors e nella ricerca di sponsors abbia adottato criteri rigorosi.

4) L’aver rigorosamente in tutti questi anni realizzato equilibrio di gestione ha evitato le genuflessioni di rito che si devono fare quando si vanno a chiedere risorse per tappar buchi di bilancio. La Biennale per vent’anni fino al 2019 ha ricevuto dallo Stato un contributo annuo costante, della misura di quello del 1999 mentre l’autofinanziamento è aumentato otto volte: la capacità di autofinanziamento ha garantito anche l’autonomia della Mostra del Cinema.

5) Nell’integrazione con la Biennale si sono create anche le condizioni per la programmazione e lo sviluppo stabile di attività permanenti. Finalmente le attività permanenti, refrain di mezzo secolo di dibattiti, comparivano per la prima volta e qualificavano la Mostra come parte di un progetto più complesso, tale è stato il caso de La Biennale College Cinema. Il College ha dieci anni e una storia ormai ricca di spessore, riassunta nel volume testè pubblicato dalla Biennale; oggi è fonte di prestigio. Poteva così anche nascere un originale forma di mercato per il finanziamento delle opere che anch’esso si fonda sul lavoro di qualificate professionalità e su costanza di impegno

6) La Biennale è interessata esclusivamente agli sviluppi artistici contemporanei, la sua multidisciplinarietà la induce ad essere dalla parte degli artisti ed è una buona madre nel caso del Cinema, settore dove sono presenti e operanti tanti altri interessi industriali e di categoria.

7) La Mostra, tutelata dalle pressioni delle diplomazie commerciali e della diplomazia politica, può perseguire fini di “diplomazia culturale” nella sola forma oggi utile: mostrare che l’Italia è capace di ospitare e promuovere un siffatto luogo di dialogo nell’autonomia e in libertà. L’autorità di governo può così proseguire nel suo impegno a favore della Biennale potendo far conto su uno strumento che concorre ad innalzare il prestigio del paese nella vita culturale.

13. Il risultato: una “Mostra di Rivelazione”

Vari sono i risultati ottenuti: l’aver in mostra film destinati a grandi riconoscimenti, ma anche l’annuncio di nuove cinematografie di vari paesi, l’esplorazione di diversi generi, la permanente presenza della qualità, le scoperte, l’aver mostrato il cinema in ritmica sintonia con i temi avvertiti dalla società. E, non da ultimo, l’annuncio di una nuova cinematografia italiana dopo tante sofferte attese.

E il direttore che con il prestigio che gli derivava dalle sue riconosciute capacità, valorizzate dalla coerenza del progetto generale, finalmente poteva ambire ad essere non solo “in cerca” ma “cercato” dai migliori nel mondo. Condizione e vantaggio da destinare sempre e soltanto alla finalità di una selezione più impegnativa e coraggiosa. È questo il prerequisito essenziale per la realizzazione su scala mondiale di una “Mostra di Rivelazione” di talenti e di qualità delle opere, di maestri noti o ancora sconosciuti, che era poi l’obbiettivo vero del progetto perseguito, un obbiettivo assai difficile da raggiungere: una condizione cui solo pochi festival possono aspirare.

Si chiariva così finalmente dopo tanti anni anche la qualità principale della Mostra di Venezia e la sua collocazione, distinguendola nettamente dalle “mostre di partecipazione” (a parte le “mostre monotematiche”) che hanno come obbiettivo quello della qualità della vita urbana e della animazione della vita culturale di una città (speriamo che Roma ci ascolti). Anche per queste ultime un granello di rivelazione è opportuno ma non è certo l’ossessione primaria come deve esserlo per una grande mostra internazionale che si voglia collocare proprio per questa caratteristica ai vertici mondiali.

Questa chiarezza di obbiettivi fu tenuta nel tempo da tutti in Biennale e, in particolare, da parte della direzione artistica, sapendo e potendo essa ad un tempo compiere nuove scoperte anche con scelte spericolate e opporre spericolati dinieghi se necessario (e che comportava a sua volta, intendere notorietà e mondanità come mezzi e non come fini, saper e poter scartare un film di un grande se l’opera non è significativa, evitare ogni compiacenza per non contraddire mai la linea principale, un paziente lavoro di ricerca, ecc. ecc.).

In un paese il cui mercato del cinema è di dimensione relativa irrilevante, per un grande festival internazionale la partita si gioca tutta sulla reputazione: sulla sua capacità di creare valori immateriali. Solo se questo accade anche la circostanza che tutto si svolge nella speciale cornice di Venezia può contribuire al disegno ambizioso [9].

14. La Mostra del Cinema della Biennale, l’impegno di un’istituzione culturale

I festival sono più che mai utili a fronte della solitudine in cui la società liquida (con le sue tecnologie) lascia ciascuno, con la sua singolare capacità, nella responsabilità di orientare sé stesso.

Supporti credibili al nostro orientamento sono sempre più preziosi. Da qui un rinnovato ruolo per le istituzioni culturali, un rinnovato ruolo degli intermediari culturali, che devono ispirare fiducia grazie alla loro autonomia da interessi economici, politico-burocratici e corporativi e dalla tentazione del “successo per il successo”.

Amore per la libertà, attenzione verso il pubblico, capacità di riconoscere la qualità, coraggio, spirito di ricerca, affidabilità. Su questo misto di stile, professionalità, etica, sensibilità culturale si mantiene il prestigio e la fiducia della società civile per la quale si opera.

Oggi la Biennale governa il suo futuro e può dunque decidere e non solo dibattere come tante volte fatto in passato su cosa debba essere la sua Mostra del Cinema. Da qui una conclusione telegrafica: oggi La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia in quanto frutto di un’istituzione culturale autonoma e consapevole è rispettata nel mondo e il suo successo ha fondamenta solide.

Post-scriptum

A tutti è noto Variety. Per anni quel giornale di Los Angeles, strumento primario di informazione sul cinema mondiale, rifiutava di fatto di ammettere tutte le novità della Biennale e persino la sua esistenza.Con saputo sarcasmo e fedele ai clichet in auge, lasciava intendere che quel che accadeva qui in the “Venice film festival” (per cui anch’io ero the president of the festival) era comunque frutto delle pastette politiche tipiche italiane. Ebbene la scorsa estate è uscito proprio da Variety l’annuncio che il loro “Award in international film achievement” era quell’anno e in via straordinaria assegnato ad Alberto Barbera e alla Biennale di Venezia. Nel comunicato si leggeva “non abbiamo mai onorato un direttore di festival né un’istituzione prima d’ora, ma è del tutto appropriato che Alberto Barbera e la Biennale siano i primi ad avere questo riconoscimento!”

Un riconoscimento come tanti pervenuti da più parti: vien sottolineato il ruolo della Biennale insieme al suo Direttore della Mostra.

Ma siccome per far pronunciare quel nome (la Biennale) dal più prestigioso e puntuto dei giornali internazionali del cinema ci sono voluti vent’anni, oggi possiamo esibire questo “award”, un vero colpo di scena, come suggello di un lungo percorso compiuto e quale viatico e porta fortuna per l’avvenire.

 

Note

[*] Intervento alla celebrazione del 90mo anniversario della prima edizione, Venezia, Asac, 9 luglio 2022.

[**] Paolo Baratta, economista ed amministratore pubblico, presidente della Biennale di Venezia (fino al marzo 2020).

[1] Nel 1998 fu approvata una nuova legge che introduceva una sostanziale riforma della Biennale che, in particolare, passava dall’essere un organo della pubblica amministrazione (parastato), a impresa operante secondo il diritto privato.

[2] Nel 1930 la Biennale fu trasformata da soggetto promosso da istituzioni locali in ente di stato e Giuseppe Volpi fu chiamato a presiederla.

[3] I direttori di questo periodo ad eccezione di Zorzi e Croze erano tutti critici giornalisti, della Rai, del Messaggero, di riviste cinematografiche, provenivano dall’ambiente della capitale ed erano scelti in quanto di comprovata fede politica allineata al partito cattolico.

[4] Di fronte a osservazioni e domande dei giornalisti Ripa di Meana in conferenza stampa (riportata da Dario Zanelli ne Il Resto del Carlino del 27 agosto) dice: “ la legge nuova riferisce de La Biennale di Venezia mentre nell’enumerare i suoi settori non fa riferimento alla Mostra internazionale del cinema”; Citto Maselli, membro del comitato direttivo incalza (ivi) “la legge assegna alla Biennale il compito di un’attività permanente e quindi esclude la Mostra in quanto tale”.

[5] Ammannati, segretario generale, su il Gazzettino del 27 agosto 75 conferma “oggi non si pratica più una selezione delle opere, si attua invece e in forma autonoma una scelta di temi e di metodi”. Gambetti chiarisce “Quanto alla produzione italiana proprio per il rifiuto ad ogni tipo di selezione la scelta è caduta sul listino dell’Italnoleggio” l’ente di stato che produce cinema “con ciò si è voluto fare una verifica dei criteri con cui opera quell’organismo”.

[6] Di natura e di spirito ben diverso fu il contributo che daranno alla Mostra negli anni successivi le sezioni collaterali “La settimana della Critica” (dal 1984) e le “Giornate degli Autori” (dal 2004) che la Biennale accolse quale contributo alla pluralità di voci sostenendole anche in anni di precarietà di spazi.

[7] Si veda in proposito “Dopo il potere romano sulla Mostra di Venezia soffia il vento del Nord” di Tullio Kezich su “Sette” del Corriere della Sera del 3 dicembre 1998.

[8] Si veda “Happy 75°- Breve introduzione alla storia della Mostra internazionale d’arte cinematografica” di Peter Cowie, pubblicato dalla Biennale in occasione della 75ma edizione.

[9] Anche considerando problemi di scala minore, si possono apprezzare vari momenti in cui la Biennale tutela il direttore in situazioni in cui egli può essere oggetto di pressioni o coinvolto in situazioni che comportano qualche disagio.

Come può essere stata ad esempio la pressione del movimento “me too, che voleva ottenere il formale impegno a che la presenza di registe femminili salisse in un biennio al 50%; oppure la pressione dei distributori che chiedevano alle mostre di manifestare sfiducia nei confronti dei nuovi sistemi di produzione e distribuzione (il caso Netflix); oppure ancora le pressioni per modificare la programmazione delle proiezioni per la stampa nel conflitto carta stampata-rete.

E da ultimo le pressioni per aumentare i premi all’ultimo minuto per comodità di giuria. Tutte sollecitazioni che possono causare tentennamenti che altre mostre possono forse permettersi; quella della Biennale no.

 

 



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