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Editoriale

Ministero della Cultura: le due riforme

di Marco Cammelli

Ministry of Culture: the two reforms
The NPRR affects the whole institutional and administrative system, but the impact on MIc is particular for two reasons: because it has already been involved in reforms in recent years and because for its implementation cannot be used the usual tools. This aspect risks to increase divaricating dynamics within the ministerial apparatuses.

Keywords: Ministry od Culture; Reform of Ministry; NPRR.

1. Sull’intero sistema istituzionale italiano sta planando il PNRR e se è vero che in questi giorni vengono tracciate definitivamente (conversione in legge del d.l. 77/2021) le linee di comando del vertice del sistema, grande è ancora l’incertezza sul resto. Il tema è generale e rilevante per tutti, ma assume aspetti particolari per il ministero della Cultura (Mic), e su questo è bene concentrarci.

Non è necessario riprendere storia e ragioni, attese e delusioni, pregi e difetti, critiche e difese di questa struttura. Tutte legittime e in più di un caso fondate anche quando in contrasto tra loro, ma in questo momento il tema è diverso. Conta infatti mettere in luce le peculiarità dell’ultimo periodo iniziato nel ’14-’15 con le c.d. riforme Franceschini perché, a differenza della maggior parte degli altri ministeri, quello della Cultura si presenta alle sfide poste dal Piano di ripresa e resilienza venendo da una intensa stagione di riforme. E così, mentre per gli altri ministeri il tema istituzionale prevalente consiste nel chiedersi come e quanto il regime speciale connesso agli interventi straordinari di questo periodo si limiterà a soluzioni derogatorie e temporanee o saprà avviare innovazioni attese da decenni, per il Mic il tema è diverso e per certi versi addirittura opposto: in che misura le riforme messe in opera negli ultimi anni saranno confermate o frenate dai tempi nuovi che stanno arrivando.

Per rispondere è necessario fare un passo indietro e cercare di cogliere nel suo insieme ciò che in tema di riforme è avvenuto. E ci accorgiamo subito che il discorso si fa complesso perché le riforme si sono articolate in tempi diversi, con caratteri distinti e sopratutto incidendo in modo differenziato sulle diverse strutture del ministero [1].

Procedendo per richiami, né sarebbe possibile diversamente, un primo importante insieme di innovazioni è riferibile all’assunzione di nuove funzioni rappresentate da nuovi ambiti di attività (educazione, creatività, digitale), da interventi di sistema attraverso iniziative anche di alto profilo avviate in sedi internazionali (v. patrimonio culturale e G.20) o domestiche (fondo grandi progetti ’21-’31) spesso svincolate dalla organizzazione ministeriale ordinaria o dello stesso ministero a vantaggio di azioni innovative e strutture speciali o miste, promosse direttamente dal centro (nuove DG, Pompei, Cinecittà e progetti PNRR) senza dimenticare azioni inedite per il mecenatismo, la valorizzazione (art bonus e capitali italiane della cultura) o interventi straordinari di tutela del patrimonio culturale come la qualificazione ex lege della laguna di Venezia come monumento nazionale e relativo divieto di transito per le mega navi a partire dal 1° agosto 2021. La stessa riforma del sistema museale, scorporando in vario modo i musei dalle soprintendenze rende esplicite, senza accantonare i compiti di conservazione e ricerca, le peculiarità della produzione di beni e servizi in funzione della valorizzazione e mira a liberarne potenzialità, obbiettivi e più adeguate modalità funzionali e strutturali.

In breve, un terreno nuovo (o almeno tale rispetto alla pratica italiana) che richiede strutture e saperi nuovi e che va aggiungersi al tema delle nuove funzioni appena ricordate la cui cifra comune, va notato, è rappresentata dallo sforzo di cogliere interessi pubblici nuovi o non abbastanza considerati e dal perseguirne la soddisfazione aprendo a nuove modalità organizzative e a soggetti all’esterno degli apparati ministeriali: reti sovranazionali, città, privati, imprese, nuove competenze e saperi. Lo stesso ricorso a commissari straordinari o la selezione internazionale dei direttori dei musei ad autonomia speciale ne sono una efficace rappresentazione.

Una seconda e distinta macro-area è invece rappresentata dalla organizzazione e dagli apparati tradizionali, centrali e periferici, del ministero. Non sono certo mancate anche in questo caso innovazioni significative, ma il criterio prevalente è stato quello o dell’innesto di nuove unità a fianco delle preesistenti (v. nuove DG Creatività e Digital library), o dell’assemblaggio di strutture precedenti in nuovi apparati (DG Archeologia, Belle arti, Paesaggio; soprintendenze uniche). Il che presuppone che queste innovazioni, proprio perché basate su innesti del nuovo o su assemblaggi del vecchio, rappresentino solo passi iniziali (sia pure importanti) delle riforme e che restino decisivi i presupposti di fondo dell’intervento riformatore a partire dall’analisi dell’evoluzione degli interessi pubblici e dei saperi tecnico-professionali sottostanti oltre che dal monitoraggio e manutenzione delle riforme così avviate.

Naturalmente i tratti salienti di questa seconda macro area sono ben diversi e quasi opposti rispetto a quelli precedenti, perché vi giocano a fondo i tratti genetici degli apparati amministrativi e soprattutto ministeriali nella esperienza italiana. Frammentazione della organizzazione centrale e relativo arduo coordinamento se non per linee verticali, dualismo e separazione rispetto agli apparati periferici, rigida gerarchia del personale e assetto funzionale settoriale (a canne d’organo) da cui derivano le difficoltà di connessione tra settori (c.d. cerniere) all’interno e di relazione con il contesto istituzionale e socio-economico, sono gli elementi più critici del sistema. Ne sono evidenti conferme le tensioni che si scaricano su tutte le sedi a vocazione orizzontale: dal segretariato generale, la cui missione è strutturalmente oltre i limiti dell’umano per essere il primo (e unico?) punto di incontro tra tutti i vertici amministrativi (a cominciare dalle diverse DG), fino alle sedi decentrate di coordinamento (direzioni regionali musei e segretariati regionali).

Questo assetto è in parte un tratto comune che accompagna l’esperienza del modello ministeriale italiano destinato a riflettersi sul lato funzionale, dilatando l’area della unilateralità (in principio esclusiva delle funzioni autoritative) e la chiusura agli apporti esterni, alla cooperazione e alla partnership. Ma nello stesso tempo è anche un dato peculiare di questo ministero in quanto espressione di una premessa largamente diffusa tra gli apparati ministeriali e dintorni: quella della ferrea sovraordinazione della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio su ogni altro interesse pubblico e privato in virtù dell’investitura operata dalla Costituzione allo Stato, e per lo Stato al ministero.

Non c’è bisogno di sottolineare in questa sede l’erroneità dei presupposti e la negatività delle implicazioni che ne discendono o l’incongruità di questa concezione rispetto a molti altri elementi (compresa la dimensione operativa). Basterebbe cominciare dalla più recente denominazione del ministero: come ammettere infatti, con queste premesse e nel pluralismo del nostro ordinamento democratico, un ministero della Cultura?

Ma sono altre le implicazioni che qui interessano perché l’insistenza su questi caratteri non solo accentua la distinzione tra le due macro-aree del ministero ma si risolve in velocità diverse sul terreno della innovazione. E c’è da chiedersi se questa diversità sia solo un problema di diversa tempistica, con innovazioni comprensibilmente più rapide su aree vergini e inevitabilmente più lente nel perimetro storico degli apparati tradizionali, o se si tratti di una tendenza (scelta o subita) destinata a durare.

Questo potrebbe spiegare la più tenue spinta di innovazioni organizzative dell’ultimo periodo, anche se non mancano innegabili ragioni esogene. A parte la parentesi del governo Conte I (15 mesi dal giugno ’18 al settembre ’19) proprio mentre andavano a regime le riforme più delicate, è bene ricordare che immediatamente dopo si è aperta l’emergenza Covid con le numerose misure di contrasto resesi necessarie a partire dall’inizio 2019 (fondo cinema, lavoratori dello spettacolo, spettacolo dal vivo, musei e mostre, musica, editoria) e aggiungere un dato istituzionale importante: il progressivo esaurirsi dello spazio (forse anche politico e finanziario, certo giuridico) disponibile per modifiche operate in via amministrativa, con d.m. e d.p.c.m., e ampia discrezionalità di intervento. Un dato che nella prima stagione delle riforme è stato essenziale.

Ne è buona testimonianza l’interrogativo se porre mano a correzioni, integrazioni e aggiornamenti del Codice dei beni culturali la cui impostazione iniziale, già dichiaratamente difensiva, appare dopo quasi vent’anni superata in più aspetti, dalle dinamiche tecnologiche (v. digitalizzazione) e quelle istituzionali (v. Convenzione di Faro) che sono seguite. Ma questo metterebbe in discussione quella che appare una delle scelte fondanti dell’attuale stagione e cioè l’operare il più possibile in via amministrativa guardandosi bene da modifiche se non marginali del Codice.

Tutto ciò rischia di riflettersi anche su versanti diversi e più specifici come la mancata (o parziale) manutenzione delle riforme avviate nel ’14-’15, dal tema della collocazione della archeologia nelle soprintendenze unificate alla verifica del funzionamento del governo del sistema museale, musei ad autonomia speciale compresi, in occasione del rinnovo delle nomine dei direttori e dei componenti dei CdA. Gestione del personale e delle risorse, e più ancora competenze e relazioni tra musei autonomi e referenti centrali (DG Musei, Bilancio, Organizzazione) o tra direttori e cda necessitano, alla luce dell’esperienza passata, di più di una messa a punto.

Vi sono il caso e la necessità, come si è visto, vincoli subiti e probabilmente anche scelte consapevoli e volute, delle quali si possono comprendere le cause e condividere le ragioni. Ma il rischio è che la distanza tra queste due anime del ministero, sovraordinazione, densità strutturale e funzioni d’ordine vs. progetti innovativi affidati a funzionalità assai più leggere e condivise con altri soggetti, si traducano in logiche divaricanti e in crescente tensione la cui convivenza all’interno della stessa istituzione rischia il blocco o la soluzione più tradizionale: netta separazione e dissolvenza delle relazioni reciproche.

Sarebbe certo esagerato definire la situazione odierna come un (solo) ministero per due sistemi. Ma c’è da chiedersi, se quanto detto ha fondamento, per quanto tempo questo dualismo possa reggere sia sul piano esterno della comunicazione e del ruolo istituzionale sia su quello interno degli elementi comuni e indivisibili che restano e sono profondi. Il che equivale a interrogarsi anche sui prezzi (espliciti o nascosti) delle dinamiche in atto. Il primo dei quali riguarda proprio il Codice del 2004 che oggi richiede di essere ripensato in alcuni elementi che investono anche la sua impostazione.

2. Veniamo ora al PNRR e alle implicazioni che comporta rispetto al Mic. L’architettura di governo del piano è delineata dal d.l. 77/2021 e quindi un’analisi definitiva sarà possibile dopo la legge di conversione da adottare entro la fine di luglio, anche per le modifiche introdotte dai lavori parlamentari., ma c’è un’impostazione di fondo che rimarrà e dunque qualche osservazione può essere avanzata anche in corso d’opera.

Le due aree centrali del provvedimento riguardano il sistema di governo e la fase della attuazione. Sul primo, il sistema introdotto si caratterizza per tre caratteri: l’estensione, in quanto l’ambito di decisioni sottoposte al regime speciale del PNRR e della sua attuazione per una parte è definito per tipologie ma per il resto è affidato a decisioni che potranno estenderne l’ambito con ampia discrezionalità; la centralizzazione del potere decisionale, relativo agli interventi da ammettere e ai soggetti cui affidarsi, già definito per categorie di provvedimenti ma passibile, in base alla necessità, di ulteriori inclusioni; la condensazione per linee centripete dei poteri di indirizzo, di selezione, di controllo e di intervento in caso di criticità lungo l’asse Presidenza del Consiglio - Mef non solo in materia di poteri decisionali ma anche per le sedi o tavoli di rappresentanza dei principali interessi (pubblici e privati) coinvolti.

Il ruolo di governo del Mic come terminale di primo livello del sistema è da tutto ciò interamente definito, ferma restando la partecipazione del Ministro alla cabina di regia presso palazzo Chigi, mentre emergono differenze e asimmetrie profonde sull’altro fronte, quello della attuazione e in particolare del ruolo degli apparati tecnico-amministrativi rispetto ai progetti e a chi ne cura la messa in opera. La natura e la realtà del Mic, infatti, non consentono di praticare con facilità le soluzioni comuni immaginate per le restanti amministrazioni ministeriali.

Non lo è il semplice affidamento alla strutture ordinarie periferiche, da tempo alle prese con seri problemi di carenza di personale, procedimenti e procedure macchinose, difficile coordinamento tra soprintendenze e al loro interno. Non lo è il ricorso a poteri sostitutivi, qui (come e più che altrove) dimostratisi scarsamente praticabili, perché l’istruttoria presuppone memoria storica e conoscenze ravvicinate che solo le strutture più prossime (e perciò stesso insostituibili) hanno. Lo è poco la semplificazione procedimentale, cui infatti il d.l. 77/21 ricorre in casi limitati per opere pubbliche di particolare complessità, fonti rinnovabili e transizione digitale, e lo è con difficoltà sia sul lato della previsione, per il rischio concreto di un indebolimento della valutazione di interessi qualificati e non marginalizzabili che richiedono semmai regole chiare e stabili, sia sul quello della gestione, per la preoccupazione dei funzionari chiamati a provvedere e l’incerto affidamento complessivo da parte dei terzi interessati.

È da questo intreccio di soluzioni scarsamente praticabili e dall’intento di evitare strappi organizzativi e funzionali che nasce all’interno del Mic la soluzione della Soprintendenza speciale per il PNRR. Una struttura straordinaria, destinata a operare fino al 2026 (ma sarà difficile che si fermi a quella data) alla quale l’art. 29 del d.l. 77/2021 riserva la competenza diretta su beni culturali e paesaggistici interessati da interventi del PNRR sottoposti al VIA in sede statale (dunque, grandi infrastrutture) o quelli che ricadono nella competenza territoriale di due uffici periferici, ferma restando la possibilità di avocare a sé anche fasi dell’istruttoria in caso di necessità o possibile pregiudizio alla tempestiva attuazione dell’intervento (commi 1 e 2).

Difficile dare ad oggi una valutazione anche solo provvisoria delle soluzioni adottate e qui richiamate in estrema sintesi. Come per tutto il sistema del PNRR, mentre è chiaro il disegno del processo decisionale sia pure per le sue parti di vertice, non altrettanto può dirsi della parte successiva riguardante l’attuazione e l’operatività che sembra scommettere principalmente sulla capacità delle sedi politico-istituzionali di conformare le strutture ordinarie ai tempi e agli obbiettivi assegnati grazie alla propria determinazione, a qualche risorsa aggiuntiva e alla possibilità di sostituzione. Si vedrà, ma l’esperienza non è esattamente in questo senso e in ogni caso non è automatico che l’indubbia intensità del vincolo esterno proprio del PNRR e della sua filosofia si traduca in altrettanto intensa capacità operativa.

Questo però solo in parte riguarda il Mic il quale, data la scelta della soprintendenza speciale, sul punto non può considerarsi un profeta disarmato. Più problematiche appaiono invece le implicazioni che si possono trarre per la scelta operata e il sistema complessivo del PNRR nel quale si colloca. In linea di principio è innegabile che la soluzione accentua ulteriormente l’isolamento del ministero non solo per l’apparente sfilacciamento del rapporto con i principali soggetti interessati (il tavolo per tutto questo, non scordiamolo, è a Palazzo Chigi) ma soprattutto per il rischio concreto di rimanere circoscritto con i suoi apparati tradizionali in un ruolo esclusivamente impeditivo: dunque da controllare strettamente o da cui prendere le distanze. Non è esattamente quello che le riforme degli ultimi anni si sono sforzate di realizzare.

Il rischio è reale, ma la questione resta aperta non solo perché il PNRR e tutto ciò che vi è connesso è ancora, sul piano istituzionale e organizzativo, in una fase embrionale ma per qualche segnale offerto in materia da recenti interventi sulla organizzazione interna.

Il riferimento è alle innovazioni introdotte nel regolamento di organizzazione dal recente d.p.c.m. (Consiglio dei Ministri del 25/6/2021), su cui con chiarezza interviene Lorenzo Casini in questo stesso numero, dove da un lato si risponde alle nuove esigenze riferendole all’assetto esistente a cominciare dal segretario generale sia pure rafforzato [2], dall’altro si assicura un forte e diretto supporto tecnico al ministro con la costituzione di una nuova segreteria tecnica (art. 9.1) cui è affiancata una unità di missione dedicata alla attuazione del PNRR (art. 26-bis).

Non mancano altri elementi innovativi il cui potenziale è da verificare soprattutto in tema di personale e di nuove risorse (stage per giovani, collaborazione con operatori del terzo settore, professionisti per le segreterie tecniche degli uffici decentrati), ma è evidente la diversità di approccio tra il riferimento alle strutture esistenti, alcune delle quali come il segretariato generale ulteriormente sovraccaricate, e il ricorso a risorse e a soluzioni organizzative diverse e per certi aspetti inedite.

Nella stessa prospettiva, e per certi aspetti anzi più significativo, l’atto di indirizzo adottato nell’aprile ’21 sulle priorità politiche assegnate ai dirigenti del ministero per il triennio ’21-’23. Un atto apparentemente minore e certo poco noto all’esterno ma importante per la macchina amministrativa perché pone i riferimenti cui rapportare la valutazione dell’attività del personale e la relativa quota variabile di riconoscimento economico. Ebbene l’atto, in modo inedito per il Mic (e probabilmente per la maggior parte degli altri ministeri), individua nella capacità di tenere conto del contesto istituzionale e socio economico il modo corretto per dare attuazione all’art. 9 Cost. [3]. Un indirizzo tutt’altro che scontato e che unito a misure più specifiche [4] potrebbe rappresentare un esempio positivo di intervento nell’area delle funzioni d’ordine. Naturalmente a condizione di verificarne le conseguenze e la disponibilità, e se necessario modificare prassi e procedure tradizionali [5]. Altrimenti, come nel caso citato in nota, finisce per essere messa in discussione o l’indicazione politica (universalmente condivisa) e il suo rispetto da parte dei funzionari o la procedura di rilevazione dei fabbisogni.

3. Tornando al quesito iniziale e alle prospettive, si vedrà. Perché certo i processi sono ancora in corso. Ma se si considerano anche altri elementi come le difficoltà con le proprie strutture periferiche in termini di relazioni e di coordinamento, di cui in fondo l’istituzione della soprintendenza speciale è una esplicita ammissione, e la non fluida esperienza della cooperazione con regioni e sistemi locali o del partenariato con i privati che costituiscono uno dei punti più deboli dell’esperienza degli apparati ministeriali (mentre il PNRR ne enfatizza il rilievo) qualche motivo di preoccupazione è giustificato.

Almeno per questi aspetti infatti, l’intervento straordinario del piano europeo di ripresa e resilienza non agevola di per sé il superamento del dualismo tra le due macro-aree di cui si è detto e anzi rischia di accentuarne la progressiva distanza.

Il che porta a ritenere che il modo di venirne a capo è proseguire la strada imboccata alcuni anni fa e che la messa in opera del PNRR non risolve di per sé il problema ma offre una ragione in più per completare quanto avviato.

Le riforme fatte, e quelle da fare: le due riforme, appunto.

 

Note

[1] C. Barbati, Organizzazione e soggetti, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata e G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, II ed., Bologna, Il Mulino, 2020, pag. 73 ss.

[2] Riferendo al segretario generale, per il coordinamento delle iniziative e delle attività connesse all’attuazione del PNRR (art. 13. f-bis), e alla DG organizzazione il profilo dei rapporti con le altre amministrazioni pubbliche e le organizzazioni del terzo settore per l’utilizzazione del personale nell’ambito delle attività del ministero (art. 25, co. 2).

[3] Aggiungendo l’importanza di “coinvolgere regioni enti locali, associazioni di categoria e organizzazioni sindacali attive nei settori di competenza del ministero” perché “è evidente che le funzioni del Mic sono svolte nel rispetto del principio della leale collaborazione tra tutte le istituzioni, con particolare riguardo alle regioni e agli enti locali” (pag. 7).

[4] Monitoraggio e verifica della soddisfazione dei destinatari delle attività e dei fruitori dei servizi (pag. 12), impulso allo svolgimento di tutte le attività finalizzate alla pianificazione paesaggistica d’intesa con le Regioni, anche al fine della attuazione delle misure del PNRR relative alla edilizia rurale storica e agli elementi del paesaggio rurale (13), manutenzione programmata con tempistiche certe rispetto ai lavori di restauro e all’uso dei fondi (14).

[5] In modo da evitare, ad esempio, che l’indicazione appena richiamata sulla manutenzione programmata continui a convivere con il dato che si evince dalla recente relazione sulla performance 2019 (approvata dal ministro nel settembre ’20) dalla quale, dopo l’affermazione un po’ singolare in base alla quale per l’anno 2019 “i dati misurati hanno rilevato un quadro piuttosto coerente con la Programmazione” (pag. 7), risulta che malgrado la priorità tra gli interventi riconosciuta per la programmazione del Fondo tutela (’19-’20) ai lavori di manutenzione (p. 23), nelle richieste pervenute dagli uffici periferici la tipologia prevalente resta il restauro, che rappresenta quasi la metà degli interventi, mentre il fabbisogno di manutenzione in termini di risorse è pari al 13% (p. 24).

 

 



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