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L’amministrazione del patrimonio culturale

I musei pubblici non statali [*]

di Giuseppe Piperata

Sommario: 1. I musei pubblici non statali: una componente importante del patrimonio storico-artistico italiano. - 2. Il settore museale pubblico tra pluralismo e differenziazione. - 3. I musei pubblici non statali: un unico settore, ma con più regimi giuridici di riferimento. - 4. Gli elementi di ricomposizione della disciplina del settore museale pubblico offerti dall’ordinamento giuridico. - 5. I musei pubblici non statali e le nuove sfide per il settore museale pubblico.

Non-state public museums
The most of the italian public museums belongs to non-state institutions. Pluralism and polymorphism are the two features of this category. In contrast to state museums, in fact, theese museums don’t have a single organisational reference model. Their structure changes also according to the type of istitution with it belong: a situation with light and shadown. In the italian law there are, though, elements for ricomposition of the public museum system overal, given by in particular by Urbani Code, but also by some innovative processes of reorganization of the sector, like the Italy’s National Museum System, the recent strategy elaborated to equip the italian museums in front of the future challanges that await them.

Keywords: Museums; Italy’s National Museum System; Museum Organisational Models.

1. I musei pubblici non statali: una componente importante del patrimonio storico-artistico italiano

I musei pubblici non statali rappresentano una categoria di beni culturali che cattura l’interesse del giurista, in quanto presenta caratteristiche peculiari che giustificano un’analisi finalizzata se non altro ad evidenziarne la collocazione nel più ampio quadro del diritto del patrimonio culturale.

C’è un primo tratto caratteristico di questa categoria museale che merita di essere evidenziata e riguarda il dato quantitativo. Colpiscono due aspetti dei musei pubblici non statali, infatti: i fattori che ne hanno determinato, prima, l’origine e, poi, lo sviluppo e la crescita che hanno avuto fino a raggiungere un numero elevato.

E partiamo dalle origini. Sicuramente, tra gli elementi che maggiormente hanno contribuito all’istituzione di musei, gallerie, pinacoteche, raccolte da parte di enti pubblici non statali vi sono le cosiddette Leggi Eversive del 1866 (l. 7 luglio 1866, n. 3036, e legge 19 giugno 1873, n. 1402), leggi con le quali il giovane Stato italiano aveva disposto la soppressione di migliaia di enti ecclesiastici e ordini, corporazioni e congregazioni religiosi, con la conseguente eversione anche dei rispettivi patrimoni, liquidati e assegnati allo Stato stesso. In questo modo, lo Stato italiano ha potuto acquisire la proprietà di un imponente patrimonio culturale, consistente in immobili, opere d’arte, libri e manoscritti prima appartenenti agli enti religiosi soppressi e successivamente messi a disposizione di enti pubblici, in primis comuni e province. E sono proprio gli enti locali che con maggiore intraprendenza si sono affrettati a realizzare musei e gallerie dove ospitare i tanti beni del patrimonio artistico provenienti dalle soppressioni ecclesiastiche postunitarie [1].

In meno di cento anni, il numero di musei pubblici non statali italiani è poi cresciuto esponenzialmente. Nel 1950 il ministero della Pubblica istruzione italiano pubblicò l’Annuario dei musei e delle gallerie d’Italia. Esso censiva più di 500 musei, dei quali descriveva gli aspetti proprietari, la tipologia organizzativa e il contesto territoriale: quasi il doppio rispetto ai musei censiti in occasione di un’analoga iniziativa ministeriale compiuta nel 1922. In Italia, contrariamente a quanto avvenuto in altre esperienze straniere [2], i musei e le gallerie erano aumentati in numero e si trattava, per lo più, di musei di proprietà pubblica e prevalentemente (la metà del totale complessivo) di musei comunali e provinciali. L’effetto delle cosiddette Leggi Eversive si era ovviamente esaurito. Tuttavia, altri fattori avevano continuato ad incrementare le opere del patrimonio storico artistico pubblico, tra questi il costante ritrovamento di cose d’arte e di beni archeologici, dovuto alle peculiari caratteristiche del nostro Paese, ma anche l’aumento delle donazioni private verso enti pubblici, così incentivati a dar vita ad apposite istituzioni museali destinate a conservarle e esporle.

Se guardiamo all’oggi, il trend non sembra esser mutato. Recentemente, infatti, l’Istat ha fornito i dati relativi ad una indagine sui musei e monumenti italiani [3], dalla quale emerge che i musei pubblici non statali rappresentano un’importantissima componente del patrimoni culturale della Nazione. Lasciamo parlare i numeri. Su 4.889 tra musei, gallerie, complessi monumentali, parchi archeologici, solo 478 sono i musei statali, mentre 2067 sono comunali, 222 di altri enti pubblici, 121 delle università, 118 delle regioni, 80 delle province, il resto dei privati.

I dati appena riportati ci offrono una prima oggettiva evidenza: negli ultimi anni, il numero dei musei in Italia è cresciuto in modo esponenziale. E sono aumentati soprattutto i musei non statali e i musei locali [4]. Alcuni di questi ultimi hanno una dimensione molto contenuta e il loro numero si è andato moltiplicando soprattutto nel secondo dopoguerra a causa di diversi fattori (politiche di promozione territoriale; la ricerca dell’identità locale; iniziative sempre più diffuse di volontariato culturale; ecc.). Si tratta di un fenomeno che presenta luci ed ombre. Non sono mancate, infatti, preoccupazioni rappresentate a proposito del rischio di museificazione del locale e di eccessiva polverizzazione del patrimonio culturale, dovuto alla distribuzione dei beni in migliaia di piccoli musei, quasi sempre legati al contesto territoriale e dotati di un’organizzazione non sempre adeguata agli standard minimi richiesti per l’efficiente esercizio del servizio museale [5].

La moltiplicazione dei concetti di patrimonio, quest’ultimo non più ancorato al contesto storico e inteso come insieme di beni da trasmettere, ma visto come creazione del presente e declinabile secondo differenti significati (culturale, ambientale, ecc.), ha favorito anche la moltiplicazione degli istituti museali, che hanno assunto forme organizzative e di governance non sempre ben riuscite [6]. Ma accanto a queste criticità sono stati evidenziati anche gli aspetti positivi legati alla proliferazione di migliaia di musei di piccole dimensioni, i quali sono anche da vedere come il frutto del risveglio culturale di singole comunità e rappresentano strutture organizzative che possono avere un ruolo di ausilio nei confronti dei musei più grandi, soprattutto statali [7].

2. Il settore museale pubblico tra pluralismo e differenziazione

L’interesse dell’interprete per la categoria dei musei pubblici non statali non è solo riconducibile alla dimensione quantitativa della categoria stessa. Se guardiamo, infatti, all’interno del settore in questione è facile notare come il pluralismo dei soggetti proprietari e la differenziazione dei modelli organizzativi siano i due elementi che maggiormente caratterizzano tale importante ambito di presenza culturale.

Quanto appena affermato merita qualche ulteriore commento. I dati quantitativi sopra riportati dimostrano che in Italia, come in altre esperienze straniere, i pubblici poteri hanno progressivamente istituzionalizzato la raccolta di beni culturali, preferendo la formula museale come contenitore delle collezioni e dei patrimoni culturali raccolti e, nel farlo, non hanno individuato un’unica istanza come titolare dei patrimoni in questione, ma hanno preferito lasciare ad ogni ente del settore pubblico la possibilità di dar vita a istituzioni museali. Tale situazione ha anche trovato nella nostra Carta costituzionale una conferma, stante la possibilità di far emergere dalla stessa un principio di pluralismo che costituzionalmente caratterizza il settore, nel senso che, come è stato notato, “sul versante dei musei pubblici, il principio pluralista si risolve infine nella pluralità dei centri propulsori” [8]. Tra l’altro, il pluralismo che connota il sistema museale pubblico è anche il riflesso del sistema istituzionale policentrico che, per impostazione costituzionale e successiva evoluzione legislativa, rappresenta uno degli assi portanti dell’ordinamento dei beni culturali [9].

Poter affermare che il sistema pubblico museale è un sistema plurale ha delle importanti implicazioni, prima tra tutte quella in base alla quale è corretto sostenere che costituzionalmente non sarebbe giustificabile, né legittimo un monopolio statale dei musei. In tale prospettiva, allora, è normale trovare accanto ai tanti musei statali di grandi, medie e piccole dimensioni, moltissime altre istituzioni museali pubbliche ma appartenenti soprattutto a enti territoriali e locali, come regioni, province e comuni, così come anche a altri enti pubblici, nonché ad università. Sono principalmente questi, infatti, i soggetti pubblici diversi dallo Stato ai quali ricondurre il numero nettamente maggiore di musei presenti sul territorio italiano.

Ma dai dati quantitativi richiamati è possibile ricavare anche un’altra importante indicazione utile a definire gli aspetti portanti del sistema museale pubblico non statale. Accanto ai musei, nel patrimonio culturale dei tanti enti pubblici diversi dallo Stato è possibile registrare anche la presenza di altri beni, inquadrabili come universitas facti, ossia gallerie, raccolte, collezioni, pinacoteche, complessi monumentali, aree archeologiche. La tassonomia di queste figure è sempre apparsa di difficile realizzazione, dato che alcune di queste istituzioni non presentano tratti caratteristici facilmente differenziabili [10].

Indipendentemente dall’incertezza qualificatoria, tuttavia, tra le strutture organizzative di promozione della cultura il museo occupa una posizione indubbiamente preminente, non solo con riferimento alla gestione del patrimonio culturale statale, ma anche di quello degli altri enti pubblici, nonché dei privati [11]. Del resto, i musei, visti nella loro dimensione complessa e dinamica, come “enciclopedie della cultura”, si prestano molto bene, come vedremo, ad adempiere a quel ruolo di conservazione e promozione che oggi il diritto assegna alle istituzioni culturali [12].

Quello che, invece, è facile differenziare all’interno del contesto generale riferibile al patrimonio culturale pubblico è il sistema dei musei pubblici statali rispetto a quello dei musei pubblici non statali, in quanto mentre il primo ha tratti di uniformità ricavabili da una apposita disciplina di riferimento, il secondo può essere organizzato secondo una molteplicità di modelli, come vedremo, in gran parte dipendente in concreto dalla qualificazione dell’ente titolare del museo e dal disegno gestionale prescelto. Pertanto, il sistema dei musei pubblici non statali, oltre che essere plurale, è anche polimorfo [13]. Diversità di modelli e di titolarità: un tratto caratteristico del patrimonio culturale italiano, ma che caratterizza anche altre esperienze straniere [14].

Ovviamente, i caratteri plurale e polimorfo del sistema in questione vanno visti con favore, in quanto di sicuro sono in grado di creare le condizioni necessarie per conseguire alcuni indubbi vantaggi: la maggiore diffusione sul territorio delle istituzioni culturali; la possibilità di adattare i modelli organizzativi alle concrete peculiarità del patrimonio da custodire e promuovere; la percorribilità di percorsi sperimentali e innovativi di gestione; ecc. Allo stesso tempo, però, non si possono nascondere alcuni pericoli che il peculiare e variabile contesto organizzativo in cui si collocano i musei pubblici non statali può determinare. Il riferimento, ad esempio, è al rischio di eccessiva dispersione del patrimonio culturale pubblico non statale, distribuito tra istanze museali dimensionalmente non adeguate e, di conseguenza, inidonee ad assolvere agli obblighi di tutela o a garantire una offerta culturale di qualità.

Vedremo che alcune scelte di politica del diritto, anche recenti, riguardanti il patrimonio culturale possono essere lette anche nella prospettiva di limitare i rischi appena rappresentati, come, ad esempio, nel caso della realizzazione del Sistema nazionale museale, su cui si avrà modo di tornare. Un’altra criticità, poi, si potrebbe manifestare nel momento in cui la peculiare specificità organizzativa o gestionale della realtà museale imponesse alla stessa un isolamento istituzionale, a causa di uno statuto con caratteristiche tali da ostacolare processi di collaborazione con altre istituzioni culturali. Si tratta di una situazione che, qualora si verificasse in concreto, si troverebbe in netto contrasto con quella tendenza legislativa promossa in ossequio a quanto stabilito dalla c.d. Convenzione di Faro, che promuove nella gestione del patrimonio culturale un approccio integrato da parte delle istituzioni pubbliche a tutti i livelli (art. 1 e 11, legge 1 ottobre 2020, n. 133) [15].

3. I musei pubblici non statali: un unico settore, ma con più regimi giuridici di riferimento.

Lo si è già detto: i musei pubblici non statali non corrispondono ad un unico modello prestabilito e i loro tratti caratteristici cambiano a seconda della natura dell’ente che ne ha la titolarità e anche a seconda della veste giuridica data alla istituzione museale [16]. Se guardiamo in particolare al dato organizzativo e gestionale della categoria museale in questione è facile notare che i regimi giuridici di riferimento sono tanti e variano di volta in volta. È questo il tratto più caratteristico del sistema dei musei pubblici non statali: la differenziazione, che può essere colta verso l’esterno, ossia nei confronti del regime giuridico che regola i musei statali, ma soprattutto all’interno dello stesso sistema con riferimento alla presenza di molteplici modelli organizzativi presenti.

I musei pubblici statali, a differenza degli altri musei, possono contare su di un unico regime giuridico rappresentato dal d.m. 23 dicembre 2014, regolamento che ne disciplina l’organizzazione e il funzionamento. Si tratta di un importante intervento di riforma che ha profondamente innovato il settore culturale, riarticolando lo statuto organizzativo dei musei statali e fondandolo su alcuni cardini portanti: la valorizzazione dell’autonomia dei musei statali; la creazione di un sistema museale nazionale di raccordo anche con gli altri musei; la ridefinizione del ruolo del ministero e delle soprintendenze, in particolare; la proposizione di un ventaglio di modelli organizzativi che vanno dal modello tradizionale del museo-ufficio a quello più alternativo del museo-fondazione [17].

Il complesso dei musei pubblici non statali non trova nel nostro ordinamento una fonte analoga a quella appena richiamata, contenente una disciplina puntuale delle dinamiche di organizzazione e gestione cui assoggettare i singoli istituti. In passato, era stato fatto un tentativo in tale direzione, nel senso di fissare un minimo quadro giuridico di riferimento per i musei appartenenti a tale categoria. Con la legge 22 settembre 1960, n. 1080, erano state elaborate alcune norme concernenti i musei non statali, con l’obiettivo quantomeno di classificare tali musei. Infatti, la legge distingueva 4 categorie (musei multipli; musei grandi; musei medi; musei minori), definiva le procedure di classificazione e affidava ad un decreto dei ministri della pubblica istruzione e dell’interno il compito di inquadrare ogni singolo museo in una di queste categorie, previo parere di apposito comitato. All’ente pubblico titolare del museo, poi, era riconosciuto il potere di definire il modello organizzativo, previo sempre parere del comitato e esito favorevole del controllo svolto dall’ente a ciò deputato.

La legge n. 1080/1960 non ha avuto un impatto rilevante sull’assetto dei musei pubblici non statali; e non poteva essere diversamente, vista la complessità del disegno e tenuto conto anche del fatto che lo stesso presupponeva una competenza generale dello Stato su dinamiche regolative che potevano anche legittimare l’intervento legislativo delle regioni o incidere sull’autonomia costituzionalmente garantita agli enti proprietari. Tra gli enti proprietari dei musei, infatti, troviamo per prima cosa regioni, province e comuni, ma anche università, soggetti pubblici, cioè, che in virtù della nostra Carta costituzionale, non solo possono - almeno per le regioni - intervenire con loro norme in grado di influire sull’organizzazione di istituzioni culturali degli stessi enti non statali, ma anche godono di ampi spazi di autonomia, soprattutto sotto il profilo delle scelte organizzative.

La presenza di enti territoriali e locali tra i soggetti pubblici non statali titolari dei musei determina un’importante conseguenza, di cui si deve tener conto ai fini della differenziazione che connota la categoria in questione. Per il codice civile italiano, “gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche”, se appartenenti agli enti locali, “sono soggetti al regime del demanio pubblico” (art. 824, c.c.), lo stesso regime cui sono assoggettati gli stessi beni se di appartenenza statale. Sotto questo punto di vista, il regime giuridico dei musei degli enti locali presenta una piena coincidenza con quello riguardante i musei statali, dato che le raccolte in essi presenti e le pinacoteche devono essere qualificati come beni demaniali e assoggettati alla corrispondente disciplina. Ciò vale, però, come è evidente, solo per i musei degli enti locali, ma non per gli altri musei in titolarità di enti pubblici non statali, cosa che rende disomogenea la categoria di riferimento.

Un altro elemento di disomogeneità tra i musei pubblici non statali è riconducibile alla specifica natura dell’ente proprietario. È evidente che le condizioni e le caratteristiche dell’ente proprietario possono poi riverberare sull’organizzazione concreta del singolo museo, nel senso che, ad esempio, per la gestione dello stesso può essere utilizzato un modello organizzativo pensato dal legislatore solo per quell’ente, come avviene per la conformazione di alcuni musei locali nella veste della istituzione, ente pubblico strumentale tipico dell’amministrazione comunale o provinciale [18].

Se, poi, oltre a quanto finora detto, si considerano anche le singole scelte compiute, persino legislativamente, in occasione dell’organizzazione del museo, allora si capisce come mai più volte abbiamo sottolineato come la differenziazione sia il carattere maggiormente rappresentativo della categoria. Allo stato attuale, infatti, la situazione è caratterizzata da un’estrema differenziazione tra i modelli organizzativi e gestionali seguiti dai singoli musei. Se si passano in rassegna i musei pubblici non statali si coglie pienamente tale situazione, dato che i modelli di gestione cambiano profondamente.

Nell’esperienza concreta le ipotesi sono diversissime e la natura proprietaria, nonché altri fattori, condizionano la ricostruzione del regime giuridico cui assoggettare il bene.

Andiamo con ordine. Vi sono musei che appartengono ad amministrazioni non statali o che sono a loro volta enti pubblici non statali, costituiti spesso con legge o regolamento (è il caso, ad esempio, del Museo storico della Liberazione, ente pubblico costituito con legge 14 aprile 1957, n. 277, o del Vittoriale di D’Annunzio, trasformata nel 2019 in fondazione privata dal d.p.r. 13 ottobre 2009, n. 180). Un’altra importante specie è costituita dai musei universitari, oggi sempre più spesso organizzati in sistema museale di ateneo, con proprio statuto, autonomia organizzativa e propri organi, come è avvenuto, ad esempio, nelle Università di Bologna (SMA) e di Siena (SIMUS). Un numero minore di musei appartenenti alla categoria dei non statali risulta essere di proprietà delle regioni italiane, anche se alcuni di questi rappresentano realtà culturali importanti, come ad esempio, il Museo regionale di scienze naturali del Piemonte, organizzato come articolazione della regione (gestione diretta) e istituito con l.r. 29 giugno 1978, n. 37, e il Museo Madre della Campania, istituito come fondazione, con ampia autonomia, ma controllata dalla regione stessa. Rimane, infine, la componente più importante, soprattutto quantitativamente, della categoria, rappresentata dai musei provinciali e comunali. Al di là del profilo dominicale e demaniale già segnalato, per tali istituti rileva anche la possibile qualificazione dell’organizzazione e della gestione delle loro attività come servizi pubblici locali, con la conseguenza di poter applicare agli stessi i modelli di gestione previsti dagli arrt. 112 e ss., d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in particolare la gestione in economia (ad esempio, i Musei civici fiorentini), l’istituzione (ad esempio, l’Istituzione Bologna Musei) e le fondazioni di partecipazione (ad esempio, la Fondazione Musei civici di Venezia - MUVE) [19].

4. Gli elementi di ricomposizione della disciplina del settore museale pubblico offerti dall’ordinamento giuridico.

Sarebbe sbagliato pensare che in Italia il settore dei musei pubblici statali sia completamente scollegato rispetto agli altri musei pubblici e la differenziazione e la disomogeneità siano le uniche cifre rappresentative della situazione regolativa e strutturale all’interno della quale questi ultimi si collocano. È vero: manca un regime giuridico unitario “che stabilisca la ‘forma di governo’ del museo” [20]. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico è possibile individuare alcuni principi e specifiche regolazioni che tracciano un perimetro comune all’interno del quale le ricordate esperienze organizzative possono esplicarsi in tutta la loro peculiarità.

Alcuni elementi di ricomposizione del sistema museale pubblico possono essere ricavati, in primo luogo, dall’interpretazione delle disposizioni che la nostra Costituzione dedica al patrimonio culturale. Come puntualmente sottolineato dalla dottrina [21], la natura del soggetto cui rapportare la titolarità del museo, elemento così rilevante - come abbiamo visto - ai fini della sua organizzazione, sfuma se visto nella prospettiva costituzionale, considerato che il tenore dell’art. 9 Cost., invece, pone l’accento sull’obbligo di tutela dei beni presenti nel compendio museale. Il regime amministrativo che regola la conservazione e protezione del patrimonio culturale pubblico è indifferente alla natura del soggetto proprietario. Ogni museo pubblico, quindi, statale o non statale, deve per prima cosa assicurare la tutela dei beni del patrimonio culturale di sua spettanza, come imposto dalla Costituzione; è sul momento gestionale che, invece, i caratteri del soggetto titolare del museo possono incidere, differenziando. Una differenziazione, però, che in ogni caso deve rispettare un altro principio comune ricavabile dal dettato costituzionale in tema di patrimonio culturale: la destinazione al pubblico godimento dei musei pubblici.

Con riferimento proprio alla fruizione, poi, alcuni elementi di ricomposizione del sistema museale pubblico debbono essere recuperati dalla disciplina riguardante i musei contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42).

Il Codice, innanzitutto, definisce il museo (“una struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”) e lo annovera, insieme alle biblioteche e agli archivi, alle aree e ai parchi archeologici, ai complessi monumentali, tra gli istituti e luoghi della cultura (art. 101, commi 1 e 2): così facendo, il Codice delinea una cornice definitoria all’interno della quale trovano spazio tutte le espressioni museali riferibili al settore pubblico [22].

Nella prospettiva della destinazione al pubblico godimento dei musei, poi, nessuna rilevanza può essere data alla distinzione tra musei statali e musei non statali, in quanto dalla mera qualificazione pubblicistica dell’ente proprietario il Codice fa derivare alcune importantissime conseguenze: i musei che “appartengono a soggetti pubblici sono destinati alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico” (art. 101, co. 3) e “ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la valorizzazione dei beni di cui ha comunque la disponibilità” (art. 112, co. 6). In altri termini, il museo appartenente a qualsiasi soggetto pubblico eroga attività di servizio pubblico, necessariamente è destinato al pubblico godimento ed è tenuto alla valorizzazione dei propri beni. Non ha pesato in questa peculiare apertura codicistica solo l’idea del museo come luogo identitario e anche di educazione, ma ha avuto una sicura influenza anche l’idea che enfatizza la collocazione del museo nella prospettiva del legame solidaristico tra generazioni, con la conseguenza, quindi, di riconoscere una grande importanza, oltre che alla tutela, soprattutto alla valorizzazione e alla fruizione di questi luoghi di patrimonio culturale, destinati a produrre servizi per la collettività [23].

È bene ricordare che la qualificazione dell’attività museale come servizio pubblico è stata ulteriormente rafforzata attraverso l’estensione, ad opera del d.l. 20 settembre 2015, n. 146, conv. in legge 12 novembre 2015, n. 182, della disciplina dello sciopero nei settori di servizio pubblico essenziale, in modo da ricomprendere in tale categoria anche “l’apertura al pubblico regolamentata di musei e altri istituti e luoghi della cultura, di cui all’articolo 101, comma 3, del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42” (art. 1) [24]. Anche in questo caso, il riferimento è a tutti i musei pubblici, che vengo ricondotti alla categoria dei servizi pubblici essenziali, quantomeno per quanto riguarda le prestazioni minime da garantire per rendere effettivi quei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, che altrimenti verrebbero sacrificati in caso di conflitti collettivi.

Anche rispetto alle attività di valorizzazione [25] il Codice tende a uniformare il regime giuridico per il settore museale pubblico senza distinzioni tra musei dello Stato e altri musei pubblici. Infatti, le attività di valorizzazione su beni di pertinenza pubblica devono corrispondere ai livelli minimi uniformi di qualità, definiti sì dal ministero con le regioni, gli altri enti pubblici territoriali e con il concorso delle università, ma che sono vincolanti per i soggetti che gestiscono le attività di valorizzazione stessa (art. 114). Il ministero ha provveduto a tale compito adottando il d.m. 21 febbraio 2018, contenente una definizione dei livelli minimi uniformi di qualità dei musei e dei luoghi della cultura di appartenenza pubblica, quantomeno con riferimento ai profili dell’organizzazione della struttura, della gestione delle collezioni e della comunicazione e rapporto con il territorio di riferimento.

Il Codice, inoltre, approfondisce anche alcuni aspetti della gestione delle attività di valorizzazione, in quanto specifica che le attività in questione se aventi ad oggetto beni culturali di appartenenza pubblica sono svolte in forma diretta o indiretta, dando anche una disciplina generale di riferimento (art. 115). Si prevede, infine, anche la possibilità di istituire servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico, la cui tipizzazione e regolazione è fornita dall’art. 117 [26].

Grazie alla rapida rassegna fatta delle principali disposizioni codicistiche in tema di musei, è possibile notare che per la fruizione, gestione e valorizzazione degli stessi il Codice formula un regime giuridico comune, che ha come destinatario l’intero settore museale di proprietà pubblica, senza alcuna distinzione tra Stato e altri enti pubblici. Ciò, tuttavia, non esclude che la natura del soggetto pubblico proprietario rilevi ai fini della differenziazione del regime giuridico di riferimento per effetto di possibili integrazioni regolative riconducibili a sovrapposizioni con discipline di settore o ad attuazioni previste dallo stesso Codice. Una sovrapposizione tra discipline giuridiche destinate ad integrarsi l’abbiamo già evidenziata a proposito dei modelli di gestione dei servizi pubblici locali che potrebbero essere presi a riferimento ad integrazione di quanto disposto dall’art. 115 sulle forme di gestione delle attività di valorizzazione nel caso in cui tale attività debba essere organizzata all’interno di un museo di un ente locale.

Per quanto riguarda, invece, la produzione di regimi giuridici differenti in sede di attuazione del dettato codicistico, non si può non evidenziare che il Codice rinvia alla legislazione regionale la disciplina di alcuni aspetti riguardanti solo i musei pubblici non statali. Il riferimento è ai beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato, e alle leggi regionali sono affidati la regolazione riguardante la fruizione (art. 102, co. 2) e le funzioni e le attività di valorizzazione riguardanti gli stessi (art. 112, co. 2). Le materie che vengono affidate alla competenza legislativa regionale fanno riferimento alla gestione e organizzazione delle attività museali di titolarità pubblica non statale ed è evidente che la previsione codicistica pone le condizioni per un intervento legislativo da parte delle regioni idoneo a differenziare i regimi giuridici di riferimento per il settore dei musei non statali.

5. I musei pubblici non statali e le nuove sfide per il settore museale pubblico.

I musei pubblici non statali sono sicuramente la categoria più numerosa delle istituzioni culturali appartenenti al settore museale pubblico. Appartengono a soggetti pubblici diversi e altrettanto diversi sono i modelli utilizzati per la loro organizzazione e gestione, mancando, infatti, una disciplina unitaria e uniformante di riferimento. Il Codice, come abbiamo visto, offre uno statuto minimo per i musei pubblici, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione della fruizione e la gestione delle attività di valorizzazione. Ciò, però, non esclude una differenziazione in concreto dei modelli gestionali, spesso dovuta alla diversa natura dei singoli enti titolari dei musei. Eppure, è vero, come affermato, che “nel mondo dei musei la varietà è un disordine più apparente che reale” [27].

Il disordine in questione in sé non è preoccupante. Diventa, però, un importante pericolo nel momento in cui determina ricadute sul funzionamento e sulla qualità del servizio museale. In questi casi, l’assenza di modelli uniformanti sul piano generale e la conseguente possibile differenziazione in concreto da condizione di vantaggio per il sistema si trasforma in disservizio, da elemento positivo, sintomo di vivacità gestionale, può risultare essere la manifestazione della fragilità del sistema stesso. Al riguardo, alcune manifestazioni registrate sulla base dell’esperienza concreta destano qualche preoccupazione: dei 4.026 musei, solo il 47% ha uno statuto o regolamento che ne disciplina il funzionamento; solo 2 su dieci hanno la Carta dei servizi e di questi l’80% sono musei pubblici.

Siamo consapevoli che all’origine di quelle criticità che impediscono ai musei pubblici, soprattutto a quelli non statali e di dimensioni più ridotte, di poter adempiere pienamente alla funzione museale vi sono anche e soprattutto fattori diversi rispetto alle problematicità registrate a proposito di regime giuridico e alla differenziazione nella definizione dei modelli organizzativi e gestionali. Sicuramente, incidono sul funzionamento di queste istituzioni museali le croniche carenze di risorse, sia finanziarie, sia umane, alle quali il legislatore italiano ha provato a porre rimedio attraverso importanti interventi di riforma e di sostegno, a cominciare dalla disciplina dell’Art Bonus (d.l. 31 maggio 2014, n. 83, conv. in legge 29 luglio 2014, n. 106). In questa sede, però, è la prospettiva della ricostruzione del regime giuridico dei musei pubblici non statali, attenta prevalentemente al dato organizzativo, quella scelta per condurre un’analisi su questa importante porzione del sistema museale pubblico.

Seguendo, allora, tale prospettiva, bisogna ricordare che negli ultimi anni, proprio al fine di provare a ridurre i pericoli appena denunciati, sono state introdotte nel nostro ordinamento alcune importanti innovazioni incentrate su specifiche politiche di valorizzazione museale, dirette a migliorare l’organizzazione e l’offerta dei musei pubblici, con particolare attenzione a quelli non statali, e destinate ad incidere anche sul loro regime giuridico di riferimento. Due interessanti fenomeni al riguardo meritano di essere richiamati: i processi regionali di promozione delle reti e dei sistemi museali e il processo di realizzazione del Sistema museale nazionale.

Abbiamo visto che le regioni, non solo sono titolari di istituzioni museali proprie, ma rispetto ai beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato godono di una specifica competenza legislativa, che trova fondamento nel dettato costituzionale, prima, e nel Codice, poi. Inizialmente, vigente anche la versione originaria dell’art. 117 Cost., le regioni ordinarie avevano esercitato tale competenza soprattutto con l’obiettivo di contribuire alla definizione del regime giuridico di riferimento dei musei degli enti locali o di interesse locale [28]. Le manifestazioni più recenti, invece, della potestà legislativa regionale in materia appaiono orientate a promuovere sistemi museali regionali, attraverso interventi diretti a regolare la fruizione e la valorizzazione dei beni presenti nelle istituzioni culturali non statali e a migliorare in termini qualitativi l’offerta dei servizi e favorire la condivisione reticolare di pratiche, risorse e strategie [29]. Ciò trova fondamento, innanzitutto, nella tendenza dei musei presenti sul territorio ad aggregarsi, attraverso l’integrazione di risorse e servizi, come dimostrano alcuni dati che mostrano come il 72% dei musei pubblici propende a “fare sistema”. Ma soprattutto, i recenti interventi regionali si ricollegano al processo di costruzione di un Sistema museale nazionale e, quindi, sono finalizzati a introdurre livelli uniformi di qualità per i musei presenti sul territorio regionale e promuovere la realizzazione di un Sistema museale regionale [30].

La realizzazione di un Sistema museale nazionale (SMN) è l’altro fattore di innovazione destinato ad incidere sul regime giuridico e sul contesto organizzativo e gestionale riguardante i musei pubblici non statali [31].

Il SMN, anche se è stato originariamente previsto dal d.p.c.m. 29 agosto 2014, n. 171, e successivamente disciplinato dai ricordati decreti ministeriali 23 dicembre 2014 e 21 febbraio 2018, trova un proprio fondamento soprattutto nell’art. 114 del Codice, e ne condivide gli obiettivi in termini di miglioramento degli standard qualitativi dei musei. Per il d.m. del 2014 (art. 7), infatti, il SMN ha due finalità principali: mettere in rete i musei italiani e promuovere l’integrazione dei servizi e delle attività museali. L’architettura istituzionale, poi, è stata disegnata in modo da connotarlo come sistema aperto e federativo. Infatti, il SMN è costituito in primo luogo da tutti i musei statali. Ma, sulla base di apposite convenzioni stipulate con il direttore del polo museale regionale territorialmente competente, può aderire al Sistema ogni altro museo di appartenenza pubblica o privata. Inoltre, il Sistema ha una dimensione nazionale, ma può articolarsi anche in sistemi museali regionali e sistemi museali cittadini.

In ogni caso, il governo del Sistema rimane fortemente ancorato al centro ministeriale, dato che i principali poteri di intervento sono riconosciuti al direttore generale Musei (chiamato a definire le modalità di organizzazione e funzionamento del SMN) e ai direttori dei poli museali regionali (ai quali spetta il potere di stipulare le convenzioni per le adesioni dei musei non statali e di promuovere la costituzione dei sistemi regionali e locali). Scelta comprensibile, ma che ha sollevato non pochi dubbi in dottrina, soprattutto perché sembrerebbe basarsi su di una concezione del SMN, inteso più come dinamica verticale di aggregazione al sistema statale degli altri musei pubblici, piuttosto che dinamica orizzontale di integrazione di differenti sistemi museali, in controtendenza, quindi, rispetto ad altre esperienze maturate in passato (ad esempio, il precedente d.m. 10 maggio 2001, contente l’ “Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei”) più sensibili alle esigenze di cooperazione istituzionale tra differenti livelli di governo [32].

Il più recente d.m. 21 febbraio 2018 ha cercato di rivedere alcune scelte di fondo, riconoscendo quantomeno una maggiore presenza delle istanze regionali e locali nelle sedi di governo del SMN e un maggiore coordinamento di quest’ultimo con gli altri sistemi museali. È stato, inoltre, rafforzato il collegamento tra il funzionamento del Sistema e il rispetto di un condiviso modello di museo, basato sull’accettazione di livelli uniformi di qualità. L’appartenenza al SMN, infatti, implica non più solo una mera adesione volontaristica da parte dei musei, ma soprattutto l’accettazione di un percorso di accreditamento basato sull’adeguamento della struttura a standard prefissati. Standard che non solo, per espressa previsione contenuta nell’art. 114, il ministero adotta insieme alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, ma che, come abbiamo visto, già le regioni stanno recependo al fine di promuoverne la diffusione all’interno delle realtà museali presenti nel territorio.

Se il processo di costruzione del SMN sarà portato a termine i musei pubblici non statali si troveranno ad essere molto simili ai musei statali. Tale risultato sarà il frutto non di una estensione di un regime giuridico a tutte le istituzioni museali pubbliche, ma del possibile allineamento di un intero settore, quello museale pubblico, rispetto ad un’idea di servizio pubblico culturale caratterizzata da una soglia minima di qualità. Del resto, nel settore museale, come in generale nel più ampio campo del patrimonio culturale, le trasformazioni e le innovazioni, più che l’egemonia di un modello, richiedono sempre la cooperazione e la convergenza nella diversità.

 

Note

[*] Lo scritto riprende, ampliandola, la relazione presentata al Convegno della Fondazione Cesifin, Le régime juridique des musées. Un dialogue italo - français, Firenze 24 e 25 gennaio 2020, ed è destinato al volume collettaneo che raccoglierà gli atti e che in corso di pubblicazione presso Il Mulino.

[1] Sottolineano tale aspetto T. Alibrandi e P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, Giuffrè, 1985, pag. 256, i quali ricordano come le leggi di soppressione di enti religiosi hanno devoluto le opere d’arte di conventi e monasteri a comuni e province “che si affrettarono a istituire musei e gallerie”. Cfr. anche A. Roccella, Manuale di legislazione dei beni culturali, Bari, Cacucci, 2017, pag. 22 ss. Non sono mancati, tuttavia, anche fenomeni di segno opposto, connotati da una dinamica “dispersiva del possesso pubblico degli oggetti soppressi”, riconducibile alla scelta di alcuni di enti locali di vendere i beni culturali ricevuti per far cassa, come ricorda A. Emiliani, Musei e museologia, in Storia d’Italia. I documenti. Istituzioni e società civile, XVIII, Torino-Milano, Einaudi-Il Sole 24 Ore, 1973-2005, pag. 1627.

[2] Cfr. K. Schubert, Museo. Storia di un’idea, Milano, Il Saggiatore, 2004, il quale segnala con riferimento al resto d’Europa e rispetto al periodo 1945-1970, che, non solo “dopo la Seconda guerra mondiale i musei europei furono abbandonati a se stessi, e molti - sia tra i politici sia tra il pubblico - li consideravano logori baluardi di aspirazioni e valori borghesi ormai compromessi” (62 s.), ma “il museo era tenuto sempre più ai margini del discorso culturale: un’istituzione sorpassata e ideologicamente sospetta” (66).

[3] Istat, I musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia, Indagine 2018 (pubblicata 2019).

[4] Registra il progressivo aumento del numero dei musei italiani e della loro differenziazione tipologica, M. Montella, Musei e beni culturali. Verso un modello di governance?, Milano, Mondadori Electa, 2003, pag. 191 ss., il quale sottolinea “piccoli e per lo più minuziosamente diffusi, insediati in edifici anche di notevole pregio ma raramente eclatanti, nati per necessità, comprensivi di raccolte eterogenee di quantità ridotta e rare di oggetti di famosa eccellenza, locali per origine e per destinazione istituzionale, intelligibili appieno solo in immediata continuità con l’ambiente fisico e storico di appartenenza alla luce del puntuale coincidere di memoria e paesaggio, giacché opportunamente significativi di quanto in ciascun ambito è avvenuto ed è stato prodotto e di tempo in tempo distolto, i musei italiani hanno fortemente patito dagli inizi del Novecento l’affermazione assoluta di una nozione di cultura monumentale ed estetizzante, nonché il declinante orgoglio dei municipi per le memorie della propria identità comunitaria e il completo accentramento nazionale della organizzazione amministrativa del paese” (193 s.).

[5] Così negli anni ’70 del secolo scorso, A. Emiliani, Musei e museologia, cit., pag. 1631, in termini molto critici, si esprimeva a proposito del fenomeno in questione: “oltre l’ottimismo delle cifre turistiche.. la maggior parte dei punti di interesse pubblico costituisce un deludente esempio di disservizio non solo conservativo, ma anche turistico, e ad essa può essere affidato un qualche senso, lo ripetiamo, solo stagionalmente e talvolta grazie a improvvisate gestioni locali”.

[6] Si fa riferimento a quanto sostenuto da F. Hartog, Il patrimonio, una nozione per i tempi di crisi, in Il Mulino, 2020, pag. 576, a proposito del passaggio “da un patrimonio governato dalla storia a un patrimonio destoricizzato e declinato in patrimonio culturale, etnologico, naturale, gastronomico, ecc.)”.

[7] In questi termini, V. Falletti e M. Maggi, I musei, Bologna, Il Mulino, 2012, pag. 75 ss.

[8] M. Ainis, Lo statuto giuridico dei musei, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998, pag. 396 s.

[9] Come sottolinea M. Cammelli, L’ordinamento dei beni culturali tra continuità e innovazione, in Aedon, 2017, 3.

[10] Come ampiamente segnalato dalla dottrina: tra i tanti G. Santaniello, Gallerie, pinacoteche e musei, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, XVIII, 1969, R. Juso, Pinacoteca e museo, in N.mo Dig. It., XIII, Torino, Utet, 1966, pag. 105 ss.

[11] La crescente importanza riconosciuta al museo e ad una sua concezione in termini istituzionali, è un punto segnalato con forza da G. Severini, Musei pubblici e musei privati: un genere, due specie, in Aedon, 2003, 2.

[12] In generale, sul ruolo e lo status giuridico dei musei pubblici in Italia, cfr. D. Jalla, Il museo contemporaneo, Torino, Utet, 2003.

[13] Parla di “poliformismo dei musei” G. Morbidelli, Introduzione, in I musei. Discipline, gestioni, prospettive, (a cura di) G. Morbidelli e G. Cerrina Feroni, Torino, Giappichelli, 2010, pag. 5.

[14] Al riguardo, cfr. G. Cerrina Feroni, Profili giuridici della gestione dei musei nelle esperienze del Regno Unito, Francia, Germania e Spagna, in I musei. Discipline, gestioni, prospettive, cit., pag. 81 ss.

[15] Sulla cooperazione necessaria pubblico-pubblico e pubblico-privato nel settore del patrimonio culturale, cfr. M. Cammelli, Cooperazione, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2020, pag. 295 ss.

[16] Come sottolineato da G. Severini, Musei pubblici e musei privati: un genere, due specie, cit., “Essendo un oggetto, il museo è organizzato dal soggetto cui appartiene, secondo i modi di questo: il che significa che, in principio, non ha uno status uniforme e tanto meno unitario”.

[17] Per un’analisi della riforma introdotta dal d.m. 23.12.2014, si rinvia a L. Casini, Il “nuovo” statuto giuridico dei musei italiani, in Aedon, 2014, e; e P. Forte, I nuovi musei statali: un primo passo nella giusta direzione, ivi, 2015, 1.

[18] Al riguardo, cfr. R. Cavallo Perin, Sub art. 114, in Commentario breve al testo unico sulle autonomie locali, (a cura di) R. Cavallo Perin e A. Romano, Padova, Cedam, 2006, pag. 671 ss.; G. Piperata, I servizi culturali nel nuovo ordinamento dei servizi degli enti locali, in Aedon, 2003, 3; G. Sciullo, I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002, ivi, 2002, 1.

[19] In generale sui modelli gestionali dei servizi pubblici locali, cfr. M. Dugato, I servizi pubblici locali, in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, (a cura di) S. Cassese, III, Milano, Giuffrè, 2003, 2ª ed., pag. 2581 ss.; sui modelli organizzativi dei servizi culturali, F. Liguori, I servizi culturali come servizi pubblici, in Federalismi.it, 2018, 1; F. Midiri, I servizi pubblici locali privi di interesse economico fra legislatore nazionale e giurisprudenza europea, ivi, 2017, 6 e G. Sciullo, La gestione dei servizi culturali tra Codice Urbani e Codice dei contratti pubblici, in Aedon, 2018, 1.

[20] M. Ainis e M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura, Milano, Giuffrè, 2015, pag. 405.

[21] F. Merusi, La disciplina giuridica dei musei nella Costituzione tra Stato e regioni, in I musei. Discipline, gestioni, prospettive, cit., pag. 23 ss.

[22] Per una puntuale analisi della disciplina codicistica sugli istituti e luoghi della cultura e sulla loro organizzazione e gestione si rivnia a L. Casini, Valorizzazione e gestione, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 221 ss.

[23] P. Marzaro, Nuove dinamiche nel sostegno e nella promozione dell’arte: i musei, in Aipda, Annuario 2018. Arte, cultura e ricerca scientifica, Napoli, Editoriale scientifica, 2019, pag. 169 ss.

[24] Sia consentito rinviare a G. Piperata, Sciopero e musei: una prima lettura del d.l. n. 146/2015, in Aedon, 2015, 3.

[25] Cfr. C. Barbati, La valorizzazione: gli artt. 101, 104, 107, 112, 115, 119, e G. Piperata, Servizi per il pubblico e sponsorizzazioni dei beni culturali: gli artt. 117 e 120, entrambi in Aedon, 2008, 3; M. Dugato, Fruizione e valorizzazione dei beni culturali come servizio pubblico e servizio privato di utilità sociale, in Riv. giur. urb., 2007; A. Police (a cura di), I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Milano, Giuffrè, 2008; D. Vaiano, La valorizzazione dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2011; G. Severini, Art. 6. La valorizzazione del patrimonio culturale, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2012, pag. 50 ss.; S. Gardini, La valorizzazione integrata dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2016, pag. 403 ss.

[26] Si tratta di dinamiche gestionali e organizzative nelle quali spesso il ruolo del privato è fondamentale: cfr. al riguardo, Patrimonio culturale e soggetti privati, (a cura di) A. Moliterni, Napoli, Editoriale scientifica, 2019.

[27] V. Falletti e M. Maggi, I musei, cit., pag. 95.

[28] Si v., ad esempio, la l.r. Lombardia12 luglio 1974, n. 39; la l.r. Veneto 5 settembre 1984, n. 50.

[29] Cfr., ad esempio, la l.r. Umbria, 22 dicembre 2003, n. 24, istitutiva del sistema museale dell’Umbria, la l.r. Piemonte 3 agosto 2018, n. 13, che riconosce gli ecomusei, o la l.r. Lazio, 15 novembre 2019, n. 24, in materia di servizi culturali regionali e di valorizzazione culturale.

[30] Ad esempio, la Regione Emilia-Romagna, con del. G.R. 10 settembre 2018, n. 1450, ha avviato un percorso di costituzione di un Sistema museale regionale, recependo il cit. d.m. 21 febbraio 2018, contenente i livelli minimi uniformi di qualità per i musei e i luoghi della cultura di appartenenza pubblica e la disciplina del sistema museale nazionale.

[31] Per un’analisi del percorso riformatore immaginato al fine di realizzare in Italia il Sistema museale nazionale, si rinvia a L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna. Il Mulino, 2016, pag. 172 ss.

[32] In questi termini, G. Sciullo, La riforma dell’amministrazione periferica, in Aedon, 2015, 1.

 

 



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