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La dimensione economica del patrimonio culturale

Dimensione economica e dimensione culturale europea [*]

di Alessia Ottavia Cozzi

Sommario: 1. Introduzione. - 2. I significati di dimensione economica. - 3. Spunti in tema di dimensione economica: le origini di una rinnovata attenzione; la nozione di patrimonio culturale in senso soggettivo e in senso oggettivo. - 4. (segue) e di bene materiale e immateriale. - 5. La funzionalizzazione economica della dimensione culturale europea. - 6. Una risposta articolata. - 7. Conclusioni.

Economic dimension and european cultural dimension
The paper aims at comparing the meaning of "economic dimension" of cultural heritage in the Italian and in the European legal framework. In the Italian framework the economic dimension deals mainly with public-private interactions to provide services concerning the cultural assets. On the other side, due to the economic crisis in recent years EU policies in the field of culture shift from cultural diversity and inter-cultural dialogue to industry and investment. Culture has been perceived as a key driver to growth and job creation. To encourage the economic development, the EU resorts to a variety of funding tools and soft law instruments, as the Cultural Open Method of Coordination. The rationale of those instruments could undermine the Italian Constitutional non-economic and social aims for the protection of cultural heritage. The paper argues that the EU cultural policies involve both non-economic and economic goals. Two examples are discussed: the Cultural and Creative Cities Monitor, a new Composite Indicator to track and assess data on culture; and the so-called Smart Specialisation Strategy on creative and cultural industries, introducing a conditionality clause for structural fund attribution. The conclusion is that the EU cultural policy does not oppose per se Constitutional principles. But the administrative nature of EU instruments often hides political choices, removing public debate and avoiding democratic control.

Keywords: European cultural heritage; Economic dimension; Social dimension; Cultural and creative industry.

1. Introduzione

Il 2018 è l'anno europeo del patrimonio culturale. Si tratta di una delle numerose iniziative della Commissione europea volte a sostenere la cultura [1]. La sua presentazione tradisce un fil rouge ricorrente negli atti e documenti dell'Unione europea che attengono più in generale alla dimensione sociale. Nella breve brochure dell'evento si sottolinea che il patrimonio culturale europeo è "fonte di crescita e di occupazione", è "determinante per gli scambi dell'Europa con il resto del mondo". Nell'indicare le ragioni della sua importanza per l'Europa, si mettono in primo piano (solo) i seguenti fattori: "300.000 persone sono impiegate nel settore del patrimonio culturale dell'UE; 7,8 milioni di posti di lavoro nell'UE sono indirettamente collegati al patrimonio culturale (ad esempio, interpretazione e sicurezza); i servizi ecosistemici forniti dalla rete Natura 2000 hanno un valore stimato di circa 200-300 miliardi di euro l'anno; per ciascun posto di lavoro diretto il settore del patrimonio culturale produce fino a 26,7 posti di lavoro indiretti, ad esempio nei settori dell'edilizia e del turismo. A titolo comparativo nel settore automobilistico questo rapporto è di 6,3 posti di lavoro indiretti per ciascun posto di lavoro diretto". Il patrimonio culturale europeo è, così, declinato in termini di lavoro, occupazione e crescita economica.

L'anno europeo costituisce un esempio di come la dimensione culturale dell'Unione europea sia presentata essenzialmente come motore di sviluppo economico. A partire da questo esempio, si vuole approfondire cosa si intenda per dimensione economica del patrimonio culturale europeo. Nella prima parte, per inquadrare lo stato dell'arte, si individuano alcuni significati di dimensione economica emersi in dottrina in relazione ai beni culturali, cercando di definirne la consistenza e i confini. Nella seconda parte, si esaminano alcune caratteristiche del diritto dell'Unione europea relative al patrimonio culturale, ponendo in evidenza le assonanze nell'approccio europeo alla dimensione culturale e alla dimensione sociale. La domanda di fondo attiene al se e in che misura la funzionalizzazione del patrimonio culturale allo sviluppo economico sia compatibile con la finalità personalista e sociale espressa dai principi costituzionali.

2. I significati di dimensione economica

Negli anni recenti il rapporto tra bene culturale e dimensione economica si è posto all'attenzione della dottrina per una pluralità di profili [2]. Ai fini del presente contributo, si possono distinguere due significati di dimensione economica. Una prima accezione ha ad oggetto i beni culturali ed è stata denominata valorizzazione economica. A sua volta, la nozione di valorizzazione economica è stata distinta in due tipologie. In un primo senso, si tratta del "valore generato e generabile per il bene culturale dall'incrocio tra l'offerta (di fruizione, di conoscenza, di immagine, di valore simbolico e identitario) e domanda turistica, industriale, commerciale e mass-mediatica, con gli effetti diffusivi sul contesto locale che ne discendono in termini di richiesta aggiuntiva di beni e servizi"; in un secondo senso, il concetto è riferito alla gestione "economica" del bene e della politica culturale, inteso come maggiore equilibrio tra costi e benefici [3].

Sempre con riferimento alla prima accezione, di dimensione economica correlata al bene culturale, altra parte della dottrina ha definito la dimensione economica come il valore economico generato dalla valorizzazione culturale e come l'utilità economica che il bene culturale è in grado di generare in occasione della sua fruizione. Si è detto che "il bene culturale ha una sua capacità economica in quanto non cosa-merce, ma proprio ... in quanto "bene di fruizione pubblica"", non importa se di titolarità pubblica o privata [4].

In questa prima accezione la dottrina tratta della dimensione economica come qualità intrinseca o proiezione del bene culturale, o ancora come attività che ha come oggetto e ricade sul bene culturale. La dottrina più recente non considera la valorizzazione economica come antitetica alle funzioni di tutela e valorizzazione culturale, ma anzi come loro specificazione, poiché la redditività avvantaggia sia la conservazione che la fruizione del bene [5]. In caso di eventuale contrasto tra potenziale redditività, tutela e valorizzazione, d'altra parte, il bilanciamento va ricercato in concreto ed è determinato dall'obiettivo della fruizione pubblica. La valorizzazione economica è, dunque, sempre subordinata alla valorizzazione culturale. Il suo fondamento costituzionale è stato rinvenuto nel principio del buon andamento, con l'effetto che la considerazione della dimensione economica prodotta o connessa alla tutela e valorizzazione dei beni culturali non dovrebbe essere più una valutazione opzionale, ma doverosa per i pubblici poteri [6].

Una seconda accezione di dimensione economica attiene, invece, alle attività imprenditoriali connesse in senso lato alla cultura. Essa comprende, in particolare, il turismo e i servizi connessi, per esempio ricettivi e di trasportistica, le attività economiche preordinate ad amministrare e mantenere il patrimonio storico-artistico, ma anche l'industria culturale (film, video, mass media, software, musica, libri e stampa) e l'industria creativa (architettura, comunicazione e branding, artigianato, design e produzione di stile, performing-art e arti visive) [7]. È su questo secondo significato che si concentra il presente contributo.

3. Spunti in tema di dimensione economica: le origini di una rinnovata attenzione; la nozioni di patrimonio culturale in senso soggettivo e in senso oggettivo

Alle origini della rinnovata attenzione per la dimensione economica dei beni culturali sono stati identificati diversi fattori. Alcuni hanno a che fare con l'evoluzione della tecnica, che costringe a ridelineare i concetti giuridici. Le innovazioni tecnologiche e la digitalizzazione hanno contribuito in maniera determinante a rompere l'unità di luogo del bene culturale e a scindere la materialità della res dalla sua immagine, in grado di circolare e di diffondersi nel web nei modi e con i fini più diversi [8]. Un secondo elemento - questo di certo non nuovo - attiene alla scarsità di risorse pubbliche per adempire agli obblighi di tutela e valorizzazione che la Costituzione pone in capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni [9]. Questa constatazione ha portato, secondo alcuni, ad un cambio di paradigma per cui la proprietà privata e la libertà d'impresa non sono necessariamente viste in chiave oppositiva rispetto alla tutela e valorizzazione del patrimonio pubblico, bensì, esattamente al contrario, in chiave cooperativa e solidale [10]. Tracce di questo mutamento sono già normativamente presenti nel Codice dei beni culturali e nello stesso senso vanno certamente la disciplina degli incentivi fiscali e delle sponsorizzazioni [11].

La dimensione economica in senso ampio, invece, estesa alla industria culturale e alla industria creativa, è sempre più oggetto di attenzione dell'Unione europea. Prima di approfondire il tema merita, tuttavia, precisare che la bipartizione tra dimensione economica in senso stretto − legata all'utilità economica generata o connessa al bene culturale, o meglio alla sua organizzazione − e dimensione economica in senso ampio − intesa come potenzialità di crescita economica derivante dalle imprese culturali e creative − è già emersa in dottrina sotto altri profili e attraverso l'utilizzo di altre categorie giuridiche. Il fenomeno è stato rilevato, per esempio, nell'ambito della definizione di patrimonio culturale in senso soggettivo e in senso oggettivo, come pure nella distinzione tra beni culturali materiali e immateriali.

Nell'ambito della nozione di patrimonio culturale in senso soggettivo, si è osservato che al sistema istituzionale policentrico costituito da Stato, Regioni, enti locali, università e altri soggetti pubblici si sono affiancati soggetti privati con e senza scopo di lucro, tra cui le nuove imprese sociali. L'impresa compare così tra i soggetti che cooperano per l'esercizio di funzioni tradizionali di carattere pubblicistico [12].

Dal punto di vista oggettivo, inoltre, è da tempo acquisito che il perimetro della disciplina si sia ampliato rispetto a quanto definito dal Codice dei beni culturali. L'oggetto della materia tocca, al di là dei beni indicati dal Codice, altre attività, tra cui anche l'industria culturale e l'industria creativa [13].

Proprio l'estensione in senso oggettivo della disciplina è stata considerata come uno dei maggiori effetti dell'influenza di convenzioni internazionali e dell'ordinamento europeo [14]. In realtà, l'esistenza di altri "beni culturali" al di fuori delle res tutelate dalle leggi di settore è emersa da tempo indipendentemente dall'influenza del diritto internazionale ed europeo [15]. Si ritiene che appartengano, infatti, al patrimonio culturale anche le opere letterarie o scientifiche [16] e le "attività-beni culturali" meritevoli di altre forme di azione pubblica diverse dalla tutela della res. Si tratta di un dato acquisito nella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui la nozione di bene culturale è aperta, cosicché al di fuori della disciplina statale di settore le comunità regionali e locali possono riconoscere ad altri "beni" valore storico o culturale, senza che ciò comporti la loro qualificazione ai sensi del Codice e il conseguente assoggettamento agli istituti di tutela e valorizzazione [17]. Parte della dottrina, anzi, ha diversificato il parametro costituzionale, rinvenendo l'oggetto della tutela dei beni culturali come res nell'art. 9, comma 2, Cost., e l'oggetto della tutela di beni immateriali come le opere dell'ingegno o le invenzioni industriali nell'art. 9, comma 1, Cost., da cui la legittima diversità delle rispettive discipline [18]. Di fondo, la necessità di una diversa disciplina delle cose dell'arte, delle attività culturali meritevoli essenzialmente di promozione e incentivazione, delle opere sottoposte al diritto d'autore o della proprietà intellettuale, è stata ricondotta al diverso assetto del bilanciamento tra libertà e coazione, tra art. 9 e libertà di arte e scienza ex art. 33, comma 1, Cost. [19].

4. (segue) e di bene materiale e immateriale

Da un'altra prospettiva, sempre in una chiave diversa dall'influenza dell'ordinamento europeo, la (ri)emersione di una dimensione economica ha interessato la dicotomia tra beni materiali e beni immateriali. La dottrina ha individuato cinque definizioni di bene immateriale, distinguendo tra immaterialità intrinseca ed estrinseca alla res [20]. L'immaterialità intrinseca risale alla tesi di Giannini sul valore immateriale del bene, che sovrasta e domina la res e che con essa pure si compenetra [21]. È immaterialità estrinseca, invece, quella della disciplina delle sponsorizzazioni ex art. 120 Codice e di alcune disposizioni del Codice dei contratti pubblici. Essa attiene non alla res in sé, ma al valore-culturale identitario che da essa promana verso l'esterno. Una terza nozione attiene alla dematerializzazione della res che consegue alla riproduzione della sua immagine e alla sua pubblicazione attraverso strumenti mediatici, cui si è già accennato. Anche in questo caso si ha una forma di immaterialità estrinseca, che pone diversi interrogativi: la necessità di autorizzazione per la riproduzione, la identificazione dei destinatari della fruizione, la titolarità dei diritti e i limiti di utilizzazione economica [22]. Una quarta forma di bene immateriale è il marchio che l'art. 19, comma 3, Codice della proprietà industriale consente di registrare allo Stato, alle Regioni e agli enti locali per gli "elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del relativo territorio". Infine, un'ultima declinazione di bene culturale immateriale è stata definita come "la percezione che nasce da una rete di beni culturali immateriali, identificabili in una città, in un territorio, in un borgo antico o meglio nella espressione "sublimata" di tali entità fisiche", una visione dunque "impressionistica" che interseca beni culturali e beni che non sono culturali [23].

Accanto a queste declinazioni, che in maniera più o meno intensa presuppongono una materialità di cui l'immaterialità è proiezione intrinseca o estrinseca, la dottrina ha definito "veri" beni immateriali le fiabe, i giochi, i canti popolari e le feste patronali, i cibi e i costumi atavici, ossia "attività o meglio testimonianze di antiche e sentite pratiche, dalla festa del patrono al proverbio, dalla rievocazione di antichi palii alla preparazione di un cibo, dalla sagra alla processione religiosa". Si tratta di attività tutelate dalle Convenzioni Unesco del 2003 e del 2005 che non presuppongono una materialità e che pure sono state recepite nell'art. 7-bis del Codice dei beni culturali, come espressioni di identità culturale collettiva, nella circoscritta ipotesi in cui "siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'art. 10", confermando così che la tutela del Codice è limitata a beni che si esprimano in una res [24]. I beni immateriali nel loro senso proprio si caratterizzano, perciò, per la loro "evanescenza" e "precarietà", che ne rende incerta innanzitutto l'identificazione [25].

Sia il dibattito sulla definizione di patrimonio culturale in senso soggettivo e in senso oggettivo, sia la categoria dei beni culturali immateriali hanno richiamato nella dottrina e nella giurisprudenza interne una attenzione alla valenza economica del patrimonio culturale. Ci si chiede, perciò, se tale valenza e quella che si ricava da atti e documenti dell'Unione europea coincidano. La risposta è complessa, in quanto lo stesso diritto dell'Unione europea non tratta del patrimonio culturale in un'unica monolitica accezione [26]. Sono noti e risalenti nel tempo atti di hard law che hanno disciplinato forme di tutela dei beni culturali in senso stretto, per esempio in materia di restituzione dei beni illecitamente esportati [27]. Pure, il diritto dell'Unione ha fatto proprie alcune definizioni di bene immateriale nel senso delle Convenzioni Unesco, come manifestazione di civiltà, a prescindere da qualsivoglia valenza economica. Tuttavia, vi è una crescente tendenza del diritto europeo, specie attraverso forme di soft law, a privilegiare e incentivare una lettura del patrimonio culturale in senso ampio indirizzata allo sviluppo economico, come volano di crescita e occupazione. È su questo aspetto che ci si sofferma di seguito.

5. La funzionalizzazione economica della dimensione culturale europea

Si è già accennato al fatto che le azioni europee relative al patrimonio culturale comprendono (anche) un oggetto, il sistema industriale, e hanno una finalità, lo sviluppo economico, che potrebbe apparire estraneo alla nostra tradizione costituzionale. La proclamazione dell'anno europeo del patrimonio culturale, con cui si è aperto il presente contributo, ne costituisce un esempio. La dottrina ha già ben evidenziato, tuttavia, che il nesso tra patrimonio culturale e dimensione economica non appare sin dalle origini connaturato alle azioni dell'Unione, bensì frutto di un nuovo approccio verso cui la Commissione europea si è spinta in modo netto dal 2014. Si è osservato che a partire dal 1992, con il Trattato di Maastricht e l'introduzione della cittadinanza europea, le azioni dell'Unione in materia culturale apparivano strumentali alla costruzione di un demos europeo. Dal 2014, invece, la tutela e la promozione del patrimonio europeo diventano marcatamente funzionali allo sviluppo economico [28]. In particolare, l'Unione ha fatto ricorso negli anni a diversi programmi (Caleidoscopio, Cultura 2000, Cultura 2007, tutti ora assorbiti dal programma Europa Creativa, istituito con regolamento 1295/2013/UE e con operatività dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2020) e ai fondi strutturali, strumenti finanziari gestiti dalla Commissione europea per progetti che perseguono la coesione economica, sociale e territoriale, e che costituiscono il principale strumento delle politiche europee di investimento [29].

A titolo di esempio, nell'ambito del programma Europa creativa, nel periodo 2014-2010 sono stati stanziati attraverso il fondo di coesione circa sei miliardi di euro per i settori culturali e creativi e il patrimonio culturale. Altri finanziamenti, per 4,4 miliardi, sono passati tra il 2007 e il 2013 per i programmi di sviluppo regionale e rurale. Entro i bandi di Horizon 2020 nel periodo 2018-2019 saranno messi a disposizione cento milioni di euro per la ricerca in materia di patrimonio culturale. Alla luce di questi dati, la dottrina si è espressa criticamente sulla sola funzionalizzazione dei beni cultuali a logiche di mercato e ha parlato di "industrial turn" [30].

Ebbene, gli strumenti di soft law utilizzati e le dottrine sottintese, che presuppongono una funzionalizzazione economica, sono affini a quelli impiegati per il complesso della dimensione sociale europea, nella misura in cui intendono - o per lo meno presentano innanzitutto − il patrimonio culturale come veicolo di progresso economico. La dimensione sociale europea è data dallo stratificarsi nel tempo di norme primarie dei Trattati, diritto secondario e giurisprudenza della Corte di giustizia che hanno agito principalmente attraverso il diritto antidiscriminatorio [31]. È ampiamente dimostrato in dottrina sia da coloro che ne danno un giudizio critico, sia da coloro che adottano una visione più storicizzata, che all'origine dei Trattati il progresso sociale fosse inteso come una conseguenza naturale e fisiologica del progresso economico [32]. Pur avendo inserito chiari obiettivi sociali nei Trattati, ancora oggi, e nonostante la crisi economica, l'Unione europea fatica a trovare un linguaggio e strumenti che riescano a dare autonomia e pari dignità alla dimensione sociale rispetto a quella economica, perseverando in una visione accessoria della dimensione sociale [33]. Lo stesso approccio pare pervadere la dimensione culturale che, d'altra parte, non è che un aspetto della dimensione sociale. Non stupisce, perciò, che i modelli concettuali e gli strumenti normativi siano i medesimi [34].

Per vero, anche di recente le istituzioni europee si sono date l'obiettivo di adottare atti di hard law che prescindono da interessi prettamente economici, per esempio in materia di opere letterarie e diritto d'autore [35], ma viene da chiedersi se si tratti di iniziative politiche residuali rispetto alla preponderante importanza, anche alla luce degli importi a ciò destinati, delle forme di incentivazione e promozione di carattere economico connesse ai fondi strutturali.

La domanda di fondo è, dunque, se, pur nella varietà di elementi che emergono dagli atti e documenti dell'Unione, la tendenza recente a una valorizzazione dell'aspetto economicistico della dimensione culturale, il suo linguaggio e gli schemi concettuali che sottintende abbiano una forza pervasiva e assorbente tale da occultare la dimensione non-economica, personalista e di emancipazione sociale, che rappresenta la radice e vera essenza della cultura nelle tradizioni costituzionali comuni. Il punto è che "l'interesse culturale come tale non è patrimoniale" e che la cultura, o meglio i beni culturali come strumento di cultura, sono tutelati dall'art. 9 Cost. in quanto beni personalistici e sociali [36]. Ancora, che gli articoli 41 e 42 Cost. condizionano l'iniziativa economica privata e la proprietà all'utilità e funzione sociale. Di qui l'interrogativo se esista una incompatibilità tra la funzionalizzazione economica del patrimonio culturale praticata dall'Unione europea negli ultimi anni e i principi e le azioni che la Costituzione impone a tutti soggetti della Repubblica.

6. Una risposta articolata

In un famoso saggio del 1937 sul rapporto tra l'arte e lo Stato, Keynes affermava con chiarezza che "l'ideale utilitarista ed economico - si potrebbe quasi dire finanziario" come funzione predominante dello Stato e come unico proposito della comunità nel suo complesso costituiva "la più orrida eresia ...che abbia mai raggiunto l'orecchio di un popolo civile...Ci siamo convinti che è assolutamente perverso per lo stato spendere un centesimo per scopi non economici". Il saggio rivendicava, invece, l'obbligo di finanziamenti pubblici e, dunque, il ruolo fondamentale dello Stato per la conservazione dei monumenti nazionali, in quanto espressione della dignità, della bellezza e dello spirito delle generazioni, così come l'importanza degli spettacoli e dell'arte come riconoscimento della dignità del lavoro degli individui e insieme strumento per sentirsi parte di una comunità: "tali attività non possono essere portate a compimento se dipendono dal motivo del profitto e del successo finanziario" [37].

Se la dimensione economicistica avesse l'effetto di piegare le politiche pubbliche destinate alla cultura al solo fine dello sviluppo economico, entrerebbe in contrasto con i principi costituzionali italiani e, si crede, con le stesse tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri [38]. Affermare, tuttavia, che le azioni europee considerino la dimensione culturale come mero motore di sviluppo economico è, a nostro avviso, semplicistico. Due sono i profili che preme mettere in rilievo: in primo luogo, numerosi atti e documenti europei indicano come la nozione europea di patrimonio culturale prescinda dalla considerazione dello sviluppo economico in senso esclusivo; in secondo luogo, l'industria culturale e creativa costituisce, in realtà, un sotto-settore materiale di politiche più ampie attinenti alla ricerca e allo sviluppo [39].

Sotto il primo profilo, un esempio della varietà di elementi presi in considerazione negli atti e documenti europei dedicati alla cultura è dato da un indicatore numerico complesso promosso nel 2017 dalla Commissione europea e dedicato alle città culturali e creative [40]. L'indicatore, denominato The Cultural and Creative Cities Monitor (Indicatore delle città culturali e creative), è stato pensato per supportare le politiche pubbliche, in particolare locali, in materia di cultura, fornendo un'analisi aggregata di 29 sotto-indicatori e rendendo comparabili e coordinati dati tratti da numerose fonti europee, nazionali e locali. Comprende allo stato 168 città europee con più di 50.000 abitanti selezionate in quanto ospitano eventi o festival culturali di carattere internazionale. Di esse l'indicatore misura diversi aspetti. Vero è che la nozione di "città creativa" deriva dalla letteratura economica [41] ma, per ciò che qui rileva, la "economia creativa", intesa come insieme di dati relativi agli occupati e alle industrie del settore culturale, costituisce solo una delle quattro dimensioni analizzate dall'indicatore. Le altre dimensioni attengono alla vita culturale in senso stretto, analizzando per esempio il numero di teatri, di cinema, di spettacoli dal vivo, di mostre, la partecipazione e la provenienza del pubblico. Si considerano, inoltre, la presenza di università e di scuole di alta formazione, il numero di residenti stranieri, il numero di laureati stranieri, o ancora elementi quali le infrastrutture e i collegamenti con altri centri [42]. L'indicatore ha ovviamente una valenza conoscitiva e non prescrittiva [43].

Ciò che si vuole evidenziare è che gli elementi conoscitivi posti alla base dell'indicatore comprendono e danno ampio spazio a fattori che, secondo le nozioni del nostro diritto interno, chiameremo beni e attività culturali, e alle funzioni pubbliche di tutela, valorizzazione, fruizione, incentivazione diretta e indiretta [44].

Sotto il secondo profilo, ossia l'ampiezza dei settori coinvolti, l'industria culturale e creativa costituisce l'oggetto di una delle cosiddette "Smart Specialisation Strategies" promosse a livello europeo negli ultimi dieci anni per indirizzare le politiche regionali. In questo contesto, le politiche culturali rappresentano una frazione, un frammento, di più complesse politiche europee che attraversano trasversalmente i più svariati settori materiali e incidono su diversi livelli di governo. Esse prescindono dal riparto di competenze interno alla Repubblica, non utilizzano le tradizionali fonti di hard law, agiscono in forma facoltizzante e non obbligatoria, poggiano su meccanismi incentivanti e premiali e non sanzionatori. La loro efficacia deriva dal carattere di condizionalità, ossia dal fatto che l'adeguamento agli indirizzi che esse privilegiano è condizione per l'erogazione dei fondi strutturali. Proprio questi elementi comportano che gli studi giuridici facciano fatica a inquadrarle e a decodificarne gli effetti, mentre altre discipline, e in particolare gli studi economici, da tempo vi si dedicano [45]. Conviene, dunque, procedere a un breve inquadramento di queste politiche europee.

Il concetto di Smart Specialisation Strategy (di seguito anche S3) è anch'esso tratto dalla letteratura economica ed è diventato negli anni duemila uno strumento particolarmente incisivo per la destinazione e gestione dei fondi strutturali da parte della Commissione europea. Esso può essere descritto come una "cascata di programmazioni", con l'obiettivo di ottenere un utilizzo più efficiente dei fondi strutturali e un coordinamento tra politiche regionali e nazionali, evitando frammentazione, ripetitività e sovrapposizioni [46]. A livello europeo, la nuova programmazione delle Politiche di Coesione 2014-2020 ha previsto come condizione ex ante per l'utilizzo dei fondi europei che le autorità nazionali e regionali definissero strategie di ricerca e innovazione per la "specializzazione intelligente". Più precisamente, protagoniste della Smart Specialisation Strategy sono le Regioni, che devono individuare con propri programmi i settori produttivi del territorio più avanzati e con maggiore possibilità di sviluppo nel quadro economico globale. Lo scopo è selezionare un numero limitato di settori, in cui concentrare il potenziale di crescita. I programmi regionali devono definire obiettivi, tempi di attuazione, fonti di finanziamento pubblici e privati necessari e disponibili. Prevedere, inoltre, strumenti di monitoraggio e di valutazione ex post attraverso la costruzione di indicatori di risultato. Essi sono a loro volta inseriti nel quadro di programmi operativi nazionali.

Le strategie investono nel panorama europeo i settori più vari, per esempio l'approvvigionamento e il risparmio energetico, la biofarmaceutica, l'ingegneria ambientale, il turismo, i trasporti, l'urbanistica, le produzioni agroalimentari delle aree rurali meno sviluppate, il settore digitale, la riconversione industriale. L'obiettivo specifico della politica di programmazione della Smart Specialisation non è individuare un settore nuovo all'avanguardia, ma un settore in cui vi siano radicate competenze locali e insieme ampi e consistenti margini di miglioramento derivanti appunto da modifiche al prodotto o al processo o all'organizzazione. Ciò che distingue la Smart Specialisation Strategy da altre politiche pubbliche di investimento è proprio il fatto di non attenere ad un settore specifico, ma di puntare alla ricerca, sviluppo e innovazione a prescindere dal settore materiale interessato. In secondo luogo, la Smart Specialisation si distingue da forme di programmazione pluriennale perché, almeno in linea teorica, dovrebbe poggiare sulla libera iniziativa economica privata, dunque sulle competenze e gli indirizzi già autonomamente espressi dal tessuto imprenditoriale esistente. Compito dell'azione pubblica dovrebbe essere quello di individuare le propensioni dell'imprenditoria e di sostenerle, ma non necessariamente in via diretta, bensì in via indiretta tramite l'istituzione di scuole di formazione specialistica, di tirocini, di incentivi per l'acquisto di nuove tecnologie o per la diffusione delle nuove tecniche utilizzate.

Ai nostri fini, la S3 italiana rileva perché tra le dodici aree tra le quali le Regioni hanno potuto individuare i propri settori di specializzazione vi sono "Design, creatività e Made in Italy" e "Tecnologie per il Patrimonio culturale". Inoltre, tra le cinque aree a livello nazionale, cui sono riconducibili le specializzazioni regionali, è presente l'area "Turismo, Patrimonio culturale e industria creativa" [47]. Nella definizione di queste aree si ritrova il riflesso esatto di quella nozione ampia di dimensione economica del patrimonio culturale di cui si è detto nei paragrafi precedenti. Essa comprende le industrie culturali, definite come attività collegate alla produzione di beni strettamente connessi alle attività artistiche ad elevato contenuto creativo (cinematografia, televisione, editoria, industria musicale); le industrie creative, ossia attività produttive che esplicano funzioni aggiuntive rispetto all'espressione culturale in sé (in particolare architettura, comunicazione, branding e attività del Made in Italy, artigianato e enogastronomia); la gestione, intesa come conservazione e fruizione, del patrimonio storico-artistico-architettonico; le arti visive e spettacoli, definite come "attività che per loro natura non si prestano ad un modello di organizzazione di tipo industriale" perché attengono a beni non riproducibili oppure a beni fruibili solo attraverso una partecipazione diretta. In termini economici, il sistema produttivo culturale è inteso come l'insieme delle tre componenti di impresa, istituzioni pubbliche e no profit. La funzionalizzazione allo sviluppo economico è chiaramente esplicitata nella finalità dell'area Turismo, Patrimonio culturale e industria creativa, ed è individuata nella "creazione di nuove opportunità di crescita economica" [48].

Ma, come si accennava, queste politiche involgono il patrimonio culturale, inteso anche come industria della cultura, al pari di altri settori materiali, poiché il loro focus non è specificamente un determinato settore, bensì la promozione degli strumenti di ricerca e sviluppo per migliorare l'occupazione e la crescita economica. Si vuol dire che l'Unione europea, in queste politiche, non persegue specifiche finalità proprie e intime della cultura, ma attrae alle dinamiche della crescita il settore dell'industria culturale al pari di altri.

7. Conclusioni

Conviene riprendere la domanda di ricerca proposta, se un approccio alla dimensione culturale che privilegi strumenti destinati all'impresa si riveli incompatibile con i principi costituzionali. Guardando ai principi che guidano l'impiego dei fondi strutturali europei e alle finalità "di sistema" cui essi rispondono, merita innanzitutto ricordare che essi mirano non allo sviluppo economico in quanto tale, bensì alla coesione sociale. Crescita e occupazione in altre parole, sono (o meglio dovrebbero essere, stando alla stessa denominazione dei fondi) mezzi, e non obiettivi in sé. La finalità di fondo dovrebbe essere quella di rimediare a condizioni di svantaggio sociale. Rispetto a questa finalità, il forte limite è costituito da una visione che guarda solo alla parte attiva e produttiva della società, in una chiave individualistica dei meriti e delle responsabilità, mentre non trovano risposta l'aspirazione alla dignità e emancipazione di soggetti estranei al tessuto produttivo, né la dimensione di appartenenza e responsabilità collettiva, che invece sono ben presenti nel tessuto costituzionale. Questo il limite di fondo delle finalità sottese a tali politiche.

Se si guarda al loro reale impatto, poi, non vi è una risposta certa, perché il giurista fatica a trovare strumenti per valutarne l'effettiva influenza sulle politiche pubbliche regionali e nazionali. A quanto consta, è ancora oggi incerto il grado di correlazione tra gli indirizzi adottati a livello europeo e le politiche nazionali e regionali, che spesso li travisano o li recepiscono solo in parte, strumentalizzandoli in funzione di esigenze locali. In assenza di strumenti di conoscenza e di analisi, è difficile esprimere un giudizio sulla loro reale efficacia rispetto alle finalità perseguite.

Possono, tuttavia, essere riprese alcune considerazioni sulle politiche europee formulate in dottrina in termini più generali, considerazioni che a nostro avviso si adattano anche alle azioni relative al patrimonio culturale. Il punto di debolezza delle misure condizionali correlate ai fondi strutturali è indubbiamente il fatto di rendere meno visibile la natura "politica" delle scelte poste alla base delle destinazioni di fondi, attestandosi su un livello prettamente amministrativo e, dunque, su un piano di pretesa neutralità, mentre esse comportano l'impiego di significative risorse pubbliche dirette e indirette [49]. Questa tendenza alla amministrativizzazione è stata considerata il risultato, in realtà, di una serie di movimenti profondi che risalgono alla strutturazione dell'assetto delle società e alla percezione che gli individui hanno di se stessi e del loro ruolo sin dalla fine degli anni ottanta e già a livello degli Stati nazionali. Si è osservata, così, la tendenza all'autoreferenzialità dei saperi tecnici che governano le diverse istituzioni pubbliche, scolastiche, sanitarie, assistenziali, burocratizzandole e tecnicizzandole; l'attribuzione al sapere economico di una funzione strategica; l'appiattimento dell'identità dei cittadini sulla dimensione mercatistica, come cittadini consumatori. Sono questi i fattori che avrebbero condotto a una depoliticizzazione e tecnicizzazione delle questioni pubbliche, sottraendole alla sfera della politica, dunque del conflitto tra visioni diverse che esprimono interessi contrastanti [50].

In conclusione, la dimensione culturale europea si caratterizza per una articolazione composita di oggetti e azioni, non tutti riferiti a una funzionalizzazione economica, ma comprendenti elementi identitari volti alla tutela della memoria, del pluralismo, del dialogo e alla protezione della diversità. I suoi caratteri compositi portano ad escludere che essa di per sé entri in collisione con i caratteri personalistici e di emancipazione sociale sottesi alla promozione della cultura e del patrimonio storico e artistico della Costituzione italiana. Tuttavia, la recente marcata propensione a privilegiare azioni che intendono la cultura in chiave di investimento e di motore di sviluppo economico conferma la più generale tendenza alla tecnicizzazione e depoliticizzazione delle azioni europee. Guardando alla disciplina dei fondi di finanziamento europei destinati alla cultura, la natura prettamente amministrativa dei procedimenti di programmazione, assegnazione e controllo dei finanziamenti tende a occultare il grado di politicità che la scelta tra diverse priorità, e in definitiva tra diversi modelli di società, comporta [51]. L'impressione è incrementata dal linguaggio stesso utilizzato in alcuni documenti europei di soft law, che prediligono la semplificazione acritica dei concetti, proposti in maniera "astorica", non problematizzata e priva di considerazioni di sistema. Questo modo di presentare i temi trattati occulta scelte e definizioni di priorità che vengono comunque effettuate, ma le sottrae alla consapevole valutazione del circuito democratico e al suo controllo.

 

Note

[*] Ringrazio per l'aiuto nell'esame di dati statistici e per l'inquadramento della letteratura economica i colleghi dell'istituto ricerche di Area Science Park Ilaria Gandin, matematica, e Claudio Cozza, economista dell'innovazione. Ogni errore resta nella mia esclusiva responsabilità.

[1] L'anno europeo del patrimonio culturale è stato istituito con decisione n. 2017/864 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2017.

[2] Sui recenti studi economici, sociologici, di scienza dell'amministrazione e dell'organizzazione in merito al rapporto tra bene culturale e economia, G. Morbidelli, Introduzione, in L'immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli, A. Bartolini, Quaderni Cesifin. Nuova serie, Torino, Giappichelli, 2016, pag. 1 ss., spec. pag. 2, che apre il contributo ricordando che il tradizionale self restraint nell'accostare cultura e economia era già stato stigmatizzato da Francesco Santoro Passarelli, I beni della cultura secondo la costituzione, in Studi per il XX anniversario della Assemblea Costituente, Roma, 1969, pag. 429 ss., per cui il bene culturale era oggetto "da tenere al riparo dal contatto con la vita" e in particolare con il mercato. R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e paesaggistici, Milano, Giuffré, 2014, pagg. 359-360, nel far risalire alla legge 2 agosto 1982, n. 512, sul regime fiscale agevolato per i beni d'interesse culturale, un mutamento di paradigma dello Stato nei confronti del contributo dei privati, vi riconosceva il superamento della tradizione di "radicale divorzio, distacco o comunque netta separazione fra cultura ed economia" tipica del sistema italiano e non presente in altri ordinamenti. G. Severini, L'immateriale economico dei beni culturali, in Aedon, 2015, 3, pag. 2, invoca il "ritorno (silenzioso) dell'economico esiliato", il cui esilio è dipeso dal fatto che lo statuto pubblicistico delle cose dell'arte nacque storicamente come restrizione al diritto di proprietà e all'uso individuale dei beni.

[3] M. Cammelli, Strumenti giuridici della valorizzazione economica del patrimonio monumentale, in Atti del Convegno "La valorisation économique des biens culturels locaux en France et en Italie", Toulouse, 21 novembre 2014, in Aedon, per cui rientrano tra gli strumenti finanziari di valorizzazione economica l'otto per mille, il lotto, i fondi ad hoc della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il fondo per gli edifici di culto, le sponsorizzazioni, il mecenatismo d'impresa e le erogazioni liberali; tra gli strumenti gestionali il partenariato contrattuale, l'affidamento di servizi aggiuntivi ex art. 117 Codice dei beni culturali, il project financing, gli accordi di valorizzazione, i programmi unitari di valorizzazione dei beni demaniali - PUV, la concessione o locazione. L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 3, pagg 651-707, spec. pag. 672 ss., distingue le forme di coinvolgimento dei privati nella valorizzazione in funzione del regime proprietario dei beni: sui beni privati esenzioni fiscali o contributi finanziari per incentivare il restauro del patrimonio storico-artistico; sui beni pubblici servizi aggiuntivi, sponsorizzazioni e erogazioni liberali.

[4] G. Severini, L'immateriale economico dei beni culturali, in Aedon, 2015, 3, pag. 5, 7, per cui la valorizzazione in senso economico non riguarda in realtà il bene culturale in sé, ma l'organizzazione che lo gestisce, seguendo S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, pag. 673.

[5] Sulla "contaminazione" tra patrimonio culturale e crescita socio-economica G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare - una spesa, un investimento, in Aedon, 2017, 3, pag. 1, a partire da L. Bobbio (a cura di), Le politiche dei beni culturali in Europa, Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 185, in tema di riconoscimento dei beni culturali, sin dalle politiche degli anni '80, non solo come costo in termini di tutela, ma anche come fattore di sviluppo dei territori e di crescita economica. Sulla valorizzazione in generale T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, IV ed., Giuffré, Milano, 2001, pag. 417 ss., spec. pag. 422 ss.; per una classificazione dei tipi attività compresi nella valorizzazione in funzione dell'oggetto, dell'ambito di intervento, dei soggetti e dei procedimenti amministrativi, L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, cit., pag. 694 ss., anche in rapporto alla gestione imprenditoriale dei beni culturali, 668 ss., e ora Id., Valorizzazione e gestione, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Il Mulino, Bologna, 2017.

[6] G. Morbidelli, Introduzione, cit., pagg. 6-7; G. Severini, L'immateriale economico dei beni culturali, cit., pag 6 e 11. Per M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, in Trattato di Diritto Amministrativo, (a cura di) S. Cassese, Tomo Secondo, II Ed., Milano, 2003, 1449-1511, spec. 1479, la valorizzazione economica è una specie della valorizzazione culturale strettamente correlata all'incremento della qualità economica del bene mediante l'assicurazione di maggiori entrate finanziarie; "tuttavia ripugnerebbe alla nozione di cultura fatta propria dalla Carta costituzionale un'idea di valorizzazione finalizzata al mero incremento economico del bene. Infatti, la nozione di valorizzazione ammessa da un ordinamento democratico e pluralistico come il nostro è, per così dire, circolare; parte dalla fruizione e a quest'ultima, comunque, deve tornare. Perché l'aumento della domanda di accesso ai beni culturali, lo sviluppo dei servizi aggiuntivi, l'incremento delle sponsorizzazioni, rappresenta sì un profitto, ma vincolato alla maggiore offerta del bene culturale, in altri termini alla più ampia fruizione".

[7] È questo il significato più ampio di dimensione economica utilizzato da G. Morbidelli, Introduzione, cit., pag. 2 e 6, che non a caso richiama atti dell'Unione europea, per esempio la decisione del Parlamento e del Consiglio 1622/2006/CE istitutiva della capitale europea della cultura, per descrivere l'emergere di una vera e propria "politica industriale per la cultura" e riferire la dimensione economica all'insieme delle potenzialità di crescita economica derivanti dall'investimento in cultura.

[8] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche, (a cura di) A. Bartolini, D. Brunelli, G. Caforio, Napoli, Jovene editore, 2014, pagg. 171-188, spec. pagg. 174-179, con ampi rinvii a G. Resta, L'immagine dei beni, in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, (a cura di) G. Resta, Torino, Giappichelli, 2011, pag. 550 ss.; M. Cammelli, L'ordinamento dei beni culturali tra continuità e innovazione, in Aedon, 2017, 3, pagg. 1-7, spec. pag. 2, secondo cui la novità non consiste nella "immaterialità", ma nella "dematerializzazione" come possibilità illimitata di riproduzione svincolata dalla materialità, con una duplice conseguenza: la lesione del bene può essere lesione materiale della res, ma anche uso distorto dell'immagine; una autonoma e crescente valorizzazione economica si aggiunge alla tradizionale valorizzazione culturale. Già l'art. 153, comma 3, lett. e), d.lgs. 112 del 1998, con lungimiranza, poneva in capo allo Stato, alle Regioni e agli enti locali attività volte allo "sviluppo delle nuove espressioni culturali ed artistiche e di quelle meno note, anche in relazione all'impiego di tecnologie in evoluzione".

[9] Sull'imperativo comune agli orientamenti legislativi sin dagli anni ottanta volto ad assicurare la valorizzazione o "gestione imprenditoriale" del bene culturale, M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, cit., pag. 1479, con rinvio a S. Cassese, Beni culturali, la strada del valore, in Il Sole 24 ore, 17 maggio 1998, 1.

[10] La riscoperta della dimensione economica come elemento coessenziale al bene culturale è stata presentata da parte della dottrina come elemento nuovo frutto di una rottura, o per lo meno di una critica rivisitazione, di dottrine e istituti giuridici [cfr. nota 2]; da altra parte, invece, come elemento posto in linea di continuità con il passato, sin dalle tesi che individuavano il bene culturale nel valore immateriale immanente nella res, comprensivo anche di un valore economico, in particolare M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, I, pag. 24 ss., per esempio in G. Severini, L'immateriale economico dei beni culturali, cit., pag. 1 e ora in G. Morbidelli, A. Bartolini (a cura di), L'immateriale economico nei beni culturali, cit., pag.. 9 ss., spec. pag. 12.

[11] In tema di sostegno alla creatività artistica, per l'applicazione del principio di solidarietà ai sovventori privati ex artt. 2, 3, 4 Cost. e in chiave di sussidiarietà orizzontale, G. Palma, Introduzione, in Tutela, promozione e libertà dell'arte in Italia e negli Stati Uniti, (a cura di) G. Palma, C. Clemente di San Luca, Milano, Giuffrè, 1990, pag. 21 ss.; contra, in nome del rispetto della libertà di iniziativa economica, in quanto il privato effettua investimenti in campo artistico per la ricerca di profitto e il ritorno di immagine, F. Rimoli, L'Arte, in Trattato di Diritto Amministrativo, cit., Tomo Secondo, pagg. 1513-1553, spec. pag. 1521, 1524, 1547, che propone lo schema della "neutralità attiva" proprio del principio di laicità, specie a vantaggio delle espressioni artistiche deboli escluse dalle logiche e dagli interessi del mercato; per l'A. solo i poteri pubblici possono giocare un ruolo di riequilibrio e di compensazione delle dinamiche selettive dell'intervento privato, specie nel contesto italiano in cui prevale un oligopolio economico e manca la piccola e media donazione privata tipica degli Stati Uniti.

[12] Le classificazioni sono varie in dottrina e non sono sempre facilmente fungibili nei diversi rami del diritto. Nell'ambito del diritto commerciale, G. Bosi, L'impresa culturale. Diritto ed economia delle attività creative, Il Mulino, Bologna, 2017, pag. 17, osserva che l'impresa culturale non è assistita da uno speciale statuto giuridico, ma è assoggettata al diritto comune, e in particolare al modello dell'impresa sociale ex d.lgs. n. 155 del 2006 o a fattispecie a carattere lucrativo come la s.r.l. semplificata, le start up e le p.m.i. innovative, le società benefit, la società unipersonale, il contratto di rete; sulla neutralità della forma giuridica profit e non-profit per la definizione di impresa culturale, ivi, pagg. 124-131, 414, 124-131, 414.

[13] Così da ultimo M. Cammelli, Il diritto del patrimonio culturale: Una introduzione, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 14.

[14] M. Cammelli, L'ordinamento dei beni culturali tra continuità e innovazione, cit., pag. 2, con rinvio a W. Santagata, La fabbrica della cultura. Ritrovare la creatività per aiutare lo sviluppo del paese, Bologna, Il Mulino, 2007; nello stesso senso A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, in I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche, Atti del Convegno di Assisi, 25-27 ottobre 2012, in Aedon, 2014, 1, pag. 2, che richiama C. Vitale, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in La globalizzazione dei beni culturali, (a cura di) L. Casini, Bologna, 2010, pag. 176, secondo cui nelle fonti dell'ordinamento internazionale e di quello comunitario si scorgono i segni di "una nozione di patrimonio culturale che non coincide con quella relativa ai beni culturali utilizzata dal nostro codice, perché sembra superare sia il dato della materialità in senso stretto sia quello della territorialità". Più in generale sull'emersione di un "diritto globale" del patrimonio culturale, ampiamente L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Il Mulino, Bologna, 2016, pag. 61 ss., e ora Id., The future of (international) cultural heritage law, in International Journal of Constitutional Law, Vol. 16, Issue 1, 12 May 2018, pagg. 1-10.

[15] M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, cit., pag. 1467, fanno risalire il concetto di "attività" come specie del bene culturale a S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in L'amministrazione dello Stato, 1976, pag. 160 ss., spec. pag. 177 e 179, mentre, come noto, nella legislazione il concetto emerse nel trasferimento di funzioni amministrative alle Regioni e agli enti locali con la promozione delle "attività culturali" ex art. 49 d.p.r.. n. 616 del 1977, ex art. 148, lett. f), e art. 153 d.lgs. n. 112 del 1998, fino all'introduzione nell'art. 117, comma 3, Cost. della competenza concorrente in materia di promozione e organizzazione di attività culturali. Sulla non esaustività della legge n. 1039 del 1989 per individuare i beni culturali, già A. Anzon, Il regime dei beni culturali nell'ordinamento vigente e nelle prospettive di riforma, in AA.VV., Ricerca sui beni culturali, a cura della Camera dei deputati, Roma, 1975, I, pag. 91ss., spec. pag. 100.

[16] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, I, pagg. 33-35.

[17] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit., pag. 183 ss., con rinvio a Corte cost., 28 marzo 2003, n. 94. È frequente in dottrina il rinvio a Corte cost., 9 marzo 1990, n. 118, sulla tutela di attività commerciali storiche site in locali in sé privi di interesse culturale, su cui F. Rigano, Tutela dei valori costituzionali e vincoli di destinazione d'uso dei beni materiali, in Giur. cost., 1990, pagg. 665-678, spec. pagg. 666-667, 674, e F. Rimoli, L'attività come bene culturale al vaglio della Corte costituzionale, in Nomos, 1990, 2, pag. 1 ss.

[18] F.S. Marini, La tutela costituzionale dei beni culturali, cit., pagg. 25-26.

[19] Per F. Rigano, Tutela dei valori costituzionali e vincoli di destinazione d'uso dei beni materiali, cit., pag. 668, l'art. 9 Cost. tutela il "bene-strumento di cultura" nel duplice senso di "bene risultato e testimonianza della creatività umana nel passato e di bene servente al rinnovarsi della medesima creatività del presente", dunque sia le res del patrimonio storico-artistico che le produzioni contemporanee dell'arte e dell'ingegno. L'incertezza della nozione di bene culturale ai sensi dell'art. 9 Cost. determina, tuttavia, il rischio di una "sorta di concezione panculturalista in cui ogni manifestazione dell'essere umano, in quanto tale, è cultura", per di più secondo orientamenti autoritativamente imposti dal potere pubblico. Una linea di indirizzo si ricava dall'art. 3 Cost. che, nel porre in capo alla Repubblica compiti di trasformazione sociale, definisce un modello di società ispirato a "valori non economicistici bensì personalistici e sociali" e vincola la discrezionalità dell'intervento pubblico alla "introduzione di spazi di libertà positiva" a favore delle "esperienze culturali più lontane dalle istanze prevalenti del mercato". Sulla inesistenza di un monopolio dello Stato sulla cultura già F. Merusi, Principi fondamentali - art. 9, in Commentario della Costituzione, (a cura di) G. Branca, Bologna-Roma, 1975, pag. 441, che critica la definizione di Stato di cultura di E. Spagna Musso, Lo stato di cultura nella Costituzione italiana, Napoli, 1961, e ora G. Repetto, Il diritto alla cultura, relazione presentata al Convegno annuale dell'Associazione Gruppo di Pisa, Cassino, 10-11 giugno 2016, in www.gruppodipisa.it.

[20] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit., pagg. 171-188.

[21] Il dibattito in ordine alla natura materiale o immateriale dei beni culturali è antico; accanto a M.S. Giannini, di cui alla nota 16, per riferimenti alla dottrina degli anni quaranta e cinquanta, specie civilistica, F.S. Marini, La tutela costituzionale dei beni culturali, cit., 25, nota 5.

[22] Cfr. nota 8.

[23] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit., pagg. 179-180, che rinvia per questa declinazione al contributo di M. Dugato, Strumenti giuridici per la valorizzazione dei beni culturali immateriali, nello stesso volume.

[24] Sulla necessità di prevedere una pluralità di regimi giuridici corrispondenti alle diverse nozioni di beni culturali G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare, cit., pag. 8.

[25] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit., pag. 182, anch'egli sul pericolo di "panculturalismo" per cui a maggior ragione per i beni immateriali la valorizzazione, la promozione ed anche la tutela devono essere modulate in modo tale da non comprimere la libertà di espressione. Cfr. anche nota 19.

[26] Sul fatto che nel diritto dell'Unione non esista una definizione prescrittiva di patrimonio culturale comune europeo, utilizzando la Commissione europea espressioni molto generiche come "mosaico ricco e diversificato di espressioni culturali e creative, eredità di generazioni che ci hanno preceduto e lasciato alle generazioni future", D. Ferri, S. Favalli, Il nuovo approccio dell'Unione europea alla salvaguardia del patrimonio culturale tra sacralità ed economicità, in Luoghi dell'anima, anime in cammino. Riflessioni su eredità culturale e turismo religioso, (a cura di) S. Baldin, M. Zago, FrancoAngeli, Milano, 2017, pagg. 51-66, spec. pag. 52, che rinvia a M. Fiorillo, Verso il patrimonio culturale dell'Europa unita, in www.rivistaaic.it, 2011, 4, pagg. 1-14. Secondo le AA., le iniziative europee come il marchio del patrimonio europeo sottintendono che il patrimonio europeo è qualcosa di più della somma dei singoli beni nazionali, richiedendo una dimensione transfrontaliera evocativa di una identità collettiva. Per completezza, nella hard law relativa alla circolazione dei beni culturali, per il principio di sussidiarietà la definizione di bene culturale è in capo agli Stati membri.

[27] Le competenze dell'Unione in materia di patrimonio culturale escludono espressamente l'armonizzazione e sono volte a incoraggiare e sostenere le politiche nazionali (151 TCE, ora 167 TFUE, disposizione unica che compone il Titolo XIII, Cultura; l'art. 3, par. 3, ultimo periodo TUE, relativo agli obiettivi dell'Unione, stabilisce che "Essa rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo"). Non si considerano nel prosieguo del testo gli atti di hard law, regolamenti e direttive, adottati in materia di circolazione dei beni culturali infra ed extra Unione europea, né le determinazioni in materia di aiuti di stato, che pure costituiscono un indicatore della propensione dell'Unione a consentire sovvenzioni pubbliche, nella specie per il sostegno della cultura e la conservazione del patrimonio. Per una completa analisi delle competenze europee in materia culturale, D. Ferri, La Costituzione culturale dell'Unione europea, Cedam, Padova, 2008, e Ead., Cultural Diversity and State Aids to the Cultural Sector, in E. Psychogiopoulou (ed.), Cultural Governance and the European Union. Protecting and Promoting Cultural Diversity in Europe, 2015, Palgrave Macmillan, Basingstoke.

[28] D. Ferri, S. Favalli, Il nuovo approccio dell'Unione europea alla salvaguardia del patrimonio culturale, cit., pag. 52; il riferimento è alla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni "Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per l'Europa", COM(2014)477 final, in cui la Commissione definisce il patrimonio europeo come "risorsa preziosa per l'economia europea, l'occupazione e la coesione sociale, oltre che un catalizzatore per la creatività e la crescita economica". Secondo le AA., l'accento è posto immancabilmente sulla capacità di creare sviluppo e in questo senso la tecnologia è frequentemente citata come strumento per apportare valore economico al settore del patrimonio culturale.

[29] Nel dettaglio D. Ferri, S. Favalli, Il nuovo approccio dell'Unione europea alla salvaguardia del patrimonio culturale, cit., pagg. 53-58, per cui Europa Creativa si prefigge quali obiettivi specifici di favorire le piccole e medie imprese, le micro-organizzazioni e le organizzazioni di piccole e medie dimensioni a sfruttare le opportunità offerte dal passaggio al digitale e dalla globalizzazione; ha, dunque, un'ottica spiccatamente economica e si focalizza sulla competitività, l'impatto e la professionalizzazione dei servizi culturali più che sull'idea di cittadinanza europea e sulla costruzione di valori comuni e del dialogo interculturale che caratterizzava i precedenti programmi. La funzionalizzazione economica trova riscontro nella stessa base giuridica del programma, ai sensi degli artt. 166, par. 4, 167, par. 5, primo trattino e 173, par. 3, TFUE, ossia istruzione, cultura e industria. Analogamente, le AA. osservano come la programmazione dei fondi strutturali abbia mutato obiettivi tra il periodo 2000-2006 e il periodo 2007-2013, anticipando il cambio di prospettiva della cultura come veicolo di sviluppo economico e ponendo attenzione all'industria della cultura. Concludono le AA. in riferimento alla programmazione 2014-2020 che "la cultura per sé non rientri più esplicitamente fra gli obiettivi prioritari delle politiche europee, che tendono invece ad assumere una formulazione più semplificata, orientata a obiettivi economici, e in linea con il programma strategico Europe 2020".

[30] R. Craufurd Smith, The Cultural Logic of Economic Integration, in E. Psychogiopoulou (ed.), Cultural Governance and the European Union. Protecting and Promoting Cultural Diversity in Europe, 2015, Palgrave Macmillan, Basingstoke, citato da D. Ferri, S. Favalli, Il nuovo approccio dell'Unione europea alla salvaguardia del patrimonio culturale, cit., pagg. 54 e 62, in merito all'enfasi sulla portata economica dei servizi culturali rispetto all'aspetto simbolico-evocativo. Anche iniziative quali il marchio del patrimonio europeo, per i siti scelti in concreto, tradiscono sempre un potenziale turistico-economico.

[31] Cfr. per tutti D. Tega, I diritti sociali nella dimensione multilivello tra tutele giuridiche e crisi economica, pag. 18 ss., spec. pag. 29, del paper, ora in E. Cavasino, G. Scala, G. Verde (a cura di), I diritti sociali dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, Atti del Convegno di Trapani 8-9 giugno 2012, Napoli, 2013, pagg. 67-98, che ricorda come i diritti sociali emergenti dalle tradizioni costituzionali comuni e dai trattati internazionali non siano mai, o raramente, stati riconosciuti dalla Corte di giustizia come principi generali del diritto e che molti degli sviluppi della dimensione sociale europea siano stati collegati ad obiettivi di buon funzionamento del mercato comune, per prevenire la distorsione della concorrenza e non per perseguire valori sociali in sé. Se si vuole, A.O. Cozzi, Diritti e principi sociali nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Jovene editore, Napoli, 2017, pagg. 48-72 e la bibliografia ivi citata.

[32] Cfr. F. Scharpf, The European Social Model, in Journal of Common Market Studies, 2002, pag. 646; S. Giubboni, Diritti sociali e mercato. La dimensione sociale dell'integrazione europea, Bologna, 2003, pag. 40 ss. e Id., Libera circolazione delle persone e solidarietà europea, in Lavoro e diritto, 2006, 4, pagg. 611-637, spec. pag. 611-612; a partire dall'espressione di Gilpin del 1987 "Smith abroad, Keynes at home", M. Ferrera, The Boundaries of Welfare. European Integration and the New Spatial Politics of Social Protection, Oxford-New York, 2005, pagg. 92-93, e C. Pinelli, I rapporti economici-sociali fra Costituzione e Trattati europei, in La costituzione economica: Italia, Europa, (a cura di) C. Pinelli, T. Treu, Bologna, 2010, pag. 26 ss.; e P. Ridola, Diritti di libertà e mercato nella "costituzione europea", in Quad. cost., 2010, pag. 15 ss. In senso critico, sulla costitutiva e strutturale insufficienza dell'Unione nel garantire politiche sociali, pur con prospettive parzialmente diverse, i saggi di M. Benvenuti, Libertà senza liberazione. Per una critica della ragione costituzionale dell'Unione europea, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016 e A. Guazzarotti, Crisi dell'euro e conflitto sociale. L'illusione della giustizia attraverso il mercato, FrancoAngeli, Milano, 2016.

[33] Sull'insufficienza della attuale proclamazione inter-istituzionale del Pilastro europeo dei diritti sociali, un documento programmatico proposto dalla Commissione Junker e sottoscritto dal Parlamento e dal Consiglio contenente un elenco di venti diritti e principi sociali, in quanto "suggerimenti" sprovvisti di forza normativa vincolante, rivolti essenzialmente agli Stati e subordinati alla condizionalità economica, dunque al rispetto dell'equilibrio di bilancio, S. Giubboni, Appunti e disappunti sul pilastro europeo dei diritti sociali, in Quad. cost., 2017,4, pagg. 953-962 e, se si vuole, A.O. Cozzi, Perché il Pilastro europeo dei diritti sociali indebolisce la Carta europea dei diritti fondamentali, in Quad. cost., 2018, 2, pagg. 516-518; contra, in senso favorevole alle nuove priorità sociali che si è data l'Unione dopo la crisi economica e sulla necessità di valutarle non soltanto nell'ottica del giurista positivo, ma ricorrendo ad altri saperi scientifici come l'economica, la sociologia, la scienza politica, N. Maccabiani, The Effectiveness of Social Rights in the EU. Social Inclusion and European Governance. A Constitutional and Methodological Perspective, FrancoAngeli, Milano, 2018. Si noti che anche il Pilastro europeo dei diritti sociali afferma di far leva, per indirizzare le politiche pubbliche nazionali, sui fondi strutturali. La scelta è in qualche modo obbligata, atteso che le attribuzioni dei Trattati in materia di politiche sociali sono scarse.

[34] Come in ambito di occupazione e di inclusione sociale, anche nel settore della cultura, esclusa l'armonizzazione, molte iniziative europee si basano sul cosiddetto Metodo Aperto di Coordinamento (MAC-OMC in inglese), ossia sulla volontaria collaborazione tra Stati attraverso esperti e gruppi di studio, il confronto tra dati, l'individuazione di best practises e l'adozione a livello europeo di raccomandazioni non vincolanti - cfr. http://ec.europa.eu/assets/eac/culture/library/reports/2014-heritage-mapping_en.pdf. Per una critica ai modelli economici posti alla base del MAC, a partire dallo stesso linguaggio utilizzato, A. Guazzarotti, "Metodo aperto di coordinamento" delle politiche in materia di occupazione dell'Unione europea e ricadute sulla normazione nazionale, in Spazio della tecnica e spazio del potere nella tutela dei diritti sociali, (a cura di) P. Bonetti, A. Cardone, A. Cassatella, F. Cortese, A. Defennu, A. Guazzarotti, Roma, Aracne, 2014, pagg. 197-218.

[35] Così le proposte della Commissione europea per la revisione delle norme in materia di diritto d'autore e protezione della creazione artistica, richiamate da Emmanuel Macron nel discorso al Parlamento europeo a Strasburgo del 18 aprile 2018 per sostenere che ciò che tiene insieme i popoli europei non è la moneta o un Trattato, ma un sentimento di appartenenza comune, nelle sue parole una "cultura", per sostenere la quale sono indicate quattro iniziative: la fondazione di Università europee, il rafforzamento dell'Erasmus, l'adozione delle citate proposte della Commissione. Si tratta in particolare della discussa proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio sul diritto d'autore nel mercato unico digitale [COM(2016) 593 final]; della proposta di regolamento sull'esercizio del diritto d'autore in materia di trasmissioni online di programmi tv e radiofonici [COM(2016) 594 final]; della proposta di direttiva e della proposta di regolamento relativi all'utilizzo di opere coperte da diritto d'autore da parte di persone non vedenti [COM(2016) 596 final e COM(2016) 595 final], annunciati nella relazione sullo Stato dell'Unione del 2016.

[36] M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, cit., pag. 1460, secondo cui l'art. 9 e l'art. 33, comma 1, Cost. hanno introdotto nei fini-valori della Carta costituzionale il valore estetico-culturale come valore diverso e conflittuale rispetto ai valori dell'industria e del profitto dominanti nelle società contemporanee, con lo scopo di assicurare il progresso della società civile e la più ampia creazione e distribuzione dei fattori culturali ai consociati.

[37] J.M. Keynes, Art and the State, in The Listener, 26 agosto 1936, trad. it. L'arte e lo Stato, in Stato e mercato nel settore culturale, (a cura di) G. Pennella, M. Trimarchi, Quaderno n. 19, Problemi di Amministrazione Pubblica, Il Mulino, Bologna, 1993: "Lo sfruttamento e l'eventuale distruzione del dono divino dell'uomo di spettacolo che viene fatto prostituire all'obiettivo del guadagno finanziario è uno dei peggiori crimini dell'odierno capitalismo". L'A. osservava che le manifestazioni di massa potevano essere un pericoloso strumento di forza per l'affermazione di un sentimento nazionalistico e razziale negli Stati autoritari, come stava accadendo in Russia, Germania e Italia, ma proprio questa consapevolezza doveva spingere gli Stati occidentali a promuoverle e indirizzarle ai propri ideali e non ad ignorarle, poiché la loro mancanza sarebbe stata fonte di debolezza nelle società democratiche.

[38] Il riferimento è alle numerose iniziative adottate in materia di patrimonio culturale dal Consiglio d'Europa, attualmente composto da 47 Stati membri, tra cui tutti quelli dell'Unione europea, che hanno come scopo la promozione della diversità e del dialogo al fine di incrementare i sentimenti di identità, memoria collettiva e mutuo riconoscimento entro e tra le comunità: https://www.coe.int/en/web/culture-and-heritage/cultural-heritage. Le tradizioni costituzionali comuni compongono il patrimonio costituzionale europeo: ai sensi dell'art. 6, par. 1, ultimo periodo, TUE, i diritti, le libertà e i principi della Carta europea dei diritti fondamentali sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta stessa, tra cui l'art. 52, par. 4, che rinvia alle tradizioni costituzionali comuni; inoltre, ai sensi dell'art. 6, par. 3, TUE, le tradizioni costituzionali comuni contribuiscono alla identificazione dei diritti fondamentali che fanno parte del diritto europeo nella forma di principi generali del diritto.

[39] Una mappatura complessiva delle azioni in materia di patrimonio culturale è stata aggiornata dalla Commissione europea, DG Educazione, gioventù, sport e cultura, nell'agosto 2017, in http://ec.europa.eu/assets/eac/culture/library/reports/2014-heritage-mapping_en.pdf.

[40] Gli indicatori numerici complessi sono espressioni numeriche di carattere quantitativo e qualitativo idonee a descrivere in via indiretta un fenomeno multi-dimensionale. L'indicatore è detto complesso quando risulta da una serie di sotto-indicatori e dimensioni. Gli indicatori sono costruiti con metodi statistici e sono utili ad analizzare e tentare di misurare fenomeni non naturalistici e di carattere non quantitativo. Trattandosi di dati statistici, la affidabilità degli indicatori dipende dalle metodologie impiegate, a partire da una corretta ricostruzione del framework teorico e delle domande di ricerca. Gli indicatori non sono destinati a offrire scale di priorità predefinite, né nozioni certe, bensì un quadro articolato di elementi conoscitivi sulla cui base possano fondarsi politiche pubbliche. Molti degli indicatori promossi e utilizzati dalla Commissione europea sono elaborati, di concerto con esperti dei settori materiali interessati, dal Competence Centre on Composite Indicators and Scoreboard (COIN), unità di ricerca presso il Joint Research Centre - JRC, sede di Ispra, https://composite-indicators.jrc.ec.europa.eu/?q=about-us.

[41] Il concetto di "città creative" nasce nella letteratura economica a metà degli anni '90 ed è nella stessa controverso, assumendo contenuti e valutazioni diverse; cfr. i cenni nello stesso paper di presentazione del Cultural and Creative Cities Monitor, 41, https://publications.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/10974a58-62f5-11e8-ab9c-01aa75ed71a1/language-en.

[42] La presentazione ufficiale dell'indicatore, per vero, rivela quell'oscillazione costante delle politiche europee tra una nozione di patrimonio culturale e di cultura in senso non economico e una nozione funzionale alla crescita economica. Si legge, così, da un lato che "un modello di sviluppo basato esclusivamente sulla crescita economica sarebbe chiaramente inadeguato": "[C]ulture furthermore fosters a sense of belonging and cohesion among citizens; improves quality of life and the attractiveness of cities and regions for citizens, tourists, businesses and investors; and ultimately promotes peace, inter-cultural dialogue and socio-economic development within and beyond national borders". Dall'altro, che la cultura è un importante driver della crescita e della creazione di lavoro, tanto che l'elaborazione dell'indicatore complesso è volta a fornire elementi per il perseguimento della Strategia europea Promoting cultural and creative sectors for growth and jobs. Così nella pubblicazione di presentazione, https://publications.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/10974a58-62f5-11e8-ab9c-01aa75ed71a1/language-en, pag. 31. Sono, in conclusione, le politiche, e non i dati di conoscenza, ad essere se mai funzionalizzate.

[43] L'utilizzo di parametri numerici non come strumento di rilevazione e conoscenza della realtà, ma direttamente all'interno di norme giuridiche è divenuto ricorrente nella governance europea introdotta per far fronte alla crisi economica, per vincolare le politiche di bilancio nazionali. In senso critico, M. Dani, Numeri e principio democratico: due concezioni a confronto nel diritto pubblico europeo, in La legge dei numeri. Governance economica europea e marginalizzazione dei diritti, (a cura di) C. Bergonzini, S. Borelli, A. Guazzarotti, Atti del Convegno del Dottorato di ricerca "Diritto dell'Unione europea e ordinamenti nazionali" del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara Rovigo, 1-2 ottobre 2015, Jovene editore, Napoli, 2016, pagg. 101-111, per cui nelle democrazie costituzionali i numeri sono risorsa utile al principio democratico perché possono fondare le scelte di indirizzo politico della maggioranza, ma anche essere strumenti di controllo e di censura da parte dell'opposizione; nell'Unione europea, invece, questa funzione sarebbe distorta dal fatto che i Trattati contengono obiettivi di natura economica (la stabilità dei prezzi, l'aumento della occupazione, la concorrenza tra imprese) definiti in maniera così puntuale da restringere gli ambiti della discrezionalità politica. I numeri sarebbero utilizzati, in questo contesto, per "articolare e accentuare la prescrittività delle decisioni di sistema codificate nei trattati, rivestendole di una patina di neutralità" e divenendo, così, strumento per la loro sottrazione al confronto politico.

[44] Nello stesso senso, G. Bosi, L'impresa culturale. Diritto ed economia delle attività creative, cit., pagg. 96-97, rileva che per il criterio European Statistical System Network on Culture 2012, ESS-net Culture, l'attività creativa è comune alla realizzazione di opere culturali e artistiche e di prodotti come il design, la moda, la pubblicità, indipendentemente dal fatto che si tratti di iniziative di mercato o non di mercato, con o senza valenza commerciale e intraprese da chiunque, singoli o soggetti collettivi, privati o pubblici.

[45] Sul punto ampiamente N. Maccabiani, The Effectiveness of Social Rights in the EU. Social Inclusion and European Governance. A Constitutional and Methodological Perspective, cit., che auspica una maggiore apertura della scienza giuspubblicistica, e in generale delle scienze giuridiche, ad altre scienze per poter comprendere e analizzare questi fenomeni.

[46] Per i riferimenti che seguono, D. Foray, P.A. David, B.H. Hall, Smart specialization. From academic idea to political instrument, the surprising career of a concept and the difficulties involved in its implementation, MTEI working paper, November 2011, Management of Technology and Entrepreneurship Institute, École Polytechnique Fédérale de Lausanne, https://infoscience.epfl.ch/record/170252/files/MTEI-WP-2011-001-Foray_David_Hall.pdf. Gli AA. osservano che "smart specialization" costituisce un esempio (raro) di concetto accademico che ha avuto uno straordinario successo nella determinazione delle politiche pubbliche europee, mentre nel contesto scientifico è rimasto marginale per la debolezza dei suoi presupposti teorici e la scarsità di evidenze empiriche, tanto da aversi un "growing gap between the policy practise and the theory"; il saggio tenta di approfondire proprio l'inquadramento teorico del concetto e i suoi elementi di forza e di debolezza.

[47] In Italia, le linee di programmazione nazionale - Strategia Nazionale di Specializzazione Intelligente 2014-2020 (SNSI) - sono state individuate congiuntamente dal Ministero dello sviluppo economico e dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca con il supporto tecnico di Invitalia, l'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo dell'impresa. La SNSI è stata approvata dalla Commissione europea nell'aprile 2016. Le altre quattro aree tematiche sono: Industria intelligente e sostenibile, energia e ambiente; Salute, Alimentazione, Qualità della vita; Agenda Digitale, Smart Communities, Sistemi di mobilità intelligente; Aerospazio e difesa. Per l'attuazione della Strategia, con d.p.c.m. sono stati istituiti una cosiddetta Cabina di regia, composta da rappresentanti delle amministrazioni statali e regionali e insediata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e cinque gruppi di lavoro tematici, uno per ciascuna area, composti da rappresentanti delle Amministrazioni, associazioni imprenditoriali e reti, cluster tecnologici o altre aggregazioni pubblico-private, enti di ricerca ed esponenti della società civile. Cfr. https://www.researchitaly.it/smart-specialisation-strategy/.

[48] Il riflesso di politiche europee è presente anche in altri atti di programmazione a livello nazionale. G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare, cit., pag. 1, richiama il DEF 2017, sez. III, in cui i beni culturali sono oggetto di uno dei quattro cluster tecnologici nazionali inclusi nel Programma Nazionale di Ricerca (PNR) 2015-2020 approvato in via definitiva dal CIPE il 1° maggio 2016. Anche i cluster costituiscono a livello nazionale il recepimento di politiche europee in materia di ricerca e innovazione, a partire dalla Comunicazione della Commissione COM(2008) 652 def., Verso Cluster competitivi di livello mondiale nell'Unione europea: attuazione di un'ampia strategia dell'innovazione (cfr. le premesse del decreto direttoriale MIUR 3 agosto 2016, n. 1610, Avviso per lo sviluppo e potenziamento di nuovi 4 cluster tecnologici nazionali). Si è voluto, in particolare, l'allineamento tra SNSI relativa alle politiche regionali, i dodici cluster tecnologici nazionali e le dodici aree di priorità per la ricerca individuate dal PNR.

[49] Le principali fonti di finanziamento per l'attuazione della SNSI nazionale sono state individuate dal MISE e dal MIUR nei PON (Programmi Operativi Nazionali) Ricerca e innovazione, PON Imprese e competitività, nei POR (Programmi Operativi Regionali) FERS e FEARS, oltre a fondi propri del MISE e del MIUR per un totale nel periodo 2015-2020 di oltre 15 miliardi di euro, senza contare le risorse del Fondo per lo Sviluppo e Coesione (FSC).

[50] Si vedano anche P. Miller, N. Rose, Governing the Present. Administering Economic, Social and Personal Life, Cambridge, 2008, pagg. 202-209, citato da A. Guazzarotti, Corte costituzionale e sindacato dinanzi alla costruzione del soggetto (a)conflittuale, in www.rivistaaic.it, 2018, 1, 31 gennaio 2018, pagg. 40-41.

[51] A. Somek, The Social Question in a Transnational Context, LEQS paper no. 39/2011, June 2011, sulla figura del cittadino cosmopolita, che ha notevole fiducia nel sapere e nella razionalità scientifica come strumenti in grado di dare una soluzione "giusta" a ogni situazione complessa del vivere civile, in particolare le questioni sociali, e che ha una visione "amministrativistica" e non politica dei problemi sociali, nel senso che ritiene che essi non comportino la scelta tra una pluralità di visioni in conflitto. In questo contesto, le politiche sociali non hanno più le caratteristiche delle politiche redistributive tipiche dello stato sociale nazionale, finalizzate alla emancipazione e pari dignità sociale, ma divengono espressione di un principio di carità di stampo ottocentesco, ispirato dalla necessità di evitare disordini sociali. Non si condivide questa tesi, tuttavia, nella parte in cui associa il cittadino e la "ragione" cosmopolita al solo ordinamento sovranazionale. L'A. imputa l'assenza di dimensione "politica" all'assenza di elementi di appartenenza e identificazione con una comunità, considerando, così, possibile una visione "politica" nei soli contesti nazionali. In tal modo, però, la tesi sembra sottintendere un concetto naturalistico e immanente di appartenenza ad una comunità, in luogo di un concetto volontaristico che l'agire umano può condizionare e modificare.

 



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