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Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela

Le amministrazioni e il paesaggio, tra discorso di verità e discorso di volontà

di Fulvio Cortese

Sommario: 1. Casus belli. - 2. La posizione del Consiglio di Stato. - 3. Alcuni profili critici. - 4. Al centro del problema. - 5. Paesaggio e decisioni pubbliche tra volontà e razionalità. - 6. Si può uscire dal paradigma di Clausewitz?

Public administrations and the landscape, between rationality and will
This contribution is based on a decision adopted by the administrative judge and underlines the enduring contradictions and complexities faced by the Italian law-maker in regulating and effectively coordinating the safeguard of the landscape with the fulfillment of other public interests.

Keywords: Safeguard of Landscape; Publics Interests; Coordination; Landscape Assessments.

1. Casus belli

Le brevi note che seguono prendono le mosse da una vicenda giurisdizionale specifica, conclusasi di fronte al Consiglio di Stato [1] con un esito che, tuttavia, lungi dal proiettare i propri effetti sulla sola fattispecie controversa, dà l'impressione di formulare - anzi, di riaffermare - indicazioni di carattere tendenzialmente generale: sulla tutela del paesaggio, sulla natura delle valutazioni pubblicistiche che ad essa sono ispirate e sul raccordo tra tali valutazioni e altre determinazioni potenzialmente adottabili da differenti amministrazioni.

Ma qual è stato, innanzitutto, il casus belli? Di che cosa si trattava?

Nell'ambito delle procedure volte ad autorizzare in uno specifico contesto territoriale la realizzazione e l'esercizio di un nuovo elettrodotto da parte del concessionario nazionale del relativo servizio, la competente soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici aveva espresso parere negativo sul progetto avanzato dal medesimo concessionario.

In particolare, la soprintendenza, chiamata ad esprimersi ex artt. 136 e 142, comma 1, lett. c) del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, aveva evidenziato che il progetto in esame avrebbe avuto un impatto pregiudizievole sul paesaggio, comportando un "deturpamento della scenografia di tratti di corridoi fluviali di elevato valore paesaggistico" e "un rilevante esbosco di specie arboree di valore paesaggistico, oltre che naturalistico ed ecologico". Sicché il parere, esprimendosi negativamente, suggeriva, quale condizione per l'assenso, l'interramento dell'elettrodotto nelle fasce sottoposte a tutela paesaggistica.

Su tale parere, tuttavia, il ministero per i Beni e le Attività culturali era tornato successivamente, mutando l'avviso dell'amministrazione ed esprimendo così, questa volta, un parere positivo: da un lato, rilevando che, come suggerito dalle osservazioni presentate dalla società concessionaria, l'interramento proposto dalla soprintendenza non sarebbe stato materialmente possibile, e che quindi il parere negativo si risolveva in un atto totalmente impeditivo dell'opera; dall'altro, proponendo che l'elettrodotto, anziché passarvi al di sotto, si limitasse semplicemente a transitare all'esterno delle fasce protette.

Ad essere oggetto dell'impugnazione - promossa da alcuni privati ma anche da alcuni comuni della zona interessata dalla costruzione dell'opera - era stato proprio questo secondo provvedimento; e ciò, essenzialmente, sulla base della doglianza che un tale cambiamento di rotta da parte dell'amministrazione sarebbe stato immotivato, contraddittorio e irragionevole, e affetto altresì da sviamento di potere. La tesi di fondo, in proposito, era questa: il ministero avrebbe errato poiché avrebbe illegittimamente subordinato il perseguimento dell'interesse pubblico primario, la tutela paesaggistica, alla realizzabilità concreta dell'opera; come se, pur a fronte di quelle insopprimibili esigenze di tutela, l'an del progetto non potesse essere nemmeno posto in discussione.

2. La posizione del Consiglio di Stato

Il giudice amministrativo, in appello, ha accolto proprio questa tesi, chiarendo [2]:

- che la funzione di tutela che l'amministrazione è tenuta a svolgere circa il paesaggio è estranea ad "ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione";

- che ciò dipende dal fatto che si tratta di una funzione che si esprime mediante l'esercizio di un potere tecnico-discrezionale, alla stregua del quale il giudizio che l'amministrazione svolge è un giudizio di compatibilità puntuale e concreta tra l'intervento progettato e i valori protetti dalla legge, che a loro volta sono espressivi del precetto ex art. 9 Cost., peraltro insuscettibile di dequotazione anche a fronte di particolari esigenze di semplificazione o celerità dei processi delle decisioni pubbliche;

- che quindi, anche nel contesto di un procedimento speciale e concentrato, come quello relativo alla realizzazione di elettrodotti, oleodotti e gasdotti, non si può avere "un'attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale": la semplificazione data dalla concentrazione, in altri termini, ha ricadute meramente procedimentali, "e non di contenuti, perché non inverte il rapporto sostanziale tra interessi";

- che pertanto l'amministrazione preposta alla tutela dell'interesse paesaggistico, e chiamata ad esercitare, per la sua cura, poteri tecnico-discrezionali, non può compiere attività di comparazione e bilanciamento di quell'interesse con interessi pubblici "di altra natura e spettanza (essenzialmente quelli sottesi alla realizzazione dell'elettrodotto e, dunque, al trasporto dell'energia elettrica)": valutazioni di questo tipo, infatti, competono "ad altre Amministrazioni (...), nel confronto dialettico proprio della conferenza di servizi";

- che, oltre a ciò, e in ogni caso, le valutazioni che l'amministrazione dei beni culturali ha espresso in concreto in ordine all'impossibilità di costruire l'opera in questione laddove essa avesse dovuto conformarsi al parere della soprintendenza non possono dirsi congruamente motivate, visto che l'impraticabilità di soluzioni alternative è stata argomentata soltanto sulla base del richiamo alle affermazioni unilaterali del soggetto interessato a realizzare l'intervento.

3. Alcuni profili critici

Come si può constatare, questa decisione riporta alla luce temi importanti e conosciuti, che ciclicamente tendono a riaffiorare, e su tutti, in prima battuta, quello concernente la fisionomia e la consistenza degli apprezzamenti che l'amministrazione competente può svolgere in merito alla conformità tra le esigenze della tutela del paesaggio e una determinata e prospettata modificazione del territorio.

A quest'ultimo riguardo, a ben vedere, il giudice amministrativo ha ribadito, in astratto, una soluzione molto nota, oltre che prevalente [3] e prevedibile [4]. Perché ci si dovrebbe stupire?

Occorre anche precisare, poi, che, in concreto, neanche gli assunti generali che sorreggono tale soluzione vanno sopravvalutati: nella controversia de quo l'aspetto veramente decisivo non sembra quello concernente l'inconciliabilità, o l'impraticabilità, tra apprezzamenti simultanei di natura diversa, quanto il "cattivo" (perché male motivato...) esercizio di apprezzamenti potenzialmente del tutto accessibili: vale a dire che il ministero avrebbe ben potuto pronunciarsi sulle difficoltà concernenti l'interramento dell'elettrodotto, a patto di svolgere una specifica e autonoma istruttoria, della quale dare conto nella motivazione del proprio definitivo provvedere.

Ciò premesso, una certa insoddisfazione permane ugualmente. Assumendo, infatti, specifici e diversi punti di vista, l'impostazione prescelta dal giudice amministrativo si rivela suscettibile di rilievi critici difficilmente contestabili.

Si potrebbe ricordare, ad esempio, il dibattito concernente il progressivo - e per taluni eccessivo - processo storico di culturizzazione del paesaggio, alla stregua del quale un'entità per sua natura dinamica si è trova spesso assoggettata ad un regime prevalentemente vincolistico e capace di imbrigliare, se non bloccare, ogni possibile utilizzazione o trasformazione di ciò che su di essa insiste [5].

Pertanto, si potrebbe affermare che continuare a sostenere, come fa il Consiglio di Stato, che le valutazioni paesaggistiche sono espressione di valutazioni la cui natura è rigorosamente impermeabile a valutazioni di tipo diverso avrebbe l'effetto di rinsaldare una lettura statica e ipostatizzante del paesaggio, e di promuoverne una concezione quasi antagonistica rispetto a ciò che meglio ne dovrebbe caratterizzare l'armonico sviluppo, ossia il rapporto tra le comunità, le loro esigenze e i territori di rispettivo riferimento.

In uno con questo appunto, poi, si potrebbero anche evocare le interpretazioni, di estrazione soprattutto dottrinale, sulla possibilità di intravedere e di concentrare nelle valutazioni in tema di paesaggio meditazioni differenti, non solo tecniche, e per alcuni pure di natura discrezionale in senso stretto [6] o quanto meno mista [7]: ciò proprio perché il paesaggio, di per sé, avrebbe la funzione di contenere, di riassumere, valori e interessi altri, che lo costituiscono e che al contempo possono trascenderlo e ri-costituirlo in modo determinante e nondimeno ragionevole, fisiologico e legittimo. Viceversa, ribadendo la natura solo tecnico-discrezionale delle valutazioni paesaggistiche si finirebbe per accreditare una ricostruzione parziale e insoddisfacente del loro stesso oggetto.

4. Al centro del problema

Si tratta di osservazioni particolarmente suggestive e meritevoli di attenzione. Indipendentemente da questi rilievi, però, è necessario osservare che la pronuncia è rilevante - e sintomatica di specifici "disagi" - soprattutto per altre ragioni; e che sono queste diverse ragioni a segnalare quale possa (o debba) essere il terreno su cui misurare la preferibilità di una o dell'altra lettura sul metodo di valutazione che le amministrazioni devono seguire allorché si occupano anche di paesaggio.

In fattispecie come quelle affrontate dal Consiglio di Stato, infatti, ad essere veramente in gioco è la difficile conciliabilità di due discorsi diversi, uno di volontà e uno di verità, ciascuno conformato da tempo, nell'ordinamento giuridico, da regole sue proprie, non del tutto collimanti.

La pronuncia prende atto della circostanza - a suo modo pregiudiziale - per la quale, normativamente parlando, il paesaggio non sarebbe, in fondo, un interesse coordinabile con altri interessi, ma un patrimonio (come quello storico-artistico, cui il paesaggio è espressamente e simbolicamente accostato nella dizione dell'art. 9 Cost.). Il paesaggio, in particolare, godrebbe dello statuto di valore da preservare sempre e comunque, salva la misurazione puntuale e diffusa, e temporalmente successiva, di ciò che con esso si riveli o meno coerente tra le possibili opzioni di trasformazione e di utilizzo del territorio, al di là della loro natura o della loro urgenza o della loro finalità.

È questo il tema che desta vero interesse e del quale la sentenza del Consiglio di Stato permette di discutere nuovamente.

Detto altrimenti, il Consiglio di Stato sottolinea - in perfetta aderenza ad un canone ormai stabilito e foriero di conseguenze anche in altri frangenti [8] - che la limitazione della scelta sul paesaggio è concepita come un elemento assodato e non discutibile; come un fatto costitutivo giustificato dalla ricognizione dell'identità stessa della Repubblica italiana. Posta questa identità, il paesaggio non si sceglie; c'è e deve essere protetto. Sicché, se le si affida il compito di tutelarlo in ogni situazione, l'amministrazione non potrà che svolgere la relativa funzione come se quel valore fosse un dato che, una volta accertato, perimetrato e definito, si pone comunque come confine invalicabile, anche a fronte dell'individuazione di altri e compresenti limiti o di altri e compresenti obiettivi, eventualmente più flessibili o variabili.

In quest'ottica, quindi, il binario dell'analisi che l'amministrazione deve svolgere per la tutela del paesaggio è concepito come di natura essenzialmente razionale (nel senso aristotelico del termine, se si può dire), poiché si tratta, nel preservare il valore paesaggistico, di riscoprire puntualmente ciò che in sé è irrinunciabile o non negoziabile: ciò che è, per l'appunto, il patrimonio sine qua non del caso concreto, la verità alla quale deve così armonizzarsi, necessariamente, ogni altra opzione. Diversamente, per la posizione degli altri limiti od obiettivi, che non siano intrinsecamente propri del paesaggio (i.e., che non siano parte della verità pre-data da riconoscere razionalmente nel caso concreto), si tratta di operare e di sintetizzare, sia pur con gradi di intensità diversi, volizioni concorrenti, di matrice estrinseca, rispetto alle quali la regola è caratterizzata dalla rinunciabilità e dalla negoziabilità.

5. Paesaggio e decisioni pubbliche tra volontà e razionalità

Il fatto è che in questo genere di teoria - apparentemente assai coerente e solida - il conflitto tra discorso di verità e discorso di volontà si fa tanto più forte quando le amministrazioni sono incentivate, od obbligate, a compierli nella stessa sede. Anzi, non si può negare che è proprio questa circostanza ad aver fatto emergere la delicatezza del problema, sia come argomento generale sia come snodo della vicenda decisa nella pronuncia da cu si prende spunto.

Sappiamo, infatti, al riguardo, quanto la soluzione del suddetto conflitto non sia mai stata particolarmente agevole nel nostro ordinamento: sappiamo, cioè, quanto si sia rivelata ingannevole l'ipotesi procedimentale che la legge n. 241/1990 aveva traguardato, già nel suo originario tenore, con l'introduzione della conferenza di servizi [9].

Già in quella disciplina originaria gli interessi posti alla cura delle amministrazioni chiamate ad esprimersi simultaneamente non avrebbero potuto coordinarsi tutti ad ogni costo; e ciò perché la mancata partecipazione delle "amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini" (v. il vecchio comma 4 dell'art. 14 della legge) avrebbe potuto indebolire in modo decisivo lo strumento in esame.

Le evoluzioni successive (dalla legge n. 537/1993 in poi) hanno confermato la forza dell'approccio secondo il quale alcuni interessi, proprio per la loro proiezione costituzionalmente forte, nasconderebbero valori in sé non negoziabili né rinunciabili. E allora si è subito immaginato che l'unico luogo per lo scioglimento utile di ogni possibile dissenso fosse l'individuazione di un livello decisionale unico ed essenzialmente politico, quello del Governo nella sua composizione collegiale.

La contraddittorietà di questo esito è palese: come può la sola individuazione di una sede strettamente politica sintetizzare adeguatamente discorso politico e discorso di verità? Può essere un mero fatto di attribuzione a superare un dato preliminare e irrinunciabile di sostanza? Si trattava, all'evidenza, di un semplice escamotage, per riaffermare, finendo tuttavia per negarlo e per ri-assogettarlo a logiche gerarchiche, il carattere solo formalmente prevalente di alcuni valori [10]. Ma le conseguenze sono state anche altre.

Questa opzione ha condotto all'esplicita presa d'atto di un complessivo e conclamato fallimento, ossia del fallimento diffuso dell'idea che, da un lato, anche il discorso politico dovesse e potesse verosimilmente razionalizzarsi (od oggettivarsi) nel procedimento, al di là dell'espressione di mere valutazioni di contingente superiorità; e che, dall'altro, anche il discorso amministrativo sulla definizione previa di un determinato valore potesse essere condizionato dalla pertinenza di ulteriori ma ragionevoli considerazioni (e ciò perché la nozione stessa di interesse pubblico, in generale, avrebbe dovuto "aprirsi" ad una regola di "definizione circostanziata", ossia nel singolo procedimento e non in modo artificiosamente presupposto) [11].

Se ciò è vero, dunque, è altrettanto vero che il lato più critico della succitata sentenza del Consiglio di Stato - e della vicenda su cui essa si è espressa - non è attinente tanto alla correttezza o meno della soluzione singulatim adottata sul contenuto (isolatamente preso) delle valutazioni paesaggistiche (la soluzione, come si anticipava, è del tutto ragionevole, specialmente per quanto concerne il profilo dell'insufficiente motivazione sull'impraticabilità effettiva di realizzazioni alternative). Il profilo critico, piuttosto, attiene all'invariabile orizzonte "di conferenza" che la sentenza indirettamente indica e ribadisce come normale e risolutivo, mettendo così in luce una perplessità che non riguarda tanto il suo argomentare, quanto l'adeguatezza complessiva della disciplina positiva alla quale il giudice amministrativo è tenuto.

A fronte, cioè, del fatto che il ministero avrebbe esercitato concretamente male le proprie prerogative in tema di tutela del paesaggio, il giudice ha ricordato che la considerazione di altri interessi concorrenti o prevalenti non può che essere oggetto "di un ipotetico ortodosso confronto dialettico, che si svolga secondo le forme e le competenze di legge, con le Amministrazioni pubbliche portatrici di altri e opposti interessi" [12]. Ma con ciò non si fa altro che rinviare alla medesima "illusione" da ultimo rievocata, dato che, come si è visto, gli interessi che sono altri dal paesaggio (come dall'ambiente o dalla tutela dei beni culturali o della salute...) non sono comunque concepiti come raffrontabili su di un piano di tendenziale parità.

In sostanza, è come se il Consiglio di Stato, pur enfatizzando il fatto che non si può chiedere all'amministrazione preposta alla tutela del paesaggio di rinunciare al ruolo che le spetta, avesse ammesso che quel ruolo può poi cedere, legittimamente, in una sede diversa, nella quale il discorso di verità, irrinunciabile nella valutazione paesaggistica, può essere viceversa assorbito dal discorso di volontà, prevalente nella fase ascendente della concentrazione decisionale di matrice politica. Ma - e questo è il punto dolente - è davvero logico che ciò che non può assolutamente superarsi prima lo diventi dopo, allorché la decisione si sposti semplicemente verso l'alto?

La risposta non può che essere negativa, e in tal modo si constata che l'unica via per mettere in dubbio la correttezza della ricostruzione seguita dal giudice amministrativo nel caso in esame - e, più in generale, in merito alla definizione della natura delle valutazioni paesaggistiche - è constatarne soprattutto l'estrema e paradossale coerenza con un sistema di coordinamento contraddittorio, che non ha saputo, sin dall'origine, accedere ad un paradigma pieno di fusione o concertazione procedimentale delle rappresentazioni delle diverse amministrazioni coinvolte. È l'inaccessibilità pratica di un'operazione di questo tipo che spinge il paesaggio e la sua amministrazione a "blindarsi" in un "ostacolo" che solo la forza del vertice politico può superare.

6. Si può uscire dal paradigma di Clausewitz?

Bisogna notare che la tendenziale contraddittorietà della cornice non coinvolge solo le scelte del nostro legislatore storico; essa è stata ribadita anche in tempi più ravvicinati, laddove, nel dare attuazione alla cd. "riforma Madia" (legge 7 agosto 2015, n. 124), ci si è occupati nuovamente di conferenza di servizi (v. il d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127), con un'opzione che resta sostanzialmente fedele alla medesima impostazione.

Infatti, se da un lato la novella cerca di permettere alla concentrazione procedimentale di essere rapidamente e immediatamente produttiva anche a fronte di dissensi particolarmente qualificati (come sono, per ciò che interessa, quelli relativi alla tutela del paesaggio), dall'altro lo scioglimento dell'eventuale conflitto è ancora ricercato in uno slittamento verso l'alto, nel quale il ruolo della sede politica viene comunque ribadito, sia pur quale extrema ratio da percorrere all'esito di una particolare forma quasi contenziosa e di mediazione preliminare [13].

Sembra, dunque, che l'amministrazione italiana non possa ancora uscire dal "paradigma di Clausewitz" [14]: da una teoria, cioè, della discrezionalità amministrativa come metodo obbligato di comunicazione e di prosecuzione prioritaria di scelte squisitamente politiche, e (in tal senso) come dispositivo preferenziale o privilegiato per il coordinamento politico degli interessi pubblici.

Eppure, come si è constatato, e come consente di avvertire anche la sentenza del Consiglio di Stato qui commentata, nell'ordinamento sopravvivono e sono presenti impostazioni radicalmente opposte, che, nel definire alcuni interessi pubblici (innanzitutto) come valori acquisiti anziché come finalità da raggiungere, esigono che le scelte di volontà si razionalizzino e si adeguino a verità non politicamente bilanciabili o condizionabili. Sicché la contraddizione resta sempre "dietro la porta": perché al più alto livello politico la possibilità che il valore diventi interesse è un'opzione comunque conseguibile (e così la dequotazione che il dato costituzionale vorrebbe impedire è più facile di quanto sembri); e perché, al contempo, la scelta del procedimento, sia pur unificato, come sede di razionalizzazione (anche, se non soprattutto, delle scelte politiche) è messa costantemente sotto scacco ed è vieppiù produttiva non solo di valutazioni unilaterali, ma anche di conoscenze tecniche orgogliosamente disciplinari e autoreferenziali.

Il paesaggio, così, continuerà a restare un orgoglioso baluardo, in funzione di resistenza ad ogni mutamento, perché le sue valutazioni rimangono sempre consegnate ad un'amministrazione che è tenuta (se non incentivata) a garantirne l'impermeabilità proprio in ragione del rinvio esterno ad un'altra sede di condivisione e di composizione dei conflitti; mentre la realizzazione delle infrastrutture, allo stesso modo, continuerà a restare il cuneo di un'azione di penetrazione e di sviluppo della quale misurare potenzialmente, volta per volta, il grado della materiale e finale superiorità politica.

 

Note

[1] Cons. Stato, Sez. V, 23 luglio 2015, n. 3652, disponibile in giustizia-amministrativa.it. Per un commento v. L. di Giovanni, Valutazione tecnica e potere discrezionale nella tutela del paesaggio, in Giorn. dir. amm., 2016, pag. 47 ss., e A. Gigli, La funzione di tutela del paesaggio tra discrezionalità tecnica e compresenza di interessi primari, in Riv. quadr. dir. ambiente, 2015, 2.

[2] V. al punto 19 della motivazione.

[3] La letteratura è amplissima. Cfr., ad esempio, G. Sciullo, I vincoli paesaggistici ex lege: origini e ratio, in Aedon, 2012, 1-2; e G. Cartei, Paesaggio, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, pag. 4070.

[4] Data la conoscibilità delle opinioni sul punto espresse anche dal Presidente del Collegio giudicante: v., in particolare, G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio (art. 9 Cost.), in Codice di edilizia e urbanistica, (a cura di) S. Battini, L. Casini, G. Vesperini, C. Vitale, Torino, 2013, pag. 8 ss.

[5] Cfr., da ultimo, L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, 2016, in part. pag. 141 ss.

[6] V., ex multis, F. de Leonardis, Criteri di bilanciamento tra paesaggio e energia eolica, in Dir. amm., 2005, in part. pag. 889.

[7] V. G. Pagliari, Permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica, in Aidu, Urbanistica e paesaggio, Napoli, 2006, in part. pag. 283.

[8] Si pensi, ad esempio, alle ragioni della nota e dominante ricostruzione sulla non indennizzabilità dei vincoli paesaggistici.

[9] Cfr., sul punto, F. Cortese, Il coordinamento amministrativo. Dinamiche e interpretazioni, Milano, 2012, in part. pag. 48 ss., anche per ogni ulteriore riferimento bibliografico sul tema.

[10] Spunti in questa direzione si trovano anche in R. Bin, Dissensi in conferenza di servizi e incauto deferimento della decisione alle "Conferenze" intergovernative: le incongruenze della legge 15/2005, in Forum di Quaderni costituzionali (7 dicembre 2015).

[11] Ibidem. In argomento v. le letture che erano state proposte, al tempo, da F. Merusi, Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo la riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, in Aa. Vv., Gerarchia e coordinamento degli interessi pubblici e privati dopo la riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, Milano, 1994, pag. 39 ss., e da F. Benvenuti, L'impatto del procedimento nell'organizzazione e nell'ordinamento (quasi una conclusione autobiografica), in Scritti Mengoni, III, Milano, 1995, pag. 1723 ss., in part. pag. 1734 ss. (nonché in Id., Scritti giuridici, V, Milano, pag. 4381 ss., in part. pag. 4389 ss.).

[12] V. al punto 27 della motivazione.

[13] V. il nuovo art. 14-quinquies della legge n. 241/1990, così come introdotto dall'art. 1 del d.lgs. n. 127/2016 cit. Vi è, peraltro, coerenza tra questo assetto e quello direttamente dettato dalla "riforma Madia" in tema di "Silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici" (questa la rubrica del nuovo art. 17-bis della legge n. 241/1990, così come previsto dall'art. 3 della legge n. 124/2015 cit.).

[14] L'allusione è alla famosa opera di K. von Clausewitz, Vom Kriege (1832), tr. it. Della guerra, di A. Bollati e E. Canevari, Milano, 1997.

 

 



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