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I beni culturali e il mercato

Introduzione a: I beni culturali tra tutela, mercato e territorio [*]

di Luigi Covatta

Sommario: 1. Premessa. - 2. Quando un bene è culturale. - 3. Il "benculturalismo". - 4. Archiviare Bottai. - 5. Un ministero è un ministero. - 6. Il finanziamento del sistema. - 7. Una nuova legge di tutela.

Cultural Property between Protection, Market and Land Use - Introduction
This article is the Introduction to a recent volume on cultural property in Italy. The author illustrates the main threads of the book, which involve almost every issue of cultural property law and policy: the very notion of cultural property, its crisis and its evolution; the need to enact legislative reforms; the limits of the institutional design; and the increasing lack of resources. The article, on the one hand, examines the current situation and sheds lights on its points of weakness; on the other hand, it proposes possible reforms and suggests legislative amendments.

1. Premessa

"Affamare la bestia", il titolo dell'appunto da cui due anni fa ha preso le mosse il gruppo che con questo volume conclude il proprio lavoro, è un titolo che non ha avuto fortuna. Evidentemente la reminiscenza reaganiana non era gradita. Forse avrei dovuto formulare la diagnosi nella più dolce versione napoletana ("l'acqua scarseggia e la papera non galleggia"), ed indicare la terapia richiamandomi alla saggezza delle nostre nonne ("la necessità aguzza l'ingegno"). Il concetto, comunque, è lo stesso: la scarsità di risorse, oltre che dover essere deplorata, può costituire un incentivo per il rinnovamento di una policy che finora non ha dato grandi risultati. Il caso di Pompei, l'anno scorso, ha finalmente scandalizzato l'opinione pubblica. Ma gli scandali oportet ut eveniant solo quando non servono a deviare l'attenzione dai fatti. Lo scandalo di Pompei non ha a che fare né con la scarsità di fondi, né con la carenza di restauri [1]. E' invece il frutto, se è consentita la parafrasi, della "banalità della tutela" amministrativa. D'altra parte l'episodio di Pompei fa tornare in mente quello del consolidamento della torre di Pisa, di cui nelle pagine che seguono si occupa Eleonora Pagani. Il governo di allora (1990) affidò l'opera ad un comitato scientifico internazionale che, con piena responsabilità, progettò, appaltò e collaudò i lavori. Il tutto in pochi anni. Come dire, fra l'altro, che c'è commissariamento e commissariamento: c'è quello di Pompei affidato alla Protezione civile col solo scopo di surrogare la sovrintendenza, ma senza un progetto e senza altri poteri di deroga che non fossero quelli relativi agli appalti; e c'è quello affidato a Pisa al comitato internazionale, con un fine preciso (consolidare un edificio), un progetto affidato ai tecnici, e senza deroghe nelle procedure per l'affidamento dei lavori. Il dato comunque è che il ministero per i Beni e le Attività culturali fatica ormai a svolgere il proprio ruolo, e che la causa di questa difficoltà non può essere attribuita genericamente al ministro dell'economia ed ai suoi tagli lineari: l'entità dei residui che nonostante i tagli il ministero accumula negli anni, documentata di seguito da Giuseppe Pennisi e Pietro Graziani, induce semmai a spostare l'attenzione sulla cattiva organizzazione. Nel corso degli ultimi quindici anni, peraltro, non sono mancate le riforme organizzative, che tuttavia non hanno portato a risultati apprezzabili. Né è stato risolutivo addentrarsi in dispute tanto frequentate quanto inconcludenti come quella fra tutela e valorizzazione, quella fra pubblico e privato, o quella fra centralismo e decentramento. Sembra logico, quindi, cercare altrove i motivi di questa difficoltà, fino magari a mettere in dubbio, per il ministero, la stessa possibilità concettuale (prima ancora che pratica) di svolgere in modo adeguato i propri compiti.

L'indagine quindi deve collocarsi a monte, esplorando i fondamentali della tutela, per capire:

- quali beni tutelare e come;

- quali funzioni possa svolgere un ministero;

- quale sistema organizzativo debba adottare;

- in definitiva quale ministero debba essere.

Va innanzitutto messa in discussione l'adeguatezza della missione che le leggi e la prassi hanno finora assegnato al ministero, valutando sia l'attualità delle leggi di tutela (legge Bottai e codice Urbani), sia l'impatto che la creazione di un ministero ad hoc ha avuto sul loro eventuale aggiornamento. Sintetizzo a mio modo le ipotesi da cui siamo partiti in questa riflessione:

a. la proprietà di un bene, pubblica o privata che sia, non garantisce della sua tutela, perché il patrimonio pubblico non è tutelato ex opere operato;

b. la tutela fatta solo di vincoli, notifiche ed altre limitazioni d'uso, oltre a configurarsi talvolta come persecuzione della privata proprietà in termini non sempre compatibili con i principi di uno Stato liberale, rende problematica una tutela attiva capace anche di integrarsi con le inevitabili esigenze di sviluppo del territorio;

c. l'efficacia degli strumenti di tutela sarà tanto maggiore quanto più essi saranno concepiti e utilizzati nell'ambito di una politica dello sviluppo sostenibile, concetto su cui ormai si aggrega un vasto consenso che peraltro riguarda quasi esclusivamente la tutela dell'ambiente naturale e non ancora quella dell'ambiente storico;

d. la dispersione delle risorse dipende anche da una prassi - che peraltro trova il suo fondamento giuridico e culturale nella legge 1 giugno 1939, n. 1089 - attenta più al restauro che alla prevenzione e più alle cose che ai contesti;

e. ulteriore e conseguente causa della dispersione di risorse è la tendenza alla musealizzazione del patrimonio, quasi che questa sia l'unica forma di fruizione pubblica possibile.

2. Quando un bene è culturale

Questa avvertenza preliminare costituisce la griglia di lettura per esaminare col necessario rigore i fondamentali di una politica dei beni culturali. Innanzitutto, come si è detto, è il caso di definire meglio i beni da tutelare. A questo proposito si deve tenere presente la definizione di Massimo Severo Giannini, per il quale le medesime cose sono "supporto insieme di uno o più beni patrimoniali, e di un altro bene, che è il bene culturale. Come bene patrimoniale la cosa è oggetto di diritti di proprietà, e può esserlo di altri diritti (per esempio usufrutto, pegno), come bene culturale è oggetto di situazioni soggettive attive del potere pubblico" [2]: per il giurista, cioè, nel caso dei beni culturali il bene pubblico è costituito dalla sua dimensione immateriale. Se quindi la dimensione immateriale è costitutiva dello stesso patrimonio culturale, con tutto quello che questo comporta rispetto alla sua conservazione e alla sua gestione, i beni culturali sono beni pubblici qualunque ne sia il regime proprietario: è di interesse pubblico, cioè, la dimensione immateriale delle cose che la legge Bottai considera meritevoli di tutela. Ma questa è la prima causa del sovraccarico che oggi grava su un ministero che non solo dovrebbe amministrare cose che aumentano di giorno in giorno per numero e tipologie, ma che dovrebbe tutelarne innanzitutto la dimensione immateriale: da cui l'eterogenesi dei fini che ormai si determina ogni volta che si cerca di innovare l'organizzazione del ministero, e che si spiega solo revocando in dubbio la pretesa di contenere nel "finito" di un'amministrazione un bene che per la sua natura immateriale è "infinito". Per questo il ministero più tira e più si strozza, fino a restare "incaprettato".

Dal paradosso si esce solo se si conviene con Bruno Zanardi - nell'intervento che seguirà e soprattutto nel volume in cui mette a confronto le teorie del restauro di Cesare Brandi e di Giovanni Urbani - sul criterio di valutazione dei beni, che non può essere più soltanto quello estetico teorizzato da Brandi, ma deve essere sempre più il criterio ermeneutico sostenuto da Urbani [3]. O se si conviene con Andreina Ricci, che affrontando il tema con un approccio diverso, ha messo in guardia contro la "tentazione di credere che accumulare frammenti di preesistenze equivalga, di per sé, ad accumulare una memoria", dal momento che "l'azione del ricordare deve avvenire, e deve avvenire nel presente" [4].

In questo senso - ma solo in questo senso - la valorizzazione coincide con la conservazione del patrimonio. Ed ancora in questo senso forse non è contraddittorio aver fatto confluire la conservazione dei beni e delle attività culturali in un unico portafoglio ministeriale: anche la valorizzazione del patrimonio, nei termini prima descritti, è infatti una attività culturale che trascende la pur imprescindibile conservazione fisica del bene: senza dimenticare, peraltro, che l'abuso verificatosi negli ultimi trent'anni del termine valorizzazione è anch'esso un aspetto della malferma cultura della conservazione che si è perpetuata. Infatti quanto più si è confusa la conservazione con una procedura prevalentemente amministrativa, tanto più si è caricato alla rinfusa il termine valorizzazione di tutto ciò che per sua natura trascende la dimensione amministrativa: dalla fruizione pubblica alla ricerca, dalla commercializzazione delle immagini fino alla bigliettazione nei musei e nei siti archeologici.

3. Il "benculturalismo"

Si tratta, quindi, di definire meglio quale debba essere il portafoglio ministeriale. Anzi si tratta prima ancora di stabilire se in un portafoglio ministeriale possano essere contenute tutte le funzioni relative alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale. Questa pretesa, secondo diversi osservatori, ha dato vita al "benculturalismo" la dimensione autoreferenziale, cioè, che ha assunto la politica dei beni culturali da quando, come scrisse tempo fa Salvatore Settis, "le vecchie care antichità e belle arti" vennero trasfigurate "in quattro e quattr'otto in beni culturali" [5]. Il "benculturalismo" è figlio legittimo del "ministerialismo". L'organo, in questo caso, ha creato la funzione. E dal momento che anche nei mercati chiusi la moneta cattiva scaccia quella buona, la chiacchiera "benculturalista" ha scacciato non solo il discorso sulla tutela attiva, ma anche quello sul rilievo della ricerca nel campo della conservazione e del restauro, non riducibile ai quattro soldi degli sponsor per i ponteggi di Trinità dei Monti o di piazza Navona. Sono innanzitutto culturali, infatti, le ragioni per denunciare quella che secondo la Ricci è "una vera e propria anomalia all'interno dell'amministrazione dello Stato", l'unico caso "in cui uno stesso soggetto può legittimamente imporre, eseguire e collaudare una qualsiasi opera": un "potere assoluto" che si giustifica con un permanente "stato d'eccezione" [6] (spesso alimentato, come in qualsiasi Stato di polizia, dagli stessi tutori dell'ordine), e finisce per dar luogo ad "una politica della tutela connotatasi, quasi unicamente, come strumento di opposizione: verso un passato prossimo, più facile da cancellare, rifiutandolo in blocco, che da pensare; verso un presente, teso unicamente a garantire preesistenze considerate concluse nel loro ciclo trasformativo; verso un futuro estraneo, astratto, mai localizzabile né compatibile coi resti materiali del passato". E se la tutela deve lasciarsi alle spalle quella "strategia di interdizione" che finora si è concretata in "una separazione netta, radicale, tra gli specialisti (detentori e depositari di particolari saperi) e i comuni cittadini", non è facile affidarla ad una struttura amministrativa. Tra i comuni cittadini, del resto, vanno annoverati anche gli studiosi non inquadrati come specialisti nei ruoli ministeriali, ma i cui saperi sono determinanti per costruire nel presente una memoria dai frammenti del passato. Senza dire che sono i comuni cittadini che, col loro stesso sguardo e coi loro codici linguistici, in qualche modo qualificano una cosa come bene culturale, come spiegò Umberto Eco più di vent'anni fa [7]. Quanto al sistema organizzativo, è il caso di ricordare che già quando nel 1975 venne assegnato un portafoglio al ministro per i Beni culturali Andrea Carandini osservò che "il nuovo ministero, tutt'altro che atipico, presenta una struttura verticistica di abnorme dimensione, la quale non soltanto non ammette alcun reale decentramento regionale, ma neppure consente un decentramento nell'ambito della propria organizzazione" [8]. La rigidità organizzativa rende evidentemente impossibile differenziare in ragione delle diverse funzioni svolte il regime delle funzioni stesse (ora sostanzialmente e proceduralmente uniforme); mentre l'assetto organizzativo degli apparati e delle strutture necessarie per svolgerle, con il correlato ma distinto assunto della esclusività, impedisce di interloquire con i nuovi attori centrali delle politiche di settore (dalla Ue al ministero dell'Economia), e con gli attori operanti sul territorio (regioni e sistema delle autonomie, università, fondazioni, imprese private e anche pubbliche).

4. Archiviare Bottai

Come si è già detto, è illusorio pensare di risolvere questi problemi con ulteriori riforme organizzative. Più utile sarebbe rivisitare la legge 1 giugno 1939, n. 1089, che appare sempre più datata, e la cui obsolescenza avrebbe forse potuto essere superata di fatto - come è capitato in altri casi - se nel 1975 non si fosse creato un ministero con portafoglio, che inevitabilmente ne ha irrigidito l'applicazione. Anche a legislazione di tutela invariata, comunque, si può immaginare un riposizionamento delle funzioni del ministero in due cerchi:

a. un cerchio stretto, in cui prevalgono le esigenze di protezione/conservazione, ed a cui vanno rigidamente funzionalizzati gli altri interessi in gioco; in questo cerchio la gestione conservativa va affidata ai tecnici, con standard stretti ed uniformi, quale che sia la mano (pubblica o privata, statale o locale) che gestisce il bene, e con risorse (personale, finanziarie, ecc.) comunque garantite e prevedibili;

b. un cerchio largo, in cui, in presenza di una pluralità di interessi da soddisfare, è innanzitutto necessario procedere ad un loro esplicito raffronto e composizione, per realizzare una gestione (il più possibile) economico-aziendale (nella dialettica con il contrappeso costituito dai tecnici), differenziando le forme di regolazione e di organizzazione, e cercando di acquisire risorse all'esterno. Il riposizionamento si colloca all'interno del necessario ripensamento generale sui beni pubblici e sulle nuove tipologie che emergono in materia (beni immateriali, beni comuni, ecc.), in linea con le indicazioni formulate dalla Commissione Rodotà; e va modulato tenendo conto dei vincoli e delle opportunità, a cominciare dal gradualismo e dalla differenziazione per aree regionali di cui al nuovo Titolo V della Costituzione [9].

Rispetto al cerchio largo è bene tenere conto dell'evoluzione degli strumenti urbanistici, oggi meno imperativi e più negoziali che in passato, e quindi valutare la compatibilità della vincolistica tradizionale con essi. Qualche spunto di riflessione in materia può trovarsi nell'elaborazione in corso dei piani di gestione dei siti individuati dall'Unesco come "patrimonio dell'umanità" [10]. Ovviamente questi piani si fondano su forme di cooperazione inter-istituzionale che andrebbero attivate e sostenute (anche finanziariamente) innanzitutto nel corso dell'attuazione del "federalismo demaniale", che altrimenti rischia di risolversi in un complessivo degrado del nostro patrimonio. Resta da stabilire quale sia l'autorità politico-amministrativa più adatta ad adempiere alle funzioni di cui si è parlato. Sabino Cassese ricorda la critica mossa alla legge istitutiva del ministero, che fece "precedere la determinazione degli strumenti alla identificazione degli obiettivi". Infatti "il provvedimento non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela; consiste in un mero trasferimento di uffici da una struttura all'altra e non si vede perché uffici che non funzionavano dovrebbero funzionare riuniti in un unico ministero". Cassese, dopo avere ricordato l'estrema varietà tipologica dei beni culturali, aggiunge da parte sua che "non si può neppure dire che la presentazione di una plausibile spiegazione dell'unitarietà delle categorie di beni la cui amministrazione è rimessa al nuovo ministero serva a farlo funzionare meglio o ad assegnare un diverso più ampio ruolo allo Stato rispetto ai beni" [11]. Cassese tuttavia auspicava che la creazione del ministero fosse utile alla "adozione di una nuova disciplina dei beni culturali" attraverso "l'elaborazione di un sistema di concetti", benché non si nascondesse i limiti che si incontrano "quando si dà una soluzione meramente organizzativa a problemi che richiedono un previo intervento legislativo della disciplina sostanziale" [12]. Quasi trent'anni dopo si deve constatare che l'intervento legislativo postulato da Cassese come "previo" non è stato neanche postumo; e che anzi, come si è già accennato, la stessa esistenza del ministero ha in qualche modo irrigidito una normativa che già trent'anni fa appariva inadeguata.

5. Un ministero è un ministero

D'altra parte nel 1996 Marco Cammelli revocava in dubbio anche la funzionalità di un diverso ministero (allora si progettava quello della cultura, poi di fatto realizzato da Veltroni per giustapposizione di apparati), sottolineando "l'eterogeneità dei significati, e più a fondo delle motivazioni, attribuiti al termine ministero". Infatti "per qualcuno ministero della Cultura è metafora di una politica per la cultura, sicché si auspica il primo per avere la seconda; per altri è soluzione organizzativa che si impone per ovviare alla assurda dispersione di compiti e funzioni fra ben sette ministeri; per altri ancora è l'occasione di sottrarre il settore alla politica-politicante, affidandone la titolarità ad una personalità super partes. Per altri, infine, non è un caso, è una necessità: si tratta infatti della forma necessaria di una gestione centralizzata secondo la ferrea sequenza: centro = stato = apparati ministeriali". Solo quest'ultimo significato, per Cammelli, coincide con la nozione di ministero, "un termine giuridicamente specifico che corrisponde, sia pure con varianti, ad una precisa tipologia base: un insieme di apparati amministrativi a forma piramidale [...], specializzati per macro aree funzionali [...], disciplinato dal diritto amministrativo e da un regime tipico di controlli amministrativi, contabili e finanziari, retto da un titolare di estrazione politica, il ministro, e concepito per svolgere il proprio compito in termini di gestione diretta e accentrata". Niente a che vedere, quindi, "con scelte, ad esempio, di distanza dalla politica [...], per le quali meglio si attaglierebbe la figura della autorità", o "con un sistema ispirato al principio dell'autonomia [...] o di decentramento istituzionale [...] o con forme di gestione imprenditoriale" [13]. In quel saggio Cammelli optava quindi per una soluzione che affidasse appunto a un'autorità indipendente le funzioni che prima ho racchiuso nel cerchio stretto, e alle regioni la competenza sul cerchio largo. L'ipotesi dell'autorità perfezionava quella, concepita in seno alla Commissione Franceschini e poi sostenuta senza successo da Massimo Severo Giannini, di un'agenzia per la tutela, che avrebbe avuto il pregio di essere "una struttura molto agile, come un grandissimo ufficio per l'organizzazione e il controllo della tutela, che per l'azione avrebbe potuto utilizzare strumenti di diritto privato, cioè applicare il Codice civile" [14]. Né l'ipotesi di Giannini, peraltro, né quella di Cammelli ebbero seguito. Così come non ebbe seguito l'ipotesi del ministro Bassanini nella prima stesura del disegno di legge sulla riforma della struttura del governo, che a sua volta prevedeva che il ministro per i beni culturali non avesse un portafoglio. Sorte non migliore, del resto, è toccata, nel 2001, alla riforma del Titolo V della Costituzione, che pure prevedeva, in materia, un riparto delle competenze fra Stato e regioni così chiaro da avere ispirato anche qualche sentenza del Consiglio di Stato poco gradita dall'amministrazione centrale.

A tutto questo si è tentato di rimediare col nuovo codice, il cui limite principale, peraltro, è proprio la pretesa di conciliare l'adozione di una nozione ampia di patrimonio culturale (fino a comprendervi il paesaggio) con la gestione burocratica e centralistica che è propria di un ministero. Del resto il ministro Urbani, nel presentare (con un linguaggio che per la verità non gli appartiene) il suo nuovo codice alle camere, riteneva di non dover prendere una posizione netta e definitiva nell'ambito della risalente e mai sopita disputa dottrinaria sulla nozione di bene culturale, giudicandosi più opportuno accogliere una nozione mista di bene culturale, risultante dalla sintesi della nozione elencativa offerta dall'articolo 2 della legge 1089 del 1939 con la nozione aperta già proposta dalla nota Commissione Franceschini nel 1966. Come fosse possibile, nel 2003, pensare di tutelare qualcosa che non si sapeva identificare se non facendo una sintesi fra una definizione del 1939 e una del 1966 è questione da lasciar risolvere ai consiglieri giuridici di Urbani. Ma perché non fosse possibile chiudere la risalente e mai sopita disputa dottrinaria è invece più chiaro. Infatti solo se si tratta di custodire cose, possibilmente musealizzate o musealizzabili, può avere un senso la gestione amministrativa del patrimonio culturale. Mentre se, come sosteneva un altro Urbani, Giovanni, oggetto della tutela è l'intero contesto in cui le cose sono collocate (il territorio, cioè), diventa inevitabile adottare principi di tutela attiva, che postulano cooperazione inter istituzionale e autorità di vigilanza organizzate secondo criteri tecnico-scientifici: l'opposto non solo di questo ministero, ma di qualsiasi ministero.

6. Il finanziamento del sistema

Solo a condizione di dare qualche seguito alle idee esposte prima, quindi, il finanziamento del sistema può essere allargato negoziando risorse con gli altri interessi (pubblici o privati) con cui esso interferisce. Ovviamente non tutti questi interessi sono materiali. Fra quelli immateriali di interesse pubblico vanno annoverati anche la promozione dell'identità nazionale, la coesione sociale, l'estensione della cittadinanza, la promozione della cultura (senza dire che sono immateriali anche alcuni interessi privati, come per esempio il diritto degli studiosi a condurre liberamente le loro ricerche).

Quanto agli interessi materiali, essi possono trovare soddisfazione con una gestione dei beni culturali analoga a quella di altri beni pubblici, mentre attualmente la loro gestione amministrativa determina inefficienze che per giunta, date le regole che oggi governano la spesa pubblica, si risolvono in progressivi tagli al bilancio del ministero. Accanto ai trasferimenti del Tesoro, quindi, si deve ricorrere allo strumento fiscale, alle fondazioni, alla valorizzazione dei diritti d'uso di cose appartenenti al patrimonio indisponibile, all'uso oculato dei fondi europei e dei fondi Cipe, agli accordi di programma con gli utenti del territorio, con l'industria culturale, e con le università e gli enti di ricerca: il patrimonio culturale, cioè, "deve trasformarsi progressivamente da consumatore di capitali pubblici ad autentico attrattore di capitali privati" [15]. In ogni modo bisogna finalmente trascendere la dimensione del mecenatismo, e collocare nel moderno circuito dell'economia della cultura la stessa questione del finanziamento (inevitabilmente in prevalenza pubblico) delle attività finalizzate alla conservazione.

Condizioni per l'allargamento del finanziamento al sistema sono da un lato una diversa utilizzazione degli apparati ministeriali, che debbono essere orientati alla programmazione, alla progettazione e al collaudo delle opere necessarie alla conservazione del patrimonio piuttosto che alla sua gestione; dall'altro la creazione di agenzie in grado di rappresentare ed ottimizzare l'interesse pubblico nel rapporto coi privati. Qualcosa del genere, rispetto allo sviluppo del territorio, avrebbe dovuto fare Arcus, secondo l'idea originaria (non a caso concepita dall'amministrazione dei lavori pubblici proprio in considerazione degli altissimi costi nella progettazione delle grandi opere pubbliche della mancata negoziazione con le sovrintendenze). Ma Arcus, nella migliore delle ipotesi, è diventata una specie di bancomat al quale rivolgersi per soddisfare le esigenze più svariate, mentre nel centro di Roma sono aperti da anni cantieri per le indagini archeologiche propedeutiche all'esecuzione dei lavori per la metropolitana. Neanche la creazione di fondazioni ad hoc come quella cui è stato affidato il Museo Egizio di Torino, del resto, ha finora offerto soluzioni soddisfacenti, visto che, nel caso, essa soffre per l'irrisolta ambiguità del rapporto con le autorità di tutela.

Se i compiti del ministero fossero sempre meno amministrativi e sempre più orientati al governo del sistema si potrebbe ridare un senso anche all'idea di un ministero della cultura, che invece si è realizzata con la mera giustapposizione di attività e beni culturali. Infatti l'assetto di governo di questo ministero dovrebbe garantire il funzionamento di reti di relazione con gli altri attori (sovranazionali, centrali, locali, ecc.), di forme di regolazione e di controllo, nonché di sistemi informativi. Le nuove funzioni del ministero inoltre dovrebbero dare spazio all'occupazione intellettuale, che invece trova scarso spazio sia nell'attuale struttura ministeriale, sia nelle attività a valle della gestione amministrativa del patrimonio, come documenta Alessandro F. Leon [16].

Nell'immediato si tratta innanzitutto di sospendere il negoziato con i micro-interessi (sindacati, corporazioni professionali, organizzazioni elitarie, lobbing localistico) che tradizionalmente ha presieduto alla spartizione delle pur scarse risorse a disposizione del ministero, e di aprire invece un negoziato con i macro-interessi legati alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio, che sono molti di più di quelli che si pensa, e non appartengono necessariamente alla categoria dei patronati e degli enti benefici, ma alle categorie economiche che ruotano attorno alle politiche del territorio, a quelle della comunicazione ed al turismo: come dire, nella società postindustriale, i due terzi dei produttori di ricchezza. Ad essi non va chiesta l'elemosina, ma va appunto proposto un negoziato in grado di contemperare le esigenze di tutela con quelle dello sviluppo del territorio e della moltiplicazione delle forme di fruizione del patrimonio culturale.

Di innovazione (culturale prima che organizzativa) c'è bisogno urgente anche nella gestione del sistema museale. Una ricerca in materia condotta dalla Scuola Normale di Pisa ha dimostrato come la gestione burocratica di questi sistemi - che erano stati ideati nei primi anni '90 proprio per superare la dimensione puramente collezionistica degli istituti museali - ha moltiplicato piuttosto gli organi di gestione che non consolidato il legame col territorio [17]. Del resto rimettere a fuoco il tema dei musei significa anche sottrarlo ai venditori di gadget e sottoporlo invece agli specialisti della comunicazione, ai quali si deve chiedere di sviluppare le intuizioni di Eco (ma anche di Renzo Piano, per quanto riguarda i siti archeologici), e che ora possono trarre qualche utile spunto dal saggio di Tommaso Montanari, con l'ambizione di fare nuovamente dell'Italia il paese leader nel settore [18].

Anche in questo caso è bene andare oltre le dispute su pubblico e privato, specialmente se riferite solo alla gestione economica dei musei. Spesso si dimentica che è privato, come si è detto, anche lo studioso che interpreta a suo modo il gotico, ed è privato il visitatore che legge un'opera d'arte secondo i propri codici linguistici. Ci si potrebbe anzi chiedere come reagiremmo se l'interpretazione di un dramma di Shakespeare o di un'opera di Verdi fosse codificata in sede amministrativa: mentre nel campo della fruizione del patrimonio culturale sembra normale che esista un'estetica di Stato. Né vale obiettare che nel nostro caso lo Stato deve tutelare la fisicità del patrimonio, perché la tutela della fisicità del patrimonio non è incompatibile con l'uso libero della sua dimensione immateriale: gli archivi tutelano la fisicità dei documenti, ma non ne precludono la libera interpretazione, come invece fanno allestimenti museali che, come ebbero modo di osservare qualche anno fa Paolo Leon e Michele Trimarchi, grazie ad un "coagulo obsoleto e rigido di norme e regole", hanno partorito "un portentoso essere, un museo che guarda ancora all'Ottocento quando mantiene in vita la propria collezione e al prossimo secolo quando alla fine della visita inzeppa gli scaffali di portacenere e mouse-pad", fino a ridurre alla mendicità un settore che potrebbe essere trainante "in un'economia in cui il contenuto immateriale e creativo delle merci occupa il primo posto nella gerarchia dei valori" [19]. Senza dire che l'indisponibilità del patrimonio culturale, se impedisce di alienare le cose di cui è composto, non impedisce di usarle secondo criteri molteplici: anche attraverso prestiti a lungo termine a titolo oneroso, come alcuni sostengono fin dal 1991 [20].

7. Una nuova legge di tutela

Alla luce di quanto finora esposto sembra quindi non più rinviabile l'adempimento di quanto Cassese auspicava fin dal lontano 1976. Infatti, a monte delle disfunzioni del ministero per i Beni e le Attività culturali, e delle stesse dispute sull'opportunità della sua istituzione, c'è una legge di tutela decisamente datata sia dal punto di vista politico-istituzionale che dal punto di vista culturale. Il clima politico-parlamentare non è certamente il migliore per realizzare una riforma di questa portata. Ma proprio per questo è indispensabile aprire il dibattito in sede prepolitica, come proviamo a fare con l'intervento di Lorenzo Casini. Ci si deve innanzitutto chiedere come mai, presso l'opinione pubblica, l'idea della conservazione del patrimonio culturale sia nettamente separata da quella della conservazione dell'ambiente naturale: come mai, cioè, sia del tutto estranea al dibattito pubblico sui beni culturali la prospettiva di uno sviluppo sostenibile, attorno alla quale si sono aggregati negli ultimi decenni movimenti ecologisti sempre più vasti. Innanzitutto, probabilmente, perché il concetto di beni indica una realtà puntiforme, evoca una tutela patrimoniale, non è generalizzabile come il concetto di qualità dell'aria e quello di quantità dell'acqua disponibile. E in ogni modo perché gli addetti alla tutela sono quelli descritti dalla Ricci nel brano citato prima: gli specialisti che hanno voluto mantenere netta la separazione fra sé e i comuni cittadini per garantire preesistenze considerate concluse nel loro ciclo trasformativo. Se però queste preesistenze non sono concluse nel loro ciclo trasformativo, va da sé che la loro tutela va affidata a una legge a maglie larghe, oltre che alla sensibilità dell'opinione pubblica e dei soggetti politico-amministrativi che ne sono interpreti. E' quello che avviene, sia pure con risultati non sempre soddisfacenti, per la tutela dell'ambiente; ed anche, non dimentichiamolo, per la tutela di altri beni pubblici e di altri diritti costituzionalmente garantiti, come per esempio il diritto alla salute e il diritto allo studio.

E' rischiosa una legge a maglie larghe? Sicuramente sì, così come è rischiosa l'economia di mercato rispetto all'economia chiusa, la libertà di stampa rispetto alla censura, ed anche la vita rispetto alla morte. Perciò, fra l'altro, sono state inventate le autorità di regolazione, le forze dell'ordine, la medicina preventiva e gli ospedali.

Non si possono immaginare autorità di regolazione per la tutela del patrimonio culturale? Non si possono definire procedure negoziali come quelle, sicuramente perfettibili, che presiedono alla tutela dell'ambiente nell'ambito dello sviluppo sostenibile? Aveva torto Giovanni Urbani quando proponeva di considerare i beni culturali come traguardi o punti fissi per la messa a fuoco sia di qualsiasi disegno di pianificazione urbanistica, territoriale o paesistica, sia dei criteri per la valutazione di impatto ambientale? E se aveva ragione, a che serve un'amministrazione che agisce solo per vincoli e interdizioni? Sono domande da cui far partire una riflessione non solo sulla legge di tutela, ma anche sulla pratica della tutela: una pratica che esige sempre più cooperazione inter-istituzionale, negoziato con gli interessi privati, programmazione degli interventi conservativi nell'ambito di piani per la tutela del territorio e dell'ambiente.

Resta da dire che una più rigorosa messa a fuoco delle esigenze di conservazione dei beni (cioè, per chiamare le cose con il loro nome, di monumenti, palazzi, chiese, siti archeologici, sculture e dipinti) avrebbe effetti benefici anche sugli altri settori che un po' alla rinfusa sono stati accatastati nella competenza dell'attuale ministero: influirebbe positivamente sulla condizione di parenti poveri a cui sono stati condannati archivi e biblioteche da quando sono stati omologati ai beni culturali (tanto da diventare addirittura contenitori di beni archivistici e beni librari), come argomenta Lucia Zannino; ed avrebbe ricadute anche sulla condizione di parenti un po' scapestrati in cui versano il cinema e lo spettacolo dal vivo (non parlo dello sport, scusandomi col dir non lo conosco), dal momento che non mancano, in questo ambito, funzioni pubbliche da presidiare, come la formazione degli operatori, la promozione dei giovani talenti, il rapporto teatro-scuola, quello fra cinema, teatro e Tv, ed altre che si possono aggiungere. Anche in questo caso, però, non sarebbe male affamare la bestia. Non che Tremonti non abbia provveduto, per la parte che gli compete. Ma non dimentico che fra le mie colpe (ormai cadute in prescrizione) c'è anche quella di essere stato a suo tempo relatore della legge istitutiva del Fus, e che non mi bastarono le ventuno lettere dell'alfabeto italiano per elencare le categorie aventi diritto a nominare un rappresentante in seno al Consiglio nazionale dello spettacolo. Questa reminiscenza aiuta a comprendere quanto sia difficile realizzare riforme di sistema (e quella della legge di tutela sicuramente lo è) nella società dei due terzi: nella società, cioè, in cui la maggioranza dei cittadini ha raggiunto un certo livello di benessere che non intende mettere in discussione per aiutare una minoranza di emarginati. Le ventiquattro categorie che hanno titolo a rappresentare il mondo dello spettacolo non avrebbero nulla in contrario ad estendere ad altri i benefici di cui godono, ma non ne accetterebbero mai l'equa redistribuzione. E' lo scoglio su cui ha rischiato di naufragare (e rischia ancora) il riformismo europeo. Ed è uno scoglio che va superato con le buone o con le cattive. Con le cattive maniere lo si sta superando in Grecia e in Irlanda, e dovunque la crisi fiscale dello Stato obbliga alla macelleria sociale. Le buone maniere, invece, esigono un progetto politico ampio che indichi una meta più ambiziosa in vista della quale aggregare consensi e interessi: un nuovo paradigma che non si fondi solo sulla virtù e sui valori, sul dover essere delle anime belle, ma anche sugli interessi e sui bisogni degli uomini in carne, ossa e legno storto. Ed esige un progetto ampio anche una legge che non affidi la tutela del passato soltanto ad automatismi burocratici, che non la deleghi solo a quegli specialisti la cui professionalità a qualcuno sembra solo quella dell'idiot savant [21], ma la affidi innanzitutto al senso comune dei cittadini (al senso civico, se il termine non evocasse troppo il politically correct). Ed è in questa prospettiva che nella società dei due terzi il riformismo può avere ancora un senso, ed anzi può essere l'unico rimedio: nell'indicare, cioè, in luogo di un vecchio compromesso fra interessi che si rivela ormai tanto insostenibile quanto iniquo, un nuovo compromesso (un new deal, perché no?) di cui anche la tutela della qualità della vita sia uno dei fattori. Può sembrare un volo pindarico concludere con queste considerazioni uno scritto dedicato alla politica della cultura e dei beni culturali. E sicuramente lo è rispetto alla qualità dell'odierno dibattito politico-parlamentare. Non lo è, invece, rispetto al merito della questione, che può essere risolta soltanto se smette di essere questione separata e marginale da affidare a specialisti e ad anime belle. E che potrebbe perfino cominciare ad essere affrontata qui ed ora, anche senza una nuova legge. Perché, per esempio, non ispirare al criterio della conservazione programmata la ricostruzione della città dell'Aquila? Quale occasione migliore per coniugare sviluppo e memoria? Per toccare con mano che non bastano i prefabbricati per tutelare il tessuto economico e sociale di una città? Ed allora anch'io, nel mio piccolo, vorrei have a dream: vedere archeologi, architetti, storici dell'arte, sociologi, urbanisti, geologi, restauratori aprire un cantiere all'Aquila per ricostruire, coi tempi che ci vogliono, un tessuto urbano devastato dal terremoto.

 

Note

[*] Il presente scritto costituisce l'Introduzione del volume I beni culturali tra tutela, mercato e territorio, a cura di Luigi Covatta. Si ringrazia il prof. Franco Bassanini per averne permesso la pubblicazione su Aedon.

[1] Si veda anche l'intervento di P.G. Guzzo, Il paradigma di Pompei, in Mondoperaio, 2011, n. 1, pagg. 27-29.

[2] S. Cassese, L'amministrazione dello Stato, Milano, 1976, pag. 175.

[3] B. Zanardi, Il restauro, Milano, 2009.

[4] A. Ricci, Attorno alla nuda pietra, Roma, 2006.

[5] S. Settis, Il Sole 24 Ore del 28 maggio 2007.

[6]E' significativo, da questo punto di vista, e a prescindere dagli eventuali abusi ora oggetto di indagine giudiziaria, il ricorso sempre più frequente alla legge sulla Protezione civile per gestire aree archeologiche e poli museali. Sul tema vedi V. Francola, L'archeologia commissariata, in Mondoperaio, 2010, n. 2 pagg. 37-40.

[7] AA.VV., Le isole del tesoro, Roma, 1986.

[8] A. Carandini, Il Filtro burocratico, in L'Unità, 20 ottobre 1975, pag. 3. E' bene ricordare la singolare (per quei tempi) procedura seguita per l'istituzione del ministero per i Beni culturali e ambientali (che poi Veltroni avrebbe trasformato in ministero per i Beni e le Attività culturali). Giovanni Spadolini, nel 1974, era stato nominato ministro senza portafoglio con delega per i beni culturali nel governo Moro-La Malfa. Soprattutto per motivi di rango pretese un portafoglio, per cui alla vigilia di Natale del 1974 Moro istituì il ministero per decreto (prassi diventata usuale nella seconda Repubblica, ma mai seguita nei primi 113 anni di vita dello Stato italiano). Nella fretta della "necessità e urgenza" il ministero venne costituito giustapponendo uffici del ministero dell'Interno (archivi) e della Presidenza del consiglio (editoria e biblioteche) alla Direzione per le antichità e belle arti della Pubblica istruzione (ribattezzata Ufficio centrale dei beni archeologici, architettonici, artistici e storici, meglio noto con l'agile acronimo di Ucbaaas.).

[9] Il rapporto finale della Commissione Rodotà in Politica del diritto, 2008, n. 3.

[10] Ne ha discusso Icomos Italia in un convegno svoltosi a Venezia il 21 novembre 2009.

[11] S. Cassese, L'amministrazione dello Stato, cit., pag. 173.

[12] Ibidem, pag. 180.

[13] M. Cammelli, Riordino istituzionale dei beni culturali e dello spettacolo in una prospettiva federalista, in Economia della Cultura, 1996, n. 3.

[14] B. Zanardi, Più Severo di così! La riforma della legge di tutela, intervista a Massimo Severo Giannino, in Il Giornale dell'Arte, ottobre 1991.

[15] 22° Rapporto Italia, a cura di Eurispes, scheda 10.

[16] Gran parte della spesa corrente serve a pagare gli stipendi dei custodi e degli impiegati, mentre rarissimi sono i concorsi.

[17] D. La Monica, E. Pellegrini (a cura di), Regioni e musei: politiche per i sistemi museali dagli anni Settanta ad oggi, Pisa, 2007. Sul tema dei rapporti fra musei e territorio si veda anche l'articolo di Aldo Bonomi sul Sole-24 Ore del 3 agosto 2008.

[18] AA.VV., Le isole del tesoro, cit.

[19] P. Leon, L. Trimarchi, L'Eresia dello Stato mercante in Economia della cultura, 2003, n. 1.

[20] La proposta è stata rilanciata da Adriano La Regina in un'intervista a Left: S. Maggiorelli, Venere clandestina in Left, 2 dicembre 2006. Sua, del resto, ne fu la prima formulazione, che ottenne il sostegno di Andrea Carandini e di Salvatore Settis. Ebbe anche il sostegno di Times e di Newsweek, mentre terrorizzò un anonimo tombarolo che confidò al Giornale dell'arte che se fosse passata avrebbe perso il lavoro. Disgraziatamente, però, quest'ultima testimonianza apparve solo nell'edizione inglese della rivista (The Art Newspaper, marzo 2000).

[21] A. Ricci, Attorno alla nuda pietra, cit.

 

 



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