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Territori e patrimonio culturale

Il federalismo demaniale e i suoi effetti sul patrimonio culturale

di Valentina M. Sessa

Sommario: 1. Il federalismo demaniale nei recenti provvedimenti normativi. - 2. Il problema dell'applicabilità del federalismo demaniale ai beni culturali. - 3. L'iter di attribuzione dei beni e le conseguenze del loro trasferimento. - 4. Il Protocollo d'intesa tra ministero per i Beni e le Attività culturali e l'Agenzia del demanio. - 5. La procedura per l'alienazione dei beni trasferiti. - 6. Gli effetti del federalismo demaniale sul patrimonio culturale. Profili problematici e prospettive per il futuro.

The Public Assets Federalism and its Effects on Cultural Heritage
The recent May 28, 2010 No 85 decree allows the State to transfer the ownership of many public assets (so-called "public assets federalism") to territorial institutions. This transfer causes serious concerns because the transferred assets will no longer be protected by the usual public assets regulamentation and consequently will become available by the new owner-institutions. This essay focuses the juridical procedure for the transfer and subsequent sale of assets in order to try to verify whether and to what extent they are applicable to cultural heritage.

1. Il federalismo demaniale nei recenti provvedimenti normativi

La recente approvazione del c.d. federalismo demaniale ha riacceso il dibattito sul tema della sdemanializzazione del patrimonio pubblico, con particolare riferimento ai pericoli di dispersione dei beni culturali.

Il decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, infatti, al fine di dotare gli enti territoriali di un proprio patrimonio, ha consentito allo Stato di individuare - in base a criteri di territorialità, sussidiarietà, adeguatezza, semplificazione, capacità finanziaria, correlazione con competenze e funzioni, valorizzazione ambientale - quei beni che possono formare oggetto di trasferimento a comuni, città metropolitane, province e regioni mediante attribuzione a titolo non oneroso e previa intesa conclusa in sede di Conferenza unificata.

Il decreto in oggetto è stato emanato in base all'art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42, attuativo dell'art. 119 della Costituzione, nell'ambito della delega al governo in materia di federalismo fiscale.

Più specificamente, il predetto art. 19 delegava il governo ad emanare una serie di decreti legislativi per l'attribuzione agli enti territoriali di un proprio patrimonio indicando una serie di princìpi e criteri direttivi: il trasferimento a titolo non oneroso ad ogni livello di governo di distinte tipologie di beni, commisurate alle dimensioni territoriali, alle capacità finanziarie ed alle competenze e funzioni effettivamente svolte o esercitate dalle diverse regioni e dagli enti locali, fatta salva la determinazione da parte dello Stato di apposite liste che individuassero, nell'ambito delle citate tipologie, i singoli beni da attribuire (lett. a); l'attribuzione dei beni immobili sulla base del criterio di territorialità (lett. b); il ricorso alla concertazione in sede di Conferenza unificata, ai fini dell'attribuzione dei beni a comuni, province, città metropolitane e regioni (lett. c); da ultimo - ma di fondamentale importanza per il tema che qui si intende affrontare - l'individuazione delle tipologie di beni di rilevanza nazionale non suscettibili di essere trasferiti, ivi compresi i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale (lett. d).

In applicazione di tale norma, il d.lg. 85/2010 ha enunciato fra le varie finalità - come dichiarato dagli artt. 1, comma 2 e 2, comma 4 e ribadito successivamente in diverse altre disposizioni del decreto - quella di consentire agli enti territoriali, a seguito del trasferimento dei beni, di disporre di questi ultimi "nell'interesse della collettività rappresentata" e con l'obbligo di "favorire la massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della medesima collettività territoriale rappresentata".

Non si può omettere di osservare, tuttavia, come il decreto in oggetto concepisca i trasferimenti immobiliari anche come modalità alternativa per fornire agli enti pubblici risorse destinate a far fronte a una parte della spesa pubblica: l'art. 9, comma 2, del d.lg. 85/2010, infatti, rinvia a uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri [1] la determinazione delle modalità finalizzate a ridurre, a decorrere dal primo esercizio finanziario successivo alla data del trasferimento, le risorse a qualsiasi titolo spettanti alle regioni e agli enti locali contestualmente e in misura pari alla riduzione delle entrate erariali conseguente all'adozione dei decreti presidenziali di attribuzione e trasferimento dei beni.

Per la stessa logica, il decreto dichiara che le risorse derivanti dall'eventuale alienazione degli immobili trasferiti o dalla cessione di quote di fondi immobiliari cui i medesimi beni siano stati conferiti devono essere destinate, nella misura del 75%, alla riduzione dei debiti degli enti o - in assenza di questi ultimi e per la sola parte eccedente - al reperimento di risorse da investire e, per la restante misura del 25%, all'incremento del Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (art. 9, comma 5).

Tra i tanti profili interessanti del processo di trasferimento in oggetto, quello che in questa sede interessa analizzare è costituito dalla previsione, come regola generale, che esso determini il passaggio dei beni dal demanio al patrimonio pubblico nei termini che saranno esaminati di seguito.

Se tale circostanza desta alcuni seri interrogativi in merito alla sorte del patrimonio pubblico in generale, particolarmente viva è la preoccupazione relativa alla possibilità che tale processo interessi anche i beni culturali, determinando un affievolimento delle garanzie di tutela collegate allo speciale regime che contraddistingue il demanio.

In particolare, oggetto di critiche e perplessità sono le conseguenze che potrebbero derivare dall'eventualità di una successiva alienazione del bene trasferito al patrimonio pubblico.

2. Il problema dell'applicabilità del federalismo demaniale ai beni culturali

Il problema dell'applicabilità del federalismo demaniale al patrimonio culturale deve essere affrontato prendendo le mosse dall'analisi dell'art. 5 del d.lg. 85/2010, nel tentativo innanzitutto di chiarire, limitatamente ai beni culturali, quale sia l'ambito oggettivo di applicazione di tale decreto.

Quest'ultimo prevede che i beni statali oggetto di trasferimento possano appartenere tanto al demanio necessario quanto a quello eventuale: più specificamente, sono interessati da tale processo i beni appartenenti al demanio marittimo e relative pertinenze (con esclusione di quelli direttamente utilizzati dalle amministrazioni statali), i beni appartenenti al demanio idrico e relative pertinenze, le opere idrauliche e di bonifica di competenza statale (ad esclusione dei fiumi di ambito sovraregionale e dei laghi di ambito sovraregionale per i quali non intervenga un'intesa tra le regioni interessate), gli aeroporti di interesse regionale o locale appartenenti al demanio aeronautico civile statale e le relative pertinenze, diversi da quelli di interesse nazionale, le miniere e le relative pertinenze ubicate su terraferma, nonché gli altri beni immobili dello Stato, ad eccezione di quelli esclusi dal trasferimento (art. 5, comma 1, lett. da a) ad e).

Tra questi ultimi sono successivamente annoverati, in applicazione della lett. d) dell'art. 19 della legge delega, quelli "appartenenti al patrimonio culturale", facendo salvo quanto previsto dalla normativa vigente ed in ogni caso sottraendo al trasferimento i beni che costituiscano dotazione della Presidenza della Repubblica o siano in uso a qualsiasi titolo al Senato della Repubblica, alla Camera dei Deputati, alla Corte costituzionale e agli organi di rilevanza costituzionale, nonché i beni oggetto di accordi o intese con gli enti territoriali per la razionalizzazione o la valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari (art. 5, comma 2) [2].

Tuttavia, a dispetto dell'affermazione di principio che sembrerebbe sottrarre al trasferimento i beni culturali in genere - si suppone per implicite ragioni di tutela - il novero dei beni suscettibili di trasferimento è alquanto ampio e include, per espressa previsione normativa, i beni culturali oggetto "di specifici accordi di valorizzazione e dei conseguenti programmi e piani strategici di sviluppo culturale, definiti ai sensi dell'art. 112, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42" (art. 5, comma 5) [3].

A ben guardare, l'ambito di esclusione indicato rispettivamente dalla legge delega e dal d.lg. 85/2010 non coincide perfettamente: mentre la prima esclude dal trasferimento "i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale" (art. 19, lett. d), il secondo si riferisce ai "beni appartenenti al patrimonio culturale" in genere, facendo però salvo "quanto previsto dalla normativa vigente" (art. 5, comma 2) - che, in realtà, contempla anche delle ipotesi di alienazione del demanio di cui si dirà a breve - e, più specificamente, quanto si è detto poc'anzi in merito ai beni culturali oggetto degli accordi di valorizzazione (art. 5, comma 5).

Tali disposizioni, tuttavia, possono risultare comunque tra loro compatibili a condizione che l'art. 19, lett. d) della legge delega venga interpretato nel senso che l'esclusione dei trasferimenti vada riferita non al patrimonio della Nazione in sé, bensì al patrimonio "di importanza nazionale", come suggerisce lo stesso contesto in cui è collocata la lett. d) dell'art. 19 della legge delega la quale, poco prima di citare il patrimonio culturale, opera un più generale riferimento a "tipologie di beni di rilevanza nazionale".

Tutti i beni attualmente statali sono infatti di per sé "nazionali" (nel senso di appartenenti alla Nazione) e, quindi, la definizione letterale contenuta nella norma, interpretata rigidamente, precluderebbe qualsiasi trasferimento avente ad oggetto dei beni culturali e risulterebbe disattesa dalla previsione dell'art. 5, comma 5, del d.lg. 85/2010 che, invece, consente di trasferire i beni oggetto di specifici accordi di valorizzazione.

Al contrario, se con la dicitura "patrimonio culturale nazionale" si intendono i beni di "importanza nazionale", la norma acquisisce un significato più pregnante e compatibile con la previsione della possibilità di trasferimenti ai sensi dell'art. 5 del decreto sul federalismo demaniale. Tale accezione della qualifica "nazionale" consente, infatti, di sottoporre a trasferimento il patrimonio che tale non sia: proprio questa direzione sembra indicare la stessa formulazione dell'art. 5, comma 5, del d.lg. 85/2010 che richiama, appunto, le ipotesi di trasferimento previste dalla normativa vigente e dagli accordi di valorizzazione di cui all'art. 112 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Quanto alla disciplina vigente, essa è costituita innanzitutto proprio dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, il quale - relativamente al trasferimento per eccellenza, vale a dire all'alienazione - delinea diverse categorie di beni demaniali cui applica un regime differenziato: il d.lg. 42/2004, infatti, sancisce l'inalienabilità assoluta dei beni di cui all'art. 54, comma 1 - immobili ed aree di interesse archeologico, immobili dichiarati monumenti nazionali, raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche, archivi, immobili dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. d), cose mobili opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se incluse in raccolte appartenenti agli enti territoriali - mentre consente l'alienazione previa autorizzazione del ministero per i restanti beni demaniali (art. 55).

Le norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio, a ben vedere, hanno riguardo non al particolare trasferimento cui si riferisce il decreto sul federalismo demaniale (che, almeno in prima battuta, rimane confinato a un cambio di proprietà tra enti pubblici, seppure accompagnato da sdemanializzazione), bensì alla più ampia fattispecie dell'alienazione in genere che, come si vedrà meglio nel prosieguo, ai sensi del d.lg. 85/2010 può comunque intervenire successivamente al trasferimento dei beni.

Proprio per questo, è significativo il fatto che la distinzione operata dal d.lg. n. 42 del 2004 tra demanio "assolutamente inalienabile" e "relativamente inalienabile" (vale a dire alienabile previa autorizzazione), assente nel d.lg. 85/2010, sia ricollegata alla presenza o meno di un interesse nazionale o particolarmente importante del bene che può essere assimilato a quel medesimo interesse nazionale in virtù del quale la legge delega sottrae alcuni beni all'applicazione del federalismo demaniale.

In sostanza, se si adotta l'interpretazione di cui sopra, non solo collimano le formulazioni della legge delega e del d.lg. 85/2010, ma la distinzione che ne risulta tra beni nazionali esclusi e beni soggetti alle procedure di trasferimento potrebbe considerarsi equivalente a quella operata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio tra demanio "assolutamente inalienabile" e "relativamente inalienabile", così che i beni esclusi dal trasferimento di cui al d.lg. 85/2010 sarebbero, di fatto, i medesimi per i quali non sarebbe possibile procedere in seguito ad alienazione.

Se si considera, inoltre, che l'alienazione costituisce l'estremo - anche se eventuale - effetto del processo di trasferimento, si può in definitiva dedurre che quest'ultimo, ai sensi del d.lg. 85/2010, si possa applicare ai beni privi "di rilevanza nazionale" (e perciò successivamente alienabili anche ai sensi della normativa speciale riguardante i beni culturali) senza con questo entrare in contraddizione con il d.lg. 42/2004.

Definito in questi termini l'ambito oggettivo di applicazione del federalismo demaniale, in relazione ai beni culturali soggetti alla disciplina in oggetto si pongono però una serie di interrogativi.

In primo luogo resta da chiarire se i beni culturali possano essere trasferiti solo nell'ambito degli specifici accordi di valorizzazione di cui all'art. 112 del Codice dei beni culturali e del paesaggio o se sia possibile procedere anche a prescindere da siffatti accordi. Il decreto sul punto nulla specifica. Peraltro, la formulazione dell'art. 5, comma 5, si riferisce al trasferimento dei beni nell'ambito dei suddetti accordi "in sede di prima applicazione" del decreto, senza però specificare quale procedura debba essere applicata in seguito.

In secondo luogo, e con più specifico riguardo ai beni culturali, l'aspetto problematico di tale trasferimento è costituito dalla sdemanializzazione che esso comporta e dalla possibilità che, in un momento successivo, i beni che ne sono oggetto possano essere alienati dagli enti che li riceveranno.

Il decreto dispone infatti che i beni trasferiti, come anche le loro pertinenze, gli accessori, oneri e pesi, "entrano a far parte del patrimonio disponibile dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni, ad eccezione di quelli appartenenti al demanio marittimo, idrico e aeroportuale, che restano assoggettati al regime stabilito dal codice civile, nonché alla disciplina di tutela e salvaguardia dettata dal medesimo codice, dal codice della navigazione, dalle leggi regionali e statali e dalle norme comunitarie di settore, con particolare riguardo a quelle di tutela della concorrenza" (art. 4, comma 1).

Il trasferimento dei beni avrà luogo nello stato di fatto e di diritto in cui i essi si trovano, con contestuale immissione di ciascuna regione o ente locale nel possesso giuridico degli stessi e con subentro in tutti i rapporti attivi e passivi relativi ai beni trasferiti a far data dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dei decreti di individuazione e trasferimento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Una volta effettuato il trasferimento, l'ente territoriale, se ritiene, potrà anche procedere all'alienazione dei beni (art. 4, comma 3) o al loro conferimento a fondi comuni di investimento immobiliare (art. 6, comma 1).

E' proprio in relazione a tale eventualità che si avvertono le maggiori preoccupazioni. Occorrerà allora valutare se queste disposizioni del d.lg. 85/2010 si applichino anche nei confronti dei beni culturali e quali pericoli corra effettivamente il patrimonio storico-artistico.

3. L'iter di attribuzione dei beni e le conseguenze del loro trasferimento

Come anticipato nel precedente paragrafo, la normativa sul federalismo demaniale può comportare, per i beni culturali che ne fossero interessati, due categorie di effetti e, rispettivamente, due tipi di rischi: uno ineludibile, ricollegato automaticamente all'applicazione del d.lg. 85/2010, consistente essenzialmente nella "sclassificazione" di taluni beni demaniali che diventeranno ipso iure disponibili; uno eventuale, relativo ai casi in cui i beni trasferiti verranno fatti oggetto, in seguito, di procedure di alienazione.

Avviando l'analisi dal primo profilo e per comprendere meglio in che termini si ponga il problema della sdemanializzazione rispetto ai beni culturali occorre ricordare, seppure in sintesi, le procedure previste dal d.lg. 85/2010.

Quest'ultimo stabilisce un iter finalizzato alla compilazione da parte dell'Agenzia del demanio di una serie di elenchi di beni da trasferire o, viceversa, da escludere dal processo di trasferimento.

Gli elenchi che individuano i beni ai fini della loro attribuzione devono riportarne gli estremi, singolarmente o per gruppi, ed essere corredati da adeguati elementi informativi, anche relativi allo stato giuridico, alla consistenza, al valore del bene, alle entrate corrispondenti e ai relativi costi di gestione.

L'art. 3, comma 3, del d.lg. 85/2010 prevede poi che gli elenchi vengano inseriti in appositi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, emanati su proposta del ministro dell'Economia e delle Finanze, di concerto con il ministro per le Riforme per il federalismo, con il ministro per i Rapporti con le regioni e con gli altri ministri competenti per materia, previa intesa sancita in sede di Conferenza Unificata [4].

I decreti acquistano efficacia dalla data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale: in base ad essi le regioni e gli enti locali che intendano acquisire i beni contenuti negli elenchi saranno tenuti a presentare un'apposita domanda di attribuzione all'Agenzia del demanio, esponendo le specifiche finalità e modalità di utilizzazione del bene, la relativa tempistica ed economicità, nonché la destinazione che intendono dare loro.

In relazione alle richieste di assegnazione pervenute sarà poi adottato, su proposta del ministro dell'economia e delle finanze e sentite le regioni e gli enti locali interessati, un ulteriore decreto del Presidente del Consiglio dei ministri riguardante l'attribuzione dei beni, che produrrà effetti dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e che costituirà titolo per la trascrizione e per la voltura catastale dei beni a favore di ciascuna regione od ente locale (art. 3, comma 4).

Un iter analogo è previsto per l'esclusione dei beni dal processo di trasferimento.

Anche i beni esclusi, infatti, devono essere inseriti in appositi elenchi redatti dall'Agenzia del demanio tenendo conto delle richieste formulate in tal senso dalle amministrazioni statali e dagli altri enti pubblici destinatari di beni immobili dello Stato in uso governativo: tali enti, infatti, sono stati chiamati a trasmettere all'Agenzia del demanio gli elenchi dei beni immobili di cui intendano, in termini adeguatamente motivati, richiedere l'esclusione (art. 5, comma 3). L'Agenzia del demanio, dal canto suo, anche nella prospettiva della riduzione degli oneri per le locazioni passive a carico del bilancio dello Stato, ha la facoltà di chiedere chiarimenti in ordine alle motivazioni trasmesse.

A completamento dell'iter è prevista la successiva acquisizione del parere della Conferenza Unificata nonché l'emanazione, con provvedimento del direttore dell'Agenzia, dell'elenco complessivo dei beni esclusi dal trasferimento e la sua pubblicità a fini notiziali sul sito internet dell'Agenzia, con l'indicazione delle motivazioni pervenute.

Il medesimo procedimento potrà essere utilizzato in futuro: l'art. 7, infatti, prevede decreti biennali di attribuzione dei beni che si rendano eventualmente disponibili in seguito per ulteriori trasferimenti.

Come ricordato in apertura, non è questo primo trasferimento di beni agli enti territoriali a destare le maggiori perplessità: certo, esso implica la perdita dello status demaniale e in particolare delle garanzie di cui all'art. 823 - inalienabilità, insuscettibilità di espropriazione e di acquisto a titolo originario per usucapione, impossibilità di formare oggetto di diritti in favore dei terzi al di fuori dei limiti entro i quali detta possibilità sia legalmente prevista [5] - ma comportando in prima battuta il mantenimento dei beni in mano pubblica non determina di per sé una sensibile riduzione di garanzie per i beni trasferiti.

Tuttavia, il fatto che il trasferimento non preveda un passaggio dal demanio statale a quello regionale, provinciale o comunale, bensì al patrimonio disponibile degli enti territoriali, con conseguente possibilità di alienazione o di conferimento a fondi comuni di investimento immobiliare, fa temere che in caso di successiva vendita del bene si verifichi una diminuzione delle garanzie a sua tutela.

Mentre i beni di proprietà pubblica, infatti, ai sensi dell'art. 12, comma 1 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, sono sottoposti alle disposizioni di quest'ultimo fino a quando non sia stata effettuata la verifica di interesse di cui al successivo comma 2, altrettanto non può dirsi per i beni di proprietà privata per i quali vige il principio inverso, secondo il quale è solo con la dichiarazione di interesse che diventa applicabile il regime speciale.

Tale principio rende necessario esplicitare, nel momento in cui il bene diventa proprietà privata, la sussistenza del vincolo.

Il d.lg. 85/2010 specifica, invero, che "perdureranno i vincoli storici, artistici e ambientali": per maggior prudenza, tuttavia, tale disposizione avrebbe potuto essere integrata con la previsione che, ove non ancora esplicitati, tali vincoli debbano essere formalizzati.

Quanto alla procedura di alienazione prevista dal decreto sul federalismo demaniale, per quanto concerne più specificamente i beni culturali quest'ultimo stabilisce che nell'ambito degli accordi di valorizzazione di cui all'art. 112, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio il trasferimento alle regioni e agli altri enti territoriali debba avvenire ai sensi dell'art. 54, comma 3, del citato Codice (art. 5, comma 5).

Tale ultima norma, nella versione modificata dal decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 62, prevede che i beni del demanio culturale possano essere oggetto di trasferimento tra lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali e che, qualora si tratti di beni o cose non in consegna al ministero, quest'ultimo riceva preventiva comunicazione del trasferimento affinché possa esercitare le proprie funzioni di vigilanza e ispezione ai sensi degli artt. 18 e 19 del Codice.

In merito, occorrerebbe appurare in primo luogo se tale norma risulti applicabile a tutti i trasferimenti aventi ad oggetto dei beni culturali: tale circostanza dipende dal fatto che si consideri indispensabile o meno effettuare il trasferimento dei beni nell'ambito degli accordi di valorizzazione di cui all'art. 112 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Come anticipato nel precedente paragrafo, tale circostanza non è però chiarita dal d.lg. 85/2010, motivo per cui il punto resta dubbio.

In secondo luogo, quanto alle ragioni del richiamo all'art. 54 del Codice, a ben guardare non vi sarebbe motivo di ribadire che il trasferimento debba aver luogo tra enti territoriali, dal momento che il d.lg. 85/2010 già da solo lo prevede e non sarebbe stata necessaria, pertanto, un'ulteriore norma che riproponesse il concetto con riguardo ai beni culturali.

Il richiamo potrebbe invece risultare significativo con riferimento alla previsione che stabilisce, in relazione alla natura dei beni e in caso questi non siano in consegna al ministero, la preventiva comunicazione a quest'ultimo.

Potrebbe residuare il dubbio, tuttavia, che il richiamo dell'art. 5, comma 5, all'art. 54 del d.lg. 42/2004 volesse intendere che per i beni culturali non sia consentito andare oltre al passaggio dei beni tra enti territoriali e che si prefiggesse, in sostanza, di escludere successive alienazioni.

Tale interpretazione sembra da escludere, dal momento che l'art. 54, comma 3, si applica tanto ai beni demaniali di cui al comma 1 quanto a quelli di cui al comma 2, per i quali il Codice prevede la possibilità di alienazione (art. 55).

Peraltro, lo stesso art. 5, comma 2, del d.lg. 85 del 2010 fa salva la normativa vigente, la quale ammette delle ipotesi di alienazione del demanio nei termini che saranno esposti oltre, motivo per cui sembra di potersi concludere che il richiamo dell'art. 5, comma 5, all'art. 54 del d.lg. 42/2004 non sia ostativo all'alienazione dei beni culturali trasferiti, purché le alienazioni successive tengano appunto conto della normativa speciale sui beni culturali e, in primis, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

La delicatezza del punto avrebbe comunque richiesto una più esplicita previsione in merito, per cui si auspica che intervenga quanto prima un chiarimento in proposito.

4. Il Protocollo d'intesa tra ministero per i Beni e le Attività culturali e l'Agenzia del demanio

Al fine di dare attuazione all'art. 5, comma 5 del d.lg. 85/2010, il ministero per i Beni e le attività culturali e l'Agenzia del demanio hanno siglato il 9 febbraio 2011 un apposito Protocollo d'intesa.

Quanto ai beni assoggettati al trasferimento, l'accordo in primo luogo ribadisce che dalla normativa relativa al federalismo demaniale devono ritenersi esclusi i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale in relazione alla previsione dell'art. 19 della legge delega n. 42/2009.

Tale richiesta, in linea con quanto già affermato dal d.lg. 85/2010, non potrà concernere i beni immobili appartenenti al patrimonio culturale nazionale, i beni immobili in uso per comprovate ed effettive finalità istituzionali alle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, agli enti pubblici destinatari di beni immobili in uso governativo e alle Agenzie di cui al d.lg. 300/1999, nonché i beni immobili oggetto di accordi o di intese con gli enti territoriali per la razionalizzazione e/o la valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari sottoscritti alla data di entrata in vigore del d.lg. 85/2010 (art. 2, comma 2).

Sull'ambito oggettivo di applicazione della normativa non vengono quindi forniti maggiori ragguagli di quelli già presenti nel testo del d.lg. 85/2010. Tuttavia, sembra di poter confermare ancora una volta - come già argomentato nel primo paragrafo - che con la dicitura "patrimonio culturale nazionale", si possano intendere, per la loro rilevanza sul piano nazionale, quantomeno tutti i beni di cui all'art. 54, comma 1, in linea con la distinzione sopra evidenziata tra demanio "assolutamente inalienabile" e "relativamente inalienabile".

Quanto all'aspetto operativo, il Protocollo ne fornisce una definizione uniforme a livello nazionale, prevedendo che gli enti territoriali interessati ad acquisire la proprietà di beni appartenenti al patrimonio culturale statale presentino richiesta di attivazione delle procedure relative alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del ministero per i Beni e le Attività culturali e alla filiale dell'Agenzia del demanio competenti per territorio.

La richiesta dovrà contenere non solo l'individuazione degli immobili oggetto d'interesse, ma anche le linee strategiche del relativo progetto di valorizzazione culturale: verificata la sussistenza delle condizioni oggettive di cui sopra, la Direzione regionale, d'intesa con l'Agenzia del demanio, al fine di addivenire alla sottoscrizione con l'ente territoriale richiedente di apposito accordo di valorizzazione ai sensi dell'art. 112, comma 4, del d.lg. n. 42 del 2004, procederà all'attivazione di un apposito Tavolo Tecnico Operativo a livello regionale, coordinato dal Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del ministero - ovvero, su delega, del Soprintendente territorialmente competente - e composto dai rappresentanti degli organi ministeriali periferici competenti per la materia trattata, dai rappresentanti dell'Agenzia del demanio e degli enti territoriali richiedenti, nonché eventualmente da altri soggetti istituzionali interessati (art. 2, comma 3 e art. 4, commi 1 e 5).

Il Tavolo avrà la funzione di valutare la suscettività dei beni a rientrare negli accordi di valorizzazione attraverso una conoscenza completa e aggiornata delle loro caratteristiche fisiche, storico-artistiche e giuridiche, nonché di verificare se ricorrano le condizioni per il trasferimento dei beni in base ai criteri - fissati dalla legge delega e ripresi dal d.lg. 85/2010 - di territorialità, sussidiarietà, adeguatezza, semplificazione, capacità finanziaria, correlazione con competenze e funzioni, valorizzazione ambientale, tenendo conto anche delle esigenze statali connesse alla predisposizione di idonei piani di razionalizzazione degli usi governativi.

In caso di esito positivo delle predette valutazioni, il Tavolo avrà la funzione di definire gli specifici contenuti dell'accordo di valorizzazione, con indicazione delle strategie e degli obiettivi comuni e dei conseguenti programmi e piani di sviluppo culturale al fine di garantire la massima valorizzazione, tenendo conto delle caratteristiche fisiche, morfologiche, ambientali, paesaggistiche, culturali e sociali dei beni individuati, nonché dei vincoli posti a tutela degli stessi ai sensi del d.lg. 42/2004, e promuovendone infine l'integrazione con le infrastrutture e i settori produttivi collegati.

In sostanza, come chiarisce l'art. 3 del Protocollo, scopo degli accordi di valorizzazione propedeutici al trasferimento in proprietà agli enti territoriali dei beni statali richiesti è definire e condividere gli obiettivi di valorizzazione culturale relativi ai beni medesimi, nonché i conseguenti programmi e piani strategici di sviluppo culturale, con espressa indicazione delle prescrizioni necessarie a garantire tutela, conservazione e fruizione pubblica dei beni.

Inoltre, qualora l'accordo di valorizzazione si concluda con l'indicazione del trasferimento in proprietà dei beni, l'Agenzia del demanio si è impegnata ad attivare le procedure di propria competenza al fine di consentire il trasferimento ai sensi del combinato disposto dell'art. 5, comma 5, del d.lg. 85/2010 e degli artt. 112, comma 4 e 54, comma 3 del d.lg. 42/2004 (art. 5).

Verifiche congiunte saranno effettuate allo scopo di controllare lo stato di attuazione dell'accordo: a tal fine è stata costituita a livello nazionale un'apposita cabina di regia composta dai rappresentanti dell'Agenzia del demanio e del ministero per i beni e le attività culturali, presieduta dal Segretario generale di quest'ultimo, con compiti di indirizzo, coordinamento e vigilanza sulla corretta e uniforme attuazione del Protocollo, di monitoraggio dello stato di avanzamento degli accordi di valorizzazione e delle connesse attività di individuazione, analisi e risoluzione delle criticità e delle problematiche che dovessero eventualmente insorgere (art. 6).

5. La procedura per l'alienazione dei beni trasferiti

Al fine di approfondire il diverso profilo di un'eventuale alienazione del bene successiva al suo trasferimento, occorre innanzitutto notare che, per quanto lo scopo primo del d.lg. 85/2010 sia dichiaratamente quello di attribuire agli enti territoriali un proprio patrimonio, il fatto che esso abbia previsto il successivo ricorso all'alienazione manifesta la chiara possibilità che si pervenga ad una dismissione sostanziale dei beni culturali interessati da tale processo.

L'inserimento dei beni trasferiti nel patrimonio disponibile degli enti che li ricevono, come già esposto, comporta la possibilità per questi ultimi di includerli in processi di alienazione e dismissione: la vendita successiva, infatti, è esplicitamente esclusa solo per gli enti locali in stato di dissesto finanziario, mentre in linea generale si applica il principio per cui l'ente territoriale che lo riceverà potrà "disporre del bene", per quanto comunque tenuto a favorire la massima valorizzazione funzionale di quest'ultimo, a vantaggio diretto o indiretto della collettività (art. 2, commi 2 e 4).

A ben guardare, la possibilità di dismettere la proprietà di molti beni demaniali non si presenta quale conseguenza eventuale, bensì quale espressa finalità del decreto.

Un indice significativo di tale circostanza è la previsione secondo cui i beni per i quali non sia stata presentata la domanda di acquisizione debbono confluire in un patrimonio vincolato affidato all'Agenzia del demanio o all'amministrazione che ne cura la gestione, con il compito specifico di provvedere alla valorizzazione e all'alienazione degli stessi beni, d'intesa con le regioni e gli enti locali interessati, sulla base di appositi accordi di programma o protocolli di intesa (art. 3, comma 6).

In sostanza, tale previsione consente che un bene culturale considerato alienabile in un primo momento, ma di cui non fosse richiesta l'attribuzione da parte di nessun ente, sia comunque suscettibile di essere venduto in un secondo momento, dopo essere confluito nel predetto patrimonio vincolato dell'Agenzia del demanio.

Il legislatore, tuttavia, non si è dimostrato del tutto insensibile ai pericoli potenziali che possono verificarsi per la conservazione e fruizione dei beni in relazione a un cambio di proprietà: pertanto, nell'esplicitare che i beni trasferiti entrati a far parte del patrimonio disponibile degli enti territoriali possono essere alienati, ha posto a loro presidio la prescrizione che l'alienazione abbia luogo "solo previa valorizzazione attraverso le procedure per l'adozione delle varianti allo strumento urbanistico, e a seguito di attestazione di congruità rilasciata, entro il termine di trenta giorni dalla relativa richiesta, da parte dell'Agenzia del demanio o dell'Agenzia del territorio, secondo le rispettive competenze" (art. 4, comma 3). In tal modo si è inteso scongiurare rischi sia sotto il profilo conservativo e funzionale, sia sotto quello di una potenziale "svendita" dei beni finalizzata al reperimento di risorse.

Un particolare ruolo di garanzia, inoltre, risulta assunto dai già ricordati vincoli storico, artistici e ambientali, che per espressa previsione perdureranno così da imporre una serie di limiti di innegabile utilità per la conservazione e fruizione dei beni (art. 4, comma 2).

Quanto alla procedura, diverse sono le disposizioni cui occorre fare riferimento.

In primo luogo, l'art. 2, comma 5, lett. b) del d.lg. 85/2010, all'atto di indicare la semplificazione tra i criteri di attribuzione dei beni e con riferimento a tale principio, afferma che i beni possono essere inseriti dalle regioni e dagli enti locali in processi di alienazione e dismissione secondo le procedure di cui all'art. 58 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.

Tale normativa, di poco precedente quella in esame, annovera la ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali tra le disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria.

Allo scopo essa prevede innanzitutto una procedura specifica (commi da 1 a 5), secondo la quale per procedere al riordino, alla gestione e alla valorizzazione del patrimonio immobiliare, ciascun ente deve individuare con delibera dell'organo di governo, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione, redigendo allo scopo un apposito elenco al fine di formare il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione.

Secondo quanto stabilito dal d.l. 112/2008, l'inserimento degli immobili nel piano ne determina la classificazione come patrimonio disponibile - invero superflua per i beni trasferiti in base al d.lg. 85/2010, che già prevede tale passaggio - e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica: conseguentemente, è previsto che la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni costituisca variante allo strumento urbanistico generale che, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle province e delle regioni.

Gli elenchi di beni così formati devono essere pubblicati mediante le forme previste per ciascuno di tali enti, in assenza di precedenti trascrizioni essi hanno effetto dichiarativo della proprietà e producono gli effetti previsti dall'art. 2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto. Gli uffici competenti provvederanno poi, se necessario, alle conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e voltura.

In alternativa a queste procedure l'art. 58, comma 7, del d.l. 112/2008 consente di individuare altre forme di valorizzazione, nel rispetto dei principi di salvaguardia dell'interesse pubblico e mediante l'utilizzo di strumenti competitivi.

Analogamente a quanto previsto dall'art. 6, comma 1, del d.lg. 85/2010, tra le altre possibilità, agli enti proprietari degli immobili inseriti negli elenchi di cui sopra viene suggerito il conferimento dei propri beni immobili a fondi comuni di investimento immobiliare ovvero la promozione della costituzione degli stessi secondo le disposizioni degli artt. 4 e ss. del d.l. 351/2001 [6].

Alle varie forme di conferimenti effettuate in base all'art. 58, nonché alle dismissioni degli immobili inclusi negli elenchi di cui sopra, si devono applicare in ogni caso le disposizioni dei commi 18 e 19 dell'art. 3 del d.l. 351/2001, tra cui in questa sede si rammenta quella per la quale - con il consueto parallelismo con quanto previsto dal d.lg. 85/2010 - restano fermi i vincoli gravanti sui beni trasferiti.

Tali procedure sono integrate dallo stesso d.lg. 85/2010 aggiungendo che - fatte salve le procedure e le determinazioni adottate da organismi istituiti da leggi regionali, con le modalità ivi stabilite - per assicurare la massima valorizzazione dei beni trasferiti, la deliberazione da parte dell'ente territoriale di approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni debba essere trasmessa ad un'apposita Conferenza di servizi volta ad acquisire le autorizzazioni, le approvazioni e gli assensi comunque denominati che siano necessari alla variazione di destinazione urbanistica (art. 2, comma 5, lett. b).

A tale conferenza di servizi partecipano il comune, la città metropolitana, la provincia e la regione interessati: essa opera ai sensi degli artt. 14, 14-bis, 14-ter e 14-quater della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, e la sua determinazione finale costituisce provvedimento unico di autorizzazione delle varianti allo strumento urbanistico generale e ne fissa i limiti e i vincoli.

Una seconda procedura di alienazione, cui si è già accennato in apertura di paragrafo, è prevista dal d.lg. 85/2010 all'art. 3, comma 6, anche se in termini molto scarni, per i beni per i quali non sia stata presentata domanda di attribuzione all'Agenzia del demanio (art. 3, comma 4) ovvero per i quali lo Stato non abbia ritenuto di procedere a una diversa attribuzione in base al principio di sussidiarietà (art. 2, comma 3).

Tali beni confluiscono, in base ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri adottato con la medesima procedura finalizzata alla redazione degli elenchi di beni passibili di trasferimento ai sensi dell'art. 3, comma 3, in un patrimonio vincolato affidato all'Agenzia del demanio o all'amministrazione che ne cura la gestione, al fine di provvedere alla valorizzazione e all'alienazione degli stessi beni, d'intesa con le regioni e gli enti locali interessati, sulla base di appositi accordi di programma o protocolli di intesa.

Decorsi trentasei mesi dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto di inserimento nel patrimonio vincolato, i beni per i quali non si è proceduto alla stipula degli accordi di programma ovvero dei protocolli d'intesa rientrano nella piena disponibilità dello Stato e potranno essere comunque attribuiti con i decreti biennali di cui all'art. 7 del d.lg. 85/2010.

6. Gli effetti del federalismo demaniale sul patrimonio culturale. Profili problematici e prospettive per il futuro

A un anno di distanza dall'entrata in vigore del decreto sul federalismo demaniale è ancora troppo presto per valutare quelli che saranno in concreto i suoi effetti.

In proposito si può segnalare che nel primo anno di vigenza del decreto è stato redatto l'elenco dei beni esclusi dal trasferimento e che, conseguentemente, anche quest'ultimo è stato avviato.

Per quanto concerne i beni culturali, le conseguenze più significative di siffatto processo dipenderanno innanzitutto dall'applicazione del metodo concertativo previsto dall'art. 5, comma 5 del d.lg. 85/2010, che costituisce un'importante occasione per dare nuovo slancio agli accordi di cui all'art. 112 del Codice dei beni culturali e del paesaggio [7].

Se l'uso di questo metodo diventerà più diffuso anche grazie all'incentivo offerto dal decreto sul federalismo demaniale, numerosi beni oggi non adeguatamente utilizzati potranno forse trovare una destinazione più consona alle loro caratteristiche ed essere maggiormente valorizzati. In particolare, l'attribuzione di siffatti beni potrebbe venire incontro ad esigenze organizzative e funzionali degli enti che intendano richiederli, mettendo loro a disposizione spazi di valore storico-artistico per lo svolgimento di attività istituzionali o culturali coordinate tra enti diversi e, quindi, presumibilmente dotate di maggior respiro e incisività.

Particolarmente interessante sarà verificare se per l'elaborazione e lo sviluppo dei piani di cui al comma 4 dell'art. 112 del Codice dei beni culturali e del paesaggio saranno costituiti i soggetti giuridici di cui al successivo comma 5, secondo modalità e criteri stabiliti con decreto del ministro, ovvero se gli enti richiedenti procederanno sulla base di semplici accordi.

Altrettanto interessante sarà esaminare quali modelli gestionali saranno adottati per l'attuazione degli accordi di cui all'art. 4 e per la valorizzazione dei beni culturali. Sotto questo aspetto il profilo della valorizzazione si intreccia con quello della gestione e potrà forse presentare dei problemi di ordine pratico che, però, non possono essere esaminati in questa sede.

Resta comunque da chiarire, come già anticipato, se sia possibile effettuare trasferimenti di beni culturali a prescindere da detti accordi o se essi costituiscano la condizione necessaria per l'applicazione del d.lg. 85/2010 ai beni culturali.

Quanto alla possibilità di successive alienazioni del patrimonio trasferito, le dimensioni, le necessità e le risorse degli enti cui i beni possono essere attribuiti sono estremamente variegate e, conseguentemente, risulta difficile prevedere quale sarà l'entità del ricorso alla vendita dei beni.

Sotto tale profilo può essere condivisa una certa preoccupazione per la possibilità - si auspica solo teorica - che si pervenga ad una dismissione di massa dei beni trasferiti al fine di reperire nuove risorse.

In proposito, il punto nevralgico in punta di diritto è costituito dalla c.d. sdemanializzazione, tema già in passato oggetto di un lungo dibattito e su cui ora è necessario formulare qualche ulteriore riflessione.

La sdemanializzazione, intesa quale trasferimento di beni dal demanio al patrimonio pubblico, come noto viene tradizionalmente ricollegata a un atto o un fatto che incide sulla loro destinazione pubblicistica.

In particolare, per i beni del demanio accidentale, con riferimento alla sdemanializzazione prevista dal codice civile, l'interpretazione dominante ritiene che la demanialità cessi con il venir meno della destinazione all'uso pubblico, determinando la cessazione del relativo statuto [8].

Tale circostanza rende ragione dei precetti essenziali contenuti, prima ancora che nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nell'art. 829 del codice civile: la necessità di una dichiarazione dell'autorità amministrativa ai fini della validità del passaggio dei beni dal demanio al patrimonio e la previsione di un'adeguata pubblicità del relativo provvedimento.

Il tema è stato a lungo studiato con particolare riguardo al profilo della natura del provvedimento previsto dall'art. 829 del codice civile e a quello, consequenziale, relativo all'ammissibilità della c.d. sdemanializzazione tacita. Si tralascia in proposito la ricostruzione delle fasi del lungo dibattito, in quanto esso non forma oggetto del presente scritto: in questa sede, tuttavia, preme sottolineare che, in occasione delle sue riflessioni in merito a detta problematica, la dottrina è giunta a conclusioni tendenzialmente univoche in merito al fatto che la sdemanializzazione debba essere ricollegata alla presenza di requisiti molto rigorosi.

La Corte di Cassazione, infatti, ha chiarito inequivocabilmente che l'elemento determinante perché essa abbia luogo, indipendentemente da un'espressa dichiarazione dell'autorità, è costituito dal fatto che il bene sia sottratto alla categoria di originaria appartenenza "o per la sopravvenuta perdita delle caratteristiche generali di idoneità del bene, o per il venire meno della destinazione all'uso o al servizio pubblico", da considerarsi non in base a una valutazione discrezionale, quanto piuttosto in relazione alla sussistenza o meno di dati obiettivi, quali la presenza dei requisiti richiesti per la demanialità [9].

Affinché si giustifichi la sdemanializzazione, dunque, occorre che la volontà della pubblica amministrazione si esprima, esplicitamente o implicitamente, nel senso di non voler più conservare la destinazione del bene al pubblico uso [10]: in tal senso non è sufficiente che l'amministrazione si limiti a sospendere l'uso pubblico del bene, seppure per un lungo periodo di tempo, in quanto "il disuso da tempo immemorabile o l'inerzia della pubblica amministrazione non possono essere invocati come elementi indiziari dell'intendimento di fare cessare la destinazione, anche potenziale, del bene demaniale all'uso pubblico" [11].

La stessa impostazione si ritrova anche nelle pronunce del Consiglio di Stato, il quale ha affermato che "la cessazione tacita della patrimonialità indisponibile, così come della demanialità, postula che il bene abbia subito un'immutazione irreversibile tale da non renderlo più idoneo a servire all'uso della collettività" e, conseguentemente, da determinare una "rinuncia alla funzione pubblica del bene" [12].

Nulla vieta, naturalmente, che la sdemanializzazione sia disposta per legge, come di fatto avviene con il d.lg. 85/2010.

Una situazione analoga si era già verificata in occasione del tentativo di cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico effettuato dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, che ha convertito il decreto legge 25 settembre 2001, n. 351, recante disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare.

Tale normativa, infatti, prevedeva che l'Agenzia del demanio individuasse i beni suscettibili di cessione con una serie di decreti dirigenziali e che, successivamente, avesse luogo il trasferimento dei beni immobili mediante decreti di natura non regolamentare del ministro dell'economia e delle finanze e, per quanto concerne i beni immobili di enti pubblici soggetti a vigilanza di altro ministero, di concerto con quest'ultimo.

A differenza di quanto stabilisce il decreto sul federalismo demaniale, la legge 410/2001 prevedeva il trasferimento a titolo oneroso e nei confronti di una o più società di cartolarizzazione appositamente costituite dal ministero stesso allo scopo di pervenire alla graduale dismissione dei beni [13].

Come previsto anche dal d.lg. 85/2010, però, anche in questo caso l'inclusione dei beni statali demaniali nel decreto ministeriale ne avrebbe determinato il trasferimento alle società di cui sopra, degradandoli automaticamente a patrimonio disponibile, e sarebbe stata accompagnata dalla definizione delle modalità per la valorizzazione e la rivendita dei beni immobili trasferiti (dall'art. 3, comma 1, lett. e). Circostanza, questa, in grado di implicare chiaramente la sdemanializzazione o la revoca della destinazione pubblicistica dei medesimi beni, come sembrava anche confermare il fatto che, nell'occasione, si facesse riferimento alla determinazione di criteri per la successiva rivendita dei beni immobili trasferiti [14].

Anche in merito alla cartolarizzazione il dibattito fu acceso: pur non essendo questa la sede per illustrarne le varie posizioni, basti pensare che fu ipotizzata tanto l'esistenza di una nuova categoria di beni demaniali trasferiti a società per azioni [15], quanto una deroga alle consuete regole, che avrebbe consentito la sdemanializzazione in base alla mera decisione ministeriale, pur in assenza della cessazione della destinazione a servizio pubblico [16].

I molteplici profili di somiglianza tra la recente vicenda della cartolarizzazione e quella attuale del federalismo demaniale evidenziano la periodicità con cui le problematiche esposte si ripropongono all'attenzione dell'interprete. Tale circostanza deve indurre ad una riflessione sul tema che tenga presente quanto elaborato negli anni dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

In occasione della legge 410/2001 la dottrina, tentando di mantenersi conforme alla Costituzione, aveva ipotizzato che la disciplina sulle cartolarizzazioni non potesse prescindere dalla disposizione civilistica relativa alla classificazione dei beni, motivo per cui la disposizione secondo cui l'inclusione nei decreti produceva il passaggio dei beni al patrimonio disponibile avrebbe dovuto essere interpretata come attuativa-integrativa dell'art. 829, comma 1, del codice civile.

In sostanza, secondo questa chiave di lettura, le norme sulla cartolarizzazione avrebbero soltanto introdotto una speciale fattispecie attuativa della sdemanializzazione al fine di dismettere il patrimonio immobiliare pubblico, ma partendo pur sempre dal presupposto che sussistessero le condizioni codicistiche della perdita, da parte dei beni, delle caratteristiche materiali o funzionali alle quali la legge connette la demanialità, ovvero che i beni fossero già stati implicitamente declassificati, o comunque, che la decisione in oggetto fosse adeguata alla situazione reale degli interessi pubblici coinvolti, ragionevole ed efficacemente motivata, e sempre che l'amministrazione disponesse di margini di scelta non ancora consumati circa la loro sorte [17].

Qualche Autore aveva all'epoca osservato che non ci sarebbe stato neppure bisogno di invocare la Costituzione, in quanto una sdemanializzazione che non tenesse conto delle attuali caratteristiche materiali e funzionali dei beni sarebbe stata in contrasto con l'art. 822 c.c., nonché con il generale principio di ragionevolezza e di adeguatezza allo scopo che deve caratterizzare l'azione amministrativa [18].

Ci si potrebbe chiedere se anche il d.lg. 85/2010 sia suscettibile di una lettura di tal genere, vale a dire se i decreti di attribuzione dei beni possano essere considerati come ricognitivi della perdita, da parte dei beni stessi, delle caratteristiche materiali o funzionali che ne giustificavano l'inclusione nel demanio.

Se così fosse, infatti, la sdemanializzazione potrebbe considerarsi non determinata dal decreto di trasferimento - nel qual caso, invece, esso avrebbe valore costitutivo - bensì necessariamente dal venir meno dello status demaniale e della concreta funzionalizzazione dei beni a un interesse pubblico specifico, dichiarato implicitamente dalla pubblica amministrazione proprio a mezzo del decreto.

L'interpretazione della disciplina in termini attuativi dell'art. 829 del codice civile, tuttavia, implica che oggetto del trasferimento siano solo quei beni che oggettivamente abbiano perso le caratteristiche che li avevano resi qualificabili come beni demaniali.

Nel decreto sul federalismo demaniale, invece, non si specifica se una simile valutazione debba essere compiuta prima del trasferimento, né si prescrive un giudizio tecnico-discrezionale sull'inattitudine del bene all'uso pubblico, né infine si richiede la constatazione di un comportamento concretamente incompatibile con la volontà di mantenere la destinazione del bene al pubblico uso.

Al contrario, nell'ambito del d.lg. 85/2010 i beni che verranno trasferiti non sembrano essere concretamente inidonei all'uso pubblico, tant'è che in prima battuta se ne determina il solo trasferimento ad altri enti territoriali. Senza contare che, per quanto riguarda i beni trasferiti nell'ambito degli accordi di valorizzazione di cui all'art. 112 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il mantenimento della destinazione dei beni ad uso pubblico sembra implicita nel fatto che si stipuli un simile tipo di accordo.

Il decreto si limita a richiedere che nella domanda di attribuzione gli enti pubblici segnalino "le specifiche finalità e modalità di utilizzazione del bene, la relativa tempistica ed economicità nonché la destinazione del bene" (art. 3, comma 4), ma la richiesta di fornire tali elementi è volta a consentire la verifica dell'uso che si farà del bene in futuro, non l'attuale destinazione al servizio pubblico. In sostanza, se in sede di trasferimento è possibile valutare quale destinazione avrà il bene e si potrà financo imporre quale condizione il fatto che esso sia adibito ad uso pubblico, resta un fatto che quest'ultimo, prima connaturato al bene, con la sdemanializzazione cessi automaticamente, almeno quale elemento necessario. Basti considerare che l'ente cui il bene viene assegnato potrà poi inserirlo in piani di alienazione, a seguito dei quali la destinazione ad uso pubblico, con ogni probabilità, verrà definitivamente meno.

Il d.lg. 85/2010, invero, prevede la possibilità che il decreto di attribuzione dei beni, all'atto di trasferire questi ultimi, disponga motivatamente il loro mantenimento nel demanio o nel patrimonio indisponibile (art. 4, comma 1). E' da notare, tuttavia, da una parte che il processo di trasferimento si configura come estremamente generalizzato e quindi suscettibile di eccezioni solo in termini restrittivi, dall'altra che il d.lg. 85/2010 rovescia il criterio decisionale chiedendo non di valutare se sussistono i presupposti per la sdemanializzazione bensì, al contrario, consentendo di chiedere, solo per taluni beni, che si mantenga la demanialità.

Inoltre, anche quando l'art. 4, comma 1 del decreto fa riferimento a "beni trasferiti che restano assoggettati al regime dei beni demaniali", richiama pur sempre la possibilità di un (successivo) "eventuale passaggio al patrimonio ... dichiarato dall'amministrazione dello Stato ai sensi dell'articolo 829, primo comma, del codice civile".

Rimane dunque problematico il dato normativo per il quale, mentre l'art. 829 del codice civile prevede la valutazione individuale del bene e l'emanazione di uno specifico provvedimento che motivi la decisione di sdemanializzarlo, la procedura di cui al d.lg. 85/2010 sancisce la sdemanializzazione per legge senza che si specifichi se occorra una previa valutazione concreta in merito all'attualità della destinazione pubblicistica dei beni.

L'ambiguità sul punto determina incertezze anche in merito ad altri aspetti di non facile soluzione: ad esempio, la valutazione di non utilità o di non strumentalità a fini pubblici dei beni potrebbe essere considerata soggetta allo scrutinio da parte degli interessati - ad esempio dei titolari di un uso specifico del bene, o anche di una comunità di persone interessate alla sua fruizione collettiva, costituite in associazioni o comitati per esporre le proprie ragioni in un procedimento - il che giustificherebbe forme di pubblicità in funzione di partecipazione da parte di soggetti titolari di interessi direttamente qualificati o di titolari di interessi diffusi.

Si potrebbe a buon titolo sostenere, infatti, che l'attuale configurazione del procedimento amministrativo non consenta più che un bene del demanio venga svincolato dalla sua destinazione pubblica in assenza di un provvedimento espresso e motivato, reso dall'amministrazione al termine di un procedimento aperto alla partecipazione degli eventuali interessati alla sdemanializzazione. A tale conclusione conduce anche la diretta applicazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, in quanto i provvedimenti di sdemanializzazione non appartengono ad alcuna categoria esclusa della procedura di partecipazione. Allo stesso contempo, pare doveroso che l'amministrazione renda conto dell'attività di ponderazione e di valutazione degli interessi pubblici, ed eventualmente privati, che l'ha determinata a decidere la cessazione della destinazione previgente del bene e con essa della sua demanialità [19].

In conclusione, l'inquadramento sistematico del provvedimento di sdemanializzazione di cui al d.lg. 85/2010 presenta aspetti alquanto problematici. Non risultano infatti adeguate a descrivere il caso in oggetto né la dottrina che sostiene la natura costitutiva dell'atto di sdemanializzazione - perché se così fosse occorrerebbe un esplicito previo giudizio tecnico-discrezionale dell'autorità competente sulla mancanza di attitudine dei beni ai pubblici usi - né quella che opta per la sua natura dichiarativa, dal momento che la sdemanializzazione generalizzata non può essere realisticamente intesa come dichiarativa della concreta inattitudine di tutti i beni trasferiti ad essere destinati agli usi pubblici, desunta da altrettanto improbabili comportamenti inequivoci e concludenti dell'Amministrazione statale, tali da renderli incompatibili con una diversa volontà dell'ente.

Se la procedura civilistica viene sostanzialmente richiamata sia per quanto riguarda la necessità di un provvedimento dell'autorità amministrativa (nella specie, i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'art. 3 che individuano i beni), sia in merito all'efficacia del trasferimento a partire dalla pubblicazione dei decreti in Gazzetta Ufficiale, è altrettanto vero che essa risulta superata da un nuovo e più complesso iter di sdemanializzazione.

Il d.lg. 85/2010, infatti, cita la procedura di cui all'art. 829 del codice civile solo in caso di passaggio dei beni al patrimonio in seguito ad una prima fase in cui i beni siano stati mantenuti nel demanio o nel patrimonio indisponibile, mentre nella maggioranza dei casi - quelli in cui il trasferimento avvenga sin dall'inizio - la norma codicistica non deve essere applicata.

Il processo di trasferimento sembra peraltro configurarsi come ciclico in relazione alla possibilità di emanare decreti biennali (art. 7), con la conseguenza che la nuova procedura potrebbe diventare la modalità ordinaria di sdemanializzazione del patrimonio pubblico.

Alla luce di tali considerazioni è inevitabile porsi qualche interrogativo sulla sopravvivenza dell'art. 829 del codice civile e sui rischi determinati dalla perdita del regime demaniale quale forma più completa di tutela che il nostro ordinamento conosca.

Un'autorevole dottrina ha in passato descritto il fenomeno della cessazione della demanialità stigmatizzando il fatto che essa "non significa la perdita della proprietà del bene da parte dell'ente cui appartiene, ma soltanto la trasformazione di essa da proprietà pubblica in proprietà privata", con il conseguente assoggettamento del bene al regime dominicale ordinario che potrebbe consentire, in prospettiva, l'acquisto del bene da parte di un privato [20].

Già in passato, tuttavia, in occasione dell'emanazione di norme speciali disciplinanti l'alienazione del demanio - ad esempio a seguito del d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, contenente il Regolamento recante disciplina delle alienazioni di beni immobili del demanio storico e artistico - la dottrina ha dovuto affrontare il problema del contrasto tra dette norme e la disciplina codicistica sul demanio, concludendo che esso fosse più fittizio che reale, smentendo che si potesse configurare l'inalienabilità assoluta del demanio e affermando che quest'ultima fosse limitata a determinati beni in caso di previsione espressa, nell'ambito di un generale regime di alienabilità previa autorizzazione ministeriale [21].

A sostegno delle sue conclusioni, tale dottrina ha sottolineato, con particolare riferimento al demanio accidentale, come lo stesso dettato letterale dell'art. 823 del codice civile non escluda la possibilità giuridica dell'alienazione prevedendo che i beni del demanio pubblico non possano essere alienati "se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano" e ammettendo conseguentemente la possibilità di sottoporre i beni demaniali a procedure di alienazione, purché secondo le modalità e nei limiti prescritti dalle rispettive discipline speciali.

Dello stesso tenore si è dimostrata anche la giurisprudenza che, in linea generale, ammette la possibilità di alienare i beni demaniali, pur subordinando o collegando l'alienabilità alla condizione che i beni vengano previamente sdemanializzati [22].

L'alienazione del demanio, dunque, non costituisce un divieto assoluto, bensì una possibilità prevista, per quanto circoscritta a casi specifici e garantita dalla necessità di osservare precise prescrizioni, così che non si può ritenere che il d.lg. 85/2010 sovverta l'attuale ordinamento introducendo una possibilità, quella dell'alienazione, finora del tutto estranea al quadro normativo.

Vero è che anche l'art. 53 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella versione modificata dal d.lg. 62/2008, afferma inequivocabilmente che i beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali che rientrino nelle tipologie indicate all'art. 822 del codice civile costituiscono il demanio culturale e che quest'ultimo non può essere alienato, né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei limiti e con le modalità previsti dal codice stesso.

L'argomentazione è di qualche conforto, seppure non sufficiente a fugare tutte le preoccupazioni relative alla sorte dei beni culturali.

Rispetto all'interpretazione proposta nel paragrafo introduttivo, per la quale l'ambito di applicabilità del d.lg. 85/2010, limitatamente ai beni culturali, potrebbe coincidere con quelli che ai sensi del d.lg. n. 42 del 2004 sono i beni "relativamente alienabili", resta da esaminare la circostanza relativa alla mancata previsione della necessaria richiesta di autorizzazione al ministero, che il d.lg. 85/2010 omette a dispetto di quanto specifica, invece, il Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Al mancato parallelismo nella formulazione delle norme corrisponde, tuttavia, una somiglianza di intenti in merito alle condizioni che devono ricorrere affinché si possa procedere alle alienazioni di cui sopra.

L'autorizzazione all'alienazione di cui all'art. 55 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, infatti, è accordata in relazione alla sussistenza di adeguate garanzie in merito al fatto che il bene ne tragga un beneficio sul piano della conservazione, della valorizzazione e della fruizione. Più specificamente, la richiesta di autorizzazione deve indicare la destinazione d'uso in atto, il programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene, l'indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l'alienazione e delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento; l'indicazione della destinazione d'uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da conseguire, le modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso.

L'autorizzazione in tali casi potrà essere rilasciata su parere del soprintendente, sentita la regione e, per suo tramite, gli altri enti pubblici territoriali interessati. Il provvedimento, in particolare, potrà dettare prescrizioni e condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate, stabilire le condizioni di fruizione pubblica del bene tenendo conto della situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso, pronunciarsi sulla congruità delle modalità e dei tempi previsti per il conseguimento degli obiettivi di valorizzazione indicati nella richiesta.

Al contrario, l'autorizzazione non potrà essere rilasciata qualora la destinazione d'uso proposta sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene o comunque risulti non compatibile con il suo carattere storico e artistico. Nel provvedimento di diniego il ministero avrà la facoltà di indicare le destinazioni d'uso ritenute compatibili con il carattere del bene e con le sue esigenze conservative, ovvero di concordare con il soggetto interessato il contenuto del provvedimento richiesto, sulla base di una valutazione comparativa fra le proposte avanzate con la richiesta di autorizzazione ed altre possibili modalità di valorizzazione del bene.

Sotto il profilo dell'insistenza in merito alla necessità che nel trasferimento dei beni si abbia riguardo innanzitutto al potenziamento dell'azione di valorizzazione dei beni, dunque, vi è una notevole affinità tra il Codice dei beni culturali e del paesaggio e la normativa sul federalismo demaniale.

Quest'ultima torna sul tema con numerosi richiami: basti ricordare che gli enti territoriali cui i beni vengono trasferiti sono tenuti a garantirne la massima valorizzazione funzionale (art. 1, comma 2, e art. 2, comma 4 del d.lg. 85/2010) e possono procedere alla loro alienazione solo previa valorizzazione (art. 4, comma 3).

Altra analogia si può riscontrare quanto alle garanzie poste a presidio del bene in concomitanza con l'alienazione: l'art. 55, comma 3-quinquies, del Codice prescrive infatti che l'autorizzazione ad alienare comporti la sdemanializzazione del bene cui essa si riferisce ma, al contempo, anche la perdurante sottoposizione del bene a tutte le disposizioni di tutela, prima fra tutte la necessità di preventiva autorizzazione per l'esecuzione di lavori ed opere di qualunque genere sui beni alienati.

Parimenti, il d.lg. 85/2010 prevede la sdemanializzazione dei beni e, contestualmente, il permanere di vincoli storico-artistici (art. 4, commi 1 e 2). Sotto questo aspetto, si è già detto che sarà fondamentale che all'atto del trasferimento venga esplicitato l'interesse del bene mediante apposito vincolo, al fine di garantire quella tutela prima automaticamente derivante dall'applicabilità dello status demaniale [23].

Se così sarà, potrà dirsi colmata anche la lacuna relativa alla mancata previsione della necessità di autorizzazione al fine di procedere alll'alienazione. Pur non essendo più demaniali, infatti, anche i beni trasferiti, in quanto riconosciuti beni culturali, saranno soggetti al regime autorizzatorio di cui all'art. 56, comma 1, lett. a) del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Sul punto sarebbe stato opportuno inserire nel d.lg. 85/2010 una più esplicita previsione normativa che chiarisse la vigenza di tale regola anche in quest'ambito: tuttavia, si può ritenere comunque applicabile la disposizione speciale dell'art. 57-bis del d.lg. 42/2004, il quale prevede che i precetti di cui agli artt. 54, 55 e 56 si applichino "ad ogni procedura di dismissione o di valorizzazione e utilizzazione, anche a fini economici, di beni immobili pubblici di interesse culturale, prevista dalla normativa vigente e attuata, rispettivamente, mediante l'alienazione ovvero la concessione in uso o la locazione degli immobili medesimi".

In tal modo sarà possibile accordare una maggiore garanzia di tutela anche alle alienazioni disposte in base al decreto sul federalismo demaniale e, quantomeno, contenere i pericoli insiti nell'applicazione di siffatte procedure.

 

 

Note

[1] Il decreto deve essere adottato su proposta del ministro dell'Economia e delle Finanze e sentiti il ministro dell'Interno, il ministro per la Semplificazione normativa, il ministro per le Riforme per il Federalismo e il ministro per i Rapporti con le regioni, previa intesa sancita in sede di Conferenza Unificata.

[2] Sono esclusi altresì gli immobili in uso alle amministrazioni dello Stato, anche a ordinamento autonomo, per comprovate ed effettive finalità istituzionali, nonché agli enti pubblici destinatari di beni immobili dello Stato in uso governativo e alle Agenzie di cui al d.lg. 30 luglio 1999, n. 300 (esclusione, si badi, non automatica bensì da valutarsi in base a criteri di economicità e di concreta cura degli interessi pubblici perseguiti); i porti e gli aeroporti di rilevanza economica nazionale e internazionale; le reti di interesse statale, ivi comprese quelle stradali ed energetiche; le strade ferrate in uso che siano proprietà dello Stato; i parchi nazionali e le riserve naturali statali.

[3] Sono incluse anche le aree, site nelle città sedi di porti di rilevanza nazionale, già comprese nei porti e non più funzionali all'attività portuale e suscettibili di programmi pubblici di riqualificazione urbanistica - previa autorizzazione dell'Autorità portuale, se istituita, o della competente Autorità marittima - nonché i beni immobili comunque in uso al ministero della difesa che non siano ricompresi tra quelli utilizzati per le funzioni di difesa e sicurezza nazionale, né siano oggetto delle procedure di cui all'art. 14-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con mod. dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, di cui all'art. 2, comma 628, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e di cui alla legge 23 dicembre 2009, n. 191, né infine che risultino funzionali alla realizzazione dei programmi di riorganizzazione dello strumento militare finalizzati all'efficace ed efficiente esercizio delle citate funzioni, attraverso gli specifici strumenti riconosciuti al ministero della difesa dalla normativa vigente.

Quanto all'art. 112, tra gli innumerevoli interventi si ricordino i commenti di L. Zanetti, in AA.VV., Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2007, 435 e La valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica (art. 112), in Aedon, n. 1/2004; A.L. Tarasco, in AA.VV., Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Verona, 2006, 695; G. Sciullo, Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006?, in Aedon, n. 2/2006.

[4] Per completezza si segnala che il demanio marittimo, il demanio idrico e le miniere sono assoggettati ad un diverso regime, essendo per essi previsti decreti di trasferimento alle regioni e alle province che interessano queste intere categorie e non elenchi che individuino i singoli beni da trasferire (art. 3, comma 1).

[5] La problematica ha assunto rilevanza nel tempo soprattutto con riferimento al profilo dell'usucapibilità dei beni: infatti, "un bene demaniale non è, per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche tacita e risultare cioè, nonostante la mancanza di un formale atto pubblico di sclassificazione, da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo" [Cass., sez. II, 12 novembre 1979, n. 5835, confermata nel tempo: vedasi ad esempio Cass., sez. II, 12 aprile 1996, n. 3451, in Giust. civ. mass., 1996, 555].

[6] Tale norma prevedeva che il ministro dell'economia e delle finanze promuovesse la costituzione di uno o più fondi comuni di investimento immobiliare, conferendo beni immobili a uso diverso da quello residenziale dello Stato, dell'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato e degli enti pubblici non territoriali, individuati con uno o più decreti del ministro dell'economia e delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale. Ai medesimi decreti veniva affidata la disciplina delle procedure per l'individuazione o l'eventuale costituzione della società di gestione, per il suo funzionamento e per il collocamento delle quote del fondo e i criteri di attribuzione dei proventi derivanti dalla vendita delle quote.

[7] Il Comune di San Gimignano è stato il primo ente ad utilizzare il combinato disposto dell'art. 112 del d.lg. 42/2004 e dell'art. 5 del d.lg. 85/2010: è stato infatti approvato all'unanimità un Protocollo d'intesa tra regione Toscana, provincia di Siena e comune di San Gimignano nel quale i tre enti territoriali si sono dichiarati disponibili ad accogliere dallo Stato, gratuitamente ed in proprietà indivisa, l'intero complesso noto come ex convento di San Domenico - ex carcere di San Gimignano, in virtù dell'impegno a realizzare un progetto di recupero e di riuso, condiviso con il ministero per i beni e le attività culturali e con l'Agenzia del demanio.

[8] La Suprema Corte, con riferimento al demanio accidentale, ha esplicitato che "quando non si tratta di beni del demanio necessario, la demanialità non è una qualifica attribuita ad un bene in funzione del titolo di acquisto o della volontà inattuata di una determinata destinazione demaniale o del modo di atteggiarsi del potere di disposizione, ma una qualifica che attiene alla destinazione concreta del bene ed alla sua caratterizzazione funzionale secondo taluna delle varie destinazioni ad uso pubblico previste dalla legge per ciascuna delle categorie dei beni demaniali". Si veda in particolare Cass., sez. II, 20 ottobre 1997, n. 10253, in Dir. eccl., 1998, 16, tenendo conto che l'orientamento ha dei precedenti risalenti. A titolo esemplificativo si veda già Cass., sez. II, 13 febbraio 1967, n. 2566. Per la Cass., sez. I, 21 aprile 1999, n. 3950, con nota di S. Prete, Forma della sdemanializzazione dei beni demaniali marittimi, in Notariato, 2000, 4, l'attuale, effettiva destinazione delle aree alla pubblica funzione "costituisce il requisito essenziale che contraddistingue un bene demaniale".

[9] V. Caputi Jambenghi, Beni Pubblici, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 11. E' in base a tale considerazione, nonché al fine di garantire la certezza delle situazioni giuridiche, che l'interpretazione prevalente ha riconosciuto natura dichiarativa all'atto di sdemanializzazione, conseguentemente ammettendo la c.d. sdemanializzazione tacita: "ad eccezione dei beni del demanio marittimo - i quali, ai sensi dell'art. 35 c.n., possono essere sdemanializzati soltanto con decreto del ministro della marina mercantile (ora ministro delle infrastrutture e dei trasporti) di concerto con quello per le Finanze (ora dell'economia e delle finanze)" - per gli altri beni del demanio accidentale la demanialità cessa con il venir meno della destinazione all'uso pubblico, indipendentemente da un atto espresso dell'amministrazione. Di qui l'ammissibilità nell'ordinamento vigente della c.d. sdemanializzazione tacita, la quale, però, deve risultare da atti univoci e concludenti dell'amministrazione, incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico". Vedasi in proposito Cass., sez. II, 13 febbraio 1967, n. 2566; nello stesso senso, Cass. 18 marzo 1981, n. 1603; Cass. 5 maggio 1951, n. 1065; Cass. 20 dicembre 1947, n. 1718; contra Cons. Stato, sez. I, 14 ottobre 1952, n. 1794.

Conferme di questa chiave di lettura si rinvengono anche in G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. IV, Milano, 1958, 47, secondo cui l'atto di sdemanializzazione "non serve a costituire, modificare od estinguere rapporti, ma solo ad accertare e riconoscere tali avvenimenti"]: partendo da tale premessa A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 809, ha ritenuto che la perdita del requisito della demanialità non dipenda da una manifestazione esplicita dell'amministrazione o da una sua valutazione discrezionale, ma dal dato obiettivo della perdita dei requisiti richiesti, avendo l'atto la sola funzione di "garantire certezza alle situazioni giuridiche".

[10] Sempre la Corte di Cassazione ha affermato che "la sdemanializzazione di un bene può anche essere tacita, senza l'adempimento delle formalità previste dalla legge, ma a tal fine occorrono atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà della pubblica amministrazione di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico, e circostanze così significative da rendere non configurabile una ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia, da parte della p.a., al ripristino della pubblica funzione del bene stesso" (Cass., sez. II, 26 febbraio 1996, n. 1480, in Riv. giur. ed., 1996, 894, con autorevole conferma della Cass., sez. un., 26 luglio 2002, n. 11101. Concorde anche la giurisprudenza maggioritaria: a titolo esemplificativo, si ricordino Cass., sez. II, 3 maggio 1996, n. 4089, in Giur. It., 1997, I, 918; Cass., sez. II, 26 febbraio 1996, n. 1480, in Giust. civ. mass., 1996, 254; Cass., sez. I, 20 aprile 1985, n. 2610, in Giur. it., 1986, I, 1, 897; Cass., sez. II, 18 marzo 1981, n. 1603, in Giust. civ. mass., 1981, fasc. 3; Cass., sez. II, 12 novembre 1979, n. 5835).

[11] Cass., sez. II, 17 marzo 1995, n. 3117, in Giust. civ. mass., 1995, 635; Cass., sez. II, 22 aprile 1994, n. 4811; Cass., sez. II, 3 maggio 1996, n. 4089, in Giur. it., 1997, I, 1, 918; Cass. 18 marzo 1981, n. 1603; Cass., sez. II, 6 marzo 1970, n. 569, in Giust. civ., 1970, 674; Cass., sez. II, 4 marzo 1968, n. 697; Cass., sez. II, 8 settembre 1966, n. 2354; Cass., sez. II, 15 maggio 1962, n. 1045; Cass., 1 maggio 1944, n. 308.

[12] Rispettivamente Cons. Stato, 27 febbraio 1991, n. 27, in Cons. St., 1991, I, 5 e Cons. Stato, sez. V, 12 aprile 2007, n. 1701. Conseguentemente "la cessazione della qualità di bene demaniale di un immobile di proprietà pubblica non può desumersi implicitamente dalla semplice circostanza che il bene medesimo non sia più adibito, anche da lungo tempo, all'uso pubblico, essendo invece necessario, in proposito, che la situazione di fatto si prospetti in modo tale da impedire per il futuro la reviviscenza dell'uso stesso, unitamente ad un comportamento dell'amministrazione assegnataria che possa univocamente interpretarsi come definitivo disinteresse alla conservazione della destinazione del bene in questione" (Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 1987, n. 155, in Foro amm., 1987, 450), vale a dire come "certezza della rinuncia alla funzione pubblica del bene" (Cons. Stato, sez. V, 12 aprile 2007, n. 1701).

E ancora: "la sdemanializzazione di un bene può derivare, oltre che dall'emanazione di un provvedimento formale di cessazione della demanialità, da atti univoci della pubblica amministrazione, anche da comportamenti incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene al suo uso pubblico, atteso che l'art. 829 c.c. ha natura meramente dichiarativa e che le prescrizioni contenute in tale norma si limitano ad imporre un mero dovere giuridico all'amministrazione, nell'interesse della certezza delle situazioni giuridiche, e non possono essere interpretate nel senso di accordare prevalenza ad un elemento di carattere puramente formale su quelli che sono gli effettivi elementi costitutivi della demanialità" (Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 1998, n. 287, in Foro amm., 1998; dello stesso avviso in precedenza, Cons. Stato, sez. I, 12 aprile 1984, n. 2352; Cons. Stato, sez. IV, 15 dicembre 1981, n. 1087).

Secondo F. Nunziata, In tema di cessazione della demanialità, in Giur. comp. Cass., 1949, 1025, si riscontrerebbe il carattere costitutivo non solo dell'atto di cui all'art. 35 c.n., ma anche di quello previsto dall'art. 829 c.c.: tale lettura si fonda sulla risalente sentenza della Suprema Corte del 5 agosto 1949, n. 2231, la quale riteneva che "il presupposto della sclassificazione ... è sempre nella mancata attitudine di determinati tratti di spiaggia a servire agli usi (pubblici), ma il relativo giudizio è demandato a speciali organi che vi devono provvedere in base ad una valutazione tecnico-discrezionale ... Un simile accertamento non sarebbe possibile desumere da atteggiamenti passivi dell'Autorità amministrativa e nemmeno dalla semplice esecuzione di atti incompatibili con la volontà di conservare il carattere demaniale ai beni, nel che va pur sempre ravvisato un atto positivo".

[13] In base a dette norme, negli anni successivi, sono state costituite numerose società-veicolo, le quali hanno versato il corrispettivo degli immobili trasferiti all'ente pubblico cessionario, in parte immediatamente, cioè al momento della cessione, in parte in un tempo successivo, a rivendita avvenuta (art. 3, comma 1, lett. a), reperendo il capitale necessario per tale operazione tramite l'emissione di titoli sui mercati regolamentati, ovvero mediante aperture di credito da parte del settore bancario e finanziario.

[14] V. Troiano, Le operazioni di cartolarizzazione. Profili generali, Padova, 2003, 3 ss.; G. Napolitano, La Patrimonio dello Stato S.p.a. tra passato e futuro: verso la scomposizione del regime demaniale e la gestione privata dei beni pubblici?, in Annuario AIPDA 2003, Milano, 2004, 251 ss.; in questa stessa rivista, A. Serra, Scip, Patrimonio spa e Infrastrutture spa: le società per la "valorizzazione" dei beni pubblici. L'impatto sul regime dei beni trasferiti, in Aedon, n. 2/2005, 5.

[15] Contra S. Foà, Patrimonio dello Stato Spa: i compiti, in Aedon, n. 3/2002, 4, il quale aveva sottolineato che, anche volendo sostenere la natura sostanzialmente pubblica delle società cui i beni venivano trasferiti, non si sarebbe potuto dimenticare che la titolarità dei beni demaniali nel nostro ordinamento spetta allo Stato e agli enti pubblici territoriali.

[16] La stessa dottrina, tuttavia, aveva evidenziato che, se così fosse stato, si sarebbe dovuto ammettere che il ministro dell'economia e delle finanze potesse sottrarre alla destinazione collettiva e al regime pubblicistico dei beni che avevano ancora le caratteristiche naturali alle quali la legge connette la demanialità, oppure dei manufatti o delle infrastrutture ancora efficienti e indispensabili per l'adeguato svolgimento di un determinato servizio pubblico. In sintesi, sulla base di questi presupposti, le scelte ministeriali avrebbero potuto essere orientate non tanto dalla funzionalità pubblica di un bene, quanto da ragioni finanziarie. In proposito G. Terracciano, Il demanio quale strumento di finanza pubblica: profili finanziari e tributari, Torino, 2003, 3 ss.

Una tale interpretazione, inoltre, si sarebbe esposta a dubbi di legittimità costituzionale, sia con riferimento all'art. 42 Cost., per il quale la proprietà è pubblica o privata; sia perché consentendo al ministro dell'economia e delle finanze di sottrarre alla destinazione pubblica i beni statali demaniali e di determinare il confine tra proprietà pubblica e privata, sarebbero stati violati i principi costituzionali di funzionalità e di ragionevolezza sanciti dall'art. 97 Cost., nonché quello di legalità in senso sostanziale. Cfr. D. Sorace, Cartolarizzazione e regime dei beni pubblici, in G. Morbidelli (a cura di), La cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, Torino, 2004, 148, ripreso da M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004, 203 ss.

[17] Cartolarizzazione e regime dei beni pubblici, in G. Morbidelli (a cura di), La cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, Torino, 2004, 148; G. Oppo, Patrimonio dello Stato e società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, II, 495 ss.

[18] G. Cerrina Feroni, Profili di diritto amministrativo delle cartolarizzazioni del patrimonio immobiliare degli enti pubblici, Relazione tenuta al Convegno "La cartolarizzazione del patrimonio immobiliare degli enti pubblici. Esperienze e prospettive", Università Bocconi, Milano, 15 ottobre 2004, in Giust. Amm., 2005, III, 7.

[19] M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004, 49 il quale ricorda Trga Trentino Alto Adige, 9 giugno 2003, n. 244, che nel caso di sdemanializzazione e vendita di un tratto di strada pubblica ha ritenuto sussistente in capo all'amministrazione l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7 della legge 241 del 1990, nei confronti di tutti i proprietari degli immobili strettamente adiacenti ad almeno una parte del tratto in questione.

[20] G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. IV, Milano, 1958, 44 ss.

[21] R. Colonna Dahlman, Alienazione dei beni immobili culturali di proprietà pubblica, in Aedon, n. 1/2001, 3.

[22] La posizione è univoca da tempo: già la Cass., sez. un., 13 maggio 1963, n. 1177 aveva affermato che "l'art. 823 cod. civ., stabilendo che i beni demaniali sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano, ed affidando, nel capoverso, alla sola autorità amministrativa la tutela dei beni stessi e la polizia demaniale, detta norme che sono rivolte solo alla stessa amministrazione pubblica (norme di azione), vincolandola nell'interesse generale e non nell'interesse dei singoli privati cittadini i quali, perciò, di fronte alla legittimità e regolarità del procedimento di sdemanializzazione ed alienazione dei beni demaniali non hanno una posizione di diritto soggettivo".

[23] La logica dei due testi normativi, almeno sotto questo profilo, non risulta dunque discordante: il Codice, tuttavia, risulta più completo e dettagliato, laddove specifica che le prescrizioni e condizioni contenute nell'autorizzazione debbano essere riportate nell'atto di alienazione, del quale costituiscono obbligazione ai sensi dell'art. 1456 del codice civile ed oggetto di apposita clausola risolutiva espressa (art. 55-bis).

 



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