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Il Ministero per i Beni e le Attività culturali: l'"ultima" riforma / Voci dall'interno

Una suprema panacea? Decentramento amministrativo e patrimonio culturale

di Emanuela Carpani

From the inside - An extraordinary panacea? Administrative decentralization and cultural heritage
This essay analyses the effectiveness of administrative decentralization in the cultural heritage field, from the inside: the Author is a Ministry for the Cultural Heritage and Activities official. The debate about administrative decentralization in Cultural Heritage, in Italy, has been strong since 19° Century. This essay lightens the disadvantages of these politics, underlining the basic role of intergovernmental cooperation for Cultural Heritage preservation and valorization.

Nessuno ci crede seriamente a questa malaugurata autonomia regionale, ma quando si tratta di elaborare dei programmi demagogici tutto fa filo. Figurarsi se ci si poteva risparmiare di fare il solletico alle mai sopite velleità autonomiste del suolo italiano. Quale suprema panacea l'autonomia regionale [...]. Viva la provincia, viva l'eterna provincia italiana!
(Cesare Brandi, L'arte e le autonomie regionali, 1947)

Torno su un tema che questa rivista ha spesso dibattuto, sin dai suoi esordi nel 1998, anzi sul tema principale che ne intesse gli indici: basta inserire, nel motore di ricerca, il termine "decentramento" per avere, attualmente, un elenco di 122 articoli, alcuni di carattere più generale, altri di taglio più specifico su alcuni settori del patrimonio culturale. Non a caso, proprio i componenti della direzione, Cammelli, Barbati e Sciullo, sono tra gli autori che maggiormente vi si sono dedicati. Lo faccio non da giurista, ma da architetto ministeriale: questa non vuole essere una excusatio non petita, ma una semplice precisazione di premessa. L'obiettivo è quello di mettere a disposizione del confronto una personale esperienza, condotta dentro e fuori il Ministero. Ho avuto la fortuna, in un momento di intensissimo mutamento normativo e culturale, di sviluppare un percorso formativo e di iniziare una carriera alternata tra il mondo accademico-professionale e quello ministeriale: ciò mi ha consentito di mantenere contatti diversi e possibilità di approccio alla questione da ottiche differenti [1].

Si tratta di due questioni (decentramento e patrimonio culturale) strategiche per l'Italia, sia considerate separatamente e sia poste in relazione tra di loro. Esse hanno segnato costantemente, come un fil rouge comune, il dibattito sulle disposizioni normative e sulla suddivisione di competenze in tema di antichità e belle arti, per utilizzare delle espressioni nello stesso tempo datate e attualissime [2]. Tale dibattito fu molto vivace sin dal formarsi dell'unità nazionale e si riaccende puntualmente in corrispondenza dei periodi in cui viene messo in discussione l'impianto amministrativo complessivo del paese. La citazione di Brandi riporta al momento dell'elaborazione delle basi costituzionali del nostro ordinamento [3]. La grande inchiesta della Commissione Franceschini presentava accenni alla questione nelle diverse sezioni tematiche, ma non vi dedicava un approfondimento specifico [4]. La sua successiva rivisitazione con il forum della fine degli anni '80 di Memorabilia, al contrario, annoverava diversi contributi che incentravano le riflessioni proprio su questo tema [5]. Michele Cordaro, ad esempio, rimarcava come in un quadro, quale quello italiano, così "anarchico" nella suddivisione di competenze tra i diversi Ministeri e tra i Ministeri e gli Enti locali, proprio nella gestione del patrimonio culturale fossero inevitabili disfunzioni, incapacità, sovrapposizioni di poteri [6].

Erano passati solo pochi anni dall'attuazione della regionalizzazione prevista costituzionalmente: con i d.p.r. 14 gennaio 1972, n. 3 e 24 luglio 1977, n. 616 si erano trasferite o delegate alle Regioni alcune funzioni amministrative prima in capo agli organi statali [7]. Anche in questa occasione non erano mancate riflessioni sul tema. Nel 1971, per citare ad esempio un altro eminente esponente del mondo culturale italiano di origine senese, Ranuccio Bianchi Bandinelli, in qualità di membro della Commissione regionale per la riforma dell'amministrazione dei beni culturali e naturali (che elaborò la proposta di legge della regione Toscana 9 ottobre 1973), sottolineava come fosse necessario "porre un confine preciso tra le funzioni di effettivo carattere nazionale e quelle di carattere locale [...] e, contemporaneamente, tra le funzioni e le responsabilità politico-amministrative proprie degli organi costituzionali elettivi e di governo e quelle prevalentemente consultive attribuite ad organi largamente rappresentativi" [8].

Con l'avvio dell'ondata riformistica della pubblica amministrazione, nella seconda metà degli anni '90, il dibattito si riaccese [9]. Scriveva Antonio Paolucci nel 1996:

Ho cercato di far capire - [...] di fronte alle legittime e tuttavia tumultuose e pericolose richieste di decentramento che venivano dalle regioni - che la tutela della memoria storica degli italiani è la vera, grande e tuttora irrisolta questione e che il patrimonio culturale del Paese, dovunque distribuito e comunque posseduto, è una cosa che interessa lo Stato perché solo lo Stato, sintesi di tradizione e di storia, può farsi garante, per tutti, di valori che sono di tutti [10].

La ricetta di Paolucci, per un'efficace riforma del sistema, prevedeva due ingredienti fondamentali:

- la salvaguardia del principio costituzionale della unicità ed omogeneità della tutela su tutto il territorio nazionale;

- un maggior radicamento nel territorio delle strutture tecniche del servizio [11].

Solo due anni dopo, a seguito dell'emanazione del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, come si è anticipato, proprio "Aedon" prese avvio con una serie di contributi legati al tema in discussione. Nel primo numero, si trova un interessante dialogo tra uno degli estensori del testo di legge (Michele Ainis) ed il direttore della rivista (Marco Cammelli): l'uno difendeva il risultato di sintesi attuato dalla commissione Cheli, l'altro, evidenziandone un sotteso centralismo di ritorno, ne proponeva una disamina critica [12]. In riferimento al tema specifico della tutela del patrimonio culturale, scriveva Ainis:

[...] c'è anche chi ha capito che si tratta di una competenza scomoda, che le misure prese a salvaguardia del patrimonio storico ed artistico limitano e delimitano la proprietà privata, e insomma non creano consensi, ma piuttosto offendono interessi. Ecco perché difficilmente l'azione di tutela può venire perseguita con il rigore necessario dalle amministrazioni locali, che sono poi le più vicine a chi subisce il vincolo. Al di là dell'esperienza quasi mai esaltante che è venuta maturando quando invece tale competenza è rimasta in mano alle regioni [...] [13].

Cammelli delineava tre scenari alternativi possibili, nell'ambito delle riforme istituzionali, per il settore dei beni culturali: modello decentrato, modello centralizzato (ministeriale) e modello intermedio (contaminatio) tra i due precedenti. Illustrava inoltre compiutamente i motivi per i quali la soluzione ministeriale non risultava convincente: controtendenza con un trend evolutivo ormai chiaramente delineato nella direzione della sussidiarietà, tradizionale inidoneità delle strutture ministeriali ad assolvere determinati compiti, divaricazione progressiva con settori già conferiti alle regioni, mancanza di credibili sistemi di cooperazione, rischi di sovrapposizione di competenze con conseguente portato di conflittualità, inefficienza e deresponsabilizzazione.

Negli ultimi anni, la situazione è cambiata? La ricetta di Paolucci può essere ancora ritenuta valida? Oppure sono maturati i tempi per una nuova e creativa progettualità istituzionale?

Credo nel vecchio proverbio che recita: "l'esperienza insegna". Vi è un settore molto aderente al tema dei beni culturali, anzi, di recente esplicitamente ricompreso dal punto di vista giuridico nel concetto di "patrimonio culturale", dove l'esperienza ormai ultra-trentennale di sussidiarietà può fornire utili elementi di riflessione: si tratta del paesaggio, il "bene culturale in assoluto più importante d'Italia" [14]. Proprio questo settore ha fatto da "cavia" del decentramento amministrativo: nel 1977, con il già citato d.p.r. 616, le funzioni amministrative (sia autorizzative che sanzionatorie) in materia di paesaggio furono delegate alle regioni. Ancora Paolucci aveva tentato un bilancio a circa vent'anni dalla delega:

Non si tratta di opporre in astratto statalismo a decentramento [...]. Le Soprintendenze (queste inadeguate, povere, scalcagnate "prefetture della tutela" come a me piace definirle) hanno fatto, bene o male, dalle Alpi alla Calabria, il loro dovere. E continuano a farlo, a ranghi ridotti, con pochi soldi e in condizioni di obiettiva difficoltà. Possiamo, onestamente, dire lo stesso delle regioni per le parti che il d.p.r. 616/1977 ha loro delegato? La risposta sta nelle coste e nelle montagne d'Italia per tanta parte intensamente devastate negli ultimi anni da una edilizia orrenda e quasi sempre inutile [...] Le regioni nel loro complesso (e fatte naturalmente salve le doverose eccezioni) non hanno dato buona prova nella gestione dei comparti che a loro sono stati delegati. Affidarne altri nel settore dei beni culturali sarebbe, in questo momento, quanto meno improvvido [15].

Se già con la delega alle regioni vi è stato un sensibile rallentamento dell'attività vincolistica delle commissioni provinciali per le bellezze naturali (per molti anni rimaste sostanzialmente inattive) - cui la legge Galasso, di soli otto anni successiva al d.p.r. 616, cercò di porre urgente rimedio introducendo tutele ope legis di vasti ambiti - con le progressive sub-deleghe agli enti locali si è assistito al saccheggio del territorio italiano, anche dentro le aree tutelate.

Porto informazioni di prima mano, derivate direttamente dalla personale esperienza. Nel 1997 la regione Lombardia promulgò la principale legge di sub-delega agli enti locali, in primis ai comuni, ma anche, per modeste competenze, alle province, agli Enti Parchi e alle Comunità montane. Tutte le autorizzazioni paesaggistiche, prima vagliate dal mitico servizio dei Beni ambientali della regione che aveva assicurato coordinamento e uniformità di giudizio, con grande sforzo di un ristretto numero di qualificati tecnici, diventavano, quasi improvvisamente (vi erano state delle sub-deleghe precedenti per interventi di modesta entità), di competenza degli enti locali, indipendentemente dalla loro adeguatezza tecnico-amministrativa, con una incredibile polverizzazione di centri decisionali: bastava integrare la commissione edilizia con due "esperti ambientali" scelti, inizialmente, per "comprovata esperienza" nel settore, e successivamente dopo un "adeguato percorso formativo" curato dagli ordini professionali in collaborazione con la regione stessa. Mandai la mia disponibilità all'Ordine degli Architetti: nel curriculum allora avevo solo qualche anno di pratica presso uno studio di architettura, il dottorato (non ancora concluso) in Conservazione dei beni architettonici e la partecipazione in qualità di membro ordinario alla Commissione edilizia di un piccolo comune di provincia. Per la media locale probabilmente già presentavo qualche elemento di "comprovata esperienza", oppure, più malignamente, orbitando al di fuori della circoscritta realtà professionale di residenza, possedevo la dote migliore: potevo permettermi di assumere un compito scomodo, che avrebbe potuto dar fastidio a qualche collega. Fui selezionata in qualità di "esperto ambientale" per integrare la Commissione edilizia di una città di medie dimensioni (35.000 abitanti) e mi ritrovai insieme ad un professore di meccanica applicata del Politecnico di Milano, molto appassionato di botanica, a dover istruire e redigere le relazioni inerenti le proposte di intervento in ambito di tutela paesaggistica. Lo feci per quasi due anni, fino a quando presi servizio come funzionario del ministero. In alcuni casi, il professore ed io, come "esperti ambientali" motivammo, credo adeguatamente, il nostro dissenso: il responsabile del procedimento puntualmente rilasciò l'autorizzazione paesaggistica, a volte anche senza motivazioni, nemmeno quelle aleatorie di rito. La Soprintendenza che, sulle autorizzazioni paesaggistiche, deve esercitare solo il controllo di legittimità, essendo precluso qualsiasi giudizio di merito (come la giurisprudenza amministrativa ha ormai da tempo concordemente attestato), vergognosamente sotto organico e oberata da migliaia di pratiche annuali pro-capite per ogni funzionario con competenza, lui solo, su decine e decine di Comuni, spesso compreso il capoluogo di provincia [16], non rilevò motivi di illegittimità e di interesse pubblico per esercitare la facoltà di annullamento. Tanti interventi per i quali avevamo espresso parere negativo ora fanno bella mostra di sé, contribuendo ad uno spaventoso processo di accumulo di danno sul territorio che è sotto gli occhi di tutti, non solo degli "esperti"; basta volerlo vedere.

Non parliamo poi dell'"adeguato percorso formativo". Proprio per cercare di colmare le mie lacune, mi precipitai a frequentare il primo corso per "esperti ambientali" che l'Ordine degli Architetti organizzò in collaborazione con la regione; fu il primo di una lunga serie di corsi, sostanzialmente analoghi, ripetuti un paio di volte all'anno in modo da consentire ai nuovi diplomati o laureati di potervi progressivamente accedere. Vi potevano partecipare infatti non solo gli architetti o gli ingegneri, ma anche i geometri ed i periti edili. Con molta sorpresa si rilevò che il calendario prevedeva cinque incontri pomeridiani: con cinque mezze giornate si acquisiva la patente di "esperto ambientale" da esibire per poter entrare nelle commissioni edilizie.

Molti degli esperti ambientali esercitano la libera professione nel territorio di competenza del comune dove collaborano, quando non sono anche tecnici comunali e magari Sindaci o Assessori (all'Urbanistica e all'Edilizia, ovviamente) in comuni limitrofi. Poco è cambiato con l'introduzione delle commissioni per il paesaggio. Si è semplicemente creata una fitta rete di relazioni e di condizionamenti reciproci per cui diventa praticamente impossibile una efficace, indipendente e disinteressata azione di tutela dei valori paesaggistici. Per questo, quando sento parlare di una maggiore sensibilità sviluppata dall'opinione pubblica e dalle amministrazioni locali, mi tremano le vene ai polsi: nella migliore delle ipotesi si pecca di ingenuità, nella peggiore si fa il gioco di chi cavalca demagogicamente le istanze decentraliste per assicurare maggiore libertà di manovra amministrativo-politica a piccoli o grandi gruppi di potere che basano la propria produttività sul consumo del territorio e sullo sfruttamento speculativo della rendita di posizione.

In regione Lombardia, secondo i dati statistici disponibili, dal 1996 al 2004, con la subdelega nel mezzo, le autorizzazioni paesaggistiche sono aumentate in termini numerici di circa il 30%: rispetto a quando le rilasciava la regione, con la subdelega agli enti locali si è registrato circa un terzo in più di titoli autorizzativi, specchio di una più frenetica attività trasformativa del territorio, proprio nelle zone sottoposte a tutela paesaggistica [17]. Questa è la realtà dei fatti, che piaccia o no rilevarla. E la situazione è assolutamente analoga in tutte le regioni, pur con strumenti di pianificazione più o meno evoluti dal punto di vista paesaggistico [18].

In definitiva, un interesse sensibile, quale il paesaggio, tutelato costituzionalmente, non può essere lasciato in balia di strumenti sia amministrativi che pianificatori assolutamente aleatori, la cui efficacia dipende dalla buona volontà e dalla qualità delle persone che in quel momento si trovano a ricoprire ruoli ed a svolgere attività tecniche attinenti. Almeno questo ci ha insegnato l'esperienza nel settore: non capisco come si possa, sulla base di questa esperienza, pensare di poterla estendere anche ad altri ambiti del patrimonio culturale. Sarebbe come dare un quintale di caramelle in mano ad un bambino e pretendere che lo gestisca con criterio, per mantenere la metafora in campo eufemistico. Un bravo genitore deve sapere dire dei no, anche se scomodi: sono i no che educano e che si oppongono ad un demagogico laisser faire, laisser passer funzionale al quieto vivere o al bacino elettorale. Senza quei no si rischiano le tragedie di Messina, di Sarno, di Tartano, ma si rischia anche una tragedia meno percepita perché diluita nel tempo e nello spazio, ma non per questo meno devastante, fatta di un progressivo peggioramento della qualità della vita, in termini di densità antropica, di tempi di percorrenza casa-lavoro, casa-scuola, di traffico, di epidemiologie connesse allo stress ed all'inquinamento del proprio habitat.

Con questo non voglio affermare che il modello centralista sia privo di difetti e non possa essere profondamente riformato, anche nella direzione di un maggior coinvolgimento delle amministrazioni locali. Non lo pensavano nemmeno Brandi, Bianchi Bandinelli e non lo pensa sicuramente Paolucci, tutti accomunati dall'esperienza diretta interna alla macchina ministeriale e quindi perfettamente consapevoli delle sue lacune. Se questa venisse messa in condizione di poter effettivamente prestare il proprio servizio, intanto si creerebbero molti nuovi posti di lavoro, sia direttamente tra i dipendenti che nell'indotto (ad esempio per gli interventi di restauro, per i progetti di valorizzazione dei beni culturali, per gli studi e le ricerche, per la programmazione, per la ricerca e l'attivazione di canali di finanziamento, per i sistemi di gestione, per la formazione tecnico-professionale, per la promozione, ecc.) e poi si potrebbe offrire un supporto qualificato alle stesse amministrazioni locali, affiancandole in percorsi virtuosi di tutela, conservazione e valorizzazione del proprio patrimonio [19].

Per concludere vorrei tornare alle parole di Paolucci: "Le amministrazioni locali e gli uffici di tutela, la provincia e la regione, gli imprenditori e gli istituti bancari, gli intellettuali e i comuni cittadini devono sapere di essere responsabili agli occhi del mondo di quel mirabile pezzo d'Italia" [20]. Si riferiva a una porzione del mantovano, ma lo stesso vale per i diversi ambiti geografici del nostro paese, tutti connotati da uno straordinario connubio di paesaggio, centri abitati, architetture, beni artistici, storici e archeologici, archivi e biblioteche, musei, prodotti tipici, creatività artigianale ed artistica. Gli obiettivi di tutela, conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio culturale nel suo complesso, indipendentemente dalle suddivisioni di competenze che la normativa in continua evoluzione deve delineare, se non sono veramente condivisi e perseguiti lealmente da tutti gli attori della società, sia pubblici e sia privati, difficilmente potranno trovare efficace attuazione.

 

Note

[1] Il curriculum dell'autrice è pubblicato sulla pagina "Operazione trasparenza" del sito del ministero per i Beni e le Attività Culturali (Amministrazione periferica - dirigenti II fascia - Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Siena e Grosseto).

[2] Il riferimento va alle nuove denominazioni delle Direzioni generali del ministero per i Beni e le Attività culturali a seguito dell'emanazione del recente decreto integrativo del Regolamento di organizzazione (Decreto del Presidente della Repubblica 2 luglio 2009, n. 91).

[3] L'anno successivo, con considerazioni ironicamente amare sulla chiusura culturale dei suoi concittadini, Brandi fu ancora più esplicito: "C'è che i senesi hanno la scienza infusa e il gusto innato, e che con simili doni in tasca non se la fanno fare da nessuno. La morale è consolante per chi, come noi, vede nel regionalismo la nuova e puzzolente piaga della cultura italiana" (C. Brandi, "Ingrata patria, non avrai le sue ossa !" (bensì i suoi cartelloni), 1948, riportato in R. Bianchi Bandinelli, Cesare Brandi, Lettere (1927-1967), a cura di R. Barzanti, Gli Ori, Pistoia 2009, p. 48).

[4] Cfr. Per la salvezza dei beni culturali in Italia. Atti e documenti della Commissione d'indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, Casa Editrice Colombo, Roma 1967.

[5] Sul difficile rapporto tra decentramento e coordinamento centrale, specie in riferimento alla questione della programmazione, cfr. in particolare F. Sisinni, La programmazione pubblica della tutela. Questioni sul tappeto, in A. Clementi, F. Perego (a cura di), Memorabilia: il futuro della memoria. Beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici e storici in Italia. Confronti per l'innovazione, Laterza, Bari 1988, pp. 4-5. Sisinni arrivò a proporre delle Soprintendenze miste, ministeriali e regionali (cfr. F. Sisinni, Proposte conclusive. Gli obiettivi della programmazione nel settore. Il ruolo decisivo della struttura pubblica. Necessità di riorganizzare le Soprintendenze per migliorare il coordinamento con le regioni e gli enti locali, in A. Clementi, F. Perego (a cura di), Memorabilia..., op. cit., pp. 28-30). L'idea di fatto si sta concretamente sperimentando, proprio in questo periodo, in alcune realtà regionali, in occasione delle attività di co-pianificazione paesaggistica imposte dalla nuova versione del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche). Cfr. anche i contributi di G. Proietti, A. Franchini, G. Sella e di S. Cattaneo in A. Clementi, F. Perego (a cura di), Memorabilia..., op. cit., rispettivamente alle pp. 258-260, 264-265, 364-369 e 374.

[6] M. Cordaro, Debolezza dello Stato nella gestione dei beni culturali, in A. Clementi, F. Perego (a cura di), Memorabilia..., op. cit., p. 49.

[7] Per una ricostruzione puntuale delle varie ondate di decentramento amministrativo e per una ricca bibliografia sul tema si rimanda ad Aida Giulia Arabia, I beni culturali tra Stato, regioni e autonomie locali, Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, s.l. e s.d. (ma post 2004), in www.sspa.it.

[8] Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Cesare Brandi, Lettere..., op. cit. p. 35.

[9] Il riferimento va in particolare alle riforme cosiddette "Bassanini" ed alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 di riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione. Sul tema cfr. L. Mezzetti (a cura di), I beni culturali. Esigenze unitarie di tutela e pluralità di ordinamenti, Cedam, Padova 1995; G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon, n. 1/2001; A. Poggi, Dopo la revisione costituzionale: i beni culturali e gli scogli del "decentramento possibile", in Aedon, n. 1/2002; A. Poggi, La difficile attuazione del Titolo V: il caso dei beni culturali, in www.giustizia-amministrativa.it, s.d. ma ante 2004; P. Rago, Valorizzazione dei beni culturali e ambientali e Titolo V della Costituzione, in www.ambientediritto.it, 2004; R. Salamone, I beni culturali e il nuovo Titolo V della Costituzione: problematiche e prospettive a seguito della riforma federale dello Stato, in www.patrimoniosos.it, 2005; V. Piergigli, Corsi e ricorsi del decentramento. Il caso dei beni culturali, in V. Piergigli (a cura di), Federalismo e Devolution, Giuffré, Milano 2005.

[10] A. Paolucci, Museo Italia. Diario di un soprintendente-ministro, Sillabe, s.l. 1996, p. 11.

[11] Ivi, p. 17.

[12] M. Ainis, Il decentramento possibile, e M. Cammelli, Il decentramento difficile, entrambi in Aedon, n. 1/1998. Sul tema cfr. anche L. Bobbio, Il decentramento amministrativo: i beni e le attività culturali, commento al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, in Giornale di diritto amministrativo, IPSOA, Milano 1998, n. 9 e gli interventi di Giuseppe Chiarante e di Enzo Ghigo sul tema de La tutela e la valorizzazione dei beni culturali dopo le "leggi Bassanini": ipotesi di riforma, atti del FORUM P.A., Roma, 4-8 maggio 1998.

[13] M. Ainis, Il decentramento possibile..., op. cit.

[14] A. Paolucci, Museo Italia..., op. cit., p. 13.

[15] Ivi, p. 91. Poco oltre si legge: "in questa Italia così lunga e così diseguale, gli esempi di incompetenza e di inefficienza da parte di non poche amministrazioni locali non mancano, specie nella gestione del territorio", p. 97.

[16] Non voglio aprire un cahier de doléances che sarebbe corposo e che meriterebbe una disamina approfondita a parte, ma anche l'inefficienza indotta negli uffici ministeriali da una progressiva asfissia in termini di ricambio di personale (quando va bene i concorsi sono banditi ogni 10 anni, con distanze quasi generazionali tra un'ondata di funzionari e la successiva) e di riduzione progressiva delle risorse è assolutamente funzionale al disegno di chi vuole, per varie ragioni, non sempre chiaramente espresse o esprimibili, smantellare il sistema di tutela centralizzato.

[17] Per maggiori informazioni sul tema si rimanda a: E. Carpani, La convenzione europea del paesaggio nell'esperienza italiana di tutela paesistica, contributo al convegno "La cultura paesaggistica: ieri, oggi, domani", Centro Italo-Tedesco di Villa Vigoni, Menaggio (Co), 3-6 novembre 2003, in La cultura del paesaggio. Le sue origini, la situazione attuale e le prospettive future, a cura di R. Colantonio e K. Tobias, L. Olschki Editore, Firenze 2005, pp. 21-38; Emanuela Carpani, Carla Di Francesco, Tutela del paesaggio in Lombardia: dieci anni dalla sub-delega agli enti locali, in Il paesaggio nell'era del mutamento. Un problema deontologico, atti del convegno nazionale di studi, Mantova 6 giugno 2007, Zapparoli, Mantova 2007, pp. 79-88; E. Carpani, L. de Stefani, La tutela paesaggistica in Lombardia. Galleria di immagini, in "Quaderni di Palazzo Litta", n. 1, 2007, pp. 60-62; Emanuela Carpani, Il monitoraggio nell'applicazione della relazione paesaggistica: occasione di un bilancio, in "Quaderni di Palazzo Litta", n. 1, 2007, pp. 77-82.

[18] Il tema della pianificazione paesaggistica meriterebbe un approfondimento a parte. Si sottolinea solo come, fino ad ora, l'assoluta aleatorietà degli indirizzi di tutela abbia di fatto determinato la massima libertà trasformativa, demandando ogni scelta in sede di singola autorizzazione paesaggistica, mancando un quadro di riferimento e di effettivo coordinamento nel governo del territorio.

[19] E' necessario "far capire a Sindaci e amministratori che gli uffici della tutela sono realtà preziose, irrinunciabili, motori dello sviluppo e non ostacoli burocratici da subire o da contrastare" (A. Paolucci, Museo Italia..., op. cit., p. 17).

[20] Ivi, p. 149.

 

 



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