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I musei: servizi e risorse / Dibattito

I musei locali: problemi ed esigenze di sistema [*]

di Massimo Montella

Il mio intervento ha due presupposti.

Il primo è che, come richiesto, si riferisce ai musei locali: quegli stabilimenti di piccole e medie dimensioni che costituiscono la specie comune italiana.

Il secondo è che, rivolgendomi a voi, so di avere di fronte non un attore aggiuntivo rispetto allo Stato, alle regioni, agli enti locali, alla Chiesa e agli altri soggetti pubblici e privati, che, ciascuno per sé, dispongono di musei e di simili altri "luoghi della cultura", siccome li definisce il "Codice". Al contrario, pensando alla lettera e allo spirito della "legge Amato", ai successivi provvedimenti, all'emanazione dei nuovi statuti, so di parlare all'unico soggetto che, in questa stagione della complessità anche istituzionale e della sussidiarietà verticale e orizzontale, ha non solo il compito bensì anche la capacità effettiva di indurre forme di governance con cui rafforzare e rendere efficaci ed efficienti i sistemi di governo locali, così da poter conseguire adeguatamente la soddisfazione del diritto di cittadinanza alla cultura e lo sviluppo economico dei territori mediante la valorizzazione del patrimonio culturale.

E, conviene subito avvertire che, per questo essenziale obiettivo, la prima necessaria condizione è di volersi guadagnare meriti investendo sull'interesse generale, anziché in autonome manifestazioni di prestigio. Le altre condizioni, anch'esse irrinunciabili, sono quelle più volte indicate dal Prof. Segre, nelle quali mi riconosco pienamente e che avrò modo di richiamare più avanti.

Intanto provo a descrivere il problema da risolvere: quello dei piccoli, numerosissimi musei locali, minuziosamente diffusi nella penisola.

"Abitanti per museo: 9.887" è scritto in una delle tavole a corredo della relazione della Corte dei Conti del 2005 sullo stato dei musei degli enti locali. Se, poi, ai musei in senso stretto si aggiungono, come si deve, gli altri luoghi della cultura suscettibili di organizzazione museale, a cominciare dai parchi archeologici che punteggiano specialmente il meridione, la misura del fenomeno si chiarisce tanto meglio: quasi nessun comune ne è privo. Vero è che le cifre dei censimenti sono sempre precarie, anche perché continuano a mancare parametri univoci per distinguere esattamente i musei da altri siti d'interesse culturale. Tuttavia è certamente significativo che rispetto al totale, calcolato anni fa dall'ISTAT in 4.120 unità, la recente indagine della Corte dei Conti abbia registrato 3.430 istituti di enti locali. E di carattere locale, ovvero formati con raccolte estratte dai luoghi circostanti, sono anche molti di quelli appartenenti allo Stato, alla Chiesa, a privati.

Nell'insieme questi piccoli e medi complessi formano un valore in sé di assoluto rilievo e, se opportunamente gestiti, se impiegati come capisaldi territoriali per un'ordinaria opera di conservazione preventiva e di valorizzazione sociale di massa del patrimonio diffuso sul territorio, servirebbero non poco specialmente per lo sviluppo delle aree marginali e, dunque, per il riequilibrio economico della penisola.

La Corte dei Conti ha ora rilevato che la loro situazione è migliorata negli ultimi decenni, ma a macchia di leopardo. Anzi, a fronte del complessivo progresso, sono anche aumentati i casi di grave insufficienza. In conclusione continua a trattarsi in buona parte di semplici raccolte, solitamente inaccessibili al pubblico, tenute al di sotto dei livelli minimi di sussistenza e, dunque, finanche a forte rischio di perdita.

La previsione formulata dalla Corte stessa, secondo la quale il settore dei beni culturali è destinato ad assumere primaria importanza per lo sviluppo socioeconomico regionale, sembra perciò incredibile per musei come questi. A meno di condurli ad una profonda innovazione culturale, organizzativa, gestionale.

Finora, difatti, nonostante il loro cospicuo potenziale, i nostri tanti musei producono costi non lievi e ben poco valore, ovvero molto scarse utilità: utilità sociale, anzitutto, certo insubordinabile, anche per disposizione costituzionale, a qualunque altro interesse, ma utilità anche e conseguentemente economica, giacché il valore sociale consiste in un valore d'uso, al quale automaticamente si legano attività economiche così rilevanti, che dovrebbe finalmente annullare l'idea che la tutela e la valorizzazione dei beni di cultura siano funzioni tanto meritorie quanto inevitabilmente costrette nella marginalità produttiva di un'economia di pura sovvenzione.

Questo stallo è per ragioni ovvie: molti pretesi musei sono invece chiusi al pubblico; quelli accessibili offrono pochi e insoddisfacenti servizi per difetto di strategie, di capacità gestionali, di risorse materiali e immateriali.

Al fondo c'é un ritardo culturale foriero di molti equivoci, fra cui tre in particolare. In primo luogo la presunta contraddizione fra valorizzazione e tutela, al punto di non accorgersi nemmeno che in democrazia, se la maggioranza o almeno una quota significativa dei cittadini non percepisce il valore del patrimonio, mancano i presupposti fondamentali per assicurarne la tutela. Quindi l'ulteriore e non meno infondata contrapposizione fra economia e cultura, che induce a trattare i consumi culturali come "beni posizionali", ovvero per pochi che ne usano come status symbol. Infine la disattenzione per il fatto che i musei italiani, essendo normalmente costituiti con oggetti di provenienza locale, abbisognano di strategie e di modalità di organizzazione e di gestione affatto diverse da quelle dei grandi stabilimenti.

Per l'appunto le errate strategie soprattutto dipendono da una nozione di cultura ferma all'eccellenza monumentale e regolata da un canone selettivo estetizzante, che riduce al solo aspetto formale la vasta gamma del valore d'informazione storica implicita nella funzione naturale degli oggetti: le cause che ne determinarono la realizzazione, i materiali e le tecniche costruttive, i significati, lo stile, le sedi, le successive trasformazioni. Da ciò l'errata convinzione che la capacità attrattiva, anche per i musei locali, stia tutta e soltanto nel pregio conclamato di quanto esposto al chiuso delle sale. Il risultato è di confondere arte e cultura, arte e storia, emozione e intelligenza, nonché monumento e contesto, capitale e servizio, prodesse e delectare. Convinti di non poter fare altro che offrire spettacolo per procurare diletto, tutti perseguono l'entertainment. Puntano, pertanto, sulla però infrequente qualità assoluta delle proprie raccolte e non su quella relativa al luogo di cui sono espressione: ben altrimenti effettiva e credibile. Chiusi in sé, non colgono il vantaggio competitivo dovuto all'incessante continuità territoriale dei fenomeni culturali, che fa dell'Italia, come osservò Chastel, un museo naturale. Si deprezzano competendo sul piano spettacolare con i grandi stabilimenti di collezionismo universale, mentre perdono la determinante occasione, impossibile per quegli altri, di proporsi come porta d'ingresso alla conoscenza della cultura del territorio, come inizio di un racconto - secondo la felice espressione di Bruno Toscano - che continua fuori, nella città ed oltre, coinvolgendo un patrimonio allora sì decisamente notevole per quantità e qualità e, per di più, contestualizzato.

Ecco perché il loro marketing fordista, fermo all'assurda convinzione di doversi rivolgere a chi si adatta al proprio prodotto e non, invece, di dover produrre servizi che richiamino pubblici nuovi, ampi e variegati, perché capaci di generare utilità per essi, essendo progettati ed erogati a misura degli interessi e delle possibilità loro. Ne è specchio fedele l'astruso linguaggio usato, formidabile barriera all'ingresso: "le solite chiacchiere sull'arte" di cui parla Thomas Bernhard in "Antichi Maestri", lo "storicartistichese" su cui ironizza Riccardo Chiaberge in un recente articolo sul "Sole 24-Ore". Perciò anche il disinteresse per i servizi di accoglienza. Perciò l'assoluta mancanza di cultura d'impresa, di cultura del servizio.

Donde il successo delle mostre. Non soltanto un fatto di costume. Aumentata la domanda di cultura in una società cresciuta, da una mostra ci si aspetta di poter capire ciò che nel museo sfugge. La mostra, diversamente dal museo, è un prodotto pensato per il pubblico. Ed è anche un servizio attento all'accoglienza. Eccessi deteriori non mancano: di recente perfino gli impressionisti e la neve. Ma, anziché arricciare il naso, dal meglio bisognerebbe trarre insegnamento.

Però, per tutto questo, per produrre i molti benefici sociali ed economici teoricamente possibili ai nostri piccoli istituti locali, facendo leva sull'intera gamma del valore insita negli oggetti e ancor più nei contesti e sapendola comunicare efficacemente ai visitatori mediante servizi differenziati per i diversi pubblici, occorre che il museo, come qualunque altra impresa, disponga delle necessarie risorse materiali e immateriali. Invece l'innovazione attesa, se finalmente decisa, sarebbe oggi impedita dai vincoli interni, in gran parte insuperabili, che bloccano i processi produttivi: problemi d'impianto e d'impresa.

Molte volte, difatti, occorre rimettere in sesto e organizzare ex novo a museo quelle finora rimaste inerti raccolte. Quasi sempre, per gli istituti in funzione, andrebbero restaurati i patrimoni e molto migliorati le sedi, gli allestimenti, le strumentazioni.

I proprietari pubblici e privati patiscono, per questo, tetti di spesa limitati e certamente necessitano di sostegni. Ma non sta qui la difficoltà più grave. Per gli investimenti si può ancora contare su provvidenze comunitarie e statali niente affatto trascurabili.

La gestione, piuttosto, è il buco nero in cui precipita ogni migliore intenzione. E' l'assenza di gestioni efficienti ed efficaci all'origine della mancata produzione di valore e, spesso, della compromissione del valore già acquisito, come nel caso dei ripetuti restauri, costosi e sempre traumatici per gli oggetti che li subiscono, dovuti all'assenza di manutenzione ordinaria, di gestione corrente: al punto che molti finanziamenti vanno per rifare quanto realizzato anni prima e decaduto nel frattempo per incuria.

Per inadeguata gestione gran parte degli investimenti si risolvono in pura spesa. Per inadeguata gestione si deludono il diritto di cittadinanza alla cultura e il possibile sviluppo dei territori.

E proprio per la gestione gli enti pubblici hanno mezzi che in nessun modo consentono di raggiungere il confine efficiente delle organizzazioni museali. Per la gestione soprattutto necessitano, dunque, sussidi finanziari in quantità notevoli, da destinare specialmente all'incremento quantitativo e qualitativo del personale.

E tanto più che per gli istituti di piccole e medie dimensioni il vincolo maggiore è economico strutturale, conseguente agli elevatissimi costi medi unitari per volumi di produzione condizionati dalla ridotta utenza: insomma, nelle gestioni singole, più aumenta la quantità e finanche la qualità dei servizi, più si accresce il disavanzo.

Si può obiettare che il conto economico va allargato alle esternalità positive prodotte dai musei: esternalità che, per le finalità istituzionale degli enti locali, si configurano come rilevanti internalità effettive. Ma è una giusta teoria senza riscontro pratico, un circolo vizioso: per tener conto delle esternalità, bisogna produrle; per produrle occorre sviluppare processi produttivi per i quali non sono disponibili le risorse indispensabili. E, poi, finché non si ha modo di restituire al funzionamento dei musei almeno parte dei benefici indotti, continua a mancare un rimedio efficace.

Dunque bisogna spostare l'attenzione. Bisogna accorgersi che l'insufficienza di risorse finanziarie è in parte cospicua addebitabile, per i musei come per tutti i servizi sociali, a difetti di organizzazione.

L'80% del Paese è coperto da comuni con meno di 5.000 abitanti. Le loro dotazioni materiali e immateriali sono in proporzione. Esaurita, per fortuna senza successo, la fase di spinta per l'accorpamento dei municipi minori, si sono fatte leggi per favorire l'esercizio associato delle funzioni: leggi rimaste, però, senza seguito. Eppure, per frenare lo smottamento delle piccole comunità verso i centri maggiori, per non desertificare più ancora gran parte dei luoghi periferici, non c'é altra strada che le organizzazioni a rete, che le economie di scala.

Così è anche per i musei. Anzi, prima ancora che ad una costrizione economica, i network rispondono, per i musei locali, ad una fondamentale esigenza culturale, visto che le loro frammentarie raccolte si completano l'un l'altra e che solo l'insieme costruisce una trama sufficiente a interfacciare il sistema territoriale di appartenenza.

E comunque, se ogni museo deve poter disporre in sé di tutto quanto gli occorre per implementare appieno i processi produttivi della sua catena del valore, non c'é erario che basti. Né ve ne è una ragione plausibile, giacché, fatta salva l'autonomia del governo, che la rete correttamente intesa non pregiudica, ogni altra forma di autarchia è un ottuso spreco di risorse.

Inoltre larghi vantaggi verrebbero da oculate scelte di esternalizzazione. All'estremo, il museo potrebbe configurarsi come una pura impresa di assemblaggio, acquistando componenti del suo prodotto, semilavorate e finite, da fornitori esterni che, come l'Università, comporterebbero ridottissimi costi di transazione. Esempi pratici possono farsene in abbondanza. Per catalogare, ad esempio, le proprie eterogenee raccolte solitamente poco numerose, non si può pretendere di internalizzare le molte e specifiche competenze occorrenti in materia di storia dell'arte, di archeologia, di demoetnografia, di scienze naturali e via dicendo. E che nella catalogazione o nella progettazione di mostre intervengano altri soggetti innanzitutto pubblici e meritori, come appunto l'Università, non è forse calzante con il carattere pubblico dei patrimoni museali?

Di questi assunti pare che quasi nessuno più dubiti in teoria, Nei fatti, però, si osserva tutt'altro. Come qualcuno ha osservato, la rete è una bandiera che sventola solo ad elevate altezze. Avvicinandosi a terra si affloscia, per difficoltà miserevoli.

Due notazioni soltanto.

La prima è che, dichiarando l'intenzione di organizzare reti, si impiantano nuovi enti, che comportano costi aggiuntivi e non conseguono economie di scala per due ragioni soprattutto: perché si limitano a qualche depliant e a qualche card per l'insieme degli aderenti, mentre non realizzano sinergie per i processi produttivi primari; perché sono strutture rigide incompatibili con forme di collaborazione che, per essere efficaci ed efficienti, dovrebbero essere a geometria variabile, ovvero più o meno estese a seconda della diversa specie delle attività alle quali si applicano: pochi, ad esempio, possono essere gli istituti che condividono il medesimo servizio di pronto intervento contro furto e incendio; moltissimi dovrebbero essere, e anche al di là dei confini regionali, quelli cui riferire un servizio unitario di right management.

La seconda attiene alla teoria dell'agenzia nel settore pubblico e, più in generale, alle cause di fallimento dei poteri pubblici. Il fatto è che i tempi concessi agli amministratori pubblici per i propri obiettivi d'impresa non sopportano programmazioni di lungo termine. Servono risultati visibili subito, anche a prezzo di erodere il capitale sociale. Perciò le mostre anziché il miglioramento del museo; perciò i restauri anziché la prevenzione. Per contro costruire una rete e costruirla accuratamente è un impegno di lungo periodo. I frutti appaiono tardivi. I costi della razionale collaborazione possono essere troppo alti rispetto all'acquisizione spicciativa del consenso. Una buona quantità e qualità del personale addetto, essenziale per qualunque impresa, può essere facilmente ottenuta in rete, ma può comportare la rinuncia al potere discrezionale di affidare in proprio contratti precari a qualche precario diplomato del posto. Tant'é che la Corte dei Conti denuncia una programmazione regionale scarsamente incisiva, erogazione di contributi a pioggia, deresponsabilizzazione delle amministrazioni locali guidate da logiche contingenti.

I rimedi possibili sarebbero molti e di diversa specie, purché ci fosse un attore a promuoverli: tutti quelli che favoriscano la visibilità dei comportamenti pubblici; tutti quelli che favoriscano organizzazioni a rete; tutti quelli che favoriscano esternalizzazioni virtuose; tutti quelli che inducano a considerare seriamente l'esigenza di avvalersi di personale adeguato per quantità e qualità e di assicurarne il costante aggiornamento professionale. Qualcuno questa mattina ha detto: "si è fatta una cooperativa, probabilmente come qualità non è granché, però...".

Quel però è il cuore del problema.

L'attore unico in condizioni pressoché ottimali sul quale poter fare affidamento è oggi da riconoscere nelle fondazioni. Almeno in astratto. In pratica, a fianco di alcune esperienze di grande merito - da parte di Cariplo, ad esempio - persistono preoccupanti incertezze, per lo più addebitabili ad una scarsa conoscenza dei problemi del settore.

Molti interventi, difatti, sembrano improntati a quel medesimo bisogno di facile e pronta visibilità che compromette l'azione dei pubblici poteri. Finanziare un restauro anche senza un progetto di valorizzazione a lungo termine, aggiungere un proprio museo ai già esistenti benché con non molto migliori capacità produttive, promuovere una mostra in più non sono iniziative per se stesse censurabili, ma non modificano la cattiva situazione generale.

La questione essenziale per le fondazioni non sembra che stia tanto nella scelta fra essere operative o concedere grants. Entrambe le soluzioni possono essere corrette o sbagliate. E' sbagliata l'operative, se si traduce in autarchia. E' sbagliato erogare contributi, se si traduce in beneficenza incontrollata. Il punto è di non scordare, in un caso e nell'altro, che si dispone di un "capitale altruistico", da utilizzare prioritariamente per rispondere ad esigenze territoriali, agendo di stretta intesa con il sistema locale, sostenendo il terzo settore, perseguendo scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico, concorrendo alla produzione di beni essenzialmente pubblici. Se questa rotta è ferma, può non far differenza, in linea di principio, che si agisca direttamente, che si proceda alla costituzione di fondazioni proprie e di imprese strumentali o che si opti per la erogazione di finanziamenti, per la stipula di convenzioni con enti pubblici o privati, per la partecipazione anche da posizioni di controllo a fondazioni o società.

La differenza, decisiva invece, attiene a quanto segnala il Prof. Segre.

In particolare, affinché il potere finanziario delle fondazioni serva a creare effettivo valore sociale e di mercato, inducendo una rapida e sensibile innovazione del sistema economico e amministrativo, andrebbe rapidamente superata la inveterata logica di beneficenza, non solo migliorando i criteri di selezione dei destinatari, ma specialmente evitando contribuzioni di importo inferiore alle soglie produttive, collaborando più spesso ad iniziative comuni con altre fondazioni e, in primo luogo, assumendo strategie fondate su precise priorità d'intervento di durata poliennale e decisamente indirizzate alla ricerca, alla sperimentazione e alla conclusiva adozione di best practices e dei connessi strumenti operativi.

Volendo generare benefici che vadano al di là del puro valore monetario dei contributi, gli interventi, infatti, dovrebbero essere mirati ad ottenere che la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio non vengano ancora e sempre precariamente rincorse con misure emergenziali, ma siano stabilmente conseguite mediante il solido impianto di una prassi normale e continuativa esercitabile in ambito locale a dimensione territoriale e tale da indurre benefici sociali e di mercato programmati e pienamente remunerativi. In questo e in ogni altro settore, insomma, importa soprattutto migliorare i comportamenti di quanti ricevono sostegni finanziari, impegnandosi insieme ad essi per assicurare l'efficacia delle loro azioni.

Dunque, come raccomanda Segre, non più liberalità, ma interventi strutturali: non un contributo a un museo, ma finanziamenti per la costruzione e il funzionamento ordinario di reti museali che siano estese ad ambiti territoriali efficienti, affinché conseguano il confine efficiente dell'organizzazione, e che adottino strategie e forme gestionali atte ad integrare obiettivi sociali e di mercato; non più l'incontrollata erogazione di contributi, ma la partecipazione, insieme ai soggetti titolari dei musei, ad un'apposita società di gestione, come la normativa attuale consente e sollecita. Passare, insomma, dalla carità alla filantropia, dall'elargizione alla partnership, per assicurarsi che i finanziamenti erogati siano impiegati non solo in modo amministrativamente corretto, bensì anche con efficacia ed efficienza.

Del resto, per sciogliere ogni dubbio circa il rapporto da stabilire con gli enti locali e con gli altri possibili beneficiari, circa la drastica alternativa fra una posizione d'indipendenza e l'accettazione di un ruolo di supplenza, basterebbe ricorrere alla programmazione negoziata. Usando di questo strumento, le fondazioni ex bancarie, nate sulla scia della riscoperta del territorio come misura ottimale di sviluppo nell'età della globalizzazione, potrebbero rafforzare senza rischi il proprio legame con la realtà locale e assumere, come raccomanda il Prof. Segre, un ruolo decisamente proiettato nel futuro.

Note

[*] Testo della relazione discussa nel seminario Acri sulle Attività museali, tenutosi a Roma il 21 marzo 2007.

 

 



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