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Pubblico e privato nei beni culturali: condizioni di partenza e punti di arrivo

di Marco Cammelli

La vicenda dei c.d. "servizi aggiuntivi", poi divenuti servizi di assistenza culturale e di ospitalità nella vigente dizione dell'art. 117 del Codice dei beni culturali, costituisce una sequenza paradigmatica di come le buone intenzioni continuino a lastricare le vie dell'inferno. Non perché tutto sia da buttare, tutt'altro. Basta leggere i documenti ministeriali per verificare l'espansione di un settore che solo dieci anni fa era ancora ai blocchi di partenza. Ma perché alcuni errori di partenza, profondi cambiamenti intervenuti, e incertezze sugli obbiettivi assegnati hanno portato al vistoso scollamento tra disciplina formale e prassi applicative, sul piano giuridico e al blocco del sistema, tra contenziosi e gare deserte, su quello fattuale.

Come spesso succede, ciascuno degli attori ha (una parte di) ragione ma, come sempre avviene in simili casi, questo complica e non semplifica il problema.

La legge Ronchey, in partenza, si basava su di uno schema semplice: la p.a. fa per intero il suo mestiere, cioè si occupa dello svolgimento dei compiti pubblici che le sono assegnati; il privato si dedica al resto, cioè del sovrappiù per il pubblico, completando l'offerta pubblica con prestazioni (aggiuntive, appunto) utili e gradite la cui gestione economica, oltre a remunerare l'impresa, assicura qualche risorsa ulteriore alla p.a.

Nel giro di pochi anni, tuttavia, queste premesse sono radicalmente cambiate. La crisi delle risorse ha posto problemi anche all'esercizio delle funzioni primarie della p.a., mettendone in discussione talvolta l'espletamento e sempre le modalità di gestione. All'elenco iniziale si aggiungono così (1995) compiti totalmente interni alla gestione ordinaria come quelli attinenti alla guida, vigilanza, pulizia e biglietteria. In tal modo l'impianto originario finisce per esserne travolto, sia perché con tutta evidenza qui di "aggiuntivo" c'è ben poco, sia perché dal capitolo del privato per (ulteriori) servizi al pubblico degli utenti si transita all'affidamento all'impresa della gestione di compiti e funzioni pubbliche. Approdando, in breve, all'area della esternalizzazione di pubbliche funzioni.

Non è difficile immaginare il risultato. Intanto, salta la premessa della Ronchey che immaginava il di più, servizi aggiuntivi, solo là dove vi fossero le condizioni sufficienti a sostenerne i costi e a generare profitti, vale a dire presso gli istituti o i siti grandi o medio-grandi. Se ormai vi rientrano anche attività ordinarie e interne all'offerta pubblica, è chiaro che queste deve essere assicurate per tutti i musei. Con la contraddizione, non banale, che non è facile conciliarne la doverosità e la generalità nell'esercizio con la possibilità, assai più circoscritta, che questo sia economicamente sostenibile.

In secondo luogo risultano impraticabili, costituendo al contrario un vero e proprio inciampo, i caratteri della uniformità della disciplina e della gestione centralizzata della relativa applicazione. Utili, anzi necessari per la creazione di un mercato nazionale ruotante intorno al ristretto gruppo di musei più frequentati, bisognoso di regole e pratiche eguali per aprire il terreno alla concorrenza tra imprese. Impropri ed anzi controindicati quando il discorso si estende a centinaia di realtà fortemente differenziate per dimensione, affluenza, temporaneità o continuità della frequenza, contesti territoriali, socio-economici e istituzionali. E quando, in più, se ne rende necessaria una applicazione decentrata alle articolazioni periferiche del ministero.

Per di più, come è ovvio, non è solo nel mondo delle istituzioni che le cose cambiano. L'editoria, ad esempio, è all'origine compresa tra i servizi "ulteriori", ma in pochi anni il rilievo assunto da eventi particolari e in particolare dalle mostre fa del relativo catalogo uno dei segni più significativi delle politiche culturali collocandolo al centro dell'offerta culturale pubblica. Cessando naturalmente di essere aggiuntivo e divenendo, al contrario, uno dei terreni più delicati di tensione tra le due parti: le imprese, che giustamente ne fanno uno dei prodotti più qualificanti, e l'amministrazione, che altrettanto giustamente non intende restare estranea da quanto ormai è parte essenziale della valorizzazione dei beni e della definizione delle politiche pubbliche in materia.

In breve, il sistema è andato evolvendo verso lidi imprevedibili e assai critici. Come emerge dalla prassi i servizi in questione sono tutto fuorché "aggiuntivi". E non solo su di questi, o (più spesso) per il loro tramite, transitano esigenze di funzionamento minimo ed essenziale degli istituti pubblici ma, più a fondo, si verifica di frequente uno scambio perverso tra pezzi di vera e propria valorizzazione pubblicistica (come appunto editoria, iniziative o mostre) trasferite al privato, l'unico spesso a disporre delle relative risorse e, per converso, pesanti restrizioni amministrative sul funzionamento concreto. Che di fatto, ulteriore paradosso, semi-pubblicizzano le imprese private.

Non stupirà che questa confusione di attività eterogenee e di ruolo degli attori finisca per travolgere anche la (in sè giusta) ipotesi di "integrazione" di attività, con sotterranee compensazioni tra attività a profitto e in perdita, attività dovute e non dovute (ma richieste), decisioni prese e vincoli subiti, che al di là di ogni altra considerazione impediscono la comprensione di chi fa che cosa, la valutazione di costi e ricavi, la definizione (e imputazione) delle conseguenti responsabilità. Anzi, che le gara vadano deserte e che si apra un vasto contenzioso è tutto fuorché una sorpresa.

Da questa vicenda, in ogni caso, si possono trarre almeno tre elementi che meritano più di una riflessione.

Il primo è che ogni disciplina regge su presupposti che se cambiano in alcuni degli elementi chiave richiedono non già, come molti si ostinano a credere, una nuova normativa, ma un diverso funzionamento del sistema capace di identificarne la cifra costitutiva e di conseguenza gli obbiettivi, gli attori le dinamiche, gli strumenti. Poi, e solo poi, si dovrà porre mano alle legge, se ed in quanto questo sia davvero indispensabile.

Il secondo consiste nel fatto che senza un riconoscibile, stabile e (perciò) affidabile quadro di riferimento fatto di principi base, obbiettivi chiari, ruoli distinti, circuiti informativi, incentivi, supporti organizzativi e controlli, nessuna realtà complessa può essere governata. Salvo l'ingenuità di negare oltre la soluzione anche il problema, come avviene con i periodici tentativi di ritorno a ferrigne ed uniformi normative e gestioni centralizzate, o la malizia di chi sa fin da principio che un conto è la legge e un altro la prassi, il dire e il fare, il prevedere e il provvedere. Entrambi (pre)destinati alla frammentazione più esasperata e alla torbida confusione di ruoli, di competenze, di responsabilità.

Ma tutto ciò, ecco il terzo e ultimo punto, spetta al pubblico. Solo se si fa garante di queste pre-condizioni, riconoscibili ed eguali per tutti, può permettere a sè e ai propri interlocutori la nobile arte del distinguere, del negoziare, dello sperimentare, del cambiare. Il che dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che per la p.a. la relazione con i privati è più che augurabile. é necessaria.

Ma è un punto di arrivo, non di partenza.



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