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"Nodi" e sistema dei beni culturali: soluzioni in cerca di autore

di Marco Cammelli

Due episodi, documentati in questo e nel precedente numero della Rivista, indicano in modo inequivocabile come il sistema dei beni culturali, proprio per essere tale e per non perdersi in una frammentazione alla quale sarebbe poi difficile porre rimedio, richieda che vengano esercitate tempestivamente funzioni sistemiche (appunto), tali cioè da orientare la pluralità di livelli istituzionali e di esperienze in atto lungo principi e direttrici comuni e riconoscibili.

Il primo è rappresentato dal rapporto della Corte dei conti, sezione autonomie, in ordine alla gestione dei musei locali, richiamato nel n. 3/2006 di questa Rivista. La relazione, e il puntuale commento di Anna Poggi, sottolineano infatti non solo la dispersione delle fonti di finanziamento, e il peso crescente assunto in materia dal corrispettivo del biglietto, ma sopratutto la scarsa relazione tra gestione e standards e il ricorso, del tutto determinante, alla modalità della gestione diretta.

Si dirà che questa è appunto una delle soluzioni offerte dalla normativa vigente, e in particolare dall'art. 115, comma 1, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e che dunque non vi è nulla da eccepire. Ma se il dato è posto in relazione con il numero dei musei locali rilevati (3430 per 1785 comuni), il discorso cambia, perché è evidente che sta ad indicare la modesta, e spesso minima, dimensione di ognuno di questi.

Siamo ancora a meri dati quantitativi, certo, ma è chiaro che in queste condizioni la relativa organizzazione non può che essere ridotta ai minimi termini. Strutturalmente inidonea, cioè, a soddisfare quei principi di "adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile", oltre che di disponibilità di "idoneo personale tecnico", espressamente richiesti in proposito dal secondo comma dello stesso articolo.

E il discorso a questo punto, come ognuno può vedere, diviene squisitamente qualitativo.

In breve, il rispetto dei sacrosanti requisiti stabiliti dal secondo comma implica un particolare accorgimento nel ricorso alle modalità di esercizio delle attività di valorizzazione previste dal primo comma dell'art. 115 e cioè che la gestione diretta, ma lo stesso vale anche per la concessione a terzi, sia effettuata perseguendo dimensioni minime al di sotto delle quali non solo si incorre in una inevitabile dispersione di risorse (finanziarie e non) ma, più a fondo, non si raggiunge quella massa critica di densità organizzativa che sola può costituire la base d'appoggio per soddisfare i requisiti richiesti.

Il che, si noti, non significa necessariamente spogliare i (giustamente gelosi) comuni del proprio museo. Implica, semmai, la previsione di forme di cooperazione e di organizzazione integrata, come avvenuto in alcuni esempi virtuosi (Umbria), tali da mettere in rete servizi, pubblicazione di cataloghi, formazione e reclutamento del personale, acquisti ed altro. Tutte cose che certo non assicurano di per sé l'autonomia scientifica o l'idoneo personale tecnico, ma vi si avvicinano e comunque ne costituiscono la premessa.

Ma qui sta il punto. Il "favor" nei confronti della gestione integrata (almeno) di questi servizi attinenti ad istituti culturali è affidabile solo alla virtù dei singoli enti interessati? Per quanto non manchino esempi positivi, non c'è dubbio che un simile obbiettivo vada perseguito anche in modo più sistematico. Anzi, considerando quanto si è visto, vale a dire l'enorme estensione di gestioni dirette in capo a realtà di modeste dimensioni e l'inevitabile conseguenza che ne deriva in termini di inosservanza dei requisiti dettati dal comma 2 dell'art. 115, si può affermare che la realizzazione di un tale risultato è giuridicamente doverosa. E cioè che è apprezzabile in punto di legittimità la delibera della amministrazione comunale che opti per una modalità di gestione, diretta o indiretta non ha importanza, che, per disporre singolarmente della propria attività museale di ridotte dimensioni, necessariamente comporta il mancato rispetto degli elementi richiesti. O che, quantomeno, non motivi adeguatamente le ragioni per cui non è stato possibile darvi seguito.

Se le cose stanno in questi termini, tuttavia, è innegabile che il discorso va esteso. Intanto, c'è un problema di soggetti. La ricerca di forme di cooperazione sovracomunali implica evidentemente un ruolo dei livelli istituzionali superiori, cominciando dalla regione.

Vi è poi la questione dei mezzi per farvi fronte. Qui il discorso inevitabilmente si amplia. In parte si tratta di previsioni normative tali da richiedere il raggiungimento, in via strutturale (gestione consortile) o funzionale (integrazione di risorse e servizi), di una densità organizzativa minima tale da rendere sostenibile il progetto di attività provvisto delle caratteristiche che si sono dette. In parte, invece, potrebbe trattarsi di misure di sostegno, finanziarie o regolative o di altro genere (si pensi ad esempio a piani intensivi di formazione congiunta del personale delle varie entità coinvolte), atte ad incentivare e sostenere le iniziative adottate nel senso indicato.

Tra l'altro non è da escludere che, una volta imboccata questa strada, sia possibile reperire risorse aggiuntive. Non si vede cosa impedirebbe alle fondazioni di origine bancaria, magari garbatamente sensibilizzate sul punto, di privilegiare nella propria attività di erogazione proprio quei progetti che, associando ad una proposta più enti, si ispirino a simili logiche ponendosi gli obbiettivi che si sono ricordati.

Il secondo episodio è rappresentato dalla controversia in tema di affidamenti nel settore culturale, decisa di recente dal Tar Lazio (II sezione, 23 agosto 2006, n. 7373) e richiamata in questo numero della Rivista.

La questione della legittimità degli affidamenti disposti dal comune di Roma ad una società interamente partecipata dallo stesso comune si è giocata, ed è stata risolta in senso negativo, sulla possibilità di far rientrare nell'ambito delle attività di valorizzazione, direttamente e correttamente affidate alla società ai sensi dell'art. 115 Codice dei beni culturali, anche la gestione di lavori pubblici che, pur inerenti alla struttura interessata dall'affidamento, in realtà dovevano considerarsi assoggettati alle procedure di evidenza pubblica previste dagli artt. 1 e 7 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 30 sugli appalti dei lavori pubblici concernenti i beni culturali (ora assorbito dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163).

La soluzione appare corretta, ma quello che qui importa sottolineare è la difficoltà, puntualmente sottolineata dal giudice, di ricostruire con precisione l'ambito di ciò che è riferibile alla "valorizzazione" impedendone una estensione tale da aggirare le norme di settore vigenti per i lavori pubblici in materia.

In breve: il significato da riconoscere alla valorizzazione e, di conseguenza, il rapporto da stabilire tra le due discipline di settore. Il che, senza la perimetrazione dei contenuti e la definizione di livelli essenziali di qualità della valorizzazione, specificamente rinviati dall'art. 114 del Codice dei beni culturali all'accordo Sato-regioni, è inevitabilmente problematico.

In questo come nel precedente caso, dunque, interventi di evidente utilità che attendono solo di essere posti in essere.

Come si vede, non sono necessarie revisioni costituzionali o legislative, né riforme del ministero e neppure complicate actiones fines regundorum tra Stato, regioni ed enti locali: è sufficiente che ognuno faccia la sua parte. E che il centro, meglio "i centri", ma più semplicemente (e correttamente) i "nodi" della rete che si sta costruendo, si ricordino di essere tali e agiscano di conseguenza.



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