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Parte prima

Temi trasversali

1. Oggetto e metodo dell'analisi, di Angela Serra, Claudia Tubertini, Leonardo Zanetti

Il presente studio nasce dalla richiesta delle cinque regioni committenti (Lombardia, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto, con l'appoggio di Irer e Fondazione Querini Stampalia) di poter disporre di un documento per quanto possibile semplice e chiaro che tracciasse i contorni degli spazi entro cui l'intervento normativo regionale nel settore della valorizzazione dei beni culturali potesse svolgersi, anche con specifico riguardo alla gestione dei beni - e in primis dei musei - degli enti locali. Tali spazi sono infatti delimitati dal rapporto con la legislazione statale, da un lato, e con l'autonomia normativa e organizzativa riconosciuta dalla Costituzione alle stesse amministrazioni locali, dall'altro, e attendono, inseriti in un quadro normativo piuttosto complesso e in rapida evoluzione, di essere valutati dalle regioni.

Si chiedeva poi di delineare i contorni degli "spazi consigliabili" dell'intervento regionale, ponendosi le regioni l'obiettivo di sostenere efficacemente le iniziative di valorizzazione, più che di rivendicare in linea di principio l'esercizio di determinate competenze. Ciò a maggior ragione considerando le odierne politiche di riduzione della spesa pubblica, che inducono a rivedere il tradizionale strumentario amministrativo, per un verso, e ad astenersi dall'imporre agli enti locali delle soluzioni organizzative particolarmente gravose, per un altro.

Una volta delineata la "cornice" entro cui la normazione regionale possa svolgersi, si chiedeva di concentrare l'attenzione su taluni aspetti relativamente specifici della valorizzazione: la gestione dei servizi culturali, l'aggregazione degli enti locali, la formazione del personale [1].

In ultimo si chiedeva di verificare la possibile incidenza delle potestà pubblicistiche regionali nei confronti dei soggetti privati titolari e/o gestori di beni culturali, ancora una volta a partire dall'ipotesi dei musei.

Il presente lavoro, dunque, percorre e analizza le tappe indicate ponendosi come obiettivo la proposta alle regioni di soluzioni equilibrate dal punto di vista sia della percorribilità giuridica sia della necessità di non aggravare i conti delle amministrazioni interessate. Si è persuasi infatti che la regolazione regionale non debba tanto essere "conformativa" nei confronti dei destinatari quanto piuttosto mettere a disposizione di questi ultimi - e particolarmente degli enti locali - gli strumenti per razionalizzare l'organizzazione e le spese.

Occorre poi sottolineare come l'indagine abbia un taglio volutamente generale, ossia prenda le mosse dal testo costituzionale e dall'interpretazione fornitane dalla Consulta, più che dall'analisi delle singole esperienze regionali. In tal modo, si rischia forse di trascurare alcune situazioni regionali particolarmente interessanti dal punto di vista della legislazione e/o della prassi, ma al contempo ci si propone di individuare uno schema analitico e ricostruttivo adeguato per il sistema autonomistico nel suo complesso [2].

2. Il principio di leale collaborazione, di Leonardo Zanetti

Preliminarmente allo sviluppo della ricerca, risulta opportuno evidenziare come la ricostruzione del sistema dei rapporti tra i vari attori istituzionali, in termini generali prim'ancora che con specifico riguardo ai beni culturali, vada condotta alla luce non solo delle espresse disposizioni costituzionali ma anche dei principi desumibili in via interpretativa, grazie soprattutto all'ausilio della giurisprudenza costituzionale. In particolare, va fin d'ora sottolineata l'importanza assunta dal principio di leale collaborazione, menzionato in maniera pressoché incidentale dalla Carta fondamentale (all'art. 120 Cost., il cui oggetto è circoscritto ai poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle autonomie territoriali), e invece divenuto il perno dell'opera della Consulta, che tramite detto principio cerca di ovviare alla scarsità di meccanismi di raccordo e di cooperazione tra istituzioni, nonché alla incerta e frammentaria definizione e distribuzione delle competenze tra le istituzioni stesse (soprattutto dopo la revisione costituzionale del 2001).

Va detto che l'impiego di strumenti cooperativi, a partire dagli accordi e intese stipulati nell'ambito delle conferenze miste (Stato-regioni, Stato-autonomie locali, Unificata) [3], nasce anche prima e a prescindere dalla recente giurisprudenza costituzionale in argomento, potendosi ricordare ad esempio gli accordi inerenti alla gestione spesa sanitaria [4], o l'accordo con cui si è cercato di definire in via generale un percorso concordato di attuazione della riforma del 2001 [5]. Tuttavia è stata la Consulta a radicare la doverosità degli strumenti in esame, specialmente per quanto riguarda le ipotesi in cui esiste un'interferenza tra le competenze statali e regionali, con una serie di pronunce tra cui si deve richiamare anzitutto la fondamentale Corte cost., 1° ottobre 2003, n. 303 [6].

Se poi dal panorama generale ci si sposta all'ambito più circoscritto dei beni culturali, l'importanza della collaborazione tra i vari attori istituzionali emerge ulteriormente, stante la diffusione di norme e azioni concertate, in tema soprattutto di valorizzazione ma per certi aspetti pure di tutela dei beni: norme e azioni che hanno ricevuto una più compiuta sistemazione da parte del Codice dei beni culturali e del paesaggio [7], e che però non devono far dimenticare le esperienze già maturate in precedenza [8].

Il particolare rilievo del principio di leale collaborazione nell'odierno quadro istituzionale e segnatamente in materia di beni culturali emergerà più volte nelle pagine che seguono, ma deve essere tenuto presente anche al di là delle sue espresse menzioni: in un ordinamento caratterizzato dal pluralismo istituzionale paritetico e cioè dalla pari dignità di tutti i livelli di governo, a partire dalle affermazioni contenute nell'art. 114 Cost. [9], le relazioni tra gli attori del sistema non possono che improntarsi a logiche di cooperazione più che di contrapposizione; il che peraltro non esclude ma semmai presuppone, così come del resto avviene per i contratti propriamente intesi, una chiara definizione delle responsabilità di ciascun soggetto nonché - in caso di inadempimento - il crearsi di situazioni di conflitto (da risolvere mediante procedure conciliative-arbitrali oppure contenziose).

Si aggiunga che la logica della cooperazione può essere declinata in modi diversi: in particolare, una dimensione da non trascurare è quella della cooperazione tra due o più regioni, che cioè non chiami in causa - almeno inizialmente - l'intero sistema regionale nonché i suoi rapporti con lo Stato e/o con gli enti locali (com'è proprio invece delle conferenze miste). Ciò vale anche ai fini delle azioni, eventualmente di tipo sperimentale, che le regioni ritengano di intraprendere negli ambiti considerati dal presente documento.

E' allora importaalign=left nte ricordare i principali strumenti previsti dall'ordinamento in proposito. L'art. 117, comma 8, Cost., prevede la possibilità che le regioni approvino con legge delle intese concluse tra di esse, e volte al "migliore esercizio delle proprie funzioni" anche tramite la "individuazione di organi comuni". Si tratta di una modalità di collaborazione particolarmente impegnativa, che comunque non preclude il ricorso a figure più agili. Ci si riferisce primariamente agli accordi tra amministrazioni pubbliche previsti in via generale dall'art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, oltre che da discipline settoriali: non pare dubbio che questi strumenti possano essere impiegati efficacemente per le iniziative che non richiedano un apposito recepimento legislativo, oltre che in via informale e preparatoria rispetto agli stessi atti normativi.

3. Il riparto di competenze legislative tra lo Stato e le regioni nelle materie "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali, di Angela Serra

E' noto come il nuovo articolo 117 della Costituzione [10] distingua nel settore dei beni culturali due "materie-attività", attribuendo allo Stato la potestà legislativa esclusiva sulla tutela, da un lato, e una potestà legislativa concorrente allo Stato e alle regioni sulla valorizzazione, dall'altro.

Occorre dunque per prima cosa perimetrare gli "spazi possibili" entro cui la legge regionale può muoversi all'interno dei limiti posti dalla normazione statale.

Tutela, innanzitutto. Lo spazio che la Costituzione sembra lasciare a un intervento legislativo regionale in materia di tutela appare alquanto ridotto: la regione può identificare "altri" beni culturali, ma solo al fine di valorizzarli (come nel caso dei locali storici, secondo la sentenza costituzionale n. 94/2003). Sono cioè ammesse misure disciplinate dalla regione solo se, pur avendo finalità di tutela, non aspirino a sovrapporsi alla disciplina statale; deve quindi trattarsi di un intervento diverso e aggiuntivo rispetto a quanto previsto dalla normativa statale.

Valorizzazione, poi. L'art. 6, comma 1, del Codice definisce la valorizzazione come attività finalizzata alla promozione della conoscenza, all'assicurazione delle migliori condizioni di fruizione e utilizzazione pubblica, alla promozione e al sostegno degli interventi di conservazione (le attività materiali di conservazione rimangono, in quanto tali, ascrivibili alla tutela).

L'art. 6, al comma 3, contiene inoltre il principio del favor per il concorso dei privati nelle attività di valorizzazione, ed individua un limite generale a tali attività, ossia quello secondo il quale esse devono esercitarsi in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze.

L'attività di valorizzazione appare quindi comunque subordinata alla tutela; anche nella nuova definizione, del 2004, non viene meno l'aspetto "circolare" delle nozioni di tutela, conservazione e valorizzazione, dove la conservazione rappresenta l'elemento centrale della relazione (la tutela è a garanzia della conservazione; la valorizzazione comprende anche il sostegno agli interventi di conservazione).

L'attribuzione della materia alla potestà legislativa concorrente fa sì che allo Stato spetti stabilire i principi fondamentali e alle regioni disciplinare i restanti aspetti, dettando le disposizioni "di sviluppo" più e oltre che "di dettaglio". Occorre dunque chiarire i contorni di questi due ambiti e il rapporto che intercorre tra loro. Si ricorda, poi, che quella che la legislazione precedente alla riforma costituzionale [11] indicava come funzione di "gestione" deve considerarsi assorbita all'interno della valorizzazione e dunque seguirne il riparto di competenza legislativa [12].

Quanto alla potestà legislativa statale in merito ai principi fondamentali della valorizzazione, occorre prendere le mosse da alcuni dati generali. In primo luogo, si ricordi che la legiferazione "per principi" è opportuna ma non strettamente doverosa, giacché in mancanza di una specifica individuazione dei principi stessi da parte del legislatore statale gli stessi vanno comunque desunti dalla normativa statale [13]. In secondo luogo, si osservi che, nelle ipotesi in cui la legge dello Stato qualifica espressamente come principi fondamentali talune sue disposizioni, ricorrendo quindi a c.d. "norme di autoqualificazione", la questione non può comunque dirsi risolta, poiché la Corte costituzionale è legittimata a sindacare l'effettiva natura "di principio" delle disposizioni in parola (a seguito di un'impugnazione di tali norme, oppure per effetto dell'impugnazione della disciplina regionale che si discosti dalle norme stesse). Nella materia della valorizzazione dei beni culturali, il Codice definisce le regole in esso contenute in proposito come principi fondamentali [14]: autoqualificazione di grande rilievo, ma, come si diceva, non necessariamente incontestabile.

Quanto invece agli spazi che competono alla legislazione regionale, occorre ricordare anzitutto che la disciplina statale di dettaglio in vigore continua ad applicarsi fin quando le regioni non intervengano in materia legiferando e dunque sostituendo alla normativa statale quella regionale, nel rispetto dei principi posti dalla prima [15].

Questo quadro va però necessariamente integrato con altre disposizioni dettate sempre dall'art. 117 Cost..: infatti il potere dello Stato di dettare norme che incidano sulla gestione dei beni culturali, oggetto del nostro studio, non risiede solo nella potestà legislativa di principio ad esso attribuita in materia di valorizzazione, potendo altre disposizioni dell'art. 117 essere poste a fondamento di una potestà legislativa statale. Esistono infatti alcune "materie-funzione" che possiedono un'estensione "trasversale" e che possono dunque inserirsi all'interno di tutte le altre materie di cui all'art. 117 Cost., modificandone il riparto di attribuzione ordinario e fondando una potestà legislativa statale che va al di là delle previsioni dello stesso per disciplinare lo specifico aspetto per cui esse sono previste; nel legiferare in base a tali materie trasversali, il legislatore deve attenersi ai criteri di adeguatezza e proporzionalità rispetto all'obbiettivo che la materia stessa persegue [16].

Così, qualora la materia da disciplinare dovesse entrare in contatto con la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, sussisterebbe una potestà legislativa esclusiva dello Stato a porre la disciplina di detto specifico aspetto, in base all'art. 117, comma 2, lett. m), Cost. E l'art. 114 del Codice, in effetti, nel prevedere la determinazione dei "livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione" che ministero, regioni e gli altri enti pubblici territoriali devono rispettare, riecheggia chiaramente la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Il procedimento per la determinazione dei livelli ex art. 114 - che prevede la previa intesa in Conferenza unificata e l'adozione con decreto ministeriale - è differente dal procedimento utilizzato in altri ipotesi (cfr. determinazione dei livelli essenziali dell'assistenza sanitaria, dove vi è un accordo, e non una intesa, recepito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri). Ci sono comunque gli elementi essenziali richiesti dalla Corte costituzionale per la legittimità dei procedimenti di individuazione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni), ovvero il coinvolgimento delle regioni e degli enti locali e il fondamento legislativo.

Ancora, un intervento statale potrebbe fondarsi sulla potestà esclusiva riconosciuta allo Stato in materia di tutela della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. e), Cost. Peraltro le esigenze di tutela della concorrenza, che giustificherebbero l'intervento legislativo statale, sembrano ravvisabili primariamente con riguardo a servizi che presentino rilevanza economica (aspetto su cui si veda infra, parte seconda, par. 1).

Sembra da escludere invece la configurabilità di una potestà legislativa statale sulle modalità di gestione dei beni culturali degli enti locali che tragga fondamento dal potere di disciplinare le funzioni fondamentali di questi ultimi: la disciplina dei servizi pubblici locali (ivi compresi quelli culturali), secondo l'impostazione seguita dalla Corte costituzionale, non è riconducibile alla materia "funzioni fondamentali degli enti locali" (Corte cost., n. 272/2004; sul punto si rinvia al prossimo paragrafo).

Un altro elemento da considerare è il variare della spettanza della potestà legislativa (e regolamentare) in materia di valorizzazione a seconda della titolarità dei beni culturali pubblici. La Corte costituzionale ha infatti in gran parte accolto il criterio di riparto delle competenze che era stato delineato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, secondo cui ogni ente territoriale è competente a espletare le funzioni di valorizzazione sui beni culturali che gli appartengono (sentenza 26/2004) [17]. Quanto alla competenza legislativa, la sentenza costituzionale 303/2003 [18] ha ritenuto di fondare sul principio di sussidiarietà l'attrazione della stessa allo Stato ove quest'ultimo detenga, in base allo stesso principio, le funzioni amministrative. Inoltre la titolarità del servizio pubblico implica il potere di dettare le norme per organizzarne il funzionamento; questa "intrinseca valenza organizzativa" dei servizi pubblici fa sì che lo Stato conservi una potestà legislativa piena e regolamentare sulla propria organizzazione amministrativa, ex art. 117, comma 2, lett. g), Cost.

La soluzione data dalla Corte ha risolto la problematica contingente al suo esame, ma d'altro canto si è discostata in modo significativo dalla lettera del dettato costituzionale, con riguardo alla disciplina non solo delle potestà legislative ma anche delle potestà amministrative, visto che né l'art. 117 né l'art. 118 Cost. testualmente ancorano le funzioni all'elemento dominicale. Ma naturalmente all'interprete non resta che prenderne atto.

Il Codice dei beni culturali, poi, è impostato in assoluta sintonia con quanto affermato da tale giurisprudenza costituzionale, giacché impiega il criterio dominicale ai fini del riparto delle funzioni in tema di valorizzazione dei beni culturali.

E', appunto, l'art. 112, comma 2, a dettare la regola secondo cui la disciplina regionale di valorizzazione si applica ai beni culturali non statali oppure a quelli di cui lo Stato abbia trasferito la disponibilità agli enti locali. Tale ultima parte della disposizione va letta in raccordo con l'art. 102, comma 5, che prevede il trasferimento della disponibilità di istituti e luoghi di cultura statali a regioni ed enti locali da parte del ministero attraverso lo strumento dell'accordo (mantenendone quindi la titolarità allo Stato). La funzione amministrativa di valorizzazione (e relativa gestione) compete quindi al soggetto che ha la materiale disponibilità del bene: si deroga al principio di sussidiarietà in favore del legame con il regime dominicale del bene.

Occorre poi sottolineare come l'impiego del criterio dominicale non impedisca al legislatore regionale di dettare una normazione che riguardi i beni di proprietà degli enti locali. Ciò si desume, in primo luogo, dal principio di legalità valevole per tutte le funzioni amministrative - che, nel caso di quelle locali, presuppone la necessità di un loro fondamento normativo (statale o regionale) [19]: esse devono svolgersi all'interno della cornice legislativa posta dallo Stato, per i principi fondamentali, e dalle regioni per il resto - e in secondo luogo dal principio di continuità, più volte richiamato dalla recente giurisprudenza costituzionale - alla luce del quale nell'interpretazione delle materie elencate dall'art. 117 Cost. è possibile fare riferimento al quadro normativo previgente (e, nel caso in questione, la disciplina dei "musei e biblioteche locali" figurava già nella precedente versione del testo costituzionale) [20].

Al contrario, sui beni di proprietà statale l'unico strumento che consenta alle regioni un intervento (nell'impossibilità di dettarne una disciplina normativa se non per i beni che si trovano nella loro materiale disponibilità) è quello di tipo consensuale, oggi ancor più valorizzata dalla nuova stesura dell'art. 112 del Codice.

4. L'individuazione degli spazi per la normazione regionale in rapporto al nuovo assetto costituzionale delle autonomie locali, di Claudia Tubertini

Dopo aver analizzato il limite "verso l'alto" (vale a dire, nei confronti della legislazione nazionale) della potestà legislativa regionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali, è necessario ora esaminarne i limiti "verso il basso", derivanti cioè dal necessario rispetto all'autonomia costituzionalmente riconosciuta agli enti locali.

Sotto questo profilo, viene in considerazione, in primo luogo, lo spazio assegnato alla legislazione regionale nell'espressione di uno dei suoi più tipici contenuti, ovvero, l'allocazione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli territoriali; dall'altro, il contenuto conformativo della legislazione regionale in ordine all'esercizio delle funzioni amministrative e l'intensità che può raggiungere.

Anche in questo caso si partirà dall'esame degli "spazi possibili" (ovvero costituzionalmente legittimi) al fine di raffrontarli, più oltre, con gli spazi "consigliabili" per la normazione regionale, alla luce del complessivo quadro dei rapporti tra regioni ed autonomie locali che connotano il nuovo sistema costituzionale.

L'esame di questa tematica deve necessariamente partire da due ordini di disposizioni costituzionali: le norme concernenti la disciplina e l'allocazione delle funzioni amministrative contenute nell'art. 118 Cost. e quelle che regolano gli spazi di potestà statutaria e regolamentare degli enti locali (art. 114 e 117, comma 6, Cost.).

Partendo dalle prime, va innanzitutto considerato come il principio di favore per il livello amministrativo più vicino ai cittadini, cioè il comune, dettato dall'art. 118 Cost., deve essere letto alla luce dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Infatti, è lo stesso il principio di sussidiarietà a presupporre una valutazione (anche se preventiva ed astratta) di idoneità dell'ente ricevente allo svolgimento delle funzioni da conferire; tale necessaria valutazione è ulteriormente rafforzata dalla scelta del legislatore costituente di affiancare a questo principio, all'interno dello stesso art. 118 Cost., quelli di differenziazione ed adeguatezza [21].

Con tali principi, come è noto, si impone che nella dislocazione delle funzioni amministrative si tenga conto della capacità di governo e di gestione dei singoli enti, vale a dire, della loro idoneità organizzativa a garantire l'esercizio delle nuove competenze. Il risultato di tale valutazione può essere che ad enti appartenenti ad un medesimo livello territoriale possano essere attribuite funzioni diverse, differenziando il conferimento in base a parametri legati alle loro caratteristiche demografiche, territoriali e strutturali, tenendo anche conto della loro dimensione associativa.

Da questa prima definizione si comprende chiaramente il legame tra i due principi: se infatti l'adeguatezza rappresenta un elemento di carattere statico, potendo essere intesa come la capacità effettiva del soggetto ricevente ad esercitare le funzioni assegnate, anche alla stregua dei principi costituzionali di efficienza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa (adeguatezza nell'esercizio della competenza) la differenziazione rappresenta il riflesso dinamico in quanto costituisce il risultato della valutazione di adeguatezza (differenziazione nell'allocazione della competenza).

In sostanza, e riprendendo alcune espressioni della Corte costituzionale, dall'art. 118 emerge una preferenza generalizzata per gli enti più vicini ai cittadini, dall'altro un criterio flessibile, guidato dai principi generali, per la concreta collocazione delle funzioni ai vari livelli di governo. E poiché tale concreta collocazione non può che trovar base nella legge, ne deriva che sarà la legge regionale o statale (a seconda della materia) ad operare questa scelta (Corte cost., sent. 43/2004).

Una volta accettata questa definizione, si apre un ventaglio di ulteriori significati ed implicazioni che possono essere tratti dalla costituzionalizzazione dei principi di differenziazione ed adeguatezza.

In primo luogo, la necessaria concretezza nella valutazione dell'adeguatezza sembra giustificare, anzi, suggerire che il legislatore, una volta compiuta una prima articolazione delle funzioni amministrative, non si disinteressi della loro attuazione, bensì compia una periodica revisione dell'assetto delle funzioni, predisponendo a tal fine indicatori di efficacia e di efficienza alla stregua dei quali valutare l'opportunità di eventuali interventi correttivi.

Tale corollario dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza sembra essere stato confermato anche dalla Corte costituzionale. Nella sentenza n. 379/2004, esaminando la legittimità costituzionale di una disposizione dello statuto dell'Emilia-Romagna ai sensi del quale "la regione, nell'ambito delle proprie competenze, disciplina le modalità di conferimento agli enti locali di quanto previsto dall'art. 118 della Costituzione, definendo finalità e durata dell'affidamento", la Corte ha infatti precisato che "il conferimento agli enti locali di funzioni amministrative nelle materie di competenza legislativa delle regioni tramite apposite leggi regionali presuppone, con tutta evidenza, non solo una previa valutazione da parte del legislatore regionale delle concrete situazioni relative ai diversi settori alla luce dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza in riferimento alle caratteristiche proprie del sistema di amministrazione locale esistente nel territorio regionale, ma anche la perdurante ricerca del migliore possibile modello di organizzazione del settore. Tutto ciò quindi presuppone anche la possibilità di modificare questa legislazione sulla base dei risultati conseguiti (ciò che comunque è implicito nella stessa attribuzione alla legge regionale del potere di conferire queste funzioni), se non pure l'eventuale sperimentazione di diversi modelli possibili. Le censure di costituzionalità sollevate dal ricorso muovono, invece, da una lettura non condivisibile degli articoli. 114 e 118 della Costituzione, dal momento che sembrano ipotizzare l'esistenza di rigidi vincoli per il legislatore regionale nell'attuazione dell'art. 118 della Costituzione ed una sostanziale equiparazione fra funzioni degli enti locali 'proprie' e 'conferite', invece ben distinte dal secondo comma dell'art. 118 della Costituzione".

L'applicazione dei principi di differenziazione e di adeguatezza, poi, sembra fondare in linea di principio la legittimità di norme che condizionino il conferimento di nuove funzioni amministrative al raggiungimento di una dimensione ottimale dell'amministrazione locale attraverso la creazione di forme di aggregazione funzionali o strutturali (oltre che, prima ancora, incentivino l'esercizio associato in forma volontaria delle funzioni amministrative da parte degli enti locali). Questo, del resto, era uno dei contenuti previsti per la legislazione regionale di attuazione dal d.lg. 112/1998.

In linea di principio, non sono esclusi neppure interventi di carattere sostitutivo della regione nei confronti degli enti locali; al contrario, la loro presenza appare giustificata alla luce dell'esigenza di assicurare l'effettività nell'esercizio delle funzioni amministrative. Nella già citata sentenza n. 43 del 2004, la Corte costituzionale ha infatti precisato che l'art. 120, secondo comma, della Costituzione non esaurisce in capo allo Stato i poteri sostitutivi, ma si limita a prevedere un potere sostitutivo straordinario che lascia impregiudicata l'ammissibilità di altri interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione statale o regionale, in capo ad organi dello Stato o delle regioni, o di altri enti territoriali, in correlazione con il riparto delle funzioni amministrative da essa realizzato e con le ipotesi specifiche che li possano rendere necessari, esercitabile cioè soltanto in presenza di emergenze istituzionali di particolare gravità, allorché si ravvisino rischi di compromissione di interessi essenziali di portata più generale.

La legge regionale, nel disciplinare le funzioni amministrative degli enti locali, può dunque prevedere anche poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, nel rispetto dei seguenti limiti e condizioni [22]:

a) le ipotesi di esercizio di poteri sostitutivi debbono essere previste e disciplinate dalla legge, che deve definirne i presupposti sostanziali e procedurali;

b) la sostituzione può essere prevista esclusivamente per il compimento di atti o di attività "prive di discrezionalità nell'an (anche se non necessariamente nel quid o nel quomodo), la cui obbligatorietà sia il riflesso degli interessi unitari alla cui salvaguardia provvede l'intervento sostitutivo, affinché essa non contraddica l'attribuzione della funzione amministrativa all'ente locale sostituito;

c) l'esercizio del potere sostitutivo deve essere esercitato da un organo di governo della regione o deve comunque svolgersi sulla base di una decisione di questo, stante l'attitudine dell'intervento a incidere sull'autonomia costituzionale dell'ente sostituito;

d) la legge deve, infine, apprestare congrue garanzie procedimentali per l'esercizio del potere sostitutivo, in conformità al principio di leale collaborazione, prevedendo, in particolare, un procedimento nel quale l'ente sostituito sia messo in grado di interloquire con gli organi deputati alla sostituzione e di evitare la sostituzione stessa attraverso un autonomo adempimento.

In estrema sintesi, sembra di poter concludere che i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza enunciati dall'art. 118 Cost.:

a) non escludono il potere della regione di allocare le competenze amministrative nei settori di propria competenza legislativa, sia residuale, sia concorrente;

b) non escludono il potere della regione di allocare funzioni amministrative ad un livello diverso la quello locale, anche se il principio di preferenza per il livello locale dovrebbe portare il legislatore regionale a valutare, in primo luogo, la possibilità di allocare le funzioni al livello comunale;

c) consentono, in linea di principio, alla regione di intervenire a modificare assetti competenziali preesistenti, se rivelatisi non adeguati;

d) consentono alla regione di prefigurare il raggiungimento di dimensioni organizzative o territoriali giudicate ottimali per il raggiungimento degli obiettivi di qualità ed efficienza delle funzioni locali;

e) consentono, sempre in linea di principio, anche interventi regionali di tipo sostitutivo, purché rigorosamente circoscritti ed esercitati in forme procedurali rispettose del principio di leale collaborazione [23].

Il riferimento appena operato al principio di leale collaborazione non va sottovalutato, in quanto, alla luce di una ormai copiosa giurisprudenza, è evidente come non esaurisca la sua portata alle ipotesi di interventi sostitutivi, ma costituisca al contrario un criterio di comportamento che deve essere osservato dalle regioni nell'esercizio di tutti i poteri sopra indicati. Dal principio di leale collaborazione deriva, infatti, che qualsiasi intervento che comporti effetti di potenziale riduzione/compressione della sfera di autonomia degli altri soggetti istituzionali deve essere esercitato ricercando, con ogni mezzo, tutte le forme possibili di preventiva concertazione.

Il principio di leale collaborazione costituisce, quindi, il primo elemento che funge da limite ad un intervento di tipo "cogente" da parte delle regioni nei confronti degli enti locali, anche se il limite è più di ordine procedurale che sostanziale.

Occorre ora procedere all'analisi di altre disposizioni costituzionali che possono essere in grado di incidere sull'autonomia legislativa regionale nell'allocazione delle competenze e sul grado di intensità a cui può giungere la potestà conformativa della legislazione regionale.

Esaminiamo, innanzitutto, il primo profilo. Esistono almeno due disposizioni costituzionali che sembrano avere la finalità di garantire ai comuni un "nocciolo duro" di competenze: la prima è lo stesso art. 118 comma 2, laddove stabilisce che i comuni sono titolari di funzioni "proprie"; la seconda è l'art. 117, comma 2, lett. p), che affida allo Stato la competenza legislativa in ordine alle "funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane" [24].

Sul significato da attribuire alle due nozioni, sul rapporto esistente tra le funzioni proprie, fondamentali e conferite, non si è ancora raggiunto un orientamento comune: l'unico punto di accordo è quello di lamentare la confusione terminologica con la quale il legislatore costituzionale ha classificato le funzioni amministrative locali.

In realtà, quanto alle funzioni proprie, il legislatore non ha fatto altro che riprendere la formulazione contenuta nel testo unico degli enti locali (art. 3, comma 5, decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267), e, prima ancora, nella legge 3 agosto 1999, n. 265, che già parlava di funzioni "proprie" e "conferite" allo scopo di distinguere le funzioni svolte dall'ente locale in piena titolarità da quelle attribuite o delegate in forza di successive scelte del legislatore. Ma la rilevanza di questa distinzione, come ha rivelato la dottrina, si era già attenuata per effetto dell'applicazione della legge Bassanini, la quale aveva raggruppato nell'ampia definizione di funzioni "conferite" tutte le funzioni esercitate dagli enti locali, a qualsiasi titolo.

Seguendo questa lettura, le funzioni "proprie" a cui allude l'art. 118 potrebbero considerarsi come l'insieme delle funzioni di cui i comuni sono titolari, ricavabili secondo il dato positivo della legislazione, a cui andranno ad aggiungersi quelle ad essi conferite per effetto delle scelte successive del legislatore statale e regionale.

L'elemento che può trarsi dal riferimento operato dall'art. 118 alle funzioni "proprie" è dunque che il conferimento delle funzioni amministrative da parte del legislatore statale e regionale dovrà il più possibile salvaguardare le funzioni proprie comunali (intese nel senso appena indicato), operando tendenzialmente in accrescimento, e non in riduzione delle funzioni da essi già attualmente svolte.

Dal riferimento operato dall'art. 118 alle funzioni "proprie" è possibile inoltre, secondo una parte della dottrina, evincere un principio di preferenza per l'attribuzione delle funzioni agli enti locali, che diventerebbe, quindi, il titolo giuridico prescelto dal nuovo quadro costituzionale (perché più rispettoso dell'ente ricevente rispetto a quello della delega) [25].

Più difficile è l'interpretazione della riserva alla potestà legislativa dello Stato della materia di "funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane" (art. 117, comma 2 lett. p), anche a causa dell'assenza di precedenti nella legislazione ordinaria [26]. Anche per questo motivo, probabilmente, la Corte costituzionale ha sinora evitato di definirle, limitandosi ad escludere la riconduzione alla nozione di funzioni fondamentali degli enti locali di alcuni ambiti di disciplina [27].

Come è noto, l'art. 2 della l. 131/2003 aveva rimesso al Governo il compito di individuare, tramite uno o più decreti legislativi, le "funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane", ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p), Cost.. La rilevanza di tale delega è facilmente intuibile, se si considera che da essa poteva derivare la necessità per le regioni di rivedere la propria legislazione e le scelte già compiute in ordine all'articolazione degli assetti amministrativi [28]. Proprio la delicatezza della delega avrebbe imposto la definizione di un quadro di principi e criteri direttivi molto preciso, e, soprattutto, non eccessivamente sbilanciato a favore della competenza legislativa statale. Di fatto, i criteri contenuti nel citato art. 2 della l. 131/2003 si prestavano invece ad interpretazioni molto diverse. Le funzioni fondamentali venivano infatti definite come "funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di governo, essenziali ed imprescindibili "per il funzionamento dell'ente" (e questo sembrava rimandare all'idea di funzioni strumentali, come l'approvazione dello statuto, del bilancio, la gestione del personale e così via), ma anche "per il soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità di riferimento" (funzioni c.d. finali); tuttavia, per comuni e province, si prevedeva che in via prioritaria si tenesse conto delle "funzioni storicamente svolte" (art. 2, comma 4, lett. b).

E' probabile che proprio tali difficoltà interpretative abbiano pesato sull'opera di attuazione della delega, il cui termine infatti è spirato, dopo ben due proroghe, il 31 dicembre 2005, senza esercizio [29]. Occorrerà pertanto, al riguardo, una nuova iniziativa legislativa, sulla cui urgenza le autonomie locali si sono già espresse [30]; e per le regioni si aprono, in prospettiva, nuovi spazi per la definizione di criteri di individuazione delle funzioni fondamentali più chiari e più rispettosi delle competenze regionali.

Ad ogni modo, fino alla concreta individuazione legislativa delle funzioni fondamentali, è oltremodo difficile formulare ipotesi sul loro impatto sull'assetto attuale delle funzioni amministrative locali. Infatti, se dovesse prevalere una interpretazione estensiva della nozione di "funzioni fondamentali", il legislatore statale potrebbe sottrarre alle regioni funzioni amministrative per assegnarle al livello locale, o diversamente articolarle tra i diversi enti locali, anche in materie di competenza legislativa regionale, vincolando, pertanto, le leggi regionali di settore al rispetto del riparto di competenze ivi delineato e riducendo, nella sostanza, il loro spazio di autonomia nella declinazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza [31].

Secondo la dottrina, l'aspetto più pericoloso che potrebbe celare l'operazione di definizione delle funzioni fondamentali da parte del legislatore statale, è che quest'ultimo non si limiti ad individuare le funzioni, ma ritenga di poterne dettare anche una disciplina sostanziale.

Sul punto, tuttavia, sembrano soccorrere, oltre che considerazioni di sistema attinenti al necessario rispetto delle competenze legislative regionali, anche la sentenza n. 272/2002 della Corte costituzionale, che, sia pure implicitamente, sembra propendere per una interpretazione "sostanziale" (le attività, e non la loro disciplina) delle funzioni fondamentali: nell'esercizio di tale competenza, il legislatore statale dovrà limitarsi ad indicare quali sono le funzioni indefettibili, mentre non potrà regolarne le modalità di esercizio [32].

In conclusione, quanto al rapporto tra i diversi commi dell'art. 118 Cost., si può affermare che:

- l'articolazione delle competenze tra i diversi livelli di amministrazione da parte della legge regionale, e, in particolare, il trasferimento di funzioni attualmente svolte a livello locale ad un livello di governo superiore, sia pure ammissibile, deve essere compiuto alla luce di un giudizio rigoroso attinente al livello degli interessi coinvolti, all'idoneità del livello locale, alla possibilità di ottenere risultati analoghi attraverso la gestione in forma associata, e coinvolgendo il sistema delle autonomie: ciò è imposto dai principi di sussidiarietà, adeguatezza, differenziazione, leale collaborazione, oltre che dall'esigenza di salvaguardare ove possibile le funzioni "proprie" comunali (nel significato sopra accolto);

- in ogni caso, si deve tenere conto che il quadro costituzionale ed ordinario porta a rafforzare l'immagine del ruolo della istituzione regionale sempre più come centro di sola regolazione e programmazione, delle province come sede di raccordo e di coordinamento (specie nel settore dei beni ed attività culturali) e degli enti locali come soggetti di gestione;

- l'assetto delle competenze va validato alla luce di quanto verrà definito in rapporto al rispettivo ruolo di comuni e province in materia di beni culturali dalla revisione del Tuel e dalla individuazione delle "funzioni fondamentali".

Passiamo ora ad esaminare i limiti al potere conformativo della legislazione regionale derivanti dalla nuova disciplina costituzionale delle fonti locali.

La riforma ha certamente inteso potenziare l'autonomia normativa ed organizzativa degli enti locali attraverso la costituzionalizzazione della loro potestà regolamentare "in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni ad essi conferite" (art. 117, comma 6), ma non ha delineato chiaramente i confini di questa autonomia rispetto alla potestà legislativa (statale o regionale).

Sul punto, l'interpretazione preferibile — ancora a fronte di scarse pronunce della giurisprudenza costituzionale — è che:

- l'art. 117, comma 6, Cost. non possa essere letto come "riserva di regolamento locale", pena la sostanziale inutilità dell'individuazione di materie di competenza legislativa statale o regionale in numerosi settori caratterizzati da una consistente presenza di competenze amministrative locali (su questa linea, anche se implicitamente, cfr. anche Corte cost., sentt. 16, 49 e 43/2004) [33];

- che non possa nemmeno leggersi il rapporto tra potestà regionale e regolamenti locali in termini di rigido rapporto principio-dettaglio, in quanto la legislazione regionale non può limitarsi ed enunciare solo principi, affidando interamente ed in via esclusiva la loro attuazione alle fonti locali, che si presentano, per loro natura, variegate sul territorio, oltre che facilmente modificabili;

- che la legislazione regionale possa quindi ancora dettare prescrizioni non solo in ordine all'oggetto delle funzioni amministrative locali, ma anche sulle modalità del loro esercizio;

- tuttavia, l'area della organizzazione [34]godrebbe di una più marcata autonomia, derivante direttamente dall'art. 114 Cost. e dalla costituzionalizzazione della potestà statutaria comunale e provinciale. Al riguardo, in effetti, anche la Corte costituzionale, nella sentenza n. 272/2004, ha precisato, in tema di servizi locali privi di rilevanza economica, che in tale materia dovrà esserci spazio per una specifica ed adeguata disciplina di fonte regionale "e anche locale". Questa affermazione è stata da più parti letta come una indiretta conferma di nuovi spazi di autonomia regolamentare "riservati" agli enti locali. In realtà, la sentenza non indica in maniera netta il confine tra normazione regionale e locale, ammettendo, quindi, anche le interpretazioni più "deboli" dello spazio riservato alla disciplina locale. Del resto, nella successiva sentenza n. 372/2004 esaminando le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti di una norma dello Statuto della Toscana, la Corte ha valorizzato la previsione della l. 131/2003, art. 4, comma 4, ai sensi del quale la potestà regolamentare dell'ente locale in materia di organizzazione e svolgimento delle funzioni si esplica nell'ambito delle leggi statali e regionali, che ne assicurano i requisiti minimi di uniformità. In questa sentenza la Corte ha addirittura giustificato una riserva di legge assoluta regionale in materia di organizzazione e svolgimento delle funzioni locali purché limitata, per non comprimere eccessivamente la l'autonomia degli enti locali, ai soli casi di sussistenza di "specifiche esigenze unitarie" che possano giustificare tale riserva [35];

- l'autonomia organizzativa degli enti locali non può comunque essere intesa, a priori, come impossibilità per la legge regionale di dettare norme attinenti alla cooperazione, sia orizzontale che verticale, sia con altri soggetti pubblici che con soggetti privati [36].

Da queste considerazioni sembra di poter concludere che:

- spetta senz'altro alla legislazione regionale l'individuazione delle competenze locali e del loro contenuto. Ciò comprende la possibilità di specificarne anche obiettivi, standard di qualità, criteri da seguire nel corso del loro esercizio;

- uno dei contenuti più importanti della legislazione regionale deve consistere nella individuazione di modelli di cooperazione, strutturale o funzionale, tra enti locali ed eventuali altri soggetti, in modo tale da coniugare il favor per il livello locale con la ricerca della massima efficienza;

- le concrete formule organizzative in linea di principio possono essere oggetto di normazione regionale, anche se non è consigliabile che siano imposte: va salvaguardata l'autonomia organizzativa degli enti locali, oltre che rispettato, come già rammentato, il principio di leale collaborazione.

In effetti, per quanto concerne specificamente la gestione dei servizi locali, l'evoluzione dell'ordinamento è stata nella direzione di ampliare il novero dei modelli di gestione dei servizi pubblici a disposizione degli enti locali [37]. Alle forme previste e disciplinate via via dal legislatore, si è inoltre accompagnata una fortissima capacità di innovazione e sperimentazione di formule gestionali da parte degli enti locali, che in molti casi hanno anticipato, se non addirittura costituito le basi, della disciplina statale in materia.

Del resto, come si avrà modo di illustrare più oltre, la scelta del modello concreto di organizzazione del servizio deve necessariamente essere realizzata caso per caso, perché solo in tal modo è possibile decidere, innanzitutto, se i caratteri dell'attività ne consentano la gestione secondo modelli economici o meno; si tratta dunque di una scelta che non può essere fatta a priori dal titolare della potestà legislativa, ma solo dall'ente titolare del servizio.

Eventuali modelli di gestione possono quindi essere disciplinati dal legislatore regionale, nel rispetto dei principi sopra enucleati in materia di valorizzazione, ma in modo tale da non obliterare la possibilità di scelta tra diversi modelli possibili da parte dell'ente locale.

Ancora, la legislazione regionale potrebbe predisporre una griglia di indicatori (di carattere economico, organizzativo, di natura dei beni, etc.) utili ad orientare gli enti locali nella scelta del modello gestione più rispondente alla realtà di riferimento (anche, se non necessariamente, nella prospettiva di un graduale superamento del modello del c.d. museo-ufficio, che più mette a dura prova la possibilità di assicurare allo stesso una autonomia tecnica, organizzativa e finanziaria rispetto all'ente locale).

Altra e diversa questione - che attiene non allo spazio possibile, ma a quello consigliabile - è se sia opportuno che la legislazione regionale si preoccupi della tassonomia dei modelli di gestione, o se, invece, non sia più opportuno spostare il quadro dell'attenzione agli obiettivi, ai criteri ed alle garanzie di qualità del servizio: in una parola, allo statuto "oggettivo" - e non "soggettivo" del servizio culturale locale.

 

Note

[1] Ad eccezione della formazione degli operatori del restauro, che risulta oggetto di separate iniziative regionali e - comunque - espressamente esclusa dal presente studio; sull'argomento si veda E. Del Mastro, in questo numero della Rivista.

[2] Ancora, ai fini della pubblicazione sulla rivista Aedon, si segnala che lo studio non presenta il carattere e il taglio di un'analisi giuridica, che è pur presente ma solo quanto ai profili che pareva necessario esplicitare, quanto piuttosto di una mappa di soluzioni e chiarificazioni che potessero essere utili alle regioni nella loro opera di normazione. Questo il motivo per cui sono assenti note bibliografiche.

[3] La cui disciplina generale si rinviene nel d.lg. 28 agosto 1997, n. 281.

[4] Tra cui va menzionato almeno l'Accordo Conf. Stato-regioni 8 agosto 2001 - Accordo tra governo, regioni e province autonome di Trento e Bolzano [...] in materia di spesa sanitaria (in Gazzetta Ufficiale n. 207 del 6 settembre 2001).

[5] Accordo Conf. unificata 20 giugno 2002 - Intesa inter-istituzionale tra Stato, regioni ed enti locali (in Gazzetta Ufficiale n. 159 del 9 luglio 2002).

[6] In tema di opere pubbliche. Ma si ricordino inoltre: Corte cost., 15 ottobre 2003, n. 312, in tema di impianti di comunicazione; Id., 13 gennaio 2004, n. 6, in tema di energia elettrica; Id., 20 gennaio 2004, n. 27, in tema di nomina dei vertici degli enti parco; Id., 16 luglio 2004, n. 233, in tema di opere pubbliche; Id., 19 luglio 2005, n. 285, in tema di attività cinematografica. Si vedano altresì le pronunce citate nella parte quarta del presente lavoro, reperibili sul sito www.cortecostituzionale.it.

[7] Con specifico riguardo all'art. 5, per quanto riguarda la tutela, e all'art. 112 (nonché agli artt. 118-119), per quanto riguarda la valorizzazione.

[8] Con l'utilizzo sia degli strumenti della programmazione negoziata (di cui all'art. 2, comma 203 ss., legge 23 dicembre 1996, n. 662), sia delle fattispecie consensuali stipulate nelle conferenze miste (e in particolare: accordo Conf. Stato-regioni 1° febbraio 2001, in tema di catalogazione, in Gazzetta Ufficiale n. 90 del 18 aprile 2001; nr. 3 accordi Conf. Stato-regioni 27 marzo 2003, in tema di censimento e inventariazione del patrimonio archivistico, di arte contemporanea, di costituzione e funzionamento delle commissioni regionali per i beni e le attività culturali, in Gazzetta Ufficiale n. 114 del 19 maggio 2003). Del resto che la materia dei beni culturali costituisca un campo privilegiato per l'applicazione del principio di leale collaborazione risulta fin da Corte cost., 2 marzo 1987, n. 64 nonché da Id., 28 luglio 1988, n. 921, o meglio già dalla formulazione dell'art. 9 Cost., laddove riferisce alla "Repubblica" - e con ciò a tutte le istituzioni territoriali - le attribuzioni inerenti al "patrimonio storico e artistico" (oltre che al "paesaggio").

[9] E segnatamente dal comma 1, secondo cui "la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato".

[10] Come riformulato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

[11] Decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, artt. 148 ss.

[12] Cfr. Consiglio di Stato, sezione consultiva per gli atti normativi, Parere definitivo 26 agosto 2002, n. 1794/2002.

[13] Legge 5 giugno 2003, n. 131, art. 1. Proprio in riferimento ai beni culturali, poi, cfr. Corte costituzionale, sentenza 94/2003 cit.

[14] Art. 7, comma 1.

[15] Si può richiamare sul tema, tra le altre, la sentenza costituzionale in materia di condono edilizio, n. 196/2004, reperibile sul sito ufficiale della Corte.

[16] Corte costituzionale, sentenza 272/2004.

[17] La Corte, nella sentenza in parola, risolve il problema di recuperare il collegamento tra sfera dell'amministrazione e sfera della normazione partendo da considerazioni pratiche e non teoriche, con metodo induttivo.

[18] Reperibile sul sito ufficiale della Corte.

[19] Si vedano sul punto le considerazioni esposte al paragrafo 4 circa la costituzionalizzazione della potestà regolamentare degli enti locali ed il suo rapporto con la potestà legislativa regionale; e, dall'altro, quanto si dirà circa gli attuali limiti della legislazione statale in materia di funzioni amministrative degli enti locali.

[20] Come è noto, la competenza legislativa regionale in materia di valorizzazione dei beni culturali ha una origine piuttosto risalente. Già il d.p.r. 14 gennaio 1972, n. 3, infatti, nel trasferire alle regioni le funzioni su istituzione e funzionamento dei musei degli enti locali, pose il primo concreto fondamento per l'esercizio della competenza legislativa in materia, riconosciuta dall'art. 117 Cost.; allo Stato erano comunque mantenute funzioni di indirizzo e coordinamento che attenessero ad esigenze di carattere unitario. Fu il d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, all'art. 47, a specificare che le funzioni regionali sui musei e biblioteche di enti locali riguardavano esistenza, conservazione, funzionamento, pubblico godimento e sviluppo dei musei; veniva però rinviata ad una futura legge (mai emanata) l'individuazione puntuale delle funzioni di tutela e valorizzazione di regioni ed enti locali. Il successivo passaggio è rappresentato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, che ha sancito il definitivo ampliamento della competenza (amministrativa, e dunque legislativa) regionale alla "valorizzazione dei beni culturali".

[21] Non è la prima volta che i tre principi si trovano espressi contestualmente: è stata infatti la legge 15 marzo 1997, n. 59, come è noto, ad anticipare la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, e a dettare anche la prima definizione legislativa di adeguatezza e differenziazione (cfr. lett. g) ed h) dell'art. 4, comma 3, cit.).

[22] Si vedano, oltre alla sentenza n. 43 del 2004, le sentt. 177/1988, 419/1995, 69/2004, 70/2004, 71/2004, 72/2004, 73/2004, 112/2004, 140/2004, 172/2004, 173/2004, 227/2004, 167/2005.

[23] Naturalmente la disciplina degli aspetti ora elencati dovrà essere dettata dalla regione nel rispetto del sistema regionale delle fonti: sulla base degli eventuali principi statutari, dovrà quindi essere la legge regionale a dettare il riparto delle competenze tra la regione ed il proprio sistema delle autonomie (o a modificarlo), nel rispetto del principio di riserva di legge in materia di funzioni amministrative; ai regolamenti potrà essere affidata la disciplina di dettaglio, nel rispetto delle norme statutarie in materia (i regolamenti regionali possono avere solo tale finalità); al Consiglio o alla Giunta, a seconda di quanto previsto dallo Statuto regionale, competerà l'adozione dei programmi; a deliberazioni della Giunta potrà essere affidata la concreta specificazione dei requisiti, degli standards, delle condizioni di accesso a finanziamenti, etc.

[24] Accanto a queste due disposizioni va rammentato naturalmente anche il principio del riconoscimento e promozione delle autonomie locali (meglio noto come principio del pluralismo autonomistico) già contenuto nell'art. 5 Cost.

[25] Non esiste, tuttavia, a parere di chi scrive, una diretta preclusione costituzionale all'utilizzazione dello strumento della delega di funzioni, in quanto strumento connaturato allo stesso sistema amministrativo: la sua utilizzazione dovrà essere tuttavia attentamente verificata alla luce dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza ed i poteri del delegante esercitati nel rispetto del principio di leale collaborazione.

[26] Secondo una prima opinione, lo scopo della norma è di attribuire al legislatore statale il compito di preservare una sfera di funzioni amministrative non solo - si noti bene - dei comuni, ma anche degli altri enti locali, sottraendole alla discrezionalità del legislatore regionale, in considerazione del rischio di riduzione delle competenze insito nell'applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Una lettura parzialmente diversa, e, forse, più rispondente alla realtà, è quella che intravede nell'art. 117, comma 2, lett. p) la finalità di salvaguardare una connotazione unitaria a livello nazionale della fisionomia e del ruolo delle diverse tipologie di enti locali. La riserva allo Stato di questa materia non sarebbe quindi direttamente funzionale alla garanzia dell'autonomia degli enti locali, ma alla tutela di un interesse nazionale, che è quello di garantire alcuni requisiti minimi di uniformità del sistema locale.

[27] Cfr. sempre Corte cost., sent. n. 272/2004, dove la Corte ha specificato che la disciplina dei modelli di gestione dei servizi non è riconducibile alle funzioni fondamentali degli enti locali.

[28] Questo problema è stato ben evidenziato dalla Commissione per l'attuazione della delega della 1. 131/2003, che nella sua relazione conclusiva aveva indicato tra i criteri ai quali avrebbe dovuto ispirarsi la disciplina delle funzioni fondamentali la necessità di evitare una individuazione delle funzioni fondamentali così dettagliata e specifica da tradursi in una compressione degli spazi che spettano alla potestà legislativa dello Stato e della regione nel disciplinare le materie di rispettiva competenza.

[29] Il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema preliminare di attuazione della delega solo all'inizio di dicembre 2005; e, pur avendo dichiarato la propria intenzione di chiedere al Parlamento un'ulteriore proroga, non è riuscito nell'intento entro la conclusione della legislatura.

[30] Cfr. il documento approvato dal Direttivo Anci il 17/5/2006, che pone tra la misure di largo respiro da chiedere al nuovo governo la "immediata attuazione al Titolo V della Costituzione con particolare riferimento al Testo unico e alle funzioni fondamentali degli enti locali".

[31] Come si è già anticipato, il 2/12/2005 il Consiglio dei ministri aveva approvato uno schema preliminare di decreto legislativo, che non ha mancato di suscitare un ampio e vivace dibattito, anche a causa dell'obiettiva incertezza dei contenuti. Infatti, il ministero dell'Interno si è limitato a presentare sul proprio sito web una presentazione sintetica a cura della Presidenza del Consiglio, mentre canali informativi non ufficiali hanno pubblicato testi diversi. Nella versione pubblicata su Italia Oggi era contenuta una elencazione delle funzioni fondamentali dei comuni che non sembrava esaustiva, ma solo esemplificativa. Vi era, infatti, una definizione generale di ciascun settore di intervento, seguito da una elencazione "in particolare" di alcuni compiti. Vi era, quindi, il riconoscimento in capo al comune delle funzioni fondamentali in materia di servizi alla persona e alla comunità, compresa "la promozione dello sviluppo della persona umana"; nell'elencazione che seguiva, tuttavia, non compariva alcun riferimento espresso alle funzioni in materia di beni e servizi culturali. Al contrario, alle province era espressamente intestata la funzione di "valorizzazione del patrimonio culturale e promozione delle attività culturali e sportive".

Di diverso tenore era il testo pubblicato sul sito web dell'Upi che partiva anch'esso dalla definizione dei settori di intervento del comune, ma accompagnata da una elencazione di funzioni che si presentava come tassativa. Così, tra le funzioni fondamentali dei comuni in materia di servizi alla persona, compariva la promozione dello sviluppo della persona umana, nonché la tutela e la valorizzazione dei diritti civili e sociali, anche sollecitando e favorendo la partecipazione attiva dei cittadini, attraverso la promozione delle attività culturali e sportive" ma, soprattutto, la "valorizzazione dei beni culturali nella disponibilità del comune, in conformità a quanto previsto dalla vigente specifica normativa in materia di beni culturali" (art. 12-ter, lett. c), numero 4). Anche tra le funzioni fondamentali delle province vi era tuttavia la stessa dizione, sia pure riferita ai beni di spettanza della provincia, oltre alla promozione delle attività culturali e sportive.

Quanto ai possibili effetti dell'approvazione dell'una o dell'altra versione, potrebbe dirsi che la prima (pur essendo, per la sua stessa struttura aperta, più indefinita) avrebbe lasciato alle regioni più spazio nell'allocazione delle competenze in materia di beni culturali rispetto alla seconda. Entrambi i testi, comunque, sembravano preoccuparsi dell'esigenza di garantire un ruolo di rilievo delle province nella valorizzazione del patrimonio culturale. Nella presentazione sintetica a cura della Presidenza del Consiglio si affermava, però, che la disciplina delle funzioni fondamentali (non si sa se quella "esemplificativa"o quella "tassativa" della seconda versione) non avrebbe comportato alcuna modificazione del riparto delle competenze tra comuni e province.

[32] Questa lettura sembrava essere stata accolta anche dal legislatore delegato. Nella presentazione dello schema preliminare di revisione del Tuel a cura della Presidenza del Consiglio si diceva infatti espressamente che esso conteneva solo l'individuazione delle funzioni fondamentali, lasciando alle leggi statali e regionali, nelle rispettive materie, la disciplina sostanziale.

[33] A proposito della potestà regolamentare locale può essere interessante rilevare come il già citato schema preliminare di revisione del Tuel contenesse una norma relativa alla disciplina regolamentare delle funzioni fondamentali degli enti locali ai sensi della quale "Nell'ambito dell'autonomia riconosciuta ai comuni, alle province e alle città metropolitane dall'articolo 114 della Costituzione e nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 117, sesto comma, della Costituzione, la disciplina dell'organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni fondamentali loro attribuite, comprese quelle affini, presupposte, strumentali e complementari, è riservata alla potestà regolamentare di ciascun ente". La norma aveva la stessa incongruenza già lamentata dalla dottrina a proposito dell'art. 4 della legge n. 131 del 2003: da un lato, la qualificazione della potestà regolamentare locale come "riservata"; dall'altro, l'inquadramento di tale riserva "nell'ambito" dell'autonomia riconosciuta agli enti locali dall'art. 114 e "nel rispetto" dell'art. 117. Quale effetto avrebbe potuto avere tale formulazione, se non quelle di rimettere all'interprete l'arduo compito di interpretare i confini della competenza regolamentare locale?

[34] All'interno della quale occorre ulteriormente distinguere l'articolazione interna delle competenze tra gli organi e gli uffici e la disciplina dei procedimenti interni all'amministrazione, da considerarsi sottratta alla disciplina legislativa regionale: in applicazione di questo criterio, ad esempio, si può ritenere che la legge regionale, nel disciplinare funzioni locali, non possa fare riferimento espresso ad organi comunali ed alla ripartizione interna delle competenze tra livello politico e gestionale.

[35] Diversamente, secondo la Corte, il legislatore regionale non avrebbe altra scelta che allocare le funzioni in questione ad in livello di governo più elevato, effetto sproporzionato e contrastante con lo stesso principio di sussidiarietà.

[36] Nel già citato schema preliminare attuativo della delega ex art. 2 l. 131/2003 sembrava emergere una concezione restrittiva dell'intervento regionale in materia di disciplina delle forme di cooperazione tra enti locali. Si prevedeva infatti che "al fine di garantire la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e la economicità delle gestioni, i comuni interessati possono promuovere le forme associative, attivando, nel rispetto del principio di leale collaborazione, strumenti di reciproca concertazione per la individuazione dei livelli territoriali ottimali, dei soggetti e delle metodologie di gestione associata". Questa previsione sembrava riservare ai comuni il potere di individuare livelli ottimali di gestione e relativi modelli di gestione associata, quanto meno per le funzioni fondamentali. Al legislatore regionale, tuttavia, restava la possibilità di prevedere la creazione di forme strutturali o funzionali di cooperazione di natura obbligatoria tra enti locali (evidentemente per le funzioni non fondamentali).

Lo schema prevedeva inoltre (ma non era chiaro se per rispetto delle competenze regionali, o al contrario, per ridimensionare il ruolo regionale) l'abrogazione delle norme del Tuel che attualmente fanno riferimento al sistema regionale delle autonomie locali ed alle programmazione regionale e locale (artt. 4 e 5) nonché all'individuazione di ambiti ottimali per l'esercizio associato delle funzioni comunali da parte delle regioni attraverso il programma di riordino territoriale (art. 33).

[37] Così, ad esempio, la legge 142/1990 diede loro la possibilità di gestire i servizi pubblici oltre che secondo la tradizionale modalità della gestione in economia, anche attraverso la concessione a terzi, l'istituzione (per i servizi non economici), l'azienda speciale (per i servizi economici), la società per azioni.

 

 



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