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Nuovo governo e vecchi problemi: qualche suggestione

di Marco Cammelli

La conclusione della vicenda referendaria, da ritenersi positiva per tutti visto che anche chi aveva approvato il testo ne auspicava profonde modifiche, permette finalmente di tornare a quote più normali. Alle quali, in fondo, appartiene anche l'avvio del nuovo governo.

A prima vista, per i beni culturali come per altri settori, il discorso si potrebbe chiudere prima ancora di cominciare se è vero che l'azione di governo consiste essenzialmente nel concorso, come proponente o come delegato, al procedimento legislativo e nella allocazione delle risorse pubbliche. Come tutti sanno, infatti, l'attuale Esecutivo e la maggioranza che lo sostiene non dispongono né di voti per fare leggi, né di euro per nuove spese. Anzi, è un problema finanziare quelle già avviate o comunque previste dalla gestione precedente.

In realtà, queste condizioni costituiscono nel nostro caso più una opportunità che un limite. Proviamo a spiegare. La sostanziale impraticabilità della strada legislativa sarebbe drammatica se i nostri problemi fossero essenzialmente di questo livello. Ma dopo quasi un decennio di incessante susseguirsi di leggi, disposizioni, testi unici e codici si può sfidare chiunque a dimostrare che il problema principale sia su questo versante.

Resta, certo, la mancanza di risorse: senza una "lira", espressione curiosamente non ancora attualizzata in "euro", sicuramente si combina poco. Ma c'è da chiedersi se sia davvero questo il problema principale in una amministrazione che ogni anno consegna agli esercizi successivi imponenti residui per spese non realizzate. E in ogni caso, si potrebbe aggiungere, alle innovazioni si procede nelle amministrazioni (come, del resto, nelle persone) solo quando non se ne può proprio fare a meno: il che, come si sa, è proprio più delle stagioni magre che di quelle grasse.

In breve, le condizioni attuali sconsigliano inutili titanismi legislativi o costituzionali e suggeriscono di battere la strada dell'azione amministrativa, dell'organizzazione, degli interventi.

Se è così, proviamo ad indicarne qualcuno.

Intanto c'è un vistoso problema di "centro". Il sistema, lo si voglia o meno, è già oggi molto articolato e decentrato, ma richiede appunto un ministero capace di pensare a se stesso non come apparato ministeriale, ma come delicato centro di un complesso sistema. Troppo astratto? C'è una bella differenza, che sfugge solo ai tanti che non vogliono capire. In ogni caso, chiariamo.

La scelta tra modello a dipartimenti e modello a segretario generale, ad esempio, non riguarda solo le relazioni di vertice (tra direzioni generali, tra apparati e uffici di diretta collaborazione del ministro, ecc.) ma innanzitutto che cosa si fa a questo livello e quali esigenze sistemiche sono qui svolte. Ancora. Il processo di programmazione triennale degli interventi operati direttamente dal ministero può essere basato, nel migliore dei casi, su dati interni ai singoli settori (v. spesa storica, richieste, performances ottenute in passato, ecc.) o, al contrario, sulla ricognizione non solo dei bisogni ma delle disponibilità pubbliche e private esistenti in un determinato territorio o in un particolare settore, in modo da decidere in modo più consapevole e tentare di svolgere anche un virtuoso ruolo di traino degli altri soggetti. Dunque, il centro ha non solo molto da operare, visto che questi elementi sono in larga parte inediti, ma anche da recuperare, dato il serio cedimento registratosi nella scorsa legislatura nei rapporti con gli altri ministeri, cominciando ovviamente da quello della Economia. E tutto ciò ha grande importanza non solo per il ministero ma, appunto, per l'intero sistema dei beni culturali.

Il secondo terreno che merita iniziative, senza necessità di leggi o risorse particolari, è rappresentato dalla cooperazione e dalla sua concreta messa in opera. Non c'è azione di rilievo che non richieda accordi centro/periferia, stato/regioni e enti territoriali, pubblico e privato. Ma questa dimensione è stata riservata fino ad oggi solo a interventi di eccezionale entità. Si tratta invece di farne il codice principale dell'azione ordinaria delle articolazioni centrali e periferiche, e probabilmente può essere utile immaginare qualche specifico intervento operativo per fare da apripista: per testare cioè la resa degli strumenti introdotti dalla nuova versione dell'art. 112 del Codice. Le maglie sono abbastanza ampie per consentire l'adattamento alle diverse esigenze.

Il terzo ambito, che al pari degli altri sembra meritare particolare attenzione, consiste in una seria analisi delle dimensioni, della consistenza, delle forme e degli effetti di quello che nel linguaggio giornalistico-amministrativo è passato come spoil system. C'è da temere che il problema, purtroppo, sia ancora più ampio. Non si tratta solo di preservare l'autonomia professionale e scientifica dei vertici dell'amministrazione, specie quando a capo di strutture tecniche, nei confronti delle sedi politiche: ciò è sacrosanto, ma il fatto è che il ricorso a rapporti di lavoro a tempo determinato esteso all'infinito a tutti i livelli centrali e periferici, amministrativi e tecnici, di vertice e di base, statali e locali (dello Stato si è parlato molto: e di quanto avviene a livello locale?) genera masse intere di operatori totalmente condizionati da chi ha, semplicemente, il potere del rinnovo. In breve, una amministrazione con più sudditanza e con meno memoria, e dunque identità e consapevolezza dei propri saperi e della propria storia.

Ben poche di queste cose richiedono una apposita disciplina legislativa: per molte di esse già c'è e per il resto, salvo limitate e singole eccezioni, nulla impedisce che scelte, indirizzi o programmi si muovano nella direzione voluta.

Dunque, se si sa che cosa si vuole, il disporre di poche risorse e di ancor meno voti in parlamento non impedisce affatto di cambiare, sperimentare, suggerire, operare. In breve, di fare sentire la propria voce. Purché, naturalmente, consapevoli delle premesse su cui poggia il discorso appena fatto e delle implicazioni che ne conseguono.

Tra le quali, centrale, la capacità di aderire ai diversi contesti e ai diversi attori che vi operano, e dunque la flessibilità funzionale e organizzativa: il che, sia detto nel concludere, non sarà facile realizzare senza trovare un punto di appoggio nel ruolo del direttore regionale appositamente riletto in questa chiave.

 

 



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