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Prende avvio la riforma dell'istruzione artistica: le accademie di belle arti e i conservatori diventano enti autonomi

di Guido Franchi Scarselli


Sommario: 1. Premessa: manutenzione o riforma? - 2. Qualche nota sulle cause delle attuali difficoltà. - 3. L'ambito dell'autonomia statutaria e la forma del procedimento di controllo. - 3.1. La debole consistenza degli Statuti. - 3.2. Segue: il forte presidio ministeriale nel loro controllo, e probabili conseguenze. - 4. Qualche osservazione sul merito delle scelte svolte dal d.p.r. n. 132. - 5. Conclusioni.



1. Premessa: manutenzione o riforma?

Con la pubblicazione del d.p.r. 28 febbraio 2003, n. 132, sui "criteri per l'autonomia statutaria, regolamentare e organizzativa delle istituzioni artistiche e musicali" (nella G.U. del successivo 13 giugno), ha preso avvio il processo di attuazione della riforma degli istituti componenti il "sistema di alta formazione e specializzazione artistica e musicale" concepito dalla legge n. 508 del 1999 [1].

Tale processo, come noto, coinvolge le venti Accademie, i cinquantasette Conservatori e i ventidue Istituti musicali pareggiati, nonché le due Accademie nazionali di danza e di arte drammatica e i quattro Istituti superiori per le industrie artistiche attivi sul territorio (rimanendovi escluse le sole, parallele ventisei Accademie di belle arti legalmente riconosciute, di cui pure la legge n. 508 prevede in particolari circostanze, a richiesta, una "graduale statizzazione" [2]). Ovverosia, quel settore del sistema nazionale dell'istruzione artistica che, stretto fra i poli della Scuola e dell'Università, si collocava fra la struttura del primo e la proiezione funzionale del secondo mediante un modello dedicato divenuto, non solo per motivi di coerenza alla loro rispettiva riforma, inadeguato alla valorizzazione che pretende.

Come vedremo, se la legge n. 508 affronta quella ambiguità di fondo sottraendoli dal campo dell'istruzione per proiettarli, salvaguardandone la specificità, in una dimensione istituzionale consimile a quella universitaria, il d.p.r. n. 132 sembra invece frenarne la configurazione positiva, delimitando o comunque rinviando nel tempo il riconoscimento degli spazi di autonomia da essa tanto chiaramente prospettati quanto discutibilmente indefiniti.

La circostanza che ciò sia avvenuto senza sollevare le obiezioni che era lecito attendersi [3] - ma anzi rifletta in buona sostanza l'esito dell'apporto svolto dalla rappresentanza di quelle istituzioni nella sua redazione - solleva nell'osservatore esterno una perplessità di fondo sulla capacità di quel sistema di realizzare la riforma; e ancor prima, allora, sull'adeguatezza di quest'ultima nel radicare il riconoscimento dell'autonomia all'art. 33 Cost. (art. 2, comma 1, legge n. 508) quando - come la dottrina aveva dimostrato - doveva negarsi che la menzione di "Accademie" recata al suo ultimo comma intendesse riferirsi a quelle "di belle arti" (e dunque, per affinità, anche ai Conservatori) [4], e non piuttosto alle sole Accademie a base associativa, quali quella dei Lincei, delle Scienze di Bologna e poche altre ancora. Con ciò, fra l'altro, introducendo talune conseguenze di stampo prettamente giuridico legate alla struttura del nuovo titolo V che, come accenneremo, lasciano intravedere il rischio di comporre un quadro di riferimento incerto.

Lasciando da parte il momento della legittimità costituzionale, può cioè ritenersi che il riconoscimento di un'autonomia vasta quale quella sancita dalla legge n. 508 suppone nel percorso della sua attuazione, da parte delle istituzioni chiamate a goderne, il concorso di un contributo più efficace di quello che hanno sinora dimostrato.

Ciò soprattutto allorché il Legislatore manca, come in questo caso, di imprimere alle riforme una qualche direzione attuativa [5], concedendo ai loro protagonisti il privilegio di potersi autoriformare nel tempo. Rinviando le scelte decisive all'emanazione di una serie di atti di cui nemmeno indica l'ordine sistemico, esse corrono infatti il rischio di risolversi in assetti a tal punto frammentati da rivelare infine costituiti ordinamenti segnati da disorganiche specialità; le quali, come pure noto, oltre a poterne inficiare gli obiettivi di risultato attesi, generano a loro volta l'alimentazione di continui adattamenti disciplinari da parte dei centri direzionali entro i quali tali assetti pur gravitano.

Nel dato, peraltro ancora di frangente, dell'attuazione di questa riforma sembrano potersi riscontrare i segnali di quel rischio, ovverosia il fondamento di concezioni lontane dall'obiettivo di ottenere, nell'interesse della popolazione studentesca e quindi della società, il rinnovamento di un sistema che tramite l'autonomia delle istituzioni che lo compongono la legge non rinuncia però di pretendere sufficientemente stabile e organico. Generando nell'immediato - è questo lo stato di fatto dei rapporti con l'Università - reciproche accuse di "invasioni di campo", per di più coltivate con strumenti fra loro ineguali e dunque nemmeno competitive su di un piano di parità [6].

Se la prospettiva della riforma è quella di attribuire a tali istituzioni il compito non più tanto di istruire, ma "di creare cultura" - la qual cosa, in breve, suppone il godimento di una fisionomia sufficientemente autonoma all'interno di un assetto ordinato di tipo policentrico tutelato, a questo punto, dal ministro dell'Università (cui la legge assegna "poteri di programmazione, indirizzo e coordinamento") - è chiaro che la concreta definizione di quell'autonomia presupponeva l'altrettanto concreta definizione di tale assetto. Viceversa, come vedremo avendo di mira il consolidamento dei loro organi, si è invece partiti dall'autonomia delle istituzioni ottenendo l'effetto - così ci sembra - tanto di ridurla a poca cosa quanto, pur tuttavia, di conferire loro un peso sufficiente a condizionare, frenare o comunque rinviare nel tempo la definizione del sistema entro il quale dovranno operare quali "sedi primarie di alta formazione, di specializzazione e di ricerca ... (e) correlate attività di produzione" (art. 2, comma 4, legge n. 508).

Delle due letture possibili - una volta a dire che ciò corrisponde al disegno di agevolarne l'assorbimento nel tempo (confortata dal parallelo avvio, in forma sperimentale, di nuove tipologie di corsi e relativi diplomi [7]), e l'altra invece a dire che le parti vi resistono, trovando un accordo in quelle sue manifestazioni che non implicano significative trasformazioni - può dirsi essere finora prevalsa quest'ultima, sia pure - insistiamo - con l'alibi dalla carenza della legge n. 508 di effettuare una qualsivoglia scelta sulla direzione da intraprendere per costruire quel nuovo sistema plurale salvo riprendere, come accennato in forza di un'errata premessa giuridica, taluni schemi generali caratteristici all'ordinamento universitario.

La qual cosa, in sintesi, consiste nella mancata individuazione di un modello che abbia dignità universitaria senza per questo ricalcarne la struttura organizzativa e didattica, onde inserire la prospettiva dell'autonomia delle singole istituzioni entro un sistema didattico-funzionale idoneo a certificare (secondo standard internazionali) dei livelli di apprendimento superiore tramite percorsi culturali e strumenti operativi che rimangono in buona parte lontani da quelli universitari. Con altre parole, di cogliere una struttura organizzativa che sappia assecondare una tipologia di formazione che, a differenza delle Università, ha solo in parte una vocazione o finalità professionalizzante e dunque chiede, anche per i numeri di studenti e relativi interessi in gioco, di essere sia più leggera e flessibile che comunque diversa da quella universitaria. Gli argomenti in gioco sono dunque essenzialmente due, quello della definizione della linea di confine della loro azione con quella delle Università e, a seguire, quello della loro organizzazione per gestirla.

Posto che il d.p.r. n. 132 prescinde dal tracciare le linee di un qualsiasi modello, può allora dirsi che il primo banco di prova fra lo scenario tracciato dalla legge e la sua attuazione si mostra condotto più sul filo di una manutenzione del previgente ordinamento che non su quello della sua trasformazione, dando corpo al neo-riconosciuto "diritto" (rectius, potere) delle presenti istituzioni "di darsi ordinamenti autonomi" in quanto "costituiscono ... il sistema dell'alta formazione ..." (art. 2, comma 1, legge n. 508).

Con questo - sia chiaro - non si vuole dimenticare che la struttura della legge n. 508 ammette, nella precisa scelta di non scegliere, di rivelare soluzioni attuative secondo un processo incrementale da realizzare nel tempo; che il trovarsi alla sola sua prima tappa non autorizza pertanto giudizi complessivi, qui ancora fuori luogo in quanto segna l'avvio di un "tour" il cui programma ne annuncia altre entro terreni se non vastissimi comunque obiettivamente complessi e delicati [8]; ma segnalare, con il supporto di qualche indicazione più precisa, che riflettere quasi quattro anni per poi muovere in arrocco alle prime mosse mostra solitamente una debolezza che non è poi agevole vincere neppure tramite un'attenta personalizzazione delle nuove relazioni fiduciarie in gioco che, piaccio o meno, quel medesimo approccio finisce per favorire (ci si riferisce ai rinnovi delle cariche direzionali conseguenti all'approvazione degli Statuti, di cui infra). E ciò vale, in una prospettiva di sistema, anche se quella mossa, colta isolatamente, non manca di qualche pregio (ci si riferisce alla configurazione dei rapporti fra Presidente e Direttore, di cui analogamente infra).

Ritenendo che lo stato embrionale di quel processo renda poco utile eseguire un commento analitico del d.p.r. n. 132, nelle seguenti osservazioni ci proponiamo di chiarire le ragioni che portano a criticare la sua più complessiva impostazione rispetto, ovviamente, all'attuazione (o, può dirsi, costruzione) della riforma.

 

2. Qualche nota sulle cause delle attuali difficoltà

Prima di passare a rendere quelle indicazioni, sia pure senza poterlo affermare con il riscontro di più diffuse indagini "sul campo", è utile accennare che le cause di questo incerto percorso non vanno a nostro avviso sic et sempliciter attribuite a una marcata difformità di indirizzo fra i Governi che hanno promosso l'approvazione di quei due testi [9], quanto alla mancata elaborazione di più chiari riferimenti (anche tecnici) sulla prefigurazione della sua direzione; per così dire, di come mettere in fila, dopo averli individuati e valutati insieme, gli elementi utili per arrivare a disciplinare efficacemente la riforma; prendendo cioè soprattutto posizione sui rapporti con il mondo universitario: non è infatti ancora chiaro se i due sistemi debbano essere fra loro complementari ovvero concorrenti.

Considerando che il d.p.r. n. 132 costituisce l'esito di un lavoro "contrattato" [10] e in larga parte condiviso [11], non pare del resto difficile desumere che l'attuale sistemazione più che al vento di orientamenti neo-centralisti corrisponda alla volontà di non mettere più di tanto in gioco i diversi, non necessariamente pregevoli [12] interessi delle diverse componenti strutturali coinvolte. Nell'assenza di un programma sugli obiettivi finali, diviene del resto inevitabile preoccuparsi dapprima di arroccarsi, ed ancor più se ciò implica metter mano alla regolazione del tema che, fra tutti quelli elencati dalla legge, si riteneva probabilmente essere il più semplice (in linea tecnica, grazie ai diversi modelli cui attingere; rimanendo senz'altro più complesso definire l'assetto di un nuovo ordinamento, con dignità universitaria [13], in sostenibile equilibrio fra le legittime aspettative di più adeguati riconoscimenti ai suoi attori e le scarse risorse a disposizione).

Ma se non può stupire, costituendo ex se vizio antico, che alle incertezze originate da quel quadro "in bianco" la prima cura venga dedicata alla sistemazione degli organi di direzione, non può per questo mancarsi di temere che la loro strutturazione nei termini avulsi colti dal d.p.r. n. 132 possa finire per bloccare, anche in nome di pretese omogeneità d'azione e di risultato, quelle istanze di rinnovamento "dal basso" che pure senz'altro non mancano. L'irrisolta situazione dei Conservatori, sulla cui denuncia rinviamo alla summenzionata letteratura, è del resto emblematica della difficoltà di trovare una via d'uscita all'equiparazione formale di strutture che pari non sono [14].

Con questo non intendiamo negare che anche qui, come nella costruzione di ogni sistema complesso, andava trovato un accordo sulla configurazione degli organi chiamati a gestirlo, ma dire che (generalmente, se non per principio) esso si dimostra felice e duraturo nella misura in cui risulta fondato su di una prospettazione sufficientemente definita dei mezzi (risorse e regole) tramite i quali conseguire gli obiettivi di quella gestione (compiti e funzioni). Che qui invece mancano, rimanendo fisso sullo sfondo solo il fine generale indicato dalla legge n. 508 di trasformarsi, come detto, da articolazioni periferiche dello Stato dotate di una debole soggettività giuridica inquadrate nel settore dell'istruzione in enti autonomi chiamati a produrre e fornire "alta" formazione e specializzazione.

Contando che la complessiva correttezza di tale lettura emerga facilmente da uno sguardo del testo in commento, su cui si tornerà per mostrare in quali termini disciplina l'organizzazione e il funzionamento di quegli organi, interessa ora provare a rintracciare i motivi che originano questo rischioso, diffidente percorso.

Può quindi accennarsi che il complesso di queste istituzioni non è stato fatto salvo dal generale decadimento che ha coinvolto il sistema dell'istruzione nella seconda metà del secolo scorso [15], erodendo la pretesa corrispondenza del loro distinto prestigio e ruolo istituzionale con sistemi di direzione sempre e sicuramente alla loro altezza: con il progressivo allentamento della risalente impronta centralista è cioè anche qui seguita una durevole, poco brillante condizione di "isolamento culturale" [16] che, senza doversi nemmeno confrontare nel dibattito che ha vivacemente attraversato i lidi delle riforme della Scuola, le ha viste procedere entro comodi circuiti e oscure prassi gelosamente protetti i quali, infine, non potevano mancare sia di marginalizzarle (fra l'altro esponendole al "rischio" qui non voluto di venire abbracciate, come già l'Isef, dal sistema universitario) che di privarle di apparati pronti a recepire e gestire adeguatamente la reazione offerta dalla legge n. 508 cit. Una reazione, si consenta accennare con tratto schematico, tanto invocata quanto in concreto carente nel tenere conto di quella loro evidente fragilità, quanto meno organizzativa e finanziaria. Di cui l'attuazione della riforma rischia dunque, al di là di ogni legittimo gradualismo, o di rimanere indefinitamente prigioniera o di venire risolta entro formule troppo simili a quelle universitarie per salvaguardarne la specificità assunta in premessa [17].

D'altra parte, se è evidentemente la dimensione del rapporto fra l'intensità di quella debolezza e l'impegnativa responsabilità di un'autonomia colta, ex art. 33 Cost., in termini simili a quella universitaria a costituire l'oggetto del contendere fra elementi di fatto (le scarse risorse) e di diritto (il valore legale dei titoli di studio [18]), ci sembra che il d.p.r. n. 132 ne attesti un fragile accomodamento per la ragione di fondo che si accontenta, consolidandole, di conoscere le parti in causa, senza con ciò avere ancora definito alcunché rispetto a quanto dovranno poi innovativamente soddisfare.

Ed in effetti quel decreto non si limita discutibilmente a disciplinare i soli organi delle istituzioni (la cui autonomia o entificazione risulta a questo punto fondata esclusivamente sulla loro forma di governo), ma finisce per configurali in termini a tal punto rigidi da provocare, in cambio della rassicurazione che cercava ed effettivamente offre: a) lo svuotamento dell'autonomia statutaria, inaridendo di conseguenza la capacità di cogliere al meglio le distinte caratterizzazioni organizzative e funzionali delle diverse tipologie di istituzioni in causa, che certo né sono ora né potranno divenire in futuro più di tanto omologabili; ciò a partire dalla loro differenziata capacità di stare sul mercato: è ragionevole pensare, sia pure con un esempio del tutto astratto, che l'Accademia di belle arti di Lecce, una delle tre operanti nelle Puglie, possa faticare da questo rilevante punto di vista ad assimilarsi tanto con quella di Firenze che con il Conservatorio di Bolzano e ancor più con l'Accademia nazionale di arte drammatica; b) l'irrigidimento dell'iniziale disponibilità ministeriale ad accogliere in futuro gli schemi di assetti disciplinari costruiti nei tempi lunghi di scelte analogamente contrattate quali quelle sottostanti l'emanazione del d.p.r. n. 132.

Può essere - smentendoci - che sul filo di quella "rassicurazione" si siano determinate le condizioni utili allo sviluppo della riforma; il suo prezzo rimane però molto alto relativamente al raggio dell'autonomia disciplinare che la legge n. 508 prevedeva riconosciuto disponendo, è ragionevole pensare in nome della suddetta differenziazione (spec. funzionale), che le istituzioni mantenessero il reciproco "diritto di darsi ordinamenti autonomi". La qual cosa, può aggiungersi, conduce a ritenere che non era poi questo l'obiettivo cui esse più tenevano: pur debolmente, l'autonomia viene infatti colta in senso verticale (rispetto allo Stato) e non anche orizzontale (fra le istituzioni), palesandone una concezione giuridicamente riduttiva e culturalmente arretrata.

Senza dire che tutto ciò rappresenti una novità - le Università, ad es., hanno avviato il percorso autonomistico molto tempo dopo l'entrata in vigore della legge che lo autorizzava e notoriamente con non lievi travagli - rimane l'impressione che qui non sia stato nemmeno tentato di far tesoro di quelle esperienze, anche considerando che molti rapporti ai piani più alti dell'ordinamento si sono nel frattempo evoluti.

Né può sostenersi che a questa situazione abbia contribuito non tanto la (inevitabile) continuità dell'identità degli attori locali quanto quella dei soggetti centrali: la prevista collocazione del presente sistema nell'orbita del Murst - malgrado la legge n. 508 sia posteriore di quasi cinque mesi al d.lg. n. 300 - non è stata infatti annullata dal suo riconfluire nel Miur, depotenziando gli effetti per così dire "rigeneratori" che la sua esperienza avrebbe dovuto manifestare: il competente apparato centrale è infatti rappresentato, già ex ante la recente riorganizzazione [19], da un corpo amministrativo non solo formalmente diverso da quello competente a dirigere e amministrare le istituzioni prima della riforma, coerentemente accostato a quello chiamato ad occuparsi di Università e ricerca [20].

Il punto è semmai un altro, e cioè la perdurante assenza di un più netto input politico sul tema di fondo dei rapporti con le Università, il cui rinvio ad infruttuose conciliazioni dal basso [21] inizia peraltro a far sorgere l'impressione di farsi metodo di governo onde recuperare al centro, mettendo l'uno con l'altro, gli spazi dell'autonomia concessa ad entrambi i poli.

Un elemento, tipico alla risalente esperienza delle presenti istituzioni, che potrebbe invece avere svolto un effetto frenante l'attuazione della riforma riguarda il particolare status giuridico dei suoi docenti: si tratta della circostanza che ad essi non è applicata, per espressa deroga, la disciplina sul divieto di assumere incarichi esterni retribuiti senza apposita autorizzazione laddove manchi l'opzione per il regime a tempo parziale, come noto altrimenti valida per tutto il pubblico impiego [22]. Lo si accenna per dire che tale situazione - ragionevole nella misura in cui coglie la distinzione fra l'insegnante e l'artista - potrebbe avere generato in taluni strati del corpo docente (e forse proprio nelle sue frange più autorevoli in quanto autonomamente ricche di un prestigio personale riconosciuto dal mercato esterno) una sorta di distacco, se non proprio di reazione ai possibili rivolgimenti conseguenti alla riforma, così contribuendo a frenarne l'attuazione; e forse altresì generato momenti di conflitto interno fra le categorie di coloro che si collocano, forzatamente o meno, nel sentire dell'istruzione ovvero in quello dell'alta formazione.

Questa distinzione - coeva all'istituzione delle prime Accademie e quindi fondante il loro successo nei secoli, in quanto l'esservi accolto corrispondeva all'attestazione di professare l'arte e non più un mestiere [23] - si trascina notoriamente da secoli secondo criteri la cui ricercata obiettività non ha mancato, ovunque e spesso, di incorrere in clamorosi errori. Occorre peraltro tenerne conto perché, in ultima analisi, essa riflette buona parte della specificità del presente sistema tanto da quello scolastico che da quello universitario, connotando il rapporto fra la libertà dell'insegnamento e quella artistica e scientifica in forme tra loro diverse proprio sul punto delle sue ricadute sui doveri d'istituto (a partire dai requisiti d'accesso alla carriera per finire ai criteri di valutazione sulla produttività); e dunque sui più pressanti impegni connessi alla compartecipazione del corpo docente nel conseguimento di una certa autonomia finanziaria delle istituzioni, tanto ovvia per gli enti autonomi quanto riduttivamente scambiata nella loro aziendalizzazione.

E non è certo una questione che riguarda i soli interessi dei docenti, posto che ricade su quelli degli studenti rispetto all'opzione di formarsi sotto la guida di un artista ovvero di un insegnante, tenendo conto che qui, a differenza dei talora paralleli corsi universitari, alla formazione collettiva e frontale si affiancano più intense attività di laboratorio e di insegnamento individuale [24].

Questa storica metodologia di formazione, che costituisce il punto di forza delle presenti istituzioni, rappresenta nei rapporti con le Università il loro punto debole in quanto esse, insistendo sulla sua immisurabilità scientifica e qualitativa, vi poggiano da un lato il diritto di istituire corsi paralleli aventi il medesimo valore legale connotati da un "carattere critico riflessivo sulle prassi artistiche" [25] e dall'altro, soprattutto, gli contestano l'idoneità di istituire nuovi corsi in quelle materie il cui percorso curricolare, esplicitamente, ingloba quel carattere. E viceversa, sulla scia di ormai numerose esemplificazioni situate a confine, le istituzioni non solo difendono la qualità e il pregio culturale di quel metodo, ma avvertono l'esigenza di esportarlo in tutti quei nuovi campi professionali (non artistici in senso stretto) che a loro avviso il sistema universitario non copre adeguatamente. Da qui le reciproche accuse di sconfinamenti di campo e la conseguenza di un assetto ormai frammentato che il centro fatica a regolare.

Ma non è su questo argomento, pur centrale, che intendiamo soffermarci salvo accennare che se più sopra si è detto che il senso della riforma enfatizza il compito di fare cultura in luogo di quello volto ad istruire, rimane allora ancora molto da esplorare e quindi da definire affinché quel senso non risulti poi carente di ogni significato concreto, continuando a scambiare la libertà dell'artista con il mediocre riconoscimento economico dell'insegnante.

Un indizio che riflette l'assenza di quel più saldo esprit de corps da cui siamo partiti (che non è solo endo-istituzionale, ma talora infra-istituzionale, in quanto divide le istituzioni più prestigiose dalle altre) può trovarsi nell'ordine "sparso" con il quale esse hanno gestito questa prima fase del processo di attuazione della riforma: non sono stati cioè costituiti dei momenti di coordinamento (anche solo, ad es., per raggiungere letture comuni sull'interpretazione di quegli aspetti statutari incerti che il d.p.r. n. 132 lascia intravedere) per rappresentarsi adeguatamente unite di fronte al ministero (che è dunque rimasto, più facilmente, supremo interprete della legge).

Se le ragioni dell'ampia delega riservata al Cnam possono trovare una spiegazione vuoi in un "errore" prospettico sugli effetti discendenti da siffatta strutturazione degli organi (v. infra) vuoi soprattutto, come detto, nella circostanza di non assegnare poi molto rilievo al momento della configurazione dell'autonomia, rimane l'impressione che il percorso avviato non tenga conto di quella divisione o distinzione ma che piuttosto la subisca, finendo per confermare gli assetti esistenti.

Se ne coglie un secondo, più rilevante indizio nel fatto che il tessuto organico reso dal d.p.r. n. 132, tramite il quale si dovranno governare le istituzioni, non riserva alcuno spazio a rappresentanze discendenti dalle strutture interne prioritariamente impegnate vuoi nella formazione vuoi nella ricerca vuoi invece nella produzione. Pur rimanendo strettamente intrecciate, tali tipologie d'azione hanno egualmente e sempre più dovrebbero avere nell'ottica della legge n. 508 delle specificità che meritano di essere raccolte ed evidenziate; non di meno, quel tessuto non ne reca alcuna traccia, parlando genericamente di professori e talora di docenti (la qual cosa, niente affatto neutra, genera problemi di altra natura che qui non occorre ricordare). Le scelte sulla loro estrazione e rappresentatività negli organi di governo rimangono cioè indipendenti dall'area in cui sono inseriti.

Malgrado gli obiettivi della riforma siano evidentemente riconducibili alla prospettiva di consentire alle istituzioni di uscire da quell'isolamento che ne origina la diffusa "autoreferenzialità" [26], può ritenersi che la mancanza di un'adeguata risposta a quella situazione di latente conflitto di interessi - tanto episodica e irrilevante nel mondo della Scuola quanto ben nota e rilevante in quello dell'Università - abbia concorso a frenarla, reputandola richiedere a regime nuovi e più rilevanti impegni tanto individuali che collettivi dagli uni auspicati e dagli altri (i più forti) temuti. Ma anche qui non è possibile dire se a torto o a ragione, in quanto se mancano gli ormai consueti sistemi di controllo economico della gestione e di misurazione della produttività (già pretesi nella Scuola e nell'Università: ha spazio qui il c.d. ozio creativo?), non è ancora all'ordine del giorno la discussione volta a definire i criteri generali sulla cui base individuare i centri di costo e riferire il raggiungimento o meno di obiettivi dati [27].

Questa situazione, come noto, non solo non riflette le reali posizioni in campo, ma a nostro avviso nemmeno corre nella direzione di riuscire ad apprezzarle (cogliendo quella divisione di fondo e altre più puntuali). In ultima analisi, qui come altrove sembra essersi attribuita all'autonomia (ma potremmo dire tout court alla disciplina giuridica) una debole capacità di sussidio al processo di costruzione della riforma.

Ne sovviene confermato, allo stato, un assetto positivo che più di assecondare le ragioni di procedere con una cautela coerente alla debolezza organizzativa e finanziaria del presente sistema sembra indirizzarlo verso un concezione di autonomia che ha poco a che fare con quella tracciata dalla legge. In breve, ci si accontenta per così dire di mantenerlo in vita.

A sostegno di questa impressione depongono due serie di argomenti più propriamente giuridici: la prima connessa alla definizione dell'autonomia statutaria colta dal d.p.r. n. 132 (e cioè al raggio delle potestà statutarie concretamente riconosciute alle istituzioni in causa), e la seconda alla sua gestione da parte degli uffici ministeriali chiamati a controllarne l'esito (ovvero alle forme del procedimento di controllo degli Statuti finalizzato alla loro "approvazione" e quindi esecutività).

 

3. L'ambito dell'autonomia statutaria e la forma del procedimento di controllo

3.1. La debole consistenza degli Statuti

Relativamente al raggio di autonomia o capacità statutaria riconosciuto dal d.p.r. n. 132, il raffronto va eseguito con l'art. 2, comma 4, legge n. 508, che la dichiara "didattica, scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile ai sensi del presente articolo, anche in deroga alle norme dell'ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, ma comunque nel rispetto dei relativi principi". Ovverosia, di latitudine "essenzialmente identica a quella compiuta dalla legge n. 168 del 1989 per le Università" [28]; e dunque sulla carta assai ampia, tenendo conto che le restanti norme di quel medesimo articolo (se non a proposito del rapporto di lavoro del personale docente e non docente) non introducono poi dei vincoli volti a delimitarla quanto piuttosto ad orientarne la concreta espansione in una direzione coerente alla riforma dell'ordinamento universitario e, più debolmente, ad assecondarne la possibile razionalizzazione funzionale favorendo ampie ipotesi di convenzionamento tanto reciproco che con le istituzioni scolastiche, universitarie e altri soggetti pubblici e privati (anche per costituire, ad es., Politecnici della arti).

In breve, i principi e criteri direttivi elencati al successivo comma 8 in funzione di determinare la redazione dei regolamenti di delegificazione volti ad attuare la riforma (ove compare quello "per l'adozione degli Statuti di autonomia e per l'esercizio dell'autonomia regolamentare") non lasciavano apparentemente prospettare soluzioni capaci di revocare l'ampiezza di quel fondante riconoscimento quanto piuttosto, come detto, di risultare organiche onde incidere con coerenza sull'insieme dei diversi settori che accompagnano la riorganizzazione e l'azione di queste istituzioni; con altre parole, di definire quel nuovo ordinamento giuridico (generale, da riempire o specificare tramite gli Statuti) volto a consegnarle dai lidi della formazione e dell'istruzione risalenti alla legge Gentile ai livelli di enti di alta cultura ex art. 33 Cost. e dunque, nei fatti, a divenire dedicate Università delle arti visive, della musica, della danza, del restauro ecc.

Di tale riformando ordinamento gli Statuti, evidentemente, avrebbero dovuto costituire lo specifico riflesso normativo idoneo alla concreta realtà di ciascuna istituzione; dovevano cioè logicamente venire emanati in corrispondenza all'adozione del tessuto regolamentare attuativo la legge cui si accennava. Ma così non è stato, posto che in circa quattro anni è stato emanato solo quello in commento, "recante i criteri per l'autonomia statutaria, regolamentare e organizzativa" il quale, come si dirà subito più sotto, lascia per di più scoperte rilevanti sezioni disciplinari della materia organizzativa in senso stretto che pure il suo titolo lasciava intendere comprese.

Da qui, come è agevole comprendere, rimane difficile non rimanere perplessi sull'andamento del processo riformatore in generale e sulla effettiva consistenza degli Statuti in particolare. D'altra parte, se un impianto teorico perfettamente compiuto avrebbe richiesto che la disciplina sull'organizzazione degli organi di direzione delle istituzioni - nella quale si risolve il presente d.p.r. n. 132 - fosse tracciata per ultima o comunque alla luce della riforma dei principali settori materiali rispetto ai quali tali organi dovranno riferire la propria azione, lascia a dir poco sorpresi osservare che essa sia stata all'opposto emanata, isolatamente, per prima.

E, come accennato, neppure con la completezza occorrente per vederli agire senza entrare - è facile presagire - in una situazione di incertezza se non vero e proprio caos giuridico: da un lato il decreto ha preteso che gli Statuti fossero adottati e trasmessi al Miur tutti assieme entro novanta giorni dalla sua pubblicazione, ma dall'altro - come ripreso da una circolare diramata in piena estate a pochi giorni dalla scadenza di quel termine [29] - essi non avrebbero dovuto dettare alcuna disposizione riguardante "la disciplina dell'attività didattica, della ricerca, della produzione artistica e dell'organizzazione amministrativa, finanziaria e di contabilità" in quanto essa "va rimessa ai previsti specifici regolamenti", la cui disciplina sarebbe stata (e tuttora dovrà essere) determinata da ulteriori regolamenti ministeriali.

In realtà, a parte l'evidente forzatura sostanziale, tale lettura non regge nemmeno sul piano formale essendo almeno due le norme che dichiarano testualmente il contrario, sottoponendo la disciplina regolamentare (interna) a una riserva statutaria: cfr. art. 2, commi 1 e 2, che per l'appunto si aprono con le formule: "attraverso i propri Statuti" e "in conformità ... allo Statuto".

Ritenendo che questa vicenda possa confortare le suesposte osservazioni sulle difficoltà tecniche che agitano questo settore, forse anche al di là di quanto sia stato immediatamente percepito, vale la pena sottolineare che quella lettura per così dire riduzionista non trae origine da una discordanza di vedute fra centro e periferia nella modulazione dei rapporti tra gli oggetti di competenza statutaria e regolamentare (che del resto, come detto, il d.p.r. n. 132 si perita di definire), ma dalla circostanza che buona parte della loro disciplina non è stata delegificata, né poteva esserlo tramite la fonte statutaria.

In breve, malgrado quella circolare - cui le istituzioni, per quanto ci consta, si sono attenute - conduca su di una falsa pista, affermava però cosa esatta agli effetti della stagione statutaria (sia pure troppo radicalmente). Con ciò, aggiungiamo, spostando le cause del problema sulle spalle di chi ha impostato e licenziato quel decreto (il Cnam) limitandosi a disciplinare innovativamente poco più della sola individuazione degli "organi necessari". E qui la questione non riguarda gli accennati momenti sistematici sul contenuto di una fonte statutaria, ma profili tecnici, inerendo la consapevolezza di quella Commissione sui rapporti fra la delegificazione del t.u. sull'istruzione (il d.lg. n. 297 del 1994) e la disciplina regolamentare da emanare ai sensi dell'art. 17, comma 2, legge n. 400.

La situazione corrente vede dunque per un verso mancare la regolamentazione di tutta quella sezione della riforma che riguarda ciò che, in sintesi, può definirsi costituire la "parte alta" del nuovo sistema ordinamentale: ovverosia i requisiti di qualificazione didattica, scientifica e artistica delle istituzioni e dei docenti e relativi sistemi di valutazione; le nuove logiche e modalità di programmazione e di sviluppo dell'offerta didattica; le nuove procedure di reclutamento del personale (che il comma 6 dell'art. 2 della legge prevede, mandando in esaurimento il ruolo di quello in servizio a tempo indeterminato, incaricato con rapporti non superiori al quinquennio, pur rinnovabili); le accennate modalità di convenzionamento con soggetti terzi, universitari e non, e altri rilevanti profili di sistema ancora la cui disciplina è dalla legge n. 508 analogamente riservata all'adozione di una normativa governativa assunta ai sensi dell'art. 17, comma 2, cit. fra cui, soprattutto, quello concernente le modalità di trasformazione dei Conservatori, dell'Accademia nazionale di danza e degli Istituti musicali pareggiati in Istituti superiori di studi musicali e coreutici.

E per altro verso pretendere che le istituzioni si dotino egualmente di uno Statuto "di autonomia"; senza cioè potersi occupare, neanche per linee generali, di organizzazione degli uffici, della didattica, della disciplina finanziario-contabile ecc.; la qual cosa, evidentemente, non solo ne inaridisce la più organica concezione ma ne avviluppa l'attuazione entro binari giuridicamente incerti; che si fanno sentire anche con riguardo alle loro correnti attività, parandosi facilmente dei vincoli che solo il ministero può risolvere (v. infra).

Questa situazione è grave in quanto - dal nostro punto di osservazione - sembra manifestare qualcosa più di un indizio al timore che il processo di attuazione della riforma si sia avviato per una strada che non tiene in gran conto quanto il suo successo dipenda, come per le Università, dalla capacità delle singole istituzioni di interagire nei processi di formazione e gestione delle politiche pubbliche di loro interesse. La qual cosa - che non ha niente a che vedere con presunte privatizzazioni, ma eventualmente sostiene le iniziative bilaterali volte a massimizzare l'offerta formativa - presuppone la determinazione statutaria di indirizzi e la disponibilità di strumenti disciplinari adeguati che per ora mancano quasi del tutto (salvo ritenerli confluire nella persona del Presidente e, semmai, dei soggetti finanziatori esterni [30]).

Queste istituzioni, salve ovviamente restando diverse eccezioni, non soffrono infatti a nostro avviso propriamente di isolamento culturale, ma semmai di un isolamento istituzionale, avendo nel tempo perduto o visto affievolire quel rapporto con le istituzioni locali, pubbliche e private, che ne aveva decretato il successo sin dall'antichità. Con altre parole faticano, in quanto istituzioni, ad esternalizzare il livello culturale di cui dispongono (quanto meno) nella stessa misura cui ciò riesce, singolarmente, a una certa parte dei loro docenti, e in generale alle Università.

E chiaro che non sarà la parola scritta di qualche norma a risolvere tali possibili difficoltà, ma l'averla addirittura preclusa - forzando l'adozione di Statuti privi contenuto - segnala direzioni che non sembrano veramente contrastare l'accennata autoreferenzialità, smussando i confini di un recinto dove evidentemente si pensa di potere ancora giocare solo in due.

 

3.2. Segue: il forte presidio ministeriale nel loro controllo, e probabili conseguenze

Come se non bastasse - posto che il d.p.r. n. 132 manca di dettare le forme del procedimento di "approvazione" degli Statuti, salvo disporre che essa venga decretata dal ministero dell'Istruzione "di concerto" con quello dell'Economia e con il Dipartimento della Funzione pubblica (art. 14, comma 3) - è stato per così dire messo a punto un sistema che li vede controllati, in sequenza, da tre Commissioni distinte in dedicata rappresentanza di quelle tre autorità: i testi statutari sono quindi dapprima esaminati dal Miur e quindi, corredati di una sorta di proposta di annullamento dei profili ritenuti illegittimi e o dell'integrazione di quelli carenti o comunque da modificare, spediti prima all'una e poi all'altra di quelle due altre strutture per poi rientrare, anche fisicamente, nelle stanze del Miur ove, salvo conciliare eventuali contrasti interpretativi interni non è noto secondo quale logica e metodo, venire direttamente approvati ovvero, più facilmente, essere ritornati alle istituzioni di provenienza affinché (non sappiamo definirlo altrimenti) prendano atto delle suddette proposte di annullamento e o correzione con formale deliberazione, per essere infine rispediti a Roma, ottenere l'approvazione e così divenire esecutivi. Trattandosi di un procedimento fondato su di una determinata prassi o concezione del conseguimento del "concerto" interministeriale (per quanto ci è noto, subita dal Miur), non è dato sapere se verrà applicato anche per le eventuali modifiche statutarie. Di certo, il primo effetto noto consiste nei tempi lunghi del suo espletamento: gli Statuti (una novantina) sono giunti al Miur negli stessi giorni (dello scorso settembre), e se i primi sono già stati approvati gli ultimi lo saranno dopo circa un anno dalla loro deliberazione.

Non è previsto, senza con ciò voler dire che non è ammesso, un momento di confronto formale, secondo lo schema dei controlli statutari nel campo delle autonomie locali, anteriore la riforma, della richiesta di chiarimenti ed elementi integrativi di giudizio, onde determinare un processo dialettico finalizzato a chiarire, con più trasparenza, i rispettivi orientamenti interpretativi e possibilmente esternalizzarne il risultato; né infine viene disciplinata la forma di pubblicazione degli Statuti. In breve, malgrado le ricordate analogie legali con l'autonomia universitaria, le procedure della loro approvazione sono qui sensibilmente diverse e sulla loro determinazione pesa senz'altro, a misura del corrente ristagno economico del Paese, l'influenza del coinvolgimento del ministero dell'Economia (non previsto nella legge n. 508).

Una valutazione complessiva di questi elementi (il corto raggio dell'autonomia statutaria e pur tuttavia il penetrante controllo ministeriale) spinge a dire che gli orientamenti assunti dal centro dopo l'emanazione del d.p.r. n. 132 siano mutati; che esso abbia cioè iniziato ad interpretare le lacune di questi testi normativi quali fonti abilitanti l'espansione del suo potere regolativo in termini assai più ampi di quelli precedentemente ritenuti.

In ogni caso, da tale assetto deriva che gli Statuti sono attualmente carenti della disciplina di una buona parte dei contenuti che dovrebbero naturalmente e legalmente enucleare [31] e che nel futuro, a misura dell'entrata in vigore dei regolamenti di delegificazione recanti la disciplina generale di quei contenuti si determinerà una situazione che implicherà (da parte delle istituzioni) la conseguenza vuoi di riavviare di continuo la suddetta procedura statutaria ovvero, probabilmente, di recepirla con atto regolamentare; con ciò, in ogni caso, subendo effetti negativi posto che nel primo caso - come insegna soprattutto l'esperienza degli enti locali - si tende inevitabilmente a svilire l'architettura della fonte statutaria sottoesponendo la sottostante discussione volta ad implementarla (malgrado i procedimenti di approvazione di taluni fra i regolamenti interni chiamino poi in causa la partecipazione dei medesimi collegi competenti all'approvazione degli Statuti [32]); e nel secondo si rischia di generare defatiganti conflitti interpretativi tra fonti situate a diverso livello gerarchico, contestando la violazione della suddetta riserva statutaria. In entrambi i casi, anche se non lo crediamo frutto di un preciso disegno, non è azzardato prevedere che ciò produrrà l'ulteriore e centrale effetto di mantenere in piedi un apparato ministeriale la cui autorevolezza non potrà che venire ritenuta in molti casi ancora indispensabile.

In attesa di quei regolamenti, ormai divenuti enti autonomi (o comunque considerati tali) le istituzioni hanno infatti iniziato ad inseguirsi l'un l'altra nel mercato della formazione, promuovendo e talora già tenendo le nuove tipologie di corsi di studio, di cui vanno però stabiliti i criteri di accesso, le tasse di iscrizione, i crediti che rilasciano, il valore o natura dei corrispondenti titoli di uscita ecc., originando le proteste universitarie.

Non essendovi corrispondenza fra la riforma formale (sinora tracciata) e la autonoma capacità di gestire quelle iniziative, si corre dunque il rischio che la loro organizzazione alimenti la poco ordinata richiesta di soccorso del centro in una molteplicità di ipotesi rispetto alle quali esso probabilmente: a) non possiede le competenze tecnico-culturali per risolverle senza generare pericolosi precedenti ai fini della configurazione normativa del sistema; b) possedendo invece quelle giuridiche, continui ad esercitare delle funzioni amministrative (attribuitegli dal t.u. del 1994 cit. ovvero, come già si nota, proceda con soluzioni provvisorie, sperimentali e comunque speciali in nome di ritenute incompatibilità fra i due sistemi legali del 1994 e del 1999), e dunque a rivestire delle responsabilità che si pretendono senza equivoci in capo delle istituzioni.

E così è infatti già in parte avvenuto con riguardo ai diplomi di primo livello, la cui originaria configurazione è stata nel tempo corretta in corsa, anche sulla base di "valutazioni formulate dagli esperti sui predetti corsi" (chi sono e di quale legittimazione formale dispongono?), tramite "note" ministeriali volte ad integrare la tipologia delle discipline da svolgere obbligatoriamente [33].

In conclusione, la forma dell'autonomia delle istituzioni è costruita in termini giuridicamente troppo deboli per non lasciar temere che il centro possa finire di continuare nel tempo, più o meno direttamente e scientemente, per occuparsi di gestione delle funzioni amministrative di loro interesse e competenza, malgrado il senso indiscutibile della riforma, avvalorato dall'esplicito rinvio all'art. 33 Cost., fosse evidentemente quello opposto. Se queste sono le premesse, può comunque dubitarsi che esse riescano a configurare un "ordinamento" loro proprio.

Ma non solo, perché quella debolezza determina un'accezione di autonomia più ristretta di quella universitaria, e quindi sfalsa - in attesa del completamento del sistema - le condizioni di parità entro le quali esse (le presenti istituzioni e le Università) dovranno agire nei termini, complementari o competitivi ancora non sappiamo, ma comunque discendenti dal loro Statuto.

 

4. Qualche osservazione sul merito delle scelte svolte dal d.p.r. n. 132

Venendo infine al contenuto delle scelte introdotte da questo primo regolamento di attuazione, i suesposti timori trovano un riscontro di fondo nell'osservare che suo tramite si finisce, come detto, per disporre una regolazione dell'assetto organico troppo minuziosa, e quindi latamente incompatibile ai limiti che la legge n. 508 gli riservava, a questo punto diremmo anche in forza dell'art. 33 Cost. E' questo un tema delicato, di difficile decifrazione e nei fatti probabilmente irrilevante (in quanto scarsamente percepito se non invero cercato), che peraltro sembra meritare un accenno in quanto prelude ulteriori radicalizzazioni nei prossimi e più tecnici regolamenti di delegificazione: quella legge se da un lato afferma, quale soluzione di principio, che le presenti istituzioni rientrano fra quelle cui l'art. 33 Cost. "riconosce il diritto di darsi ordinamenti autonomi" (art. 2, comma 1), dall'altro manca però di ammettere l'espansione della potestà regolamentare del normatore delegato proprio sul punto del loro assetto organico. In altri termini, la legge n. 508 non offre al Governo alcuna indicazione, anche solo di principio e criterio direttivo, sulla direzione che avrebbe dovuto assumere la sua riforma circa questo argomento.

Con questo, sia chiaro, non si arriva a dire che ogni istituzione avrebbe dovuto, nell'ambito della propria autonomia statutaria, ritenersi libera di articolare quell'assetto a proprio piacimento, ma che fra tale ipotesi e la sua così puntuale definizione dall'alto corre uno spazio troppo ampio [34].

Ebbene, il d.p.r. n. 132 prevede all'art. 4, quali "organi necessari", il Presidente, il Direttore, il Consiglio di amministrazione, il Consiglio accademico, il Collegio dei revisori, il Nucleo di valutazione, il Collegio dei professori e la Consulta degli studenti nonché, sia pure al di fuori di quell'elenco, all'art. 13, il Direttore amministrativo. E di ognuno di essi o puntualmente fissa già le specifiche caratteristiche (composizione, modalità di nomina o elezione, durata in carica ecc.) e competenze o viceversa le rinvia in toto a futura regolazione (governativa). Alle opzioni statutarie non rimane quindi molto più che definire l'oggetto delle "funzioni di supporto alle attività del Consiglio accademico" da attribuire al Collegio dei professori e la capacità di configurare eventuali altri organismi interni (dotati di compiti evidentemente non interferenti quelli riservati agli organi necessari).

Ne deriva un assetto che, accanto alla ripresa di istituti già da tempo conosciuti nell'esperienza delle presenti istituzioni (il Presidente, il Direttore, il Consiglio di amministrazione, il Collegio dei Professori e, in buona sostanza, la Consulta degli studenti) o comunque divenuti da tempo obbligatori nell'organizzazione degli enti pubblici anche non economici (il Nucleo di valutazione), da un lato aggiunge il Collegio dei revisori e dall'altro risolve in termini innovativi il momento, centrale, dei rapporti fra le competenze del Presidente e del Direttore, così derivatamente influendo altresì sulla composizione e forza del Consiglio di amministrazione.

Senza potere entrare nello specifico dettaglio dei ruoli assegnati a ciascuna di quelle due figure, può osservarsi che quella innovazione risiede nell'avere previsto che la rappresentanza legale, connessa all'acquisizione della personalità giuridica con l'approvazione dello Statuto, risulta distribuita fra il Presidente e il Direttore secondo il seguente criterio di competenza: è riservata a quest'ultimo "in ordine alle collaborazioni e alle attività per conto terzi che riguardano la didattica, la ricerca, le sperimentazioni e la produzione" (art. 6, comma 1), residuando al Presidente in tutti gli altri casi (art. 5, comma 1).

Ricordando, come peraltro noto, che il Direttore è solitamente espressione del corpo accademico ed è comunque un docente, mentre il Presidente rimane (come già prevedeva il vecchio ordinamento ed è stato accesamente contestato dal Cnam) un soggetto esterno nominato dal ministro (ora peraltro "sulla base di una designazione effettuata dal Consiglio accademico entro una terna di soggetti di alta qualificazione manageriale e professionale proposta dalla stesso ministro"), emerge configurata una struttura di vertice bicefala la cui razionalizzazione implica, con evidenza, il conseguimento di strategie fondate su di un solido, reciproco affiatamento.

Malgrado gli strumenti della finanza per budget (qui sinora completamente sconosciuti e la cui disciplina, come accennato, è tuttora rimessa a un prossimo regolamento ministeriale) consentano di ripartirne gli effetti esecutivi entro schemi relativamente saldi, non va comunque dimenticato che a monte spetta naturalmente al Consiglio di amministrazione approvare "il bilancio di previsione, le relative variazioni e il rendiconto consuntivo", nonché stabilire "gli obiettivi e i programmi della gestione amministrativa e promuove(re) le iniziative volte a potenziare le dotazioni finanziarie dell'istituzione" (art. 7).

Questa soluzione, speciale nella configurazione organica degli enti pubblici [35], svela senza incertezze la reciproca diffidenza che ha animato i lavori del Cnam nella redazione del decreto. E spiega le ragioni di quella regolazione troppo concentrata sulla disciplina degli organi e quindi inevitabilmente troppo minuziosa che, oltre a finire di trascurare altri profili non meno rilevanti, caratterizza quel testo producendo l'effetto di comprimere l'autonomia statutaria.

Fermo ciò restando, a questo punto peraltro non condividiamo le critiche mosse dal Cnam a tale soluzione (ovverosia alla nomina del Presidente da parte del ministro): la sintesi di quella tensione - o compromesso - ci sembra infatti felice nella misura in cui coglie il risultato di pretendere la ricerca di un equilibrio fra i modelli antagonisti dell'ente sì autonomo e c.d. funzionale [36], ma di tipo ausiliario ovvero strumentale [37] al conseguimento di fini divenuti di interesse nazionale senza con questo mancare di rimanere presidiati dallo Stato; un equilibrio che, non di meno, svolge effetti fra le prospettive di caratterizzarne l'azione in una direzione gestionale di tipo amministrativo (mantenendolo ente di spesa) ovvero aziendale (trasformandolo in ente di produzione) tenendo conto in concreto delle condizioni storiche attualmente disponibili, ossia la debolezza organizzativa e finanziaria di queste istituzioni e le scarse risorse centrali per risolverla.

Si configura dunque un assetto di vertice innovativo nel contesto delle autonomie repubblicane, la cui efficacia rimane affidata al risultato concreto di quegli equilibri: la distinzione dell'ambito di responsabilità di ciascuno di quei due attori non è infatti sufficientemente netta da ammettere direzioni reciprocamente non condivise e dunque adeguatamente coordinate. Non coglierebbe del resto la complessità di queste realtà una lettura che riservasse al Presidente il compito della proiezione esterna ("catturare" risorse finanziarie e reali terze, garantire una programmazione delle attività e degli investimenti equilibrata ecc., divenendo, in sintesi, il garante di più ampi rapporti fra l'ente e la società) e al Direttore quello della proiezione funzionale interna (rappresentando e dirigendo l'impatto di quelle relazioni con e attraverso il Collegio dei professori): per far questo hanno bisogno l'uno dell'altro.

A queste condizioni, ci sembra senza dovere scomodare la Consulta, possono coesistere entrambi i volti di queste istituzioni: quello che vede e difende la propria storia (essenzialmente associativa) nel timore di omologazioni riduttive il loro compito di fare e trasmettere cultura, partecipando del suo sviluppo ex art. 9 Cost.; e quello che vede in ciò il rischio di un'autoreferenzialità capace di stabilizzarne l'obiettivo isolamento che, nel loro complesso, tuttora le segna mettendo così derivatamente a rischio la qualità della offerta formativa.

Questa tipologia di organizzazione - non ci sembra infatti possibile definirla un modello risultando tuttora carente, come si è molto insistito, della disciplina di ampi profili diretti a meglio specificarla - può dunque dirsi costituire l'archetipo (apparentemente) riuscito di due istanze metodologicamente irresolubili rispetto alla comune prospettiva di riformare il versante locale di un sistema che rimane in larga parte a finanza derivata, ovverosia quella di giocarla tutta internamente (sulla forza di un'autonomia gestionale sinora sconosciuta [38]) e viceversa tutta esternamente (attribuendo la direzione di quella autonomia a dei vertici di nomina e fiducia ministeriale).

Se le diverse responsabilità della periferia sono regolate mediante un assetto che le vuole condivise, occorre peraltro che quelle del centro, a partire da tali nomine, siano colte con coerenza, costruendo un quadro disciplinare che si trattenga dal tentativo di rompere quel dinamico equilibrio tramite regolazioni del pari visibilmente soffocanti (e cioè non per "criteri generali", come per lo più chiede la legge n. 508 circa i restanti regolamenti) ovvero nascoste, come accaduto in altri settori, in documenti di "programmazione" che tali in realtà non sono.

Il campo di applicazione del nuovo sistema è del resto troppo ampio e articolato per consentire seriamente che l'efficacia della sua autonomia possa venire colta, in un quadro mantenuto ampiamente deregolamentato, tramite relazioni fiduciarie.

Entrambe quelle due ipotesi di governo del sistema - di cui peraltro si è tratto qualche indizio nelle forme che stanno accompagnando l'accennato procedimento di approvazione degli Statuti - ci sembrerebbero in manifesto contrasto con il raggio di un'autonomia risalente direttamente all'art. 33 Cost., che dunque accomuna rispetto alle prerogative ministeriali la posizione di queste istituzioni a quelle universitarie.

La più certa definizione normativa di quel raggio, come noto tuttora avvolta da "una fitta nebbia" [39], è rinviata - più o meno direttamente - agli esiti attuativi la legge c.d. La Loggia (l. 5 giugno 2003, n. 131) e dunque, in specifico, alla collocazione del trainante sistema universitario dentro o fuori i confini della rinnovata forma di Stato tracciata dalla legge cost. n. 3 del 2001. Ovverosia, meglio sia pure in estrema sintesi, alla positiva latitudine che sarà assegnata al termine di "istruzione" (di cui all'art. 117, commi 2 e 3) in rapporto all'art. 33, ult. comma, Cost., e quindi al significato attribuito alla locuzione di "ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato" che quella norma prescrive con tratto evidente e pur tuttavia spesso violato (la resa formale della protezione di quella autonomia è infatti qui assai netta se confrontata con le diverse altre, analoghe configurazioni costituzionali di autonomia, in quanto notoriamente non affianca la riserva di legge su quei "limiti" ai "corridoi" di formule che li vedono abbinati a "norme", modi", "principi" ecc.).

Ciò non di meno, rimane vero che è ancora presto per dire se sarà l'art. 33 ad orientare l'art. 117 Cost. o viceversa (non essendo qui possibile, come noto, invocare il rispetto di un principio di gerarchia), definendo il nesso preciso fra l'organizzazione e i vari diritti in gioco.

Senza entrare sulle complesse dinamiche che riguardano lo sviluppo di tale vicenda, ci sembra di poter dire che jure condito (salva cioè restando la legge n. 508) difficilmente tanto la collocazione istituzionale quanto l'autonomia delle presenti istituzioni verranno messe in radicale discussione [40]: la circostanza che ad esse quella legge attribuisca anche funzioni di "ricerca" non dovrebbe cioè determinare significativi riflessi con riguardo all'espansione della competenza regionale nella materia della "ricerca scientifica e tecnologica", rimanendo per il resto ferma sul fronte del diritto alla studio la loro potestà in termini analogamente concorrenti. Relativamente all'autonomia (amministrativa), tale previsione non possiede invece una portata molto significativa per la ragione, come detto, che la legge n. 508 la definisce solo embrionalmente, rinviandone l'effettiva configurazione "a uno o più regolamenti" di delegificazione.

L'abbinamento alla configurazione istituzionale delle Università, che peraltro deve andare guadagnato sul campo essendo ancorato a un presupposto costituzionale più che dubbio (l'art. 33 Cost.), dovrebbe pertanto costituire uno schermo sufficientemente ampio per salvaguardare la loro autonomia, sempre che ciò poi risponda ovunque alle loro aspettative e capacità.

In breve, posta la natura comunque relativa della riserva di legge ex art. 33, ult. comma, Cost., può pensarsi affermato un assetto che vede da un lato la conferma del potere normativo governativo (entro spazi difesi dai suddetti "limiti") e dall'altro, quindi, anche la conferma dell'incapacità del Miur di trattenere presso di sé l'attribuzione di funzioni amministrative diverse da quelle riconducibili, tramiti atti generali, ai poteri di programmazione, indirizzo e coordinamento come delimitati all'art. 2, comma 2, legge n. 508. Ma si tratta di una difesa notoriamente incerta: se il rinvio all'art. 33 cit. costituisce il punto di forza rispetto alla rimodulazione in senso orizzontale dell'ordinamento (tiene cioè lontane Regioni ed enti locali), esso rimane debole nei rapporti verticali (con lo Stato) laddove la regolazione legale del sistema risulti poi affidata, come esegue la legge n. 508, tramite regolamenti di delegificazione e il rinvio, a cascata, ad una serie di decreti ministeriali entro un quadro lasciato pressoché in bianco (solo lo schema di regolamento sull'ordinamento didattico cit. ne prevede adottati una quindicina).

Mancando regimi transitori, la situazione corrente finisce dunque per risultare particolarmente delicata posto che, a differenza delle altre autonomie funzionali, quella delle presenti istituzioni è tuttora poco più che abbozzata, e dunque chiede di destreggiarsi fra le (tante) norme del t.u. del 1994 cit. rimaste in vigore e quelle rese dal combinato disposto offerto dalla legge n. 508, dal d.p.r. n. 132 e infine dagli Statuti in un quadro di compatibilità coerente al loro nuovo ruolo istituzionale. E' del resto inaccettabile che occorrano quattro anni per emanare un regolamento recante 17 articoli in costanza di condizioni di sistema che, come si è detto, non sembrano o comunque non mettono visibilmente in discussione la fonte che li autorizza (la legge n. 508).

 

5. Conclusioni

Come si è cercato di evidenziare, ricavando da taluni elementi le linee di un quadro appena abbozzato, la riforma ha sì preso avvio, ma rimane ancora lontana dall'avere tracciato le forme del sistema in cui dovrà risolversi. Eppure, tanto gli Statuti sono in via di approvazione quanto i nuovi corsi di diploma e specializzazione sono già stati avviati.

Questa incerta situazione può dare spiegazione del fatto che, a differenza di altri fronti (quello della Scuola fra tutti, ma si pensa anche a quelli dell'Università e dei beni e delle attività culturali), tale avvio non abbia suscitato, diremmo quasi anormalmente, alcun clamore se non in una circoscritta cerchia di addetti ai lavori.

Forse si attende di vedere cosa riserveranno le prossime tappe o forse invece questa prima non abbisognava di alcuna sordina per la ragione che la sua intensità è stata concepita per produrre poco rumore: ed in effetti non disturba ancora nessuno.

Questo risultato non è solitamente auspice delle soddisfazioni attese: se si confrontasse senza pregiudizio la resa del vecchio ordinamento con quello sinora emerso, non si crede d'altra parte che dal punto di visto dell'autonomia decisionale sarebbe possibile cogliere significative differenze. La qualificazione della natura giuridica di queste istituzioni è salita all'ultimo piano, ma senza con questo riuscire completamente ad optare fra la difesa del proprio modello culturale ovvero l'importazione di quello universitario.

Se si è detto che ciò trova causa in molti fattori (primo fra tutti, il debole impianto reso dalla legge n. 508), rimane peraltro la sensazione che si sia perso il tempo utile per orientare il consolidamento normativo di quella scelta mediante soluzioni innovative, mediane fra quei due opposti. E non solo perché ostacolate dal potente fronte universitario, ma soprattutto perché il centro già conosce e quindi può facilmente finire per tendere ad applicare il modello didattico universitario, ottenendo l'effetto dal suo punto di vista razionalizzante di governare con gli stessi schemi entrambi i poli del sistema di alta cultura.

Ci sembra cioè, come abbiamo cercato di sostenere, che la concentrazione sul profilo della difesa dell'autonomia a prescindere dalla contestuale definizione giuridica dell'ordinamento didattico abbia viziato, al di là della sua limitata portata sostanziale, l'impostazione di un percorso più ampio, di cui essa costituisce la rappresentazione finale.

A questa situazione si aggiunge la corsa in avanti - per la verità coltivata da entrambi quei poli - nell'indizione di nuovi corsi di diploma che, in carenza dell'appoggio rimesso a quell'ordinamento, hanno finito per radicalizzare i termini del confronto con le Università entro binari (anche) concettuali di ardua composizione da parte del ministero.

La parzialità di quell'approccio unita a quelle sparse iniziative lasciano così trasparire all'orizzonte il timore di soluzioni formali più rigide e conformanti di quanto non poteva attendersi pensando alla legge n. 508. Il ché significa imporre la qui forse troppo pesante e spesso inutilmente articolata organizzazione didattica universitaria nelle cinque ramificazioni che conosce, senza avere però analogamente equiparato lo status giuridico dei docenti. Ovvero, in sostanza, di impiantare un sistema di tipo competitivo in quella crescente area materiale che da qualche tempo vede convergere quei poli [41].

Ritenendo che alle presenti istituzioni non manchino gli strumenti culturali per agire in quel sistema, rimangono allora due interrogativi di fondo: il primo riguardante l'esigenza che esse, meglio di quanto dispone il d.p.r. n. 132, possano poi godere della medesima autonomia riconosciuta alle Università e dell'accesso ai fondi (anche di ricerca) occorrenti a valorizzarla; e il secondo concernente il timore che, nell'inseguire il mercato esposto da quella competizione, esse possano finire per trascurare l'impostazione della loro cultura nei settori formativi a loro tradizionali, prettamente artistici. Che i costi di una riorganizzazione uniformemente strutturata quale quella universitaria possono cioè risultare troppo alti per coltivare con successo entrambi i fronti.

Nell'attesa di capire se sarà poi effettivamente questa la direzione intrapresa, occorre in ogni caso che le distanze fra i due sistemi non si amplino per fattori indipendenti dalla loro volontà. Che esse vengano cioè speditamente fornite della disponibilità degli strumenti operativi necessari per avviare la propria riorganizzazione e quindi presentarsi - se così sarà - a quella competizione meglio attrezzati; pensiamo, evidentemente, ai suindicati limiti disciplinari nella configurazione della loro organizzazione amministrativa, finanziaria e contabile, che certo non manca di produrre effetti sulla loro capacità di stare nel mercato dell'offerta formativa in causa.

Essendo divenute enti autonomi sono del resto troppo numerose e rilevanti le implicazioni connesse al protrarne simile "bloccato" funzionamento - slegato dai più complessivi caratteri dell'ordinamento - per ammettere che sia solo Miur a detenere la sua disponibilità.

 



Note

[1] Sulle cui linee generali, previa attenta analisi del dibattito e degli anteriori progetti di riforma poi abbandonati, v. G.P. Storchi, Il difficile riordino degli studi artistici, e L'avvio della riforma degli studi artistici e musicali: alcune note a margine, in questa Rivista, ai nn. 1 del 1999 e 1 del 2000, nonché, con sguardo mirato alla concentrica questione riguardante la riforma dei Conservatori, M. Ruggieri, La riforma dei Conservatori: per grazia ricevuta?, in Ec. cultura, 2001, n. 2, 235 ss., e, con approccio più propriamente giuridico, E. Picozza, Perché non decolla la riforma dei Conservatori?, in Giorn. dir. amm., 2002, n. 4, 445 ss. Rispetto a quelle letture occorre peraltro tenere conto che la legge n. 508 è stata nel frattempo modificata, all'art. 4 (ora recante "Valenza dei titoli rilasciati dalle Accademie e dai Conservatori) dal d.l. 25 settembre 2002, n. 212 convertito con modificazioni dalla legge 22 novembre 2002, n. 268 del 2002 al fine "di determinare il valore e consentire l'immediato impiego dei titoli rilasciati ... (dalle presenti istituzioni) secondo l'ordinamento previgente". Sull'assetto emergente dalla legge così, può dirsi forzosamente (tramite un d.l.) modificata, con taluni accenni al d.p.r. n. 132 in commento, v. soprattutto gli interventi di L. Ruggiu, F. De Filippi, R. Barilli, F. Della Seta, E. Crispolti e G.B. Civello agli atti della Giornata di studio su Alta formazione artistica e musicale e Università. Problemi e prospettive, tenuta a Roma il 2 luglio 2003.

[2] Nonché, in quanto formalmente esterne al sistema dell'alta formazione (rimanendo sotto-ordinate al ministero per i Beni e le Attività culturali) l'Opificio delle pietre dure, l'Istituto centrale di restauro, l'Istituto per la patologia del libro e la Scuola superiore di Cinematografia.

[3] Salvo, per quanto noto, con riguardo al mancato congiungimento degli Assistenti al ruolo dei Professori circa il riconoscimento della funzione docente, sfociata in taluni ricorsi collettivi al Tar del Lazio, tuttora pendenti.

[4] Da L. Mazzarolli, L'autonomia delle Università e delle Accademie nella Costituzione italiana, in Dir. soc., 1981, 2, 267 ss. (nonché in Studi Amorth, 1982, I, 375 ss.), sulla cui lettura poi concorderanno, fra i non molti Autori che hanno trattato questo argomento, G.F. Ferrari, Accademia (voce), in Dig. disc. pubbl., vol. 1, 1987, 9 ss., e M. Stipo, Accademie e Istituti di alta cultura (voce), in Enc. giur. it., vol. I, 1988 (ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici). Va peraltro ricordato, come segnalano G.P. Storchi e soprattutto M. Ruggieri nella ricostruzione del dibattito anteriore l'emanazione della legge n. 508, che l'ancoraggio all'art. 33 Cost. compariva già negli anteriori progetti e disegni di legge, anche governativi, presentati successivamente al 1993.

[5] Come subito avverte, analizzando la legge n. 508, G.P. Storchi, L'avvio della riforma..., cit., 2.

[6] Si veda, da ultimo, in "appello per il riconoscimento culturale, scientifico e professionale del valore dei titoli di studio universitari nell'ambito delle discipline musicali ...", il documento licenziato dal Cun nella recente Sessione del 17 e 18 dicembre 2003, ove si denuncia l'assenza di "meccanismi regolativi condivisi, che esclud[a]no forme scorrette di concorrenza".

[7] Nel lato delle Accademie rispettivamente tramite il d.m. 28 ottobre 2003, n. 39 e quindi il d.m. 8 ottobre 2003, n. 627, e in quello dei Conservatori e degli Istituti musicali pareggiati tramite il d.m. 8 gennaio 2004, n. 1.

[8] Non va infatti dimenticato, fra le altre implicazioni connesse all'acquisizione della personalità giuridica, che diverse di queste istituzioni possiedono un patrimonio museale e bibliografico di pregio e hanno sede in edifici sovente vincolati, la qual cosa da un lato concorre a sorreggerne il prestigio, ma dall'altro ne ostacola la disponibilità ai fini del reperimento delle risorse finanziarie e reali occorrenti alla gestione del loro nuovo ruolo. Sul punto, si noti peraltro che nella configurazione delle tipologie di autonomia eseguita dalla legge n. 508 all'art. 2, comma 4, non si fa cenno a quella "patrimoniale". Anche tenuto conto dello spirito di quella legge, rimangono dei dubbi sul fatto ciò corrisponda o meno a una precisa scelta (da un lato stridente nella configurazione di un ente autonomo nei presenti, ampi termini e dall'altro consapevole della loro debolezza finanziaria): ne sovviene che ora proprio su quell'elemento stanno sorgendo le ragioni di contrasti - come molti altri addebitabili alla laconicità della legge n. 508 - non solo sulla titolarità del soggetto cui spetta l'onere di provvedere alla manutenzione del patrimonio immobiliare, ma più complessivamente sulla sua disponibilità tanto rispetto a nuove acquisizioni quanto all'alienazione di quello esistente.

[9] La legge n. 508 e il d.p.r. n. 132. Cfr., oltre a M. Ruggieri, op. cit., 240, nel parallelo versante della riforma della scuola, P. Ferratini, La riforma Berlinguer-Moratti, ne Il Mulino, 2002, n. 2, 259 ss.

[10] Tramite il Consiglio nazionale per l'alta formazione artistica e musicale (Cnam), tre quarti dei cui componenti si dispone a regime vengano eletti in rappresentanza del personale docente, tecnico e amministrativo, nonché degli studenti, delle istituzioni, restando il residuo quarto composto da rappresentanti del Miur e del Cun, cui la legge n. 508 assegna il compito di esprimere pareri e formulare proposte sugli schemi dei regolamenti diretti ad attuarla. Tali proporzioni non sono state alterate in sede di prima applicazione: al testo del d.p.r. n. 132 hanno lavorato 13 membri del primo gruppo e 4 del secondo.

[11] Sull'andamento delle prime fasi del sottostante dibattito - non per questo in itinere carente di scontri accesi al proprio interno che un'analisi più completa, ma al tempo stesso incompatibile alla dimensione delle presenti note, meriterebbe di vedere colti, differenziando le posizioni via via sostenute dalle sue (del Cnam) componenti e fra di esse dai suoi singoli esponenti - v. M. Ruggieri, op. cit., 243 e E. Picozza, op. cit., 448. Se può dirsi, rispetto al testo poi adottato e qui in commento, che le rappresentanze delle istituzioni sedute nel Cnam lo hanno complessivamente condiviso, salvo vivacemente contestare l'art. 5 sulla potestà ministeriale di nominare i loro Presidenti, rimane peraltro vero che su altri, forse maggiori fronti tale condivisione non è stata invero raggiunta, contribuendo a determinare la situazione che qui si critica. Di questi dibattiti, anche per distinguere le suddette posizioni entro quei distintivi profili cui non è qui possibile dare giustizia, v. l'apposito sito del Cnam.

[12] Cfr. M. Ruggieri, op. cit., passim.

[13] Ratificata, sia pure "al fine esclusivo dell'ammissione ai pubblici concorsi per l'accesso alle qualifiche funzionali del pubblico impiego per le quali ne è prescritto il possesso", dalla previsione di rilasciare titoli di studio equipollenti a quelli universitari (art. 1, comma 5, legge n. 508), e quindi provvisoriamente colta in termini estensivi, modificando quella legge con la legge n. 286 cit., disponendo la generalizzata equiparazione dei diplomi rilasciati dalle istituzioni alle lauree di primo livello previste dal d.m. n. 509 del 1999, salvo il possesso del diploma di istruzione di secondo grado (sia ai fini dell'accesso ai pubblici concorsi cit. che alle lauree specialistiche). A questa impostazione seguono quattro d.d.l. volti a modificare la legge n. 508 nella direzione di assegnare ai docenti delle presenti istituzioni lo status giuridico ed economico del personale docente universitario.

[14] La qual cosa, con ricchezza di argomentazioni (ma prima dell'emanazione del d.p.r. n. 132 in commento), anima l'autorevole timore di E. Picozza, op. cit., 445, di ritenere che "la riforma nasce già morta". La mancata riforma di questo settore ha peraltro la giustificazione di presupporre la riforma dell'istruzione secondaria, nel frattempo notoriamente reimpostata, rispetto alla coeva legge n. 30 del 2000, dalla legge n. 53 del 2003.

[15] Intorno al quale possono vedersi, dal lato dell'osservazione giuridica, da ultimi, A. Sandulli, Il Sistema nazionale di istruzione, Bologna, 2003, pp. 41-67, e più in sintesi M. Gigante, Istruzione (voce), in Trattato dir. amm., a cura di S. Cassese, II ed., Tomo I, Dir. amm. speciale, 2003, 779 ss.

[16] Così E. Picozza, op. cit., 448. V. peraltro infra, par. n. 3.1.

[17] Ci si riferisce - guardando al testo della bozza di regolamento recante "gli ordinamenti didattici, i requisiti di idoneità dei docenti e delle sedi, la programmazione e lo sviluppo del sistema ...", trasmessa dal ministro al Cnam in sede consultiva il 17 gennaio 2003 - alla tipologia dei nuovi titoli e corsi di studio, analoghi se non nel nomen (diplomi accademici e non di laurea) a quelli universitari: e dunque concepiti secondo un percorso crescente che vede diplomi di primo e secondo livello, di specializzazione, di formazione alla ricerca (presumibilmente corrispondente al dottorato) e infine di perfezionamento.

[18] Che chiaramente costituisce l'oggetto del contendere con le Università, e in specifico con le Facoltà di lettere e i Dipartimenti di Arte, Musica e Spettacolo (Dams).

[19] Di cui al d.p.r. 11 agosto 2003, n. 319.

[20] Del presente sistema si occupano due Dipartimenti, quello "per la programmazione ministeriale e per la gestione del bilancio, delle risorse umane e dell'informazione" e quello "per l'università, l'alta formazione artistica, musicale e coreutica e per la ricerca" (fra le cui Direzioni generali sta anche quella "per l'alta formazione artistica, musicale e coreutica"). La cesura con gli affari degli Uffici competenti nella materia dell'istruzione è cioè netta.

[21] Ci si riferisce alla costituzione al Gruppo di lavoro congiunto Cnam-Cun costituito con il d.m. 19 aprile 2002.

[22] Tale deroga (che, a rigori, non ci sembra peraltro enucleare tutte le fattispecie in causa) è recata all'art. 53, comma 1, ult. parte, d.lg. n. 165 del 2001.

[23] Con il conseguente esonero dall'appartenere a una corporazione ovvero, in seguito, di acquisire una distinzione sociale altrimenti raramente concessa. Ciò quanto meno - secondo R. e M. Wittkower, Nati sotto Saturno (trad. it.), Torino, II ed., 1996, 254 - a partire dall'adozione di un decreto di Cosimo de' Medici del 1571 riguardante i membri dell'Accademia del disegno, come noto fondata pochi anni prima dal Vasari sotto gli auspici di Michelangelo.

[24] E che dunque va tendenzialmente al di là della capacità delle istituzioni di coinvolgere quali docenti esterni nomi di prestigio, a latere, in taluni moduli didattici.

[25] Così, L. Ruggiu, op. cit. A conferma delle discordanti posizioni in campo, v. anche R. Barilli, ivi, che pur partendo dal medesimo presupposto auspica invece la fusione del sistema, e la replica, con il sostegno di dati e argomentazioni non meno brillanti, di F. De Filippi. Ai parametri formali di questa accesa discussione dovrebbe forse aggiungersi che il confronto fra le Università e le presenti istituzioni presuppone concesso anche a queste ultime lo spazio di tempo per una certificazione che, avviandosi un quinquennio dopo le prime, non hanno potuto maturare in termini analoghi a quella tuttora raggiunta dalle Università.

[26] Così M. Ruggieri, op. cit., 241.

[27] Non si comprende dunque, a quei specifici fini, quale efficacia o ruolo sostanziale possa svolgere il Nucleo di valutazione previsto dal d.p.r. n. 132.

[28] Così, correttamente, E. Picozza, op. cit., 449.

[29] Datata 21 luglio 2003, Prot. n. 3246/SEGR/AFAM. Può accennarsi, per quanto rilevante, che la legge n. 508 non estende espressamente al regime delle presenti istituzioni la previsione sull'inapplicabilità di disposizioni emanate con circolare sancita, a difesa dell'autonomia universitaria, dall'art. 6, comma 2, legge n. 168 del 1989.

[30] Che, per avere ingresso nei Consigli di amministrazione delle istituzioni, il recente d.m. 2 dicembre 2003 subordina al versamento, anche mediante il conferimento in uso di beni immobili e o di beni strumentali, di una quota stabilita, nel minimo, "al 7,5 per cento dei costi complessivi della specifica istituzione" (intendendosi tali "quelli rappresentati dalla sommatoria degli importi risultanti dai conti consuntivi dell'e.f. precedente a quello di presentazione della designazione, addizionati dei costi lordi del personale docente e non docente relativi al medesimo e.f., nonché degli oneri di funzionamento supportati da terzi nel medesimo e.f.").

Salvo il fatto, niente affatto marginale, di non chiarire se tale considerevole somma dovrà poi essere o meno versata ogni anno ovvero una tantum nell'arco di un mandato consiliare che il d.p.r. n. 132 prevede avere una durata naturale di tre anni (né dunque chiarire quid accidit nell'ipotesi di un ingresso "in corsa" ecc.), questa impostazione ci sembra troppo rigida per agevolare quanto intende sollecitare, come del resto ha già dimostrato quella, analoga, prevista dalla c.d. legge Veltroni con riguardo (ai più senz'altro "cari", ma altresì forieri di ben altri ritorni) enti lirici trasformati in fondazione.

Più chiaramente, tale impostazione appare inutilmente rigida (e comunque lesiva l'autonomia delle istituzioni) per la ragione che riteniamo possa trovare riscontro, salvo casi eccezionali, da parte di quei soli enti territoriali o, nel centro-nord del Paese, di origine bancaria che già concorrono al finanziamento delle presenti istituzioni (orientandone l'azione, ove sia questo il punto, mediante altri percorsi). Non sapendo se la misura di tale aliquota sia stata fissata in esito ad una sorta di indagine di mercato, essa ci appare dunque esprimere il disegno di lasciar fuori anziché di chiamar dentro nuovi soggetti diversi dai soliti attori della vita pubblica locale. Commettendo a nostro avviso un errore, in quanto non tiene conto che con la progressiva privatizzazione (formale) di numerose istituzioni culturali, per loro natura impegnate in continue e più rinomate rappresentazioni esterne, il disponibile finanziatore non istituzionale troverà in esse non solo più evidenti ritorni di immagine, ma un ruolo soddisfacente entro relazioni assai più flessibili. Va infatti da sé, evidenziando a nostro avviso un ulteriore errore prospettico del lavoro del Cnam nella redazione della bozza del d.p.r. n. 132 (v. art. 7, comma 3), che all'origine non si capisce quale interesse possa mai maturare un soggetto esterno, minimamente consapevole, di fronte alla prospettiva di entrare a far parte di un CdA le cui competenze, salvo taluni profili programmatori, hanno a che fare con l'approvazione di atti aventi contenuto finanziario, per loro natura (queste non sono infatti fondazioni!) tanto di ardua comprensione da parte dell'esperienza privata quanto idonei a lasciare facilmente maturare precise responsabilità collettive e individuali. Ritenendo che quella consapevolezza non possa in realtà mancare, troviamo allora conforto alla suddetta ipotesi, e cioè che questo istituto non guardi al mecenatismo privato bensì alla regolazione della compartecipazione istituzionale degli enti pubblici territoriali nel governo delle istituzioni (che a questo punto, può dirsi logicamente, si "aggancia" all'obiettivo di ottenere contribuzioni molto rilevanti).

Se questo era l'obiettivo, lo strumento ci pare comunque debole: al di là di quelle istituzioni la cui storia proprietaria muove dall'origine, centenaria, grazie al sostegno del Comune e o della Provincia in cui sono situate (che presumibilmente resterà tale in quanto per così dire storicamente incorporato nelle loro funzioni), esso non risolve il caso di tutte quelle altre che sino ad ora hanno ricevuto dei finanziamenti dalla mano provinciale in quanto, nella logica del vecchio ordinamento, rientra nella sua competenza occuparsi di "istruzione secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l'edilizia scolastica" (ora art. 19, comma 1, lett. i), d.lg. n. 267 del 2000). In breve, c'è da dubitarsi che nel nuovo ordinamento tali enti vogliano (o meglio, possano) mantenere quelle contribuzioni in cambio di un posto nel CdA. E lo stesso ci sembra valga anche laddove quel soccorso provinciale venga ora assunto, per così dire Università permettendo, dalle Regioni Rimane allora, e da qui la nostra critica, che tale impostazione finisce per risultare riduttiva, in quanto coglie eventualmente un solo e in tutto il Paese conforme profilo del "mercato", respingendo o comunque non incentivando l'apporto di privati.

[31] In forza dell'accennata riserva statutaria stabilita dal d.p.r. n. 132.

[32] Non essendo questa la sede per darne conto con analisi puntuale, basti accennare che la disciplina recata dal d.p.r. n. 132, fra procedure a regime e procedure di prima applicazione, è sul punto dispersa in un quadro piuttosto confuso, anche nella nomenclatura: cfr. artt. 7, comma 5, lett. a), 8, comma 3, lett. d) e 14. Ci sembra invece di qualche rilievo notare che le procedure per la deliberazione degli Statuti e di taluni regolamenti interni (anche se non è ben chiaro esattamente quali) sono identiche: salvo la disciplina statutaria non abbia previsto, nella prospettiva dei loro eventuali e futuri adeguamenti, il coinvolgimento di ulteriori più ampi momenti consultivi, non sono cioè disposte - quanto meno per l'adozione degli Statuti - maggioranze (non si dice qualificate, ma) nemmeno assolute. Tale risultato, emblematico della reciproca diffidenza fra le Parti che ha animato i lavori del Cnam, risulta - per quanto ci è noto - anomalo nella storia delle autonomie, in quanto prescinde dalla ricerca di un consenso poco più che minimo: non essendo nemmeno richiesto alcun numero legale, gli Statuti potranno dunque venire modificati con due voti favorevoli. La prevalenza gerarchica della fonte statutaria rispetto ai regolamenti interni rimane dunque affidata al solo elemento giuridico-formale disposto, come già detto, dal d.p.r. n. 132 (che pertanto rimane facilmente derogabile dai regolamenti governativi che seguiranno).

[33] V. rispettivamente il d.m. 28 ottobre 2002, n. 39 e la nota del 4 dicembre 2003, cui consta ne sia più recentemente seguita un'altra di analoga portata.

[34] La misura esatta di quello scarto sarà nota nel momento in cui si potranno esaminare gli esiti dei procedimenti di controllo sugli Statuti (malgrado, a seguire la circolare cit., sia poi giunto a tutti "forte e chiaro" il messaggio che il centro avrebbe privilegiato Statuti quanto più possibile snelli se non, in sostanza, eguali l'uno all'altro).

[35] Salvo risultare latamente assimilabile, ma non al fine di regolare rapporti verticali fra centro e periferia, a quella che, nell'organizzazione degli enti locali e soprattutto regionali, sta progressivamente marcando i ruoli dei Sindaci ecc. e Presidenti di Regione ai Presidenti dei rispettivi Consigli.

[36] Così può ritenersi, in analogia alle istituzioni universitarie, ai sensi dell'art. 1, comma 4, lett. d), legge n. 59 del 1997.

[37] In quale di quei due macro-versanti (compendiati da quella risalente sintesi definitoria) non è ancora possibile dire.

[38] Sul modello universitario, cui puntavano le prime bozze introducendo la figura del Rettore ecc.

[39] Così R. Balduzzi, L'autonomia universitaria dopo la riforma del Titolo V della Costituzione; relazione tenuta a Trento, il 14 novembre 2003, nel Convegno "Autonomia dell'istruzione e autonomia regionale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione", in corso di pubblicazione ne Le istituzioni del federalismo. Di cui cfr. specularmente anche A. Poggi, L'autonomia scolastica nel sistema delle autonomie regionali, nonché, AA.VV., Legge "La Loggia", Rimini, 2003 (qui spec. nei contributi di L. Vandelli e di F. Bassanini agli artt. 1, commi 2-6, e 3).

[40] E' di diverso avviso, sia pure a prima lettura e con specifico riguardo agli Istituti superiori di studi musicali, E. Picozza, op. cit., 450-451, reputando che la presente tematica rientri nella "materia delle attività culturali e artistiche ... (costituendo) oggetto di competenza concorrente" fra Stato e Regioni, le cui funzioni saranno quindi, segue quell'A. coerentemente, "affidate ai Comune e agli enti locali sulla base dei principi di adeguatezza, differenziazione e sussidiarietà".

[41] La messa in "concorrenza" dei due sistemi, sia pure una volta che ne siano assicurate "parità di condizioni" ed eliminate le fonti di diseconomiche duplicazioni, non è del resto ipotesi esclusa nemmeno da G.B. Civello (Direttore generale Afam), relazione cit.

 



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