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La riforma del vigente Titolo V Cost: nuove proposte e vecchi problemi

di Marco Cammelli



Nella seduta dell'11 aprile il Consiglio dei Ministri ha approvato uno schema di disegno di legge costituzionale recante nuove modifiche al Titolo V della Costituzione, di cui la Rivista pubblica il testo nella sezione dedicata alla documentazione.

Non è possibile un'analisi neppure sommaria della proposta, né certo lo si potrebbe fare nello spazio (materiale e temporale) inevitabilmente limitato di un editoriale. Le questioni che si pongono, tra l'altro, non riguardano solo il merito ma si collocano su più terreni, diversi anche se connessi.

Il primo ruota intorno al significato attuale di costituzione, e di conseguenza dei relativi processi di mutamento e di revisione, che sembra ormai distante da quanto fino a pochi anni fa era comunemente accettato. Se l'ordinamento del governo locale e le relative relazioni con il centro sono fatti oggetto in meno di tre anni di una revisione organica (legge costituzionale n. 3 del 2001) che ha portato al testo vigente, di una proposta di integrazione riguardante le competenze su alcuni settori (c.d. devolution) già approvata in prima lettura dai due rami del Parlamento e di un d.d.l. governativo di riscrittura dell'intero art. 117, il meno che si può dire è che non vi sono idee chiare o condivise né in tema di forma di Stato né in materia di significato e ruolo della Carta costituzionale.

Il che significa che il sistema è entrato in una fase di seria fibrillazione e che appunto, al di là del merito, è importante uscirne il più rapidamente possibile.

Il secondo piano riguarda invece la sostanza della proposta. Da questo punto di vista, pur non mancando singoli elementi degni di apprezzamento, riguardanti per lo più la correzione rispetto al testo vigente di scelte effettivamente opinabili in termini di riparto di competenze (come in tema di distribuzione di energia, di grandi reti di trasporto o di comunicazione) o di vere e proprie lacune (come i principi in tema di procedimento amministrativo o di autonomie funzionali), per il resto si propone un rovesciamento radicale del sistema delle relazioni centro/autonomie che ridimensiona drasticamente il ruolo e le competenze legislative regionali in termini sconosciuti non solo alle recenti modifiche del 2001, ma allo stesso testo del 1948.

Il punto, infatti, non è solo quello del criterio con cui si sono assegnate le competenze allo Stato o alle Regioni, secondo una logica basata sul principio etico del "a ciascuno il suo", vale a dire, in termini più pedestri, del dualismo istituzionale e legislativo, su cui pure ci sarebbe molto da dire. La verità è invece che quando non c'è competenza esclusiva statale, non solo resta l'attrazione al centro della parte fondante di molti ordinamenti di settore (che si tratti di "ambiti nazionali", di "norme generali" o di "beni di interesse nazionale" poco importa) ma permane comunque la sottoposizione generale e comune a tutte le materie al limite dell'interesse nazionale la cui pervasività, in questi termini, è ampia tanto quanto la sua irriducibile indeterminatezza. Il che, per inciso, finisce per porsi in evidente contraddizione con l'obbiettivo-chiave della proposta, quello cioè di cancellare con la soppressione delle materie di competenza concorrente la conflittualità tra Stato e Regioni, perché certo non minori saranno le controversie che si apriranno, sotto questo profilo, per ognuna delle competenze regionali.

Ma veniamo ai beni culturali, un terreno cioè che da tempo ha sperimentato in concreto l'impraticabilità di astratti dualismi compreso quello, contenuto nel testo vigente ma introdotto già dal decreto n. 112 del 1998, tra tutela e valorizzazione. Impraticabilità assicurata, si badi bene, non dal modello in sé ma dall'omessa definizione della tutela e dei suoi limiti e delle necessarie forme di reciproca cooperazione tra i livelli istituzionali.

Ebbene: resta ed anzi è ampliata l'opzione dualistica, resta l'omissione dei due elementi di cui appena si è detto, con la variante di ripartire le competenze non lungo le linee delle funzioni giuridiche (legislative e amministrative) come in alcune regioni a statuto speciale, o delle funzioni sostanziali, come appunto tutela-valorizzazione, ma ricorrendo ad un criterio misto che mantiene allo Stato l'intera tutela e taglia in due la valorizzazione: allo Stato quella riguardante beni culturali di interesse nazionale e alle regioni, previa definizione statale delle norme generali in materia, la valorizzazione dei restanti beni.

Ci sarà tempo per riflettere su questi aspetti, peraltro anticipati dalla più recente legislazione ordinaria. E' giusto però registrare fin da ora uno squilibrio e una contraddizione sui quali, al di là dell'orientamento e delle sensibilità di ciascuno, sarà bene meditare:

- il primo consiste nel progressivo aumento della distanza tra l'amministrazione dei beni culturali, interamente statalizzata, e le altre politiche pubbliche strettamente connesse, regionali e locali. Se la terzietà (necessaria) delle funzioni di conservazione dei beni culturali si traduce nella programmatica estraneità rispetto al contesto, ne deriva una tensione che non promette nulla di buono né da una parte né dall'altra, perché il sistema prima o poi tenderà a ricreare condizioni di equilibrio, e non è detto che lo faccia in modo virtuoso o graduale;

- la contraddizione è del tutto intrinseca alla opzione appena richiamata, e consiste nel fatto che la concentrazione in capo allo Stato dell'intero settore è possibile e praticabile solo a condizione di operarne profonde disarticolazioni interne, come quella dei poli museali rispetto agli organi territoriali o questa, appena richiamata, tra beni culturali di interesse nazionale e altri beni culturali. Praticando, cioè, distinzioni assai dubbie sul piano culturale e scientifico e che, in ogni caso, disattendono vistosamente sul piano istituzionale proprio quella "necessaria unitarietà" che costituisce da sempre premessa e motivazione della critica al decentramento regionale.

Il segreto del successo della legge n. 1089 del 1939 fu quello di sapere coniugare due culture: quella, innovativa, delle politiche pubbliche in materia e quella dell'adeguato assetto istituzionale. Quanto si è appena detto fa temere che detto binomio, mancato nella scorsa legislatura, non sia recuperato neppure in quella attuale.



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