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Editoriale

di Marco Cammelli



Il mondo dei beni culturali sta vivendo una stagione che non è delle più felici e, come spesso succede in questi casi, ognuno dà la colpa al proprio vicino o ad altri. Il ministro e il governo insistono in una generosa apertura ai privati ma, anche a prescindere dalla bontà degli strumenti messi a punto per questo, è dubbio che possano raccogliere risultati positivi in una fase di semi-recessione nella quale i primi costi tagliati dalle imprese sono proprio quelli legati a queste iniziative. Le regioni e il sistema locale, nell'attesa del pur modesto decentramento promesso dalle leggi Bassanini, navigano a vista con qualche risultato positivo e molta estemporaneità. I vertici tecnici degli apparati ministeriali si trovano tra l'incudine delle prime applicazioni dello spoil system (quota ministeriale del Consiglio dei beni culturali, direzione generale Archivi) e il martello della continua enfatizzazione del privato e delle esternalizzazioni.

Intanto torna indietro, per i rilievi mossi dal Consiglio di Stato, il regolamento ministeriale sulle società miste pubblico-privato e quello sulla gestione privatistica dei beni (art. 33 della legge finanziaria 2002) su cui si era aperta una appassionata, ma inutile (per mancanza di competenza statale) come Aedon aveva subito avvertito, discussione in parlamento e nel Paese. Può dirsi terminata, invece, la messa in opera delle soprintendenze speciali (Firenze, Roma, Napoli e Venezia più Roma archeologica), ma i primi passi di cui legittimamente si va fieri (v. Antonio Paolucci) incontrano resistenze o addirittura ipotesi che altrettanto legittimamente vanno in direzione opposta, come nel caso della Toscana la cui giunta regionale chiede, per una parte di quanto oggi costituisce il Polo museale affidato alla soprintendenza, il trasferimento agli enti locali.

Fra le riforme che ahimè non si fermano, invece, quelle che nascono altrove (ministero dell'Economia e delle Finanze) con una tiepida resistenza del ministero competente: si pensi al nuovo regime delle fondazioni ex bancarie, i cui effetti in termini di diminuzione delle risorse destinate ai beni e alle attività culturali si avvertiranno tra breve, o al trasferimento di beni demaniali alla Patrimonio spa, argomento a cui questa rivista dedicherà nel prossimo numero un approfondimento.

Naturalmente non mancano note positive, come l'attenzione prestata ai curricula formativi dei restauratori (ddl governativo), la destinazione al settore e in particolare alla tutela del 3% degli investimenti previsti per le infrastrutture (il che dovrebbe portare una considerevole quantità di risorse), le modifiche alla Merloni-ter per distinguere e proteggere il restauro dalle restanti attività riguardanti i lavori pubblici (legge 1 agosto 2002, n. 166), peraltro nata in parlamento da emendamenti introdotti nel corso dell'iter legislativo e pienamente condivisi da maggioranza e opposizione. Ma il quadro, nel suo insieme, resta assai preoccupante.

Le ragioni, come si è visto, sono numerose ed eterogenee ma è innegabile che il punto di attacco per modificare e migliorare le cose si concentra su due passaggi ormai del tutto evidenti: il primo è quello dell'assetto istituzionale e del sistema pubblico dopo il Titolo V, che comunque lo si legga dice una cosa chiara: in molti settori, ma specialmente in quello dei beni culturali, Stato e governo locale hanno ognuno una chiave e la porta è a doppia serratura. Insomma, che lo vogliano o meno, l'uno e l'altro debbono trovare il modo di cooperare perché altrimenti ogni politica del settore è destinata, a priori, al fallimento.

Il secondo è che il rapporto con il privato non è un punto di partenza, ma il punto di arrivo di un non breve processo di innovazione destinato ad incidere su tutti gli aspetti, da quelli fondanti come le regole (è possibile andare avanti in modo empirico, vedi ad esempio le fondazioni buone "à tout faire"?) a quelli considerati minori (formazione del personale tecnico, modalità contrattuali, tipologie di organizzazione, sistemi informativi, contabilità), e agli attori (Stato, governo locale, terzo settore, privati) del problema. Questo numero, negli interventi di Giacomo Santi e Maria Cecilia Fregni, ne offre qualche approfondimento.

Se non si ha la lucidità e il coraggio di aprire un approfondito dibattito, politico e tecnico, su questi temi in modo da individuarne alcuni punti fermi e sulla base si questi inventare quelle regole (e quella cultura) della cooperazione che si è detta necessaria, lo sforzo di ciascuno si tradurrà in inutile attivismo il cui insuccesso sarà attribuito al vicino allontanando ancor più, per tutti, la soluzione dei problemi.

 

 

 



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