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Buscar oriente e tomar occidente
(ovvero: i beni culturali nella finanziaria 2002)

di Marco Cammelli


La finanziaria per il 2002 (l. 28 dicembre 2001, n. 448), in sé e per il dibattito che ne ha accompagnato l'approvazione, offre molti spunti per riflettere sulle politiche in materia di beni e attività culturali.

L'iter del provvedimento è stato dominato dalla discussione sul pro e contro la disposizione, poi divenuta art. 33 nel testo finale, con cui si proponeva l'auspicabile (per alcuni) e lamentata (per altri) privatizzazione della gestione dei servizi in materia di beni culturali.

Discussione accesa, come si ricorderà, per la decisa presa di posizione in senso contrario di autorevoli esperti della materia (a cominciare da Chiarante e Emiliani), per le repliche non prive di qualche ruvidezza da parte del sottosegretario Sgarbi, e per l'orientamento (prevalentemente critico) di molte voci di addetti ai lavori, italiani e stranieri.

Nel merito della ipotesi, naturalmente, era più che giusto discutere anche se, con la complicità di una formulazione della disposizione non tra le più felici, non avrebbe guastato un dibattito più aderente ai problemi e alle soluzioni e meno propenso alle opzioni di principio.

Quanto ai problemi, si trattava infatti di chiarire se e quanto l'esternalizzazione immaginata toccasse il cuore delle attività o solo parti importanti dal punto di vista organizzativo ma secondarie sul piano della tutela; sul lato delle soluzioni, invece, era necessario precisare a quali condizioni (tra cui, un adeguato attrezzarsi del pubblico), con quali regole, nei confronti di quali soggetti tutto ciò fosse pensato, non trascurando di spiegare le ragioni per le quali previsioni normative già da tempo varate in materia (come il noto art. 10 del d.lg. 368/1998) sono rimaste fino ad oggi senza esito.

Tutto ciò non è avvenuto, se non in modo marginale, e dunque non sorprende il fatto che il parlamento abbia finito per risolvere un problema dagli incerti contorni con una soluzione dagli incerti destini.

In breve: l'esternalizzazione del "servizio" è diventata concessione della "gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico", il che non solo è del tutto diverso ma, riferendosi ad attività strumentali sostanzialmente riferibili alla "valorizzazione", finisce per corrispondere a quanto già oggetto della norma del 1998 ricordata, mentre la (decisiva) messa a punto delle regole e delle modalità dell'affidamento sono affidate ad un successivo regolamento ministeriale.

Soluzione ragionevole, naturalmente, anche se non si comprende quale sia la diversità tra questo e l'altro regolamento ancora mancante (quello appunto dell'art. 10 d.lg. 368/1998) e per quale ragione il primo sia destinato, diversamente da quanto accaduto per il secondo, a venire alla luce.

Una nascita, oltretutto, complicata dal fatto che nel frattempo è intervenuta l'ampia riforma dell'intero titolo V Costituzione ove, per materie come la valorizzazione dei beni culturali, si prevede la competenza legislativa "concorrente" tra Stato e Regioni (art. 117, comma 3) e la riserva a queste ultime dell'intero potere regolamentare (art. 117, comma 6) con esclusione, quindi, di regolamenti statali.

In breve: un tentativo di esternalizzazione, nel merito largamente condivisibile come intento se accompagnato dalle precisazioni di cui si diceva, che finisce per riguardare attività già esternalizzabili, senza spiegare perché fino ad oggi non lo si è fatto e che si appoggia ad un regolamento che probabilmente non potrà (almeno dallo Stato) essere adottato.

Ma le cose, in materia, non finiscono qui. Mentre l'intero mondo che ruota intorno ai beni e alle attività culturali dibatteva appassionatamente di tutto ciò, nel silenzio totale è passata nella stessa finanziaria una riforma in grado di modificare radicalmente, e da subito, le vicende del settore.

Ci si riferisce all'art. 11, con il quale non solo si assicura agli enti territoriali la maggioranza nelle assemblee delle fondazioni ex-bancarie, ma si ampliano i settori di intervento di queste ultime introducendone alcuni di stretta pertinenza del sistema locale (prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica; sicurezza alimentare e agricoltura di qualità; edilizia popolare, ecc.).

Il risultato è che gli enti locali, grazie all'acquisito controllo sulle fondazioni, tenderanno ad utilizzarne i mezzi finanziari per queste politiche di settore, con conseguente drastica riduzione delle risorse destinate in questi anni ai beni e alle attività culturali.

Sarebbe ingeneroso affermare che tutto questo è frutto di un disegno malizioso nel quale il governo, come ogni buon prestigiatore, ha attirato l'attenzione con una mano mentre tirava fuori il coniglio dal cilindro dall'altra. È indubbio, comunque, che la privatizzazione della gestione dei beni e della loro valorizzazione non fa un passo avanti mentre la pubblicizzazione dei maggiori detentori delle risorse destinate al settore dei beni culturali ha fatto passi da gigante.

Un po' come Colombo, che cercava l'oriente e trovò invece, a occidente, il mondo nuovo: ma qui, di nuovo, non pare davvero esserci molto.


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