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La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato

di Marco Brocca


Sommario: 1. Introduzione. - 2. Gli adempimenti politico-amministrativi previsti dalla Convenzione dell'Aja del 1954. - 3. L'(in)attuazione dello Stato italiano. - 4. L'esperienza di altri Stati. - 5. Le novità previste dal Protocollo aggiuntivo dell'Aja del 1999. - 6. L'art. 20 del T.U. dei beni culturali e ambientali e il nuovo art. 117 della Costituzione. - 7. Conclusioni.


1. Introduzione

"[…] Omnia sepulcra monumentaque diruta esse in finibus suis, omnium nudatos manes, nullius ossa terra tegi [...], omnia templa Philippum infestos circumtulisse ignes; semusta, truncata simulacra deum inter prostratos iacere postes templorum...", scriveva così Tito Livio (Ab urbe condita libri, XXXI, 30), riferendosi alla devastazione che Filippo V di Macedonia perpetrò della città di Atene, della quale non risparmiò nemmeno i monumenti sacri.

Da sempre, le guerre e più in generale tutte le situazioni che comportano scontro violento tra due o più fazioni in lotta rappresentano anche una seria minaccia per l'integrità del patrimonio culturale situato nei territori interessati.

Il fulcro del sistema di protezione che il diritto internazionale prevede a favore dei beni culturali in caso di conflitto armato è costituito dalla Convenzione dell'Aja del 14 maggio 1954, dall'annesso Regolamento di esecuzione e dal Protocollo di pari data [1].

Tale convenzione rappresenta una tappa fondamentale del processo volto a disciplinare pattiziamente la materia dei beni culturali nell'ambito del diritto internazionale bellico ed è caratterizzata da un approccio particolarmente "moderno", che si coglie già nel preambolo, dove si afferma che "i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo appartengano, costituiscono danno al patrimonio dell'umanità intera, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale".

Si tratta di affermazione rilevante sul piano dei principi, perché viene superata in maniera esplicita la tradizionale visione statalistica della protezione dei beni culturali e si introduce la nozione di patrimonio comune dell'umanità, unitario e inscindibile, il cui depauperamento costituisce un danno non solo per il singolo Stato territoriale, ma anche per lo Stato aggressore e, soprattutto, per l'umanità nella sua interezza.

Da questo enunciato derivano, da un lato, la necessaria interferenza della normativa internazionale negli ordinamenti statuali e, dall'altro, l'istituzionalizzazione di un dovere di cooperazione e solidarietà tra Stati [2].

Problema di grande delicatezza ai fini dell'individuazione dell'ambito di effettiva applicazione del sistema di protezione è la definizione dei beni culturali. A questo riguardo, molto importante è quella contenuta nell'art. 1 della convenzione, in cui viene utilizzata per la prima volta in un trattato internazionale l'espressione "beni culturali", che va a sostituirsi a quelle utilizzate nelle convenzioni del 1899 e del 1907 ("edifici dedicati all'arte e alla scienza", "monumenti storici", "opere dell'arte e delle scienze"), indubbiamente più restrittive e che in passato avevano creato dubbi sulla loro riferibilità a musei, archivi e biblioteche.

A tale definizione generale si dà poi un contenuto alquanto ampio, facendovi rientrare, a prescindere dalla loro natura pubblica o privata e dalla loro origine e secondo un'elencazione comunque non esaustiva, i beni mobili e immobili di grande importanza per il patrimonio culturale di ogni popolo, gli edifici utilizzati come contenitori di beni mobili e, addirittura, i centri monumentali, cioè intere aree o quartieri di particolare interesse culturale [3].

La convenzione dell'Aja del 1954 ha sofferto fino ad oggi di scarsa efficacia e concretezza: le cruente esperienze di conflitto armato in Libano, Cambogia, Vietnam, Iraq, ex-Yugoslavia e, più recentemente, Afghanistan, hanno evidenziato sia le inadeguatezze e i limiti intrinseci di molte delle prescrizioni di questi testi normativi sia la clamorosa disapplicazione da parte di molti Stati contraenti.

Riguardo alla prima affermazione, basti pensare al campo di applicazione della convenzione: essa si riferisce ai conflitti internazionali, mentre per quelli interni è prevista la sola applicazione delle disposizioni che impongono l'obbligo di rispetto dei beni culturali e quindi essenzialmente dell'art. 4.

Si pensi, inoltre, al sistema di protezione dei beni culturali delineato dalla convenzione, che opera una distinzione tra beni oggetto di protezione speciale e beni oggetto di protezione generale, ma a tale differenziazione non corrisponde, come sarebbe lecito attendersi, una tutela maggiore dei primi rispetto ai secondi; infatti, in entrambi i casi, è previsto l'obbligo di non utilizzare i beni per scopi militari e di non farne oggetto di atti di ostilità, salva la causa di giustificazione della necessità militare. A parte alcune norme di dettaglio, la differenza principale di disciplina è che "la protezione speciale", che è concessa non dallo Stato, ma a livello internazionale, è in vigore sin dalla data dell'iscrizione dei beni nell'apposito registro e, quindi, i relativi obblighi sono applicabili anche in tempo di pace; tale diversità, francamente, non giustifica le procedure, invero alquanto complesse (e sostanzialmente inefficaci) [4], di concessione della protezione speciale.

Inadeguato è anche il sistema sanzionatorio: l'art. 28, in particolare, prevede la possibilità di una responsabilità individuale, anche penale, dell'organo, sia esso militare o civile, che abbia compiuto attività di distruzione o che si sia reso colpevole di negligenza nei confronti del patrimonio culturale, ma non impone un obbligo di perseguire tali crimini; così, facendo riferimento all'azione penale nell'ambito della ordinary criminal jurisdiction, nulla vieta che in uno Stato il sistema di giustizia penale non obblighi il giudice ad iniziare l'azione penale con la conseguenza che le attività criminali restino impunite.

Va anche segnalato il carattere tutt'altro che universale dell'adesione degli Stati alla convenzione, rilevandosi defezioni importanti al momento della ratifica, quali quelle di Gran Bretagna, Stati Uniti d'America e Giappone.

Per quanto riguarda la disapplicazione degli Stati contraenti, emblematico è il caso del segno distintivo, previsto ex art. 16 [5], che nel recente conflitto in Bosnia-Erzegovina è stato esposto nella città di Sarajevo solo all'esterno del Museo di Stato e del Museo Ebraico e per giunta in maniera non corrispondente a quanto stabilito dall'art. 20 del regolamento di esecuzione, per poi essere crivellato dai proiettili delle fazioni opposte.

2. Gli adempimenti politico-amministrativi previsti dalla Convenzione dell'Aja del 1954

Fine essenziale della tutela internazionale dei beni culturali (ed esclusivo per quanto riguarda gli immobili, per i quali, una volta danneggiati, è problematico il ripristino dello "status quo ante") è rappresentato dalla protezione preventiva degli stessi: ciò si evince dall'art. 2 della convenzione, che, peraltro, in modo preciso chiarisce come tale protezione comprenda la salvaguardia e il rispetto dei beni medesimi.

La salvaguardia grava sullo Stato territoriale e va approntata sin dal tempo di pace, consistendo in tutte quelle misure positive ritenute "appropriate" dalle autorità competenti per assicurare al meglio i beni dai prevedibili effetti di un conflitto armato (art. 3). Il rispetto incombe non solo sullo Stato nemico, che deve astenersi da ogni atto di ostilità verso detti beni, ma anche sullo Stato territoriale, che deve astenersi dall'utilizzazione di tali beni, dei loro dispositivi di protezione e delle loro immediate vicinanze, per scopi che potrebbero esporli a distruzione o deterioramento in caso di conflitto armato (art. 4).

Quindi la convenzione, pur essendo dedicata alla protezione dei beni culturali in tempo di guerra, correttamente prevede alcuni obblighi a carico degli Stati anche in tempo di pace, dimostrandosi, dunque, in linea con la più accorta impostazione della tutela dei beni culturali, che, per essere efficace, deve fondarsi sul principio della prevenzione.

Bisogna, tuttavia, riconoscere che il testo normativo, aldilà dell'affermazione di principio, non è molto preciso a proposito delle misure che dovrebbero essere concretamente adottate; l'espressione utilizzata all'art. 3 ("misure appropriate") è invero alquanto vaga e soggettiva: al limite, uno Stato potrebbe anche decidere di non fare nulla di più rispetto allo status quo, se questo è ritenuto dalle autorità legislative e amministrative competenti perfettamente "appropriato" [6].

Esempi di "misure appropriate" da predisporre sin dal tempo di pace ex art. 3, sono, comunque, rinvenibili anche nel prosieguo delle disposizioni della convenzione medesima; tra esse spiccano l'inserimento dei monumenti più importanti nel già citato "registro internazionale dei beni culturali sotto protezione speciale", tenuto presso il Segretariato dell'Unesco (art. 8), la formazione di personale militare specializzato in materia di beni culturali e la collaborazione di esso con le autorità civili incaricate della salvaguardia dei beni culturali (art. 7 c. 2), il segnalamento dei beni culturali con l'apposito simbolo di cui all'art. 16, la diffusione, "la più capillare possibile", del testo della convenzione (e del regolamento e protocollo annessi) tra la popolazione, in particolare tra le forze armate e il personale addetto alla protezione dei beni culturali (art. 25), l'identificazione delle persone incaricate di funzioni di controllo mediante carta d'identità speciale e bracciale vidimato dalle autorità competenti (art. 21 regolamento di esecuzione).

3. L'(in)attuazione dello Stato italiano

Va subito anticipato che l'Italia, che è stata tra i promotori più convinti e attivi della convenzione, ne ha disatteso quasi del tutto le prescrizioni.

Dopo la ratifica avvenuta nel 1958 (l. 279/1958), se si eccettua il tentativo di realizzazione di un inventario in microfilm, opera immane per il nostro Paese, data la diffusione dei beni culturali, e l'adozione nel 1959 di un Protocollo d'impegno dello Stato italiano di non utilizzare a fini militari in tempo di guerra (anche per il semplice transito di mezzi) il tratto di via Aurelia che costeggia le mura vaticane [7], annesso all'atto di iscrizione in toto della Città del Vaticano nel registro internazionale dei beni culturali sotto protezione speciale, la diffusione della convenzione è stata negletta per molto tempo, per poi essere curata dalle sole Forze armate, in modo comunque tutt'altro che continuativo, a partire dagli anni '70, attraverso la promozione di pubblicazioni [8], l'organizzazione di incontri e convegni e lo svolgimento di attività didattica nei corsi presso le istituzioni militari (inclusi quelli per la formazione dei consiglieri giuridici delle FFAA).

L'Unesco sin dal 1962 cura la periodica redazione e divulgazione del Rapporto "Informations sur la mise en oeuvre de la Convention pour la protection des biens culturels en cas de conflit armé", in attuazione di quanto disposto dalla convenzione medesima ex art. 25; tali rapporti, l'ultimo dei quali è del 1995, riportano, in modo sommario, la situazione generale degli atti di ratifica, adesione o successione da parte degli Stati, oltre che sintetiche relazioni dei Paesi contraenti circa la concreta applicazione della convenzione. Da questo rapporto l'Italia è stata fino al penultimo assente; se, dunque, può positivamente rilevarsi che tale lacuna formale è stata superata nel rapporto del 1995, va anche detto che il resoconto è alquanto sbrigativo, significativamente ridotto, infatti, all'enunciazione dell'attività di formazione e diffusione svolta nell'ambito delle FFAA.

Certamente, le Forze armate italiane (come del resto quelle di quasi tutti i Paesi aderenti alla convenzione) sono inadempienti al disposto ex art. 7 c. 2, che prevede la costituzione, sin dal tempo di pace, nell'ambito delle forze armate, di personale specializzato per assicurare il rispetto dei beni culturali e collaborare con le autorità civili incaricate della loro salvaguardia.

E' proprio dalla presa di coscienza di questa grave lacuna che nel 1996 nel corso della missione Implementation Force in Bosnia-Erzegovina furono impiegati, nell'ambito delle Forze armate italiane, militari qualificati per realizzare il monitoraggio del patrimonio culturale della città di Sarajevo.

Considerati i risultati positivi [9], l'esperienza è stata ripetuta in Albania nel corso della missione "Alba" ed è notizia degli ultimi giorni l'intenzione del Governo di garantire il contributo dello Stato italiano alle attività della forza di pace multinazionale per l'Afghanistan, dopo la caduta del regime talebano, ivi compreso il compito di verifica dei danni subiti dal patrimonio artistico, in particolare al fine di recuperare i beni trafugati dal museo nazionale di Kabul e di ricostruire i Buddha di Bamiyan, la cui distruzione è stata condannata da tutta la comunità internazionale e definita dall'Unesco un "crimine contro la cultura" e una "tragedia culturale" per il mondo intero.

Come ulteriori inadempienze italiane, possono essere annoverate la mancata predisposizione (e conoscenza) dei segni distintivi dei beni culturali e delle speciali carte d'identità e dei bracciali vidimati per le persone incaricate di funzioni di controllo.

A dire il vero, la convenzione stessa ha quasi precluso ab origine un effettivo uso del segno distintivo, rendendone obbligatorio l'utilizzo solo per i beni culturali soggetti a protezione speciale e lasciando piena discrezionalità agli Stati membri circa l'opportunità e le modalità di segnalazione dei beni culturali ordinari: se l'Italia non vi ha provveduto minimamente, Stati meno ricchi di storia e di cultura, ma più sensibili culturalmente, come la Svizzera, i Paesi Bassi o il Belgio, hanno utilizzato il simbolo per segnalare i monumenti di un certo rilievo ovvero per identificare personale, strutture e materiali relativi alla protezione dei beni culturali.

Come già detto, la convenzione impone, inoltre, ai singoli Stati di attivarsi per l'iscrizione dei loro beni culturali particolarmente importanti nel "registro internazionale dei beni culturali sotto protezione speciale" (art. 8 c. 6): esso, nelle convinzioni degli estensori, avrebbe dovuto rapidamente riempirsi e garantire, quindi, un'azione esaustiva di monitoraggio del patrimonio artistico-culturale a livello internazionale. Tuttavia, a quasi 50 anni di distanza, molti Paesi risultano inadempienti rispetto agli obblighi contratti in quella circostanza; l'Italia figura tra le Nazioni più "indolenti", se è vero che, nonostante il suo immenso patrimonio culturale, nessun monumento è compreso nella lista.

Causa di questo ritardo è rinvenibile anche nelle stesse norme che disciplinano l'inserimento dei beni culturali nel registro, invero piuttosto complesse e poco praticabili; basti considerare le due condizioni previste ex art. 8 per la sottoposizione a protezione speciale (e dunque per l'iscrizione al registro) di rifugi destinati a proteggere i beni culturali, centri monumentali e altri beni culturali immobili di altissima importanza: a) che essi si trovino ad una distanza sufficiente da un grande centro industriale e da qualsiasi obiettivo che costituisca un punto sensibile, quale, ad esempio, un aeroporto, una stazione ferroviaria di una certa importanza o una strada di grande comunicazione; b) che essi non siano usati ai fini militari.

Resta, dunque, quasi impossibile porre sotto protezione speciale un bene culturale considerando che spesso all'interno o nei pressi di monumenti, musei o città d'arte sorgono punti sensibili e che non è infrequente che strutture monumentali vengono utilizzate, seppure parzialmente, per fini militari: si pensi, ad esempio, ex multis, alla Reggia vanvitelliana di Caserta, all'interno della quale è inserita la Scuola Allievi Sottufficiali dell'Aeronautica militare, a Palazzo Salerno in Piazza del Plebiscito a Napoli, che ospita il Comando Regione militare Sud, a Palazzo Ducale di Modena sede dell'Accademia militare dell'Esercito [10].

4. L'esperienza di altri Stati

La convenzione vincola attualmente oltre 100 Stati; in questa sede si considererà l'esperienza di 5 di essi, le cui disposizioni attuative possono offrire dei modelli significativi ai quali gli altri Paesi potrebbero utilmente ispirarsi.

a) Francia

In Francia è prevista la presenza di un rappresentante del ministero della Difesa presso ogni dicastero e l'Istituto degli Alti Studi di Difesa Nazionale assicura un programma regolare di seminari, aventi ad oggetto anche la protezione del patrimonio culturale nazionale, ai quali partecipano anche funzionari del ministero della Cultura (soprattutto direttori di musei nazionali).

La difesa civile è largamente decentralizzata e la sua responsabilità è delegata alle autorità locali, ripartita tra prefetti di dipartimento e prefetti di regione, mentre i ministeri di Difesa e Interni definiscono le linee guida, le norme regolamentari e i programmi di sensibilizzazione per il personale, militare e civile e per l'opinione pubblica.

Esistono, inoltre, dettagliati piani di difesa in caso di conflitto armato, di cui talune disposizioni amministrative sono coperte dal segreto di Stato, mentre sorprende l'assenza nel quadro dei recenti programmi dei "grands travaux publiques", che prevedono la costruzione, tra l'altro, di musei, biblioteche e archivi, della realizzazione di rifugi e strutture ricettizie di alta sicurezza negli edifici stessi o in prossimità di essi.

b) Paesi Bassi

Nei Paesi Bassi le disposizioni prese in tempo di pace in applicazione della convenzione del 1954 sono particolarmente complete e ben integrate.

Il ministero direttamente competente è quello della Protezione civile, che opera di concerto con altri ministeri necessariamente interessati, in particolare quelli della Difesa e della Cultura.

L'organigramma è particolarmente funzionale ed efficace. Nell'ambito del ministero, il Direttore della politica sul patrimonio culturale è preposto a definire una politica integrata di protezione culturale, comprendente l'elaborazione di leggi e regolamenti, e a vigilare sull'applicazione di tale politica a livello nazionale, regionale e locale. Al di sotto, l'Ispettore della protezione culturale è responsabile della corretta applicazione delle politiche protettive e dirige una rete estesa su tutto il territorio di ispettori volontari - regionali, provinciali e specializzati -, nominati con decreto ministeriale, preposti alla definizione delle misure preventive e di quelle urgenti da adottare in caso d'emergenza, di concerto con le autorità amministrative e militari locali.

Un altro aspetto importante del sistema olandese suscettibile di costituire un modello prezioso per gli altri Paesi è l'integrazione normativa tra le disposizioni prese in previsione di un conflitto armato e quelle per fronteggiare situazioni d'emergenza in tempo di pace, come catastrofi naturali o crisi civili.

Esiste, inoltre, da lungo tempo, un inventario dei monumenti e edifici di valore culturale (circa 43.000 iscrizioni), uno dei musei, biblioteche e archivi e uno dei beni culturali mobili particolarmente importanti non inseriti in musei; agli inizi degli anni '90 il Governo ha, inoltre, stilato una lista di 100 edifici e monumenti particolarmente importanti, che sono stati segnalati con lo "scudo blu" previsto dalla convenzione dell'Aja.

Da ricordare, infine, che i Paesi Bassi nel 1962 hanno predisposto e distribuito agli altri Stati membri un modello ufficiale di carta d'identità nazionale per il personale incaricato della protezione dei beni culturali, conformemente all'art. 8 della convenzione, ed hanno iscritto alcuni rifugi nucleari nel registro internazionale dei beni sotto protezione speciale.

c) Austria

Anche l'Austria è uno degli Stati più avanzati nell'applicazione della convenzione. Grazie ad un'attiva collaborazione tra i ministeri della Difesa, dell'Interno e della Pubblica istruzione, sono stati portati a termine l'inventario nazionale dei beni culturali di proprietà pubblica e privata, oltre a quello delle grotte e cavità naturali utilizzabili come rifugi, l'approntamento della segnaletica in quattro lingue e la redazione di un dizionario dei beni culturali in ben otto lingue.

Per quanto riguarda la diffusione, sono previsti corsi obbligatori per il personale militare che sono svolti presso l'Accademia di Difesa nazionale e la Scuola militare di Protezione civile, nonché l'utilizzo di mezzi di comunicazione, quali il cinema o la televisione, ai fini della sensibilizzazione della popolazione civile.

Da ricordare, inoltre, che è stato realizzato un enorme rifugio in una caverna di Alt-Aussee (il cd. rifugio centrale austriaco), iscritto nel registro internazionale il 7 gennaio 1968, utilizzando una vecchia miniera di sale abbandonata, in cui all'emergenza verrebbero concentrati tutti i grandi beni culturali mobili, secondo un ben preciso e studiato piano di sgombero.

d) Svizzera

In Svizzera in base alla legge federale del 23 febbraio 1962 la protezione dei beni culturali è uno degli ambiti di competenza della Protezione civile; con la legge federale del 6 ottobre 1966 sono state definite le condizioni per attuare i principi della convenzione dell'Aja, demandando ai Cantoni l'organizzazione e la realizzazione della protezione dei beni culturali in tempo di guerra.

Ciascun Cantone dispone di uno Stato maggiore di Protezione civile che, fin dal tempo di pace, può contare di tutto quello che gli è necessario in caso di guerra, ivi compresi il personale, i materiali e le infrastrutture occorrenti alla protezione dei beni culturali; agli Stati maggiori cantonali della Protezione civile sono inseriti anche Ufficiali delle Forze armate specializzati in materia di protezione dei beni culturali, ai quali, all'emergenza, fanno capo appositi reparti di riservisti. Nel servizio della protezione dei beni culturali viene incorporato principalmente personale che opera professionalmente in musei, biblioteche, archivi o centri di restauro oppure persone che fanno parte della commissione dei monumenti del loro comune di residenza.

Tali servizi rappresentano, indubbiamente, accanto alle altre forze d'intervento specializzate come la polizia o i vigili del fuoco, un utile mezzo a disposizione delle autorità locali per affrontare non solo eventuali conflitti armati, ma anche situazioni emergenziali di origine naturale (terremoti, alluvioni, frane, ecc.) o tecnologica (attentati, incendi, incidenti chimici, ecc.).

Per quanto attiene all'informazione dell'opinione pubblica, meritano di essere segnalati un opuscolo sulle disposizioni normative della convenzione e sull'attuazione nazionale di esse, realizzato nel 1985 e diffuso capillarmente su tutto il territorio, e due film sullo stato dell'arte della protezione dei beni culturali in Svizzera.

Dal punto di vista operativo, una prima misura pratica adottata è stata la realizzazione di un inventario dei beni culturali esistenti: la Confederazione, in stretta collaborazione con i Cantoni, ha riunito gli oggetti di maggior pregio nell'"inventario svizzero dei beni culturali di importanza nazionale e regionale", che viene regolarmente aggiornato e in cui sono riportati oltre 8.200 beni.

I beni d'archivio e di biblioteca più importanti come pure le diverse documentazioni di sicurezza (fotografie, descrizioni, piani, schizzi e disegni) sono registrati su microfilm, i quali vengono a loro volta depositati in un luogo sicuro. La documentazione di sicurezza contiene tutte le informazioni necessarie per restaurare o costruire un bene culturale danneggiato o distrutto. Inoltre è stata pubblicata una carta dei beni culturali d'importanza nazionale, in cui figurano 1.500 beni, che può essere acquistata presso le rivendite ufficiali di carte nazionali.

Partendo dalla considerazione che il bene culturale debba essere preservato in genere laddove si trova, in quanto, all'emergenza, sarebbe molto complicato spostarlo, data anche la prevedibile situazione caotica che si viene a creare in caso di evento bellico, sono stati predisposti numerosi rifugi nucleari al di sotto della maggior parte dei musei (come anche degli ospedali) nei quali in casi emergenziali vengono concentrate tutte le opere d'arte più significative.

Dunque, le documentazioni di sicurezza e i rifugi costituiscono le principali misure di protezione per lo Stato svizzero, che non avverte la necessità di iscrivere alcun bene nel registro internazionale dei beni sotto protezione speciale.

e) Germania

La Germania ha ratificato la convenzione in esame con la legge dell'11 aprile 1967, in base alla quale sono i Länder competenti a darne applicazione.

Il Servizio federale della difesa civile è incaricato di diffondere tra la popolazione la conoscenza della convenzione: al riguardo, ha promosso la redazione di un opuscolo, edito più volte e distribuito alle autorità di governo federale e locale, scuole, università, musei, biblioteche, chiese, giornali e a chiunque ne faccia richiesta.

Attualmente oltre 8.000 monumenti e luoghi d'interesse storico-artistico e più di 2.000 tra musei, archivi, biblioteche e siti archeologici sono stati contraddistinti con il segno previsto dall'art. 16 della convenzione e sono stati predisposti diversi microfilm aventi ad oggetto beni archivistici di grande interesse storico (es. gli atti emanati dagli imperatori e re tedeschi dal XIV secolo ad oggi). Si ricorda, inoltre, che il 22 aprile 1978 è stato iscritto sul registro internazionale il rifugio di Oberried, una miniera sotterranea nei pressi di Friburgo.

5. Le novità previste dal Protocollo dell'Aja del 1999

Come è dimostrato dagli avvenimenti della Guerra del Golfo e dal conflitto nella ex-Yugoslavia, anche dopo la fine della guerra fredda non solo il numero di conflitti internazionali e interni pare lungi dall'essere diminuito, ma la violazione delle norme applicabili in caso di evento bellico, con specifico riferimento a quelle relative alla protezione dei beni culturali, rappresenta un motivo di grave preoccupazione.

In tale contesto si colloca il processo di revisione della convenzione dell'Aja del 1954 iniziato nei primi anni '90, su iniziativa congiunta olandese e italiana, appoggiata dalla Federazione russa, che ha condotto alla sottoscrizione del 2° Protocollo alla Convenzione del 1954, adottato all'Aja il 26 marzo 1999, firmato ad oggi da 40 Stati e destinato a entrare in vigore tre mesi dopo il deposito del ventesimo strumento di ratifica (art. 43).

Formalmente, non si tratta di un protocollo di emendamento del 1954, ma di un protocollo addizionale alla convenzione che ad essa dunque non si sostituisce, ma della quale rappresenta un'integrazione [11], al pari del già citato protocollo del 1954 sull'illecito trasferimento di beni culturali dai territori soggetti ad occupazione bellica. Dal momento, però, che questo secondo Protocollo si occupa di questioni già regolate dalla convenzione, ponendosi come completamento di essa (art. 2), nei rapporti tra le parti le relative disposizioni prevarranno su quelle eventualmente incompatibili della convenzione (art. 4).

Tra le novità previste dal protocollo [12], qui si rileva, anzitutto, l'estensione del campo di applicazione ai conflitti interni, ma sono escluse le situazioni di disordine e tensione interna, quali sommosse, atti di violenza isolati e sporadici e altri atti simili.

E' prevista una nuova forma di protezione dei beni culturali, cd. "rinforzata", che va ad aggiungersi (e in prospettiva a sostituirsi) al sistema di protezione speciale, invero alquanto macchinoso e inefficace, e a quello ordinario, assolutamente evanescente, ponendosi in posizione sostanzialmente intermedia tra i due livelli di protezione; per tali beni è prevista l'iscrizione in un'apposita "lista" (tenuta, a differenza del registro dei beni sotto protezione speciale, non dal Direttore generale dell'Unesco, ma da un "Comitato per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato", di nomina governativa), sulla base di criteri meno restrittivi di quelli attualmente previsti per l'iscrizione al registro, per favorirne così una maggiore ed effettiva consistenza.

Per quanto riguarda la tipologia di illeciti, il protocollo, tipizzando la distinzione tra infrazioni gravi (comprendenti l'attacco di un bene culturale; la distruzione, l'appropriazione, il saccheggio e gli atti di vandalismo contro beni culturali; l'utilizzazione di un bene sotto protezione rinforzata o delle sue immediate vicinanze, in appoggio ad azione militare) riconosciute come crimini da reprimere con pene appropriate e le altre infrazioni da sanzionare con misure amministrative o disciplinari, sembra rafforzare la qualificazione degli attacchi deliberati al patrimonio culturale come veri e propri "crimini di guerra", già contemplata nei protocolli del 1977 aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra del 1949 sulla protezione delle vittime dei conflitti armati nazionali e internazionali e, più recentemente, negli Statuti dei tribunali internazionali per l'ex-Yugoslavia (1993) e per il Ruanda (1994) e nello Statuto della Corte penale internazionale a carattere permanente approvato a Roma nel 1998.

Muovendo dalla consapevolezza dell'importanza delle misure di salvaguardia che gli Stati dovrebbero adottare sin dal tempo di pace ai sensi dell'art. 3 della convenzione che, tuttavia, si limita ad enunciare il principio e a prevedere solo il criterio di "appropriatezza", il protocollo, ex art. 5, fornisce una puntuale elencazione [13] di misure preventive di rilievo concreto: si citano, in particolare, la predisposizione di inventari, la pianificazione di misure di emergenza per la protezione contro incendi e crolli, la preparazione per la rimozione dei beni mobili o la predisposizione di misure adeguate di protezione in situ, nonché la designazione di autorità responsabili della protezione dei beni culturali [14].

Il protocollo, inoltre, ribadendo la rilevanza della sensibilizzazione e, dunque, del coinvolgimento della popolazione civile, specifica in modo più puntuale e appropriato rispetto alla convenzione la definizione delle attività di diffusione della materia, statuendo ex art. 30 l'obbligo in capo agli Stati di "trovare sistemi appropriati, in particolare programmi educativi e informativi, al fine di far meglio apprezzare e rispettare i beni culturali da tutta la popolazione e […] di diffondere il più capillarmente possibile, sia in tempo di pace sia durante un conflitto armato, il Protocollo".

Mentre una grave lacuna del protocollo è l'assenza di modifiche alle disposizioni relative all'uso del segno distintivo: alla luce dell'esperienza attuativa della convenzione, si ritiene che si sarebbe potuto prevedere l'obbligo di usare i simboli anche per i beni ordinari e, soprattutto, anche in tempo di pace, ad imitazione di quanto avviene, ad esempio, per il segno di croce rossa con riferimento alla materia sanitaria, anche per le implicazioni psicologiche che tale utilizzo può comportare, "vale a dire la tendenza dell'opinione pubblica ad identificare una categoria di beni o di soggetti protetti (e tutto l'apparato relativo alla loro protezione) attraverso un simbolo o un'istituzione internazionale" [15].

Come si vede, l'attuazione del protocollo, oltre che costituire in ogni caso un doveroso adempimento di un patto a suo tempo sottoscritto, non avrebbe solo valenza in caso di evento bellico, contribuendo, difatti, alla formazione culturale degli addetti ai lavori e dell'opinione pubblica e interessando direttamente le politiche nazionali di tutela e valorizzazione del patrimonio, se non altro perché implica necessariamente una sua catalogazione sistematica.

Infatti, la predisposizione di inventari è la prima iniziativa di salvaguardia da adottare sin dal tempo di pace, tra quelle delineate ex art. 3 della convenzione e specificate ex art. 5 del protocollo; quale componente della funzione di tutela dei beni culturali è indubbia la sua importanza: la catalogazione consente, infatti, la predisposizione di adeguate misure preventive, l'attivazione seria e tempestiva di opere di restauro e ricostruzione dei beni danneggiati e di interventi rapidi e mirati di recupero dei beni depredati, ma soprattutto permette di effettuare una valida ricerca dei beni di interesse storico-artistico, per ampliarne la conoscenza e per restituirli alla loro intrinseca e originaria attitudine di beni destinati alla pubblica fruizione.

All'attività di catalogazione presiede in Italia l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, che è uno dei quattro Istituti centrali del ministero per i Beni e le Attività culturali (artt. 12-13 dpr 805/1975): il suo archivio generale raccoglie copia cartacea delle schede di catalogazione (circa 2.000.000 corredate da allegati grafici e/o fotografici e cartografici) prodotte secondo determinati criteri ministeriali dalle soprintendenze, talvolta in collaborazione con altri enti (es. Regioni, università, musei, Cei) [16].

Per quanto qui interessa, si ritiene che le schede di sicurezza cui fa riferimento il protocollo in esame debbano incentrarsi essenzialmente sulla corretta conservazione ed evacuazione del bene e dunque è ragionevole pensare che esse possano essere meno dettagliate (ma per questo di più rapida compilazione) rispetto alle schede di catalogazione ministeriale; semmai i beni culturali saranno da considerare in stretta relazione con il contesto territoriale in cui si trovano e al riguardo si ritiene che un prezioso strumento di supporto a tale attività di schedatura possa essere la "carta nazionale del rischio del patrimonio culturale", vera e propria cartografia dei beni culturali in rapporto alla presenza (e all'entità) di fattori aggressivi di carattere antropico e ambientale.

Progettata negli anni '70 dall'Istituto centrale per il restauro e applicata inizialmente in progetti pilota su scala regionale, la "carta" ha ricevuto riconoscimento normativo (nonché lo stanziamento di consistenti finanziamenti) con la legge 19 aprile 1990, n. 84; trascurata dai recenti accordi di programma quadro in materia di beni culturali stipulati tra il ministero per i Beni e le Attività culturali e alcune Regioni, ma menzionata nell'Accordo per la catalogazione dei beni culturali stipulato il 1° febbraio 2001 tra ministero per i Beni e le Attività culturali e Regioni, "quale strumento di supporto alle decisioni in materia di conservazione programmata, di restauro e di pianificazione territoriale" (art. 2 c. 2), lamenta, tuttavia, ancora una scarsa applicazione: dunque, anche alla luce del protocollo in esame, si auspica una più decisa e convinta implementazione di essa da parte dell'Icr.

6. L'art. 20 del T.U. dei beni culturali e ambientali e il nuovo art. 117 della Costituzione

La rilevanza delle convenzioni internazionali in materia di beni culturali e la loro incidenza nell'ordinamento nazionale sono state riconosciute anche dal recente T.U. dei beni culturali e ambientali (approvato con d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490), il cui art. 20, infatti, che rappresenta la disposizione "internazionale" del T.U. (assieme all'analogo disposto ex art. 148 per i beni ambientali), mira ad assicurare un criterio generale di coordinamento della normativa nazionale con quella internazionale.

Tale articolo dispone che l'attività di tutela e valorizzazione dei beni culturali si conforma ai principi di cooperazione stabiliti dalle convenzioni in materia. Anche se la norma può essere considerata "superflua" [17], poiché in ogni caso la ratifica di convenzioni internazionali obbliga lo Stato all'esecuzione dei loro contenuti, è importante l'affermazione di principio e il rilievo, quantomeno teorico, dato ai principi del diritto internazionale dei beni culturali, posto che non sempre l'Italia ha brillato per piena e tempestiva operatività delle norme internazionali pattizie (e la convenzione dell'Aja del 1954 ne è un triste esempio).

Certo, il legislatore delegato, anziché limitarsi ad assicurare il raccordo della normativa nazionale con le convenzioni internazionali in materia, avrebbe potuto "osare" di più, includendo direttamente nel Testo Unico le convenzioni internazionali rese esecutive in Italia da legge di ratifica, alla luce del criterio di delega, invero molto ampio, che si riferiva all'inserimento di tutte le "disposizioni legislative vigenti" (art. 1 c. 2, lett. a, legge 8 ottobre 1997, n. 352). L'interpretazione restrittiva data dal Governo alla delega, per cui le convenzioni internazionali, di cui spesso il nostro Paese è stato uno dei più convinti e attivi fautori, paradossalmente non sono da considerare strettamente correlate al corpus basilare della normativa sui beni culturali, denota un approccio alla materia ancora marcatamente nazionale e esprime un'ingiustificata "gerarchizzazione della normativa ove quella prettamente nazionale mantiene un ruolo primario" [18].

Non solo. Non si comprende la ratio dell'infelice (perché riduttivo) tenore letterale della norma che pare obbligare l'attività di tutela e valorizzazione dei beni culturali a conformarsi non a tutti i principi stabiliti dalle convenzioni internazionali, ma solo ai "principi di cooperazione tra Stati", che, rispetto ai primi, si pongono chiaramente in un rapporto di "species ad genus". Si pensi agli obblighi previsti dalla convenzione dell'Aja suesposti (in tema di approntamento di misure preventive e protettive, di diffusione della conoscenza del testo tra le Forze armate, il personale addetto alla protezione dei beni culturali e la popolazione civile, ecc.): essi vanno adempiuti dallo Stato italiano, per effetto dell'atto di ratifica e a prescindere dalla cooperazione con altri Paesi e dalla presunta limitazione dell'art. 20 T.U.

Un aggiornamento del T.U. (ammesso dallo stesso legislatore ex art. 1 c. 4 l. 352/97, "entro tre anni dalla data della sua entrata in vigore") dovrebbe tenere in giusto conto le convenzioni internazionali ratificate, per la cui conoscenza e piena operatività sarebbe necessario un coordinamento normativo ben più pregnante di quello approntato dall'attuale Testo Unico.

Considerevole riconoscimento esplicito anche a livello costituzionale della vincolatività degli obblighi internazionali è contenuto nell'art. 117 della Costituzione, la cui nuova formulazione [19] così recita: "La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali" [20].

Non solo. Il comma 5 del medesimo articolo afferma che "Le Regioni […], nelle materie di loro competenza, […] provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali […], nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza": si ha, dunque, il formale riconoscimento costituzionale della prassi, dapprima tenacemente osteggiata e poi avallata dalla Corte Costituzionale e dal legislatore [21], per cui le Regioni hanno autonoma e originaria competenza, per le materie rientranti nelle loro attribuzioni, all'attuazione degli obblighi e all'esercizio dei diritti e facoltà che discendono dalle norme convenzionali, salvo il potere sostitutivo dello Stato in caso di inerzia delle Regioni, riconosciuto a livello costituzionale dal nuovo art. 120 c. 2.

Per quanto riguarda il settore dei beni culturali (e ambientali) sempre l'art. 117 prevede un assetto che dal punto di vista legislativo è il seguente: la tutela dei beni culturali spetta per intero allo Stato (potestà legislativa esclusiva), salva la possibilità di forme di intesa e di coordinamento con le Regioni (art. 118 c. 3), la valorizzazione di tali beni insieme alla promozione e organizzazione di attività culturali è assegnata alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato (potestà legislativa concorrente), mentre la disciplina delle altre attività (quali, ad esempio, quelle gestorie) ricade nella potestà "piena" regionale; ma non basta: la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e la promozione e organizzazione di attività culturali sono espressamente previsti ex art. 116 c. 3, quali materie per le quali la legislazione statale potrà conferire, in termini anche diversificati, alle (o solo ad alcune delle) Regioni ordinarie particolari condizioni di autonomia, anzitutto normativa, secondo uno schema che richiama quello attualmente vigente per le Regioni a statuto speciale.

Dalla lettura congiunta del comma 5 (e del comma 1) dell'art. 117 e degli altri commi del medesimo articolo discende che le istanze di valorizzazione dei beni culturali e di promozione di attività culturali provenienti da convenzioni internazionali già esecutive (quali, ad esempio, la Convenzione di Parigi del 1972 per la tutela del patrimonio culturale e naturale mondiale e quella di Granada del 1985 per la salvaguardia del patrimonio architettonico europeo) possono essere direttamente soddisfatte dalle singole Regioni, nel rispetto delle regole legislative statali di indirizzo e coordinamento; mentre per gli obblighi internazionali di tutela (quali quelli previsti dalla convenzione dell'Aja del 1954 e dagli annessi protocolli) l'attuazione garantita direttamente (e in modo differenziato) dalle Regioni necessita del conferimento ex art. 116 c. 3 di forme particolari di autonomia.

Si ritiene, pertanto, che nel dibattito innescato all'indomani della riforma costituzionale, con riferimento al tema "caldo" della tutela dei beni culturali di esclusiva potestà statale, non possa essere ignorato anche il profilo dell'incidenza nell'ordinamento interno degli obblighi internazionali in materia.

7. Conclusioni

Come si è cercato di dimostrare nelle pagine precedenti, l'Italia, nonostante sia stata tra i primi Paesi a ratificare la convenzione dell'Aja del 1954, ha dimostrato vistose lacune in sede di attuazione, che devono essere colmate, oggi più che mai, anche per le sollecitazioni che in tal senso provengono da fonti internazionali: si pensi alle significative innovazioni previste dal protocollo aggiuntivo del 1999 o all'evoluzione del diritto internazionale nel senso di qualificare la distruzione deliberata dei beni culturali come vero e proprio "crimine internazionale" e che l'autore sia giudicato e condannato, anche "pendente bello", da tribunali internazionali istituiti ad hoc o dalla futura Corte penale internazionale a carattere permanente.

Per quanto riguarda il protocollo del '99, si dà notizia che il ministero degli esteri ha avviato nel mese di febbraio scorso una consultazione interministeriale diretta ad attivare la procedura di ratifica, chiedendo alle diverse amministrazioni interessate di definire, ciascuno per il settore di propria competenza, l'impatto normativo, tecnico ed amministrativo del protocollo sulla legislazione italiana, indispensabile per l'elaborazione del disegno di legge da presentare in Parlamento: una rapida approvazione interna rappresenta indubbiamente un contributo concreto all'entrata in vigore del protocollo.

E' in corso anche l'iter per la costituzione del Comitato italiano dello Scudo Blu [22], che rappresenterà la sezione nazionale dell'International Committee of the Blue Shield (ICBS), struttura internazionale istituita nel 1996 per iniziativa dell'Unesco e delle quattro più prestigiose organizzazioni non governative nel settore della tutela del patrimonio culturale - Icom (musei), Icomos (monumenti e siti culturali), Ica (archivi) e Ifla (biblioteche) - e destinata a proporsi come autorevole referente internazionale sia nelle situazioni belliche che nelle calamità.

Lo Scudo blu italiano (Sbi) sarà un coordinamento di organizzazioni non governative, associazioni, istituzioni ed enti culturali di rilevanza nazionale con l'obiettivo generale di promuovere, in modo autonomo o per conto dello Stato, iniziative volte a garantire il rispetto e la salvaguardia del patrimonio culturale nazionale, ivi comprese quelle previste dalla convenzione e dai protocolli in esame.

Per quanto riguarda gli obblighi già vigenti della convenzione del '54, il testo normativo stesso richiede, ai fini di una sua congrua attuazione, non solo il consolidamento dell'operato del ministero della Difesa, naturale destinatario delle norme della convenzione, ma soprattutto una politica necessariamente articolata, coordinata e diffusa, che sappia coinvolgere in modo coerente gli enti deputati alla cultura (in primis ministeri, università e scuole), gli organismi più direttamente e operativamente coinvolti (dalle Forze armate alle soprintendenze, alle organizzazioni non governative, alla Protezione civile [23], ivi compreso il volontariato culturale) e i gestori dei beni stessi (musei, istituti religiosi, ecc.).

Gli interventi devono seguire due essenziali linee guida interconnesse: da un lato, la previsione e l'approntamento di misure organizzative e operative di prevenzione e protezione e di piani d'intervento d'emergenza e dall'altro la funzione della "diffusione" (annoverata essa stessa a pieno titolo dalle norme convenzionali tra le misure di salvaguardia), volta alla formazione specialistica del personale militare e di quello civile e alla sensibilizzazione dell'opinione pubblica.



Note

[1] Trattasi del primo corpus normativo internazionale, almeno a livello universale (per gli Stati del continente americano vigeva, infatti, dal 1935 il cd. Patto Roerich), interamente e specificamente dedicato alla tutela dei beni culturali nella lunga evoluzione del diritto umanitario applicabile nei conflitti armati. Elaborato dall'Unesco negli anni del dopoguerra in un clima di tensione ideale in cui forte era la volontà di reazione ai disastri del conflitto mondiale, che aveva coinvolto anche il patrimonio storico e artistico (si pensi, ad es., all'abbazia di Montecassino o alla cattedrale di Dresda) e supportata dall'esperienza del Tribunale di Norimberga in cui gli autori di distruzioni e saccheggi di beni culturali furono perseguiti e puniti come criminali di guerra (si pensi ai casi Rosenberg e Muhlmann), è entrato in vigore il 7 agosto 1956; alla data dell'8 marzo 2001 la convenzione è vincolante per 101 Stati e il protocollo per 83 Stati; cfr. la tabella relativa allo stato delle ratifiche nel sito www.unesco.org. Per un'analisi di tali testi si rinvia, ex multis, a A.F. Panzera, La tutela internazionale dei beni culturali in tempo di guerra, Torino, 1993; M. Frigo, La protezione dei beni culturali nel diritto internazionale, Milano, 1986; F. Francioni, Patrimonio culturale, sovranità degli Stati e conflitti armati, in G. Feliciani (a cura di), Beni culturali di interesse religioso, Bologna, 1995; W.A. Solf, Cultural Property and Protection in Armed Conflict, in Encyclopedia of Public International Law, 1986, IX, 64 ss.; J. Toman, La protection des biens culturels en cas de conflit armé - Commentaire de la Convention de La Haye du 14 mai 1954, Unesco, Parigi, 1994.

[2] Inoltre tale affermazione è indice di grande tolleranza e integrazione culturale e fa di tale convenzione una sorta di "carta d'internazionalismo culturale" (così J.H. Merryman, Two ways of thinking about Cultural Property, in American Journal of International Law, 1986, 4, 837), risultando superata, infatti, quella visione euro-centrica della cultura e dell'arte sino ad allora dominante, "riconoscendo che ogni popolo contribuisce (scilicet: nei modi e nelle forme che sono congeniali alle sue tradizioni e al suo "spirito") alla cultura mondiale", così A. F. Panzera in La tutela internazionale, cit., 31.

[3] Nel senso della non assoluta chiarezza di questa definizione, che può essere fonte di contrasti e dare adito ad esiti differenti, e della sua eccessiva ampiezza ("... fino a comprendere cose come gli orti botanici o gli zoo..."), che obbliga ogni Stato ad una tutela di grande portata e impegno, v. G. Ferrari, L'applicazione della Convenzione dell'Aja a livello internazionale e le problematiche della revisione, in M. Carcione (a cura di), Uno scudo blu per la salvaguardia del patrimonio mondiale, Milano, 1999; sulla necessità di maggiore precisione ed aggiornamento, alla luce anche delle definizioni contenute in altri documenti Unesco, quali la Convenzione del 1970 sulle misure da adottare per interdire e impedire l'illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali e quella del 1972 sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, v. P.J. Boylan, Réexamen de la Convention pour la protection des biens culturels en cas de conflit armé (Convention de La Haye de 1954), Unesco, (CLT-93/WS/12), 1993, 50-52.

[4] Basti pensare all'esigua consistenza del "registro internazionale dei beni culturali sotto protezione speciale", previsto ex art. 6, su cui si rinvia a quanto detto nel paragrafo 3°.

[5] Esso consiste in "uno scudo appuntito in basso, inquartato in croce di Sant'Andrea di blu e bianco (uno scudo formato da un quadrato turchino, uno dei cui angoli è iscritto nella punta dello stemma, e da un triangolo turchino al di sopra del quadrato, entrambi delimitanti dei triangoli bianchi ai due lati)"; da solo identifica i beni sotto protezione generale, la cui individuazione è rimessa alla libera scelta dello Stato detentore, il personale incaricato della protezione e quello di controllo, le carte d'identità del personale stesso. L'uso del simbolo "ripetuto tre volte in formazione triangolare (uno scudo in basso)" deve invece, ai sensi dell'art. 17, indicare esclusivamente i beni sotto protezione speciale, i trasporti di essi e i rifugi improvvisati. Per una disamina delle problematiche (ma anche delle opportunità) inerenti al simbolo suddetto, comunemente detto Scudo blu, si rinvia, in particolare, a M. Carcione, Il simbolo di protezione del patrimonio culturale: una lacuna del Protocollo del 1999, in M. Carcione (a cura di), Uno scudo blu, cit., 121 ss.; sull'argomento si veda anche C.T. Eustathiades, La protection des biens culturels en cas de conflit armé et la Convention de La Haye du 14.5.1954, Athenes, 1959, 491 ss.

[6] L'Unesco ha fornito, comunque, qualche esempio di queste misure in un manuale del 1954 (aggiornato nel 1958), redatto sulla scorta dell'esperienza della seconda guerra mondiale e delle nuove tecnologie belliche, quali le armi nucleari: protezioni speciali contro il pericolo di incendio e di crollo di immobili di grande valore (musei, archivi, ecc.), imballaggi e stoccaggi speciali per i beni mobili, approntamento di rifugi e organizzazione di trasporti in caso di necessità, creazione di un servizio civile per mettere in pratica i piani di protezione in caso di conflitto, registrazioni video-fotografiche per consentire le opere di restauro, ecc. Cfr. H.A. Lavachery - A. Noblecourt, Les techniques de protection des biens culturels en cas de conflit armé, Paris, Unesco, 1954 ; A. Noblecourt, Protection of Cultural Property in the event of armed conflict, Paris, Unesco, 1958.

[7] Difatti il traffico di uomini e mezzi militari nelle vicinanze di centri di interesse culturale comporta ex art. 8 c. 5 l'immediata decadenza dalla condizione di protezione speciale.

[8] Edite dallo Stato maggiore dell'esercito, si tratta di: Convenzione internazionale per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (pubblicazione n. 6008, 1973); Manuale del combattente (pubblicazione n. SME 1000/A/2, 1988); Raccolta delle convenzioni internazionali concernenti la guerra terrestre (pubblicazione n. SME/6420, 1989); Manuale di diritto umanitario - Usi e Convenzioni di guerra (pubblicazione n. SMD/G-014, Volume I, 1991); Raccolta delle leggi nazionali relative ai conflitti armati e alla neutralità (pubblicazione n. SMD/G-014, volume IV, 1992); da ultimo, Elementi di Diritto Umanitario dei conflitti armati (Diritto Italiano di Bandiera), Roma, 1998.

[9] Si vedano in particolare F. Maniscalco, Sarajevo: itinerari artistici perduti, Napoli, 1997; Id., Ius praedae: la tutela dei beni culturali in guerra, Napoli, 1999.

[10] Si ricorda che, a parte la Città del Vaticano, il registro, fermatosi con le iscrizioni al 1978, anziché annotare i grandi beni culturali d'interesse mondiale, contiene un elenco di soli rifugi nucleari (uno austriaco, sei olandesi, tre dei quali revocati nel 1994, uno tedesco), nei quali gli Stati pensano di concentrare all'emergenza i principali beni culturali mobili. In sostanza una convenzione nata per preservare il "bello" appartenente all'umanità, è stata condizionata dalla logica della reciproca deterrenza nucleare delle superpotenze. Al riguardo si può menzionare l'iniziativa recentemente intrapresa da un piccolo Comune della Toscana, Pitigliano, di attivazione delle procedure per l'iscrizione dell'intero centro storico nel registro internazionale, anche allo scopo di "segnare una svolta a livello mondiale sul tipo di beni da iscrivere nel Registro e rompere la logica del terrore dell'impiego dell'arma nucleare", così A. Biondi, Il centro storico di Pitigliano, monumento all'uomo e bene culturale sotto protezione speciale:procedure e problematiche, in M. Carcione - A. Marcheggiano (a cura di), La protezione dei beni culturali nei conflitti armati e nelle calamità, Milano, 1997, 135-140.

[11] In seno al dibattito degli esperti governativi, questione largamente discussa in via preliminare è stata proprio la scelta della forma giuridica da attribuire al documento di revisione della convenzione: alla tesi del "protocollo di emendamento" è prevalsa quella del "protocollo aggiuntivo", nel timore che l'inserimento di nuove norme nella convenzione potesse scoraggiare l'adesione ad essa di Stati ancora non firmatari; ne deriva, quindi, che potranno esserci Stati parti della convenzione, ma non del protocollo, con inevitabili, si ritiene, problemi di coordinamento e di esecuzione del nuovo testo.

[12] Per un esame esaustivo del testo si rinvia a M. Frigo, La circolazione internazionale dei beni culturali, Milano, 2001, 117 ss.; A. Gioia, La protezione dei beni culturali, in F. Francioni-A. Del Vecchio-P. De Caterini (a cura di), Protezione internazionale del patrimonio culturale, cit., 93 ss.

[13] E' pacifico ritenere che trattasi di elencazione meramente esemplificativa e non tassativa. Sul punto v. F. Pignatelli y Meca, La revisión de la Convención para la protección de los bienes culturales en caso de conflicto armado, in M. Carcione (a cura di), Uno scudo blu, cit., 92.

[14] Risultano essere recepite, sostanzialmente, le indicazioni espresse dal Consiglio d'Europa in due raccomandazioni, la n. 9/1993 sulla protezione del patrimonio architettonico dalle catastrofi naturali e la n. 6/1996 sulla protezione del patrimonio culturale dagli atti illeciti. A sua volta, l'art. 5 del protocollo risulta essere richiamato indirettamente (e, dunque, confermato) nel documento elaborato a conclusione del congresso internazionale Unesco sul patrimonio culturale in pericolo svoltosi a Parigi il 23-24 settembre 1999 e in quello del successivo meeting unisco svoltosi a Parigi il 24 febbraio 2000 sulle medesime problematiche.

[15] Così M. Carcione, Il simbolo di protezione del patrimonio culturale, cit., 125.

[16] Per una disamina dello stato dell'arte e per le innovazioni introdotte dal T.U. dei beni culturali e ambientali v. W. Vaccaro Giancotti, Commento all'art. 16 d.lg. 490/1999, in M. Cammelli (a cura di), La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, Bologna, 2000, 75-77.

[17] Così F. Lazzaro, L'art. 20, d.lg. 29.10.1999, n. 490, e gli obblighi internazionali dello Stato nel settore dei beni culturali, in Aedon, sezione "dibattito sul Testo Unico".

[18] Così M.P. Chiti, Commento all'art. 20 d.lg. 490/1999, in M. Cammelli (a cura di), La nuova disciplina dei beni, cit., 89; per un commento in tal senso dell'art. 20 v. anche A. Papa, Commento all'art. 20 d.lg. 490/1999, in AA.VV., Testo Unico sui beni culturali, Milano, 2000, 79.

[19] Articolo così riformato dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3, recante "modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione", in G.U. del 24 ottobre 2001, n. 248.

[20] Non sembra, tuttavia, condivisibile, perché non supportata dal tenore letterale della norma, la tesi di F. Lazzaro, secondo il quale "il nuovo art. 117 Cost., in sostanza, svolgerebbe la medesima funzione ora esercitata dall'art. 10 Cost. con riguardo al diritto internazionale consuetudinario, prevedendo un adattamento automatico alla normazione patrizia", L'art. 20, d.lg. 29.10.1999, n. 490, cit.

[21] Per un'analisi di tale evoluzione si rinvia a B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 1997, 324 ss.

[22] Ad oggi i comitati nazionali ufficialmente istituiti sono quelli di Belgio, Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Yugoslavia, mentre sono in corso di creazione - oltre che in Italia - quelli di Polonia e Norvegia; inoltre, nel corso della riunione tenutasi a Barcellona nell'ambito della conferenza generale dell'Icom (luglio 2001) si sono dichiarati interessati alla creazione di comitati nazionali dello scudo blu molti Paesi, non solo europei come Austria, Svizzera, Norvegia, Finlandia, ma anche extra-europei come Perù, Brasile, Bolivia, Messico, Argentina, Cuba, Tunisia, Camerun, Canada, e soprattutto gli Usa che pure non hanno a tutt'oggi ratificato la convenzione dell'Aja del 1954.

[23] Tale coinvolgimento, auspicato da più parti e supportato del resto dalla positiva esperienza di altri Stati (su cui v. supra, paragrafo 4), si giustifica sulla base della considerazione che, in fondo, pur essendo ontologicamente diversi i presupposti, l'evento bellico può essere equiparato, quantomeno dal punto di vista degli effetti materiali, alle grandi calamità naturali e alle catastrofi dovute a fatto dell'uomo, sicché prepararsi per limitare i possibili danni derivanti da un conflitto armato equivale a prendere tutta una serie di misure precauzionali utili anche in caso di calamità.



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